Questa è la relazione che ho tenuto all'Assemblea dei Soci della LIDI il 29 novembre a Roma. Nonostante la sua stringatezza, essa fa capo ad una delle scoperte più sorprendenti che mi sembra di avere fatto negli ultimi anni. La scoperta riguarda il dispiegamento dei bisogni intrinseci (di appartenenza e di individuazione) nel corso della storia, che è avvenuta in due fasi: un lunghissimo periodo caratterizzato dal primato sociale e psicologico del bisogno di appartenenza, in conseguenza del quale l'individuo si viveva in funzione del gruppo e non aveva una chiara consapevolezza della sua identità personale; e un periodo, più breve e più recente, caratterizzato dalla nascita dell'individuo, vale a dire di un soggetto distinto e differenziato da tutti gli altri, che fa riferimento ai suoi diritti naturali come strumenti di tutela e di affermazione della sua identità.
La "scoperta" può apparire ovvia e banale. Essa, invece, ha implicanze vertiginose - neuroscientifiche, culturali, politiche e psicologiche - che nella relazione sono appena accennate e sulle quali di sicuro tornerò.
1.
Sarebbe ingenuo non prendere atto che la LIDI sta incontrando parecchie difficoltà, com’è attestato dal numero degli iscritti che ormai ristagna da oltre un anno, da un certo affievolimento della partecipazione dei Soci alle iniziative e dalle difficoltà di accesso nelle scuole che, in ordine allo spirito dello Statuto, rimangono l’obiettivo primario dell’Associazione.
Le cause di tali difficoltà sono molteplici, ma penso che due siano le più importanti.
Sul fronte interno, qualche entusiasmo iniziale si è affievolito, presumibilmente perché alcuni Soci hanno identificato nella LIDI una sorta di isola felice dove trovare la soluzione dei loro problemi identitari e relazionali.
Sul fronte esterno, soprattutto in rapporto alle scuole, il problema, a mio avviso, è stato ed è riconducibile al fatto che il messaggio dell’Associazione si è confuso con quello di tante altre associazioni di psicologi e operatori sociali che offrono il loro aiuto ai ragazzi, alle famiglie e agli insegnanti.
Sia in rapporto ai Soci che ai soggetti esterni e alle istituzioni, la LIDI, di fatto, si propone lo scopo di aiutare gli introversi a migliorare la qualità della loro vita.
A questo fine la comprensione della specificità del modo di essere introverso è importante, come pure l’analisi dell’ambiente sociale e dei codici normativi che esso propone, poco compatibili con l’introversione.
Non mi stancherò mai di ripetere, però che l’obiettivo a lungo termine della LIDI è una rivoluzione culturale. Il termine rivoluzione non è né retorico né roboante: si tratta, infatti, né più né meno, di restituire agli esseri umani la consapevolezza che la loro vicenda personale, con tutte le vicissitudini che la caratterizzano, appartiene alla storia di una specie sperimentale ancora sub-judice.
Che importanza può mai avere questo aspetto? A cosa può servire, se non ad angosciarsi, il prendere coscienza di essere fuscelli per un verso e cavie per un altro nel fluire del tempo?
Cerco di rispondere.
L’essere vincolati e ingabbiati nella soggettività ci induce a dimenticare che la nostra esperienza è fortemente condizionata da due dimensioni che trascendono il piano dei vissuti: la dimensione biologica, per cui il cervello è frutto di un’evoluzione naturale e il corredo genetico individuale di una combinazione casuale, e quello storico, per cui la nostra minuscola vicenda, con tutti i trasalimenti che la caratterizzano, appartiene alla storia della specie umana e delle sue vicissitudini culturali.
Penso che la difficoltà di afferrare, comprendere e tenere conto di questi due aspetti - l’incidenza della biologia per un verso e della storicità dell’ambiente per un altro - permetta di spiegare gran parte del disagio che pervade il nostro mondo ed è sperimentato in particolare (ma non solo) dagli introversi.
Questi, per vocazione, si interrogano di continuo sul proprio modo di essere e sullo stato di cose esistente nel mondo, così diverso e dissonante, ma non trovano altre risposte che non si riconducano all’essere nati con il piede sbagliato o in un mondo sbagliato.
Con questo articolo cercherò di dare un significato e una dignità storica a questo malessere, non trascurando anche il malessere che sottende la “normalità”.
Ovviamente semplificherò un po’ le cose. Ci sarà tempo per approfondirle.
2.
Sto terminando di scrivere un saggio sulla mente umana incentrato in gran parte sulle emozioni il cui titolo è: Il mostro di belle speranze. Non è questa la sede adatta ad illustrare le implicazioni di questo singolare titolo, che, tra l’altro, ho preso in prestito da uno studioso di genetica. Mi limito a dire perché l’ho adottato.
Il termine mostro fa riferimento al carattere sorprendente, prodigioso e inquietante della comparsa di una specie sulla cui sopravvivenza nessuno, potendolo, avrebbe scommesso una lira.
Le belle speranze sono riconducibili al fatto che questa specie singolare non solo è sopravvissuta e si è adattata all’ambiente, ma ha anche colonizzato il mondo e piegato la natura ai suoi bisogni.
Il prezzo, però, è stato a tal punto elevato che oggi c’è chi teme che la specie umana stia andando incontro ad una catastrofe antropologica ed ambientale.
Per spiegare questa paradossale parabola occorre tenere conto che, all’epoca in cui è comparso, circa centomila anni fa, l’uomo aveva un cervello identico al nostro.
Cosa c’era di tanto sorprendente in quello strano animale ormai lo sappiamo. Tre caratteristiche almeno, che sono ancora le nostre: l’inermità, la sprovvedutezza istintiva e la neotenia.
L’inermità è riferita alla perdita dei peli, degli artigli, delle zanne, alla delicatezza della cute, alla stazione eretta (che implicava un netto rallentamento della corsa rispetto agli altri animali).
La sprovvedutezza istintiva è da ricondurre al venire meno dei moduli di comportamento quasi automatici in virtù dei quali ancora oggi gli altri animale, senza arte né parte, vale a dire con un minimo impegno sul piano dell’apprendimento, si adattano piuttosto brillantemente all’ambiente.
La neotenia è comprovata dalla straordinaria lentezza con cui crescono i bambini rispetti ai piccoli di altre specie: lentezza che oggi sappiamo essere confermata dalla presenza nell’adulto di caratteristiche infantili (pelle glabra e delicata, ossa fragili, denti piccoli, testa voluminosa in rapporto al copro, ecc.).
Come ha fatto una specie siffatta a sopravvivere in un ambiente inospitale (quello della savana)? La risposta più comune fa riferimento all’uso del potenziale di intelligenza presente in un cervello enorme. Risposta scontata, ma imprecisa. Quel potenziale, infatti, è riuscito ad esprimersi solo in virtù dell’interazione tra più cervelli impegnati con l’obiettivo comune di sopravvivere.
L’ingegno umano, insomma, si è aguzzato sulla base di una solidarietà di gruppo, all’interno del quale valeva la legge della cooperazione, della collaborazione e dell’equità, dell’uno per tutti e tutti per uno.
La socialità è stata l’arma originaria che ha compensato la sprovvedutezza della specie e ha permesso all’intelligenza di dispiegarsi. Il legame sociale originario sicuramente aveva un impianto empatico: esso, cioè, faceva riferimento all’intuizione della comune condizione di vulnerabilità, precarietà e finitezza. Su questa base, che implica un bisogno di appartenenza intrinseco al cervello umano, sotteso da un’ansia esistenziale arginata dalla solidarietà empatica di gruppo, e convertita nel darsi da fare insieme per scampare all’estinzione, è nata l’umanità.
Il primato dell’emozionalità sociale sull’intelligenza, del quale la psicologia stenta ancora oggi a prendere atto, è durato a lungo ed è stato vissuto coscientemente dagli esseri umani.
Per un lunghissimo periodo di tempo l’appartenenza al gruppo, il sentirsi accettato e riconosciuto dagli altri e il condividere con essi la cultura e la vita, nel bene e nel male, ha configurato l’orizzonte psicologico di ogni singolo uomo.
Il bisogno di appartenenza ha, insomma, governato la storia e la psicologia umana dalla comparsa dell’uomo sino ad un’epoca relativamente recente. Ciò significa che la concezione che gli individui avevano di se stessi era profondamente diversa dalla nostra. Pure avendo la percezione di essere distinti gli uni dagli altri e forse anche diversi nel modo di sentire e di pensare, la loro identità era imprescindibile dalla dipendenza dal gruppo, dal ruolo che svolgevano al suo interno e dai doveri sociali impliciti in esso. Si vivevano, insomma, come parte di un tutto e funzione di esso.
Questo significa che non solo a livello sociale, ma anche a livello interiore l’Altro era più importante dell’Io.
La dipendenza dal gruppo e dalla gerarchia sociale limitava fortemente l’autorealizzazione personale, ma comportava, come compenso, un senso rassicurante di appartenenza al gruppo. C’era, insomma, ben poca libertà psicologica, così come oggi la concepiamo. L’individuo non doveva chiedersi cosa fare della sua vita: i ruoli, i doveri e i codici di comportamento erano in gran parte assegnati dal gruppo e dalla cultura.
In tutto questo lunghissimo periodo storico, è presumibile che gli introversi siano stati meglio di come stanno oggi. In una situazione governata da una solidarietà funzionale alla sopravvivenza e alla coesione del gruppo, le qualità proprie degli introversi - la sensibilità e la disponibilità sociale - erano naturalmente apprezzate.
Farei un’eccezione naturalmente per gli introversi oppositivi, che spesso entravano in conflitto con la mentalità corrente, con l’ordine costituito, con i valori dominanti, e, quando non ritenuti folli, erano emarginati.
E’ sterile, comunque, avere nostalgia per un’organizzazione comunitaristica della cultura e della società, che induceva l’individuo a sentirsi parte e funzione di un tutto. Essa non solo è stata irreversibilmente superata, ma, a posteriori, è possibile valutarne anche l’aspetto negativo: la mortificazione della libertà individuale. L’appartenenza, infatti, subordinava i diritti individuali ai doveri sociali, e, per alcuni aspetti, reprimeva l’autorealizzazione personale, vincolandola ai bisogni di coesione del gruppo.
E’ evidente che qualcosa è radicalmente cambiato nel modo cosciente con cui ogni individuo concepisce se stesso, anche se tale cambiamento non ha modificato la struttura del cervello che rimane caratterizzata da un bisogno primario e viscerale di appartenenza.
Sperimentato per decine di migliaia di anni, il primato dell’Altro è stato interiorizzato e si mantiene, ma a livello inconscio. La psicopatologia è ricca di indizi a riguardo (attacchi di panico, angosce di abbandono, depressione, deliri persecutori, ecc.). Anche la “normalità”, però, paga un tributo a quel primato maggiore di quanto solitamente si pensa. Le spinte incoercibili verso l’omologazione culturale e l’integrazione sociale che caratterizzano le esperienze di gran parte delle persone lo attestano inconfutabilmente.
Il cambiamento nel modo in cui l’uomo vive coscientemente la sua identità individuale si è preparato molto lentamente, ma ha due atti di nascita precisi: l’avvento della scienza nel XVII secolo e la Rivoluzione francese (che in realtà con il termidoro è divenuta borghese).
La scienza nasce dall’esigenza di sormontare il senso comune e le tradizioni culturali cui esso fa riferimento. Non si tratta di un’esigenza collettiva, bensì di un bisogno che matura in un’infima minoranza di persone. Gli scienziati che hanno formulato la teoria eliocentrica si contavano sulle dita di una mano. Nel perseguire la verità, essi si sono spinti su tragitti conoscitivi sino allora preclusi. Lo hanno fatto spinti dalla passione della conoscenza, ma anche dalla rivendicazione di poter pensare con la propria testa contro il senso comune e l’autorità ufficiale della Chiesa.
Qualcosa del genere sarebbe stato semplicemente impossibile qualche secolo prima.
L’atto di nascita ufficiale dell’individuo è riconducibile, però, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793 che rappresenta il manifesto della Rivoluzione francese. Tra i diritti naturali dell’individuo c’era naturalmente la proprietà privata, ma anche l’uguaglianza, la libertà e la giustizia.
I diritti naturali sono scritti nella natura umana, vale a dire nel corredo genetico e nel cervello sotto forma di un bisogno sino allora misconosciuto, il bisogno di individuazione, inteso come rivendicazione del singolo soggetto di utilizzare al meglio le sue potenzialità indipendentemente dalla nascita, dall’appartenenza familiare e dal senso comune al fine di realizzare la sua vocazione ad essere.
Qualcuno sostiene che il bisogno di individuazione è stato prodotto dalle circostanze storiche. Ma come avrebbero potuto le circostanze storiche farlo affiorare se esso non avesse fatto parte da sempre della natura umana, vale a dire non rappresentasse una potenzialità o una motivazione intrinseca al cervello?
Almeno tre dati confermano il radicamento psicobiologico del bisogno di individuazione. Il primo, di ordine biologico, fa capo al fatto che ogni corredo genetico è unico e irripetibile e ogni cervello è diverso da tutti gli altri, vale a dire è individuato. Il secondo è il modo precoce in cui il bisogno di individuazione si manifesta nei bambini di oggi che rivendicano precocemente (e talora fin troppo) i loro diritti con un’animosità emozionale sconosciuta in passato. Certo respirano l’aria dei tempi. Ma come fa un bambino di tre-quattro anni a reagire ad una vera o presunta prepotenza agita da un adulto dicendo: questo non è giusto? Il terzo dato è l’immediatezza viscerale con cui i cittadini vivono e reclamano i loro diritti individuali. Secoli fa un povero che incontrava un nobile doveva cedergli la strada, farsi da parte. Oggi un povero, facendo una fila, non ci pensa neppure a lasciare il posto ad un “signore” che è dietro di lui.
Noi non siamo in grado di capire l’entità della rivoluzione di cui siamo partecipi, o meglio riusciamo a valutarla solo nei suoi effetti che sono stati finora molto contraddittori.
La logica dei diritti individuali, infatti, si sarebbe dovuta integrare con quella dei doveri sociali per realizzare un equilibrio conforme alla natura umana.
La rivoluzione borghese ha imboccato invece una via diversa. Ha svincolato gli individui dalla rete di dipendenza che li opprimeva, ma ha anche indotto una sorta di desensibilizzazione empatica, per cui, al di là della strettissima cerchia dell’affettività privata, i rapporti sociali sono caratterizzati dall’egoismo e dall’indifferenza.
Il culto dell’individuo ha finito, lentamente, con l’incidere anche nella sfera privata, che è stata contaminata da una logica mercantile. Gran parte dei rapporti di coppia e dei rapporti tra genitori e figli sono caratterizzati da una conflittualità strisciante o acuta che equivale, ad una contrattazione permanente incentrata sulla rivendicazione dei propri diritti. In altri termini, ciascuno persegue, spesso inconsapevolmente, il fine di trarne il massimo vantaggio individuale dalla relazione.
Non posso certo dilungarmi su questo aspetto. Faccio solo riferimento ad alcune circostanze ricorrenti nell’ambito della pratica psicoteraputica. In alcune relazioni di coppia un soggetto usa l’altro come una protesi dell’io; pretende, insomma, che funzioni come una macchina che agisce comportamenti adeguati ai suoi bisogni individuali. Alcuni genitori invalidano i figli per impedire che essi si allontanino da loro. La teoria dei sistemi ha messo in luce, addirittura, il ruolo del capro espiatorio, vale a dire del figlio la cui “malattia” stabilizza l’equilibrio psichico degli altri membri del gruppo. Alcuni adolescenti e giovani, per i più vari motivi, assumono, all’interno delle famiglie, il ruolo di tiranni dipendenti. Con strategie spesso minacciose, che vanno dal non andare più a scuola, al drogarsi o addirittura al suicidarsi, essi sfruttano le paure genitoriali per ottenere ciò che vogliono.
So bene che queste dinamiche sono quasi sempre inconsce. Ciò nondimeno, esse esistono, e si inquadrano in un contesto sociale e culturale governato da una percezione vivacissima dei propri diritti che spesso pone in ombra quelli degli altri.
In passato, insomma, c’era una “patologia” dell’appartenenza, in nome della quale l’individuo, pur di essere confermato dal gruppo, rinunciava di solito a dare spazio alla sua vocazione ad essere. Oggi c’è una “patologia” dell’individuazione, per cui le persone privilegiano i loro bisogni e i loro diritti con scarsa attenzione per quelli degli altri.
Come si collocano gli introversi in questo contesto? In genere male, perché nel loro modo di essere e di rapportarsi al mondo i due bisogni - di appartenenza e di individuazione - sono rappresentati in forma solitamente intensa e, data la loro matrice genetica, rimangono entrambi vivi e attivi. Questo significa che, tranne rare eccezioni, nel mondo interiore degli introversi le due “patologie” si sommano: se si privilegia troppo l’Altro, ci si arrabbia; se si privilegia troppo l’Io ci si sente in colpa. I più oscillano perpetuamente tra rabbia e sensi di colpa.
Analizzata in questi termini, il modo di essere introverso sembra irrimediabilmente, più o meno, squilibrato.
Per capire, al di là del disagio soggettivo, il significato storico e culturale di questo squilibrio, occorre fare alcune considerazioni.
3.
La prima è che il cervello umano ormai è arrivato a regime. I bisogni intrinseci in esso contenuti - di appartenenza e di individuazione -, che sono rimasti per un lunghissimo periodo di tempo attestati su di un equilibrio che privilegiava l’appartenenza e reprimeva l’individuazione, si sono ormai dispiegati e sono entrambi attivi.
La doppia natura umana, di un essere che ha un bisogno radicale di una relazione significativa con l’Altro, ma non può sacrificare ad esso le sue esigenze di libertà e di autorealizzazione, intrinseca alla struttura del cervello fin dalla sua comparsa, si pone ormai come una sfida che ogni soggetto è chiamato ad affrontare. Il bisogno di appartenenza e quello di individuazione non sono antitetici (come potrebbe far pensare il ricondurli sbrigativamente all’altruismo e all’egoismo), ma di certo sono in tensione tra loro e richiedono, sul piano collettivo, una programmazione sociale e, sul piano individuale, un grande sforzo di mediazione per tutta la vita.
La seconda considerazione è che, consapevole di questa tensione e del tempo da investire nel raggiungere uno statuto identitario integrato, la cultura borghese, che ha una concezione del tempo produttivistica, ha operato una scelta senza sfumature promuovendo la desensibilizzazione dell’empatia al fine porre gli individui in grado di essere intraprendenti ed efficienti senza porsi troppi problemi di ordine morale.
La scelta è risultata vincente per quanto riguarda lo sviluppo economico, ma perdente sul piano antropologico. Essa. infatti, ha prodotto e produce squilibri socio-economici troppo rilevanti che hanno innescato, a livello nazionale e internazionale, forti tensioni sociali.
La terza considerazione riguarda gli introversi. Essi, infatti, difficilmente riescono ad affrancarsi dal bisogno di appartenenza, che attribuisce all’Altro diritti maggiori dei propri. I pochi che tentano di farlo, sotto la spinta del bisogno di individuazione, in realtà lo reprimono senza giungere mai alla desensibilizzazione che caratterizza la normalità estroversa.
Si tormentano, insomma, oscillando tra le due polarità fobiche dell’altruismo sacrificale e dell’egoismo cinico con fluttuazioni di ogni genere.
E’ superfluo, forse, ribadire che la mediazione e l’integrazione tra questi due bisogni è possibile, anche se richiede molta fatica, pazienza e capacità introspettiva.
Importante, però, è considerare che la possibilità di trovare un equilibrio tra i bisogni scritti nella doppia natura umana è una frontiera culturale alla quale l’umanità è giunta solo di recente. Si tratta di una sfida epocale e drammatica, che consente di capire meglio lo stato di cose esistente nel mondo e la nostra esperienza.
La pressione dei bisogni intrinseci non è mai stata forte come oggi. Ciò significa che, nonostante le contromisure riconducibili alla desensibilizzazione dell’empatia, l’umanità, che ha perduto l’equilibrio assicurato in passato dall’appartenenza, si trova ad affrontare, senza sapere, una nuova situazione. Si trova, insomma, fronte a fronte con il dramma della doppia natura umana, che non è mai stato vissuto dagli esseri umani con l’intensità con cui oggi si pone.
La quarta considerazione assegna agli introversi, la cui esperienza è sottesa dalla pressione di entrambi i bisogni, il ruolo di precursori di un’umanità che alla fine, per non scomparire, dovrà sanare il dissidio emozionale tra i doveri sociali e i diritti individuali, le ragioni dell’Altro e le ragioni dell’Io, l’essere con e l’essere per sé.
Assegnare all’introversione questo ruolo, non è un grande conforto. Finché il mondo rimarrà vincolato ad un modello normativo incentrato sull’individualismo narcisista, egoistico e competitivo, gli introversi sono destinati a pagare un prezzo elevato sotto forma di frustrazione, autodenigrazione, senso di inadeguatezza, ecc.
Occorre considerare però questo problema in prospettiva.
I cambiamenti storici rilevanti, quelli che hanno cercato di ricondurre cultura sulla via di un’umanizzazione minacciata dagli sviluppi della società, dell’economia, della cultura, hanno richiesto sempre che singoli individui o gruppi pagassero il prezzo di essere precursori. Sembra una legge storica che l’umanità abbia la tendenza a imboccare vie disumane finché una protesta minoritaria, silente o clamorosa, non riesce ad esercitare effetti correttivi. Basta pensare, per convincersi di questo, al dramma della schiavitù che ha segnato quattromila anni della storia umana e il cui superamento ha richiesto un numero incalcolabile di vittime coraggiose.
Con la loro incapacità di adattarsi al modello normativo dominante, che fa dell’uomo attuale un mostro senza quasi speranze, gli introversi svolgono oggi questa funzione testimoniale. Possono non essere contenti, ma dovrebbero esserne orgogliosi.
Ma - ci si chiederà - il prezzo vale la candela? si può nutrire qualche speranza sul futuro? Nessuno lo sa, ma qualche indizio positivo esiste.
La civiltà dell’individualismo sfrenato e alienato sembra arrivata ad un punto critico, al di là del quale è inevitabile che sopravvenga un cambiamento. L’analisi degli indizi della crisi va rimandata ad un’altra occasione. Mi limito solo a dire che la percezione della crisi è a tal punto viva che anche coloro che hanno difeso a spada tratta negli ultimi venti anni il modello dell’individualismo competitivo cominciano a ricredersi e ad affermare che, per salvarsi, la nostra società ha bisogno di una rivoluzione morale. Naturalmente la rivoluzione di cui parlano è, in realtà, una restaurazione di valori tradizionali (Dio, patria, famiglia, autorità, responsabilità, ecc.).
Il ripensamento è, però, un segno dei tempi. Forse è ancora presto per prevedere che la cultura, con uno dei suoi singolari viraggi, ribalterà l’attuale metro di giudizio sociale, assegnando agli ultimi il ruolo dei primi. Se non possiamo prevederlo, nulla vieta di sperarlo e di augurarselo.
Novembre 2008
Luigi Anepeta