1.
Quando si scrive un saggio teorico su fenomeni che riguardano l’uomo, occorre sempre tener presente il rischio della semplificazione, peraltro in qualche misura inevitabile.
Ho preso coscienza solo da poco di una lacuna del saggio sull’introversione, che concerne le carriere evolutive. La lacuna è di particolare interesse perché essa attesta che la semplificazione si realizza in virtù di una logica che tende a focalizzare gli opposti e a lasciare sullo sfondo ciò che si dà tra di essi.
Le due carriere che ho ricostruito nel saggio sono quelle degli introversi docili (i bambini d’oro) e degli introversi oppositivi (i bambini difficili). Mi sono attenuto a questa distinzione in tutto il testo. In effetti essa ha un’indubbia validità. Ma se mi chiedo perché sono giunto a trascurare una terza carriera, già identificata da tempo, la risposta è che la trappola della semplificazione, vale a dire di un’organizzazione cartesiana dei contenuti concettuali, ha agito inesorabilmente.
Fornisco la prova di questo.
Uno dei miei saggi non pubblicati a stampa – Psicopatologia strutturale e dialettica -, che naviga ignorato dai più sul sito Nilalienum, risale al 1992. In esso, affrontando il problema della predisposizione al disagio psichico, ho scritto:
“Senza escludere la possibilità che si diano (come, di fatto, si danno) ambienti di allevamento e di riproduzione sociale inadeguati in senso assoluto, incapaci di rispondere, emotivamente e cognitivamente, ai bisogni di bambini dotati di un corredo medio, è indubbio, tenendo conto dei dati clinici, che il più ricco tributo alla psicopatologia strutturale e fornito da individui il cui corredo è fuori della media, o per la spiccata prevalenza di uno dei due bisogni o per la particolare ricchezza quantitativa di entrambi. In tali casi, gli ambienti di riproduzione sociale - la famiglia, la scuola, la chiesa, ecc. - risultano inadeguati relativamente: positivi ed adattivi per un bambino medio, essi possono risultare disadattivi per un bambino il cui corredo genetico non appartiene alla media. Il problema della predisposizione può, dunque, essere affrontato prescindendo dal rozzo rilievo per cui se, dati gli stessi ambienti, alcuni individui si normalizzano e altri manifestano fenomeni psicopatologici, i fattori ambientali andrebbero considerati come secondari. C’è da considerare piuttosto che la distribuzione del patrimonio culturale - del quale vanno considerate, oltre che le risorse culturali propriamente dette, anche le risorse economiche e affettive - è estremamente disomogenea a livello locale, laddove si dà l’interazione tra individuo e ambiente. Tale disomogeneità aumenta, ovviamente, i rischi di un’inadeguatezza ambientale relativa.
L’ipotesi di un’inadeguatezza ambientale relativa ad un determinato corredo genetico è confortata da numerosi dati clinici, il più importante dei quali è di ordine anamnestico.
Nella ricostruzione delle storie esitate in un’esperienza psicopatologica, è pressoché sempre possibile - tenendo conto dei ricordi soggettivi e delle testimonianze familiari - reperire tre diverse carriere evolutive: le une, riconducibili ai “bambini d’oro”, caratterizzate dall’acquisizione precoce di moduli comportamentali maturi, equilibrati, pienamente rispondenti, in termini di docilità, di cooperazione e di rendimento scolastico alle aspettative familiari ed istituzionali; le altre, riconducibili ai “bambini difficili”, caratterizzate da comportamenti precocemente disordinati, tendenzialmente opposizionistici e negativisti, poco o punto sensibili alle correzioni e alle punizioni. Una terza carriera evolutiva è caratterizzata dall’alternarsi, secondo le modalità più varie, di fasi di assoluta docilità e di sfide rivolte all’ambiente o dal succedersi ad una fase protratta dell’altra che si stabilizza. In breve, alcuni bambini d’oro, ad una certa età, cambiano carattere e diventano difficili, mentre, viceversa, alcuni bambini difficili si irreggimentano in una gabbia comportamentale ipernormativa.
Tali carriere attestano configurazioni interattive tra corredo genetico e ambiente sociale che, a posteriori, risultano sempre fortemente indiziarie di una scissione dei bisogni. Stabilire il peso, nel determinarsi di questa scissione, dei fattori genetici e di quelli ambientali è oltremodo difficile. Le carriere cui si è fatto riferimento attestano però, quasi sempre, una particolare ricchezza del corredo dei bisogni intrinseci e, con singolare frequenza, un’iperdotazione emozionale e/o intellettiva. Ipotizzare, come avviene costantemente in ambito neopsichiatrico, un difetto costituzionale di base all’origine delle esperienze psicopatologiche è un fraintendimento che dipende dal valutare la fenomenologia clinica senza tenere conto della soggettività che la vive e della sua storia interiore.”
La terza carriera evolutiva che deriva da un corredo genetico introverso è particolarmente importante. Le sue diverse fasi, almeno fino all’adolescenza, sono identiche a quelle che possono sopravvenire nell’evoluzione di ogni soggetto. Esse sono però più ampie e più intense, al punto da sconcertare spesso sia i familiari che gli educatori. L’alternanza delle fasi, in molti casi, sconcerta gli stessi soggetti che hanno difficoltà a capire quale sia il loro vero essere.
L’ampiezza e l’intensità delle fluttuazione è indubbiamente riconducibile ad un corredo ricco di bisogni, che affiora a livello comportamentali connotato da una scissione originaria che solo la maturazione della personalità, sulla carta, può risolvere realizzando un’integrazione tra di essi.
Se è vero per tutte le esperienze umane che la dotazione di una doppia natura, vale a dire di un corredo di bisogni che si riconducono a logiche del tutto diverse (sistemica quella che fa capo al bisogno di appartenenza/integrazione sociale, autonomizzante quella che fa capo al bisogno di opposizione/individuazione, definisce l’originaria bipolarità del mondo interiore, per alcuni introversi questa verità è assoluta e del tutto evidente. Su questa base, che un’evoluzione della personalità negativa possa approdare ad una condizione di bipolarità patologica, e che una fluttuazione dell’umore sia reperibile pressoché in tutte le esperienze introverse che incappano nella trappola di un conflitto psicodinamico, si spiega facilmente. La bipolarità, infatti, rivela ciò che è implicito in tutte le carriere evolutive introverse, anche se quella dei bambini d’oro e dei bambini difficili possono facilmente mascherarla.
2.
Rilevo con una certa sorpresa l’assenza nel saggio sull’introversione di ogni riferimento a questa carriera, che sostanzialmente, almeno in una certa misura, è la più comune. I bambini d’oro che non manifestano mai alcuna opposizione e quelli oppositivi la cui turbolenza è perpetua esistono realmente, ma rappresentano l’eccezione piuttosto che la regola, vale a dire gli estremi di uno spettro che, al suo interno, comporta combinazioni di ogni genere.
Non drammatizzo certo questa lacuna teorica, perché, nonostante la sua evidenza, il saggio mantiene la sua validità.
Temo però che essa abbia posto non poche difficoltà ai lettori e potrebbe incidere sulla divulgazione del messaggio della LIDI nelle scuole.
Per quanto concerne il primo aspetto, occorre considerare il fatto che i testi di psicologia sono solitamente letti con l’aspettativa che essi forniscano le chiavi per interpretare l’esperienza del lettore in tutti i suoi aspetti. E’ evidente che nessun saggio può soddisfare tale aspettativa, che, il più spesso, rimane insoddisfatta anche a seguito di un’analisi che dura anni. C’è in ogni esperienza soggettiva qualcosa di irriducibile a qualsivoglia schema, anche se i conflitti psicodinamici e i sintomi, i vissuti e i comportamenti che essi determinano possono essere descritti in termini oggettivi, scientifici (come ho fatto per l’appunto in Psicopatologia strutturale e dialettica).
Per quanto riguarda la lacuna in questione, penso però che essa abbia pesato nell’impedire il riconoscimento del loro modo di essere di non pochi introversi, la cui carriera rientra piuttosto nel terzo modello piuttosto che negli altri due.
Penso anche che di questa lacuna debbano tenere conto coloro che stanno approntando progetti di intervento nelle scuole, che, almeno in rapporto a ciò che è a mia conoscenza, sono ancora incentrati sull’illustrazione delle due carriere esemplari. Il buon senso ha già portato parecchi di essi a superare lo schematismo e ad intuire che le carriere “miste” sono di fatto più frequenti di quelle tipologiche illustrate nel saggio. Valorizzare questo aspetto, però, è importante perché tali carriere, in conseguenza dell’ampiezza delle fluttuazioni sono ugualmente indiziarie di un corredo introverso.
Non appena mi sarà possibile, cercherò di approfondire questo tema, esemplificandolo con esperienze ricostruite nel corso dell’analisi. Per ora posso solo accennare al fatto che alcuni introversi, la cui carriera è indubitabile, stentano a riconoscere anche in analisi di essere tali perché hanno memorizzato quasi esclusivamente i periodi nel corso dei quali erano “cattivi”.
Un esempio a riguardo è legato ad un giovane di trent’anni, che chiamerà Fabio, con una pesante carriera psichiatrica alle spalle, che, nonostante indubbi progressi e la presa di coscienza intervenuta di essere introverso, sviluppa periodicamente veri e propri deliri di colpa con l’aspettativa di catastrofiche punizioni e rappresaglie sociali. Tali deliri hanno un fondamento. Fabio è vissuto nel terrore di un padre autoritario, verbalmente violentissimo e per giungta perfezionista che, per un nonnulla, lo rimproverava con incredibile crudeltà, in preda ad una rabbia senza controllo che faceva temere al figlio di poter essere ucciso. In conseguenza di questo trattamento, il mondo interiore di Fabio è stato impregnato da una rabbia cieca, che si è espressa a livello scolastico sotto forma di un comportamento che infastidiva gli altri.
A livello adolescenziale e giovanile, i sensi di colpa accumulatisi hanno determinato sia attacchi di panico sia una depressione inibitoria che, praticamente, ha impedito a Fabio di vivere. la conseguenza della sofferenza è stata quella di indurre un confronto coi i coetanei, apparentemente sereni e tranquilli. Non appena ha ripreso a frequentarli, per effetto di un allentamento dei sintomi dovuti al trattamento farmacologico, Fabio ha avvertito l’impulso irresistibile ad infastidirli per turbare la loro serenità. Il fastidio si è tradotto in ben poca cosa: qualche parola di troppo, qualche gesto sgarbato, qualche comportamento insensibile e rozzo.
L’incidenza sociale di tali comportamenti è stata di fatto minima. Più volte, sconvolto dai sensi di colpa, Fabio ha coinvolto gli amici nella ricostruzione di quanto accaduto in passato, riscontrando che essi lo avevano completamente dimenticato e, costretti a ricordarlo, lo minimizzavano.
Ciò nonostante, il delirio di colpa, che si ripropone periodicamente, dà a quegli eventi un significato soggettivo di particolare gravità da cui Fabio ricava la prova della sua cattiveria, invalidando le prove numerosissime di una sensibilità sociale estrema, che si è espressa molteplici volte nei confronti degli altri. E non solo dei simili.
Costretto dal padre a praticare l’equitazione per un certo periodo a livello agonistico, Fabio, ancora oggi, non si perdona le sofferenze inferte al cavallo con gli speroni e con il frustino. Ricorda lucidamente che, quando era costretto ad usare la frusta, sentiva che le scudisciate erano avvertite anche al suo interno sotto forma di vibrazioni di dolore.
L’esperienza di Fabio, dunque, è stata mista, ma egli ha selezionato solo gli eventi che attesterebbero un suo difetto di sensibilità sociale.
3.
Si dovrebbe aprire a questo punto un discorso su come procede la teorizzazione nel campo delle scienze umane e sociali. Basterà, per ora, dire che la complessità dei fenomeni è tale che una descrizione completa di essi è impossibile. Occorre, dunque, estrapolare dalla complessità alcuni indizi significativi la cui teorizzazione porta a concetti che sembrano estensibili all’intero campo indagato. Si tratta di un’illusione, prescindendo dalla quale il ricercatore sarebbe costretto a tacere.
Tale illusione comporta il rischio della semplificazione, vale a dire del non tenere conto, in rapporto all’oggetto indagato, di fenomeni e indizi che sono non meno significativi di quelli estrapolati.
C’è un altro aspetto però di cui tenere conto.
La coscienza tende alla semplificazione, mentre l’inconscio mantiene il riferimento alla complessità. Questo scarto fa sì che il ricercatore, quali che siano i risultati cui giunge, non è mai soddisfatto. L’insoddisfazione è la motivazione che spinge ad approfondire i risultati raggiunti.
Su questa via possono capitare due cose. La prima è che l’approfondimento consente di intuire e catturare alcune lacune della teoria che possono essere illuminate. La seconda paradossale è di dimenticare risultati teorici già raggiunti.
Come spiegare quest’ultimo aspetto?
Penso che l’unica possibilità consista nel fare riferimento alla tensione che si dà, nell’anima (coscienza e inconscio) del ricercatore, tra semplificazione e intuizione della complessità. Tra queste due dimensioni, rassicurante la prima, inquietante la seconda, si intrattiene un delicato equilibrio dinamico, che comporta, al limite, il rischio di ritenere di stare complessificando il discorso laddove lo si sta semplificando e viceversa.
Ciò significa semplicemente che la creatività della coscienza e quella dell’inconscio sono correlate, ma di diverso segno. La coscienza tende alla chiusura concettuale, mentre l’inconscio all’apertura intuitiva sul fronte della complessità.
Considerazioni del genere non hanno un grande interesse per chi non ha la vocazione ad una vita intellettuale. Hanno però un interesse di ordine generale, perché fanno riferimento al tema della Stupidità e della Mistificazione che sto approfondendo in Nilalienum