Premessa
Da molti anni il problema dell'introversione rappresenta un riferimento costante delle mie riflessioni. Il motivo di questo riferimento, che è divenuto quasi un'ossessione intellettuale, è di ordine pratico non meno che teorico. La presenza di tratti di carattere introverso è reperibile nei soggetti che sviluppano un disagio psichico, soprattutto a livello giovanile, in una percentuale così elevata che non può essere casuale. Tale associazione quando non è ignorata dagli specialisti - psichiatri e psicoanalisti - è interpretata, soprattutto dai primi, pregiudizialmente. L'introversione, dal loro punto di vista, rappresenterebbe già una predisposizione alla malattia, se non addirittura l'indizio di una strutturazione del cervello, e quindi della personalità, disfunzionale. Attraverso la pratica e la riflessione su di essa io sono pervenuto a conclusioni diametralmente opposte. Da questo nuovo punto di vista, l'introversione non ha alcunché a che vedere con una predisposizione alla malattia, bensì rappresenta un orientamento verso un modo di vivere individuato, riflessivo, intimo e profondo (anche a livello relazionale), animato da valori ideali elevati (pari dignità, giustizia, libertà, rispetto dell'altro, ecc.), sotteso da un'inquietudine conoscitiva che perdura vita natural durante e spesso associato ad una qualche creatività. Se questo è vero, si tratta di spiegare la frequenza con cui l'introversione coincide con un'esperienza di disagio psichico prescindendo dal pregiudizio neopsichiatrico, che coglie in essa solo una valenza disadattiva.
L'interpretazione alternativa non può essere primariamente che ambientalista. Occorre ammettere che l'ambiente socio-culturale sia strutturato in maniera tale da interferire piuttosto che favorire lo sviluppo della personalità introversa, producendo con facilità il definirsi di un conflitto psicodinamico destinato ad esprimersi sintomaticamente. Ricostruendo le carriere sociali degli introversi è, di fatto, sempre possibile comprovare il danno ambientale.
Sarebbe ingenuo però assolutizzare l'interpretazione ambientalista. L'introversione comporta anche dei modi d'interpretare lo stato di cose nel mondo e i comportamenti degli altri che, per essere astratti, vale a dire fondati sull'aspettativa che il mondo sia altro da quello che esso è, producono quasi inesorabilmente un vissuto più o meno grave d'inadeguatezza personale e un vissuto di rabbia più o meno intenso riferito al mondo esterno. Entrambi questi vissuti, che possono realizzarsi a livello del tutto inconscio, sono decisivi nel determinare gli esiti di un conflitto psicodinamico.
Quali conseguenze comporta questo nuovo di vedere sull'introversione? Tre in particolare mi sembrano importanti.
La prima è la necessità di una profonda riorganizzazione dell'ambiente sociale, soprattutto a livello educativo, che riconosca e rispetti una diversità e offra ad essa la possibilità di evolvere secondo le sue linee di sviluppo. Ciò significa che la famiglia e la scuola anzitutto, ma anche la società nel suo complesso devono pervenire al riconoscimento dell'introversione come una dimensione ricca di valori e, da ultimo, preziosa.
La seconda è la necessità di mettere gli introversi in condizione di prendere coscienza della loro diversità, senza pregiudicarla essi stessi, e di coltivarla realizzandone i valori e accettando i limiti che essa comporta. Senza drammatizzarli.
La terza conseguenza riguarda gli specialisti nell'ambito della prevenzione e della cura del disagio psichico, che dovrebbero acquisire la consapevolezza dell'incidenza dell'introversione nella produzione del disagio psichico e capire che la prevenzione e la cura di esso significano sostanzialmente riabilitare il soggetto nella sua capacità di vivere secondo modalità intrinseche alla sua vocazione ad essere, piuttosto che tentare vanamente di adattarlo alla normalità corrente.
Sull'onda di una riflessione durata per anni, mi sono deciso finalmente a scrivere un saggio a tutto tondo sull'introversione. Nonostante la previsione espressa in precedenza che esso dovesse risultare di difficile pubblicazione, la Franco Angeli, grazie alla sensibilità della direttrice editoriale, la dottoressa Irma Angeli, il saggio ha visto la luce nel dicembre 2005.
Il testo a stampa è diverso dal manoscritto solo per due aspetti. Mi è stato chiesto, infatti, di eliminare le psicobiografie di tre grandi introversi (Rousseau, Nietzsche, Kafka) ritenute troppo ingombranti e impegnative per i lettori. Poco male. Avevo già pensato alla possibilità di pubblicare un libro a parte dedicato agli introversi che hanno segnato la storia della cultura umana.
Maggiormente a disagio mi ha messo la richiesta di cambiare il titolo (Timido, docile, ardente... Introversione: valori, limiti e istruzioni sull'uso) a favore di un altro più commerciale (Sei introverso? Manuale per capire e accettare l'introversione propria e altrui).
E' inutile che esprima le ragioni per cui alla fine mi sono deciso ad accettare tale titolo: la necessità di avere un testo stampato per avviare la fondazione di una Lega per la tutela dei Diritti degli Introversi, soprattutto dei bambini che, tra famiglia e scuola, subiscono danni ingenti e ingiusti.
Riporto qui l'Introduzione del saggio nella sua originaria versione, minimamente modificata in quella pubblicata.
Introduzione
Nascere più o meno introverso è una scelta della natura, che si realizza quandessa rimescola, nel suo caleidoscopio, il patrimonio genetico trasmesso dal padre e dalla madre, che a sua volta è una ricombinazione di quello degli avi. Per avviare il discorso su questa singolare condizione, di solito soggettivamente mal vissuta e socialmente pregiudicata, occorre un minimo dinformazioni su come si pone oggi il rapporto tra i geni e l'ambiente.
Una distinzione fondamentale, nellambito della genetica, è quella tra genotipo e fenotipo. Il genotipo è l'insieme dei programmi o delle potenzialità di sviluppo intrinseche ad un determinato corredo genetico; il fenotipo è la manifestazione di tali potenzialità sotto forma di caratteristiche fisiche e comportamentali proprie di un determinato individuo. L'analisi di queste caratteristiche pone di fronte al problema di capire in quale misura esse sono "influenzate" dai geni e dall'ambiente.
Tale problema appare particolarmente complesso allorché l'analisi riguarda la personalità umana. Basta un solo dato a porre in luce la difficoltà di valutare l'incidenza dei due fattori. I gemelli "veri" (monozigoti), cresciuti nello stesso ambiente, manifestano spesso tratti di carattere e comportamenti piuttosto simili. Se essi vengono separati alla nascita e allevati in ambienti diversi, sia i tratti di carattere sia i comportamenti tendono a differenziarsi, anche se rimangono comunque, in genere, più simili rispetto a due fratelli. Ciò significa che il vincolo genetico esiste, ma non è di tipo deterministico, vale a dire comporta un margine di "plasticità" rispetto alle influenze ambientali.
Per tenere conto di questaspetto, i genetisti hanno coniato il concetto di "norma di reazione", secondo il quale ogni genotipo comporta un insieme di potenzialità di sviluppo la cui realizzazione dipende dall'ambiente. In ambienti diversi, lo stesso genotipo può dare luogo a manifestazioni comportamentali diverse il cui spettro definisce la norma di reazione.
Valutare le influenze ambientali per quanto concerne le caratteristiche psichiche umane non è, però, facile. Tali influenze, infatti, non agiscono su una tabula rasa. Ogni cervello, considerato sotto il profilo della sua organizzazione strutturale (reti interneuronali, connessioni sinaptiche, ecc.), è diverso da qualunque altro, dunque unico ed irripetibile. Valendo ciò anche per i cervelli dei gemelli "veri" allevati nello stesso contesto, occorre pensare che ogni soggetto seleziona e significa le informazioni che provengono dall'ambiente secondo modalità individuali, costruendosi un "suo" cervello e un "suo" mondo.
L'ambiente in cui si sviluppa un individuo non è, peraltro, una fonte di "informazioni" delle quali ciascuno può fare quello che vuole. Di là del fatto che esso comporta l'interazione con altre persone, e quindi con altri mondi d'esperienza, l'ambiente in cui evolve un essere umano è strutturato culturalmente, vale a dire riconosce e privilegia determinati codici normativi e sistemi di valori. In virtù di questi, ogni ambiente esercita un'influenza che tende a ridurre la varietà potenziale dei comportamenti umani, riconducendoli verso una "normalità", che definisce la loro corrispondenza ai valori culturali dominanti. Al dato di fatto dell'unicità e dell'irripetibilità d'ogni individuo, che vale sia a livello biologico - l'organizzazione del cervello - che psicologico - il modo di pensare, di sentire e di agire -, ne corrisponde, dunque, un altro: i soggetti che appartengono ad un determinato contesto sociale e culturale, manifestano, in termini generali, comportamenti più simili rispetto a soggetti che appartengono ad altri contesti. In ogni società, dunque, la tendenza alla differenziazione individuale è, in qualche misura "vincolata" dai codici normativi che definiscono l'identità culturale della società stessa ed assicurano ad essa un certo grado di coesione.
Queste poche nozioni consentono di capire perché la teoria della personalità è la branca più povera, incerta e contraddittoria nell'ambito della psicologia. Il problema di fondo, come riesce chiaro dalla lettura del libro più famoso a riguardo (Teorie della personalità, Calvin S. Hall e Gardner Lindzey, Boringhieri, Milano 1986), che è una rassegna critica di tutti i modelli proposti da Freud a Skinner, sta nel fatto che nessuno di essi riesce ad integrare adeguatamente i fattori genetici, quelli psicologici e quelli sociologici.
In quest'ambito scientificamente precario che, negli ultimi anni, è addirittura regredito per l'eccessiva importanza assegnata ai fattori genetici sull'onda dello sviluppo della neurobiologia, o, per essere più precisi, dell'uso ideologico dei dati prodotti dalla ricerca neurobiologica, pochi concetti sono riusciti ad affermarsi e a mantenersi validi nel corso del tempo. Uno di questi è la distinzione introdotta da Jung tra estroversione e introversione, che ha una portata d'ordine universale, tantè che fa parte ormai del linguaggio e del senso comune. Essa, di fatto, ha un fondamento genetico che le influenze ambientali non riescono mai a modificare radicalmente. Purtroppo, però, nel nostro mondo, queste influenze non sono neutrali, nel senso di consentire ad ogni individuo di svilupparsi secondo le sue tendenze costituzionali. Esse agiscono quasi sempre negativamente sullo sviluppo e sulla personalità degli introversi.
Il genotipo introverso, com'è attestato dalla storia e dall'osservatorio psicoanalitico, è caratterizzato da un corredo emozionale molto ricco, associato, spesso, ad una vivace intelligenza. Sentire e capire di più sembrerebbero, sulla carta, qualità ottimali per promuovere lo sviluppo di una personalità ben organizzata. I soggetti che, per sorte, ricevono questo "dono", manifestano invece, particolarmente nel nostro mondo, difficoltà più o meno rilevanti d'adattamento sociale e, con una frequenza inquietante, disturbi psichici di varia natura.
La contraddizione per cui una ricchezza potenziale, qual è quella intrinseca al genotipo introverso, si trasforma spesso in un'esistenza socialmente e soggettivamente penosa, fino al limite estremo dell'isolamento e del disagio psichico, rappresenta il problema che questo saggio intende affrontare. Esso è stato scritto sull'onda di un'"indignazione" cresciuta nel corso degli anni. E' sempre più doloroso confrontarmi, come terapeuta, con ragazzi e giovani, dotati di grandi potenzialità, devastati dall'interazione con un mondo che non li comprende né li rispetta (e che essi, a loro volta, non comprendono, per quanto, in genere, non possono fare a meno di rispettare). E' ugualmente penoso pensare al numero d'introversi che, pur non manifestando un apparente disagio psichico, vivono schiacciati sotto il peso di una diversità vissuta negativamente, convinti d'essere inadeguati e "difettosi" al punto che tale convinzione si mantiene anche quando il loro valore, sia sotto il profilo affettivo che intellettivo, è riconosciuto da qualcuno.
L'indignazione che ha promosso la stesura del saggio non ha alcuna valenza moralistica. Non è mia intenzione puntare il dito accusatorio sul mondo così com'è, fatto cioè su misura per gli estroversi (tra l'altro neppure tanto bene), ritenendo la sua organizzazione un prodotto della storia piuttosto che di volontà deliberate, né sui familiari e sugli insegnanti i quali, confrontandosi con soggetti difficili da capire nella loro complessità interiore, fanno quello che possono.
Dato però che i danni che gli introversi ricavano dall'interazione con l'ambiente è un fatto oggettivo, documentabile e inquietante, ritengo che i tempi siano maturi perché questo problema fuoriesca dal cono d'ombra che lo avvolge, venga finalmente colto nel suo spessore, soprattutto in un'ottica di prevenzione del disagio psichico, e dia luogo ad una presa di coscienza che dovrebbe tradursi, per quanto riguarda gli introversi, nel vivere consapevolmente la loro condizione realizzandola secondo le sue linee di tendenza, e, per quanto riguarda il mondo, in una nuova programmazione sociale a livello pedagogico e culturale.
La via per giungere a tanto è lunga. Entrati nel linguaggio comune, i termini introversione ed estroversione sono connotati univocamente con un segno negativo l'uno, positivo l'altro. Introversione denota chiusura, ripiegamento su di sé, rifiuto dei contatti sociali, freddezza; estroversione, viceversa, apertura, comunicatività, espansività, socievolezza. Incentrata sul comportamento apparente - chiuso o aperto -, la distinzione implica un giudizio di valore la cui matrice è ideologica. Animale sociale, "affacciato" percettivamente sul mondo esterno, l'uomo ha raggiunto la sua specificità mentale in virtù della capacità di costruire una trama di significati simbolici che hanno definito un mondo interno, dotato di una sua realtà. La coscienza vive dunque nell'interfaccia tra due mondi che interagiscono tra loro, anche se essa rimane comunemente preda di un ingenuo realismo che la porta a enfatizzare il primo e a misconoscere il secondo, che, tra l'altro, è l'unico che "esperisce". E' vero che del mondo esterno fa parte anche il socius senza l'interazione con il quale non si definirebbe un mondo interno. Considerare però l'apertura all'esterno come un criterio normativo implica, tra l'altro, ignorare che, assumendo come referente il mondo interno, il giudizio potrebbe essere semplicemente invertito di segno.
Il pregiudizio in questione definisce il modo d'essere introverso come disfunzionale in sé e per sé, se non addirittura "patologico". Basta fare una ricerca su Internet per costatare quante offerte d'aiuto vengono rivolte, da psicologi e psicoterapeuti, agli introversi, associate alla promessa di liberarli dalla timidezza, dalle inibizioni, dalle difficoltà di rapporto con l'altro sesso, ecc. L'offerta corrisponde ad una domanda reale, ad un disagio vissuto sulla pelle, anche se va detto che molti psicoterapeuti, irretiti essi stessi del modello culturale dominante, offrono un aiuto il cui obiettivo ultimo è la normalizzazione: motivo, questo, per cui esso raramente funziona. Nessuna offerta di aiuto viene rivolta, ovviamente, agli estroversi, un buon numero dei quali, con la loro spigliatezza, disinvoltura e superficialità, che spesso esprimono, nonostante le apparenze, una personalità disturbata, si comportano quotidianamente, nei rapporti interpersonali, come elefanti in un negozio di cristalleria.
Il pregiudizio nei confronti degli introversi, che essi purtroppo interiorizzano con l'aria che respirano, e che in non pochi casi si traduce in una "persecuzione" sociale, il più spesso inconsapevole e incolpevole, non è certo l'unica iniquità del nostro mondo. Denunciarlo dipende solo dall'essere quello che quotidianamente ho sotto gli occhi, e che può determinare conseguenze psicologiche anche molto gravi. Rispetto alle altre iniquità, ritengo che sia anche la più facilmente rimediabile in conseguenza di una presa di coscienza da parte dei diretti interessati, degli educatori e della società. In un mondo in cui il tema della diversità si va configurando come fondamentale, il problema dell'introversione, posto che se ne colgano tutte le implicanze, dovrebbe essere affrontato come primario. Al di là del riconoscere agli introversi diritti di pari opportunità di sviluppo, che vengono più o meno sistematicamente violati (in misura maggiore rispetto alla media), l'affrontare il problema rappresenterebbe un salto di qualità sulla via di una civiltà più aperta al riconoscimento del valore della diversità. Nella prospettiva della globalizzazione, questo valore, riferito all'integrazione tra culture, è universalmente riconosciuto. Ma sarà possibile, oltre che enunciarlo, porlo in essere se non si riesce prima a realizzare, all'interno della società, un'integrazione tra diversi modi di essere determinati dalla natura?
Il libro, divulgativo, ha il duplice intento di illustrare che cos'è l'introversione in sé e per sé, nelle sue caratteristiche specifiche, e di analizzare le circostanze e i motivi che troppo spesso determinano una condizione di disagio psichico e psicopatologico. Esso non è rivolto agli "specialisti" - gli psichiatri - nei quali ripongo una scarsa fiducia, e che sono, in misura rilevante, responsabili della persecuzione degli introversi che manifestano disturbi psichici (e, in particolare, degli "schizofrenici"). Si tratta piuttosto di un "manifesto" che mira a promuovere la fondazione di una Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi (LIDI), il cui scopo primario è di avviare un'opera di prevenzione di quei disturbi, sulla base del fatto che essi sono dovuti all'impatto con un ambiente familiare, scolastico, culturale e sociale sfavorevole. Uno scopo secondario, ma non insignificante, è di fornire agli introversi adulti strumenti che consentano loro di riconoscere i valori e i limiti intrinseci al loro modo di essere, in maniera tale che essi riescano ad apprezzare e a sviluppare i primi senza affannarsi a mascherare e reprimere i secondi.
La Lega non intende eleggere gli introversi al ruolo di vittime di una qualche "congiura" nei loro confronti. Di fatto, vale a dire oggettivamente, lo sono. Ma è pur vero che, spesso, con la loro esasperata sensibilità, l'aspettativa univoca che il mondo sia altro da quello che è, l'incomprensione nei confronti dei "normali" e, talora, il rifiuto di rimanere fedeli al proprio modo d'essere, partecipano, senza sapere e senza volere, a stringere intorno alla loro anima il cappio dell'infelicità.
Nulla più dell'esperienza drammatica, sia pure per motivi e circostanze diverse, di tre grandi introversi (Rousseau, Nietzsche, Kafka), nei cui confronti l'umanità ha un debito inestinguibile, può dare la misura di entrambi questi aspetti. Riporto le loro biografie psicologiche in appendice perché, pur ritenendole esemplari e significative, la lettura non è necessaria ai fini della comprensione del saggio. Essa, tra l'altro, è inquietante perché può indurre a pensare che l'introversione, quando si associa alla genialità, porta quasi fatalmente al disagio psichico. Non è così: in gioco è sempre e comunque una somma di circostanze congiunturali. Per fortuna, poi, se un numero rilevante di geni appartengono allo spettro introverso, pochi introversi sono dotati di attitudini geniali.