Introversione: dal pregiudizio alla conoscenza

Conferenza tenuta a Rovereto il 2 marzo 2007


1.

Che cos'è l'Introversione?

La risposta sembra semplice. Per il senso comune l'introverso è tout-court un "orso", un essere tendenzialmente solitario e asociale. Il senso comune si riflette anche a livello lessicale. Se si consultano i dizionari più diffusi (Zingarelli, Garzanti, Devoto Oli, De Mauro), introversione ed estroversione sono definiti in termini che implicano un giudizio di valore. L'estroverso è aperto, comunicativo, cordiale, affettuoso, espansivo, esuberante; l'introverso, viceversa, chiuso, riservato, scontroso, freddo, schivo, distaccato.

Che cosa c'è di vero in tali definizioni? Molto stando alle apparenze, poco per quanto concerne ciò che si dà dietro di esse: il mondo interiore dell'introverso.

Le apparenze comportamentali permettono di comprendere il pregiudizio sociale che, nella nostra società, incombe sull'introversione. Per sormontarlo, occorre procedere sulla via della conoscenza, partendo da un presupposto che concerne tutti gli esseri umani.

Ogni uomo, nel modo di essere che lo caratterizza e ne definisce la personalità, è un prodotto della natura, delle opportunità di sviluppo offerte dall'ambiente socio-culturale e del modo in cui egli interagisce con esse.

Il presupposto appare ovvio, dato che nessuno contesta che l'individuo è un ente biologico, psicologico e culturale. Lo diventa meno se il termine prodotto viene preso alla lettera. Esso implica, infatti, un processo di produzione, vale a dire la trasformazione di una materia prima in conseguenza di un lavoro.

Quando nasce, di fatto, l'uomo è una "materia prima", un ente naturale dotato di un determinato corredo genetico, unico e irripetibile, che è un insieme di istruzioni o di programmi inerenti lo sviluppo fisico e psichico (la "natura umana").

In ogni corredo genetico si danno potenzialità evolutive comuni a tutta la specie (per esempio la capacità di acquisire un linguaggio) e potenzialità o attitudini strettamente individuali (per esempio l'"orecchio musicale").

In quanto unico e irripetibile, ogni corredo genetico comporta quella che gli specialisti definiscono "norma di reazione", vale a dire possibilità di sviluppo molteplici ma finite.

Questo vale sia per le caratteristiche fisiche che per quelle psichiche. Un'alimentazione carenziale, per esempio, può determinare un'altezza minore di quella che l'individuo avrebbe raggiunto con una buona alimentazione. Un'alimentazione ricca, però, non può far crescere al di là di un limite contrassegnato dal corredo genetico.

Un ambiente culturale povero può impedire ad un soggetto di scoprire di avere un'attitudine particolare per la poesia, la musica o la matematica. Un ambiente culturale ricco, però, non può far diventare musicista un soggetto senza "orecchio".

Ogni corredo genetico, insomma, ha delle potenzialità di sviluppo e dei limiti. Nella misura in cui, nell'interazione con l'ambiente, le potenzialità si realizzano, esse si manifestano attraverso il comportamento. Questo processo si definisce fenotipizzazione,

Ogni individuo è un fenotipo.

La materia prima in questione, la natura umana, anche nelle fasi più precoci dello sviluppo, non è, però, né una tabula rasa né una creta o una cera che si può modellare a piacere. Il corredo genetico comporta dei programmi che guidano l'evoluzione della personalità. Essi comportano un certo grado di rigidità e un certo grado di elasticità della natura umana in rapporto all'ambiente.

Per quanto l'influenzabilità del bambino si possa ritenere elevata, occorre ammettere un'interazione tra il corredo genetico e le influenze ambientali. Tale interazione è mediata dalla soggettività e si esprime sotto forma di una tendenza alla differenziazione la quale, anche precocemente, si esprime attraverso "scelte" individuali, per esempio la definizione di un gusto che seleziona i cibi in base a preferenze e avversioni.

Se la natura umana non è una tabula rasa, il ruolo delle influenze ambientali sullo sviluppo della personalità non può essere minimizzato.

Per promuovere lo sviluppo dell'individuo, occorre da parte dell'ambiente un grande investimento di risorse ñ affettive, economiche, culturali -, che si traduce in un lavoro sociale: il processo educativo.

Educare non significa insegnare le buone maniere, ma letteralmente (ex-ducere) tirar fuori qualcosa: l'uomo dall'homo, un fenotipo dal genotipo. Per quanto si possano e si debbano valorizzare i rapporti affettivi tra gli educatori e i bambini ad essi affidati, non c'è dubbio che il processo educativo richiede l'adozione, più o meno consapevole, di "tecniche" finalizzate a realizzare un progetto.

I progetti possono essere vari, a seconda degli ambienti e degli educatori, ma hanno un obiettivo univoco: la produzione di un soggetto capace di inserirsi nel mondo e di integrarsi in esso, assumendo determinati ruoli e adempiendo i doveri che essi comportano; la produzione, dunque, di un soggetto normale in rapporto ad un determinato contesto.

Famiglie e Scuola sono, dunque, agenzie sociali cui è affidato, in ultima analisi, il compito di produrre cittadini. Rousseau ha scritto che il cittadino è una cosa, l'uomo un'altra. Per quanto rigida, la distinzione conserva un suo valore: cittadino è colui che assolve i diritti e i doveri propri dei ruoli che viene a ricoprire nella società, uomo è il soggetto in carne ed ossa, la persona che ricopre quei ruoli, li interpreta e li modella in rapporto alla sua individualità.

In passato, che i figli fossero destinati a diventare, anzitutto, cittadini, era considerato ovvio. Gli uomini venivano allevati sulla base di principi tradizionali, vissuti come un patrimonio di sapere ereditato dai padri e dagli avi e, da adulti, tendevano ad agire in maniera conforme a quei principi. Il conformismo, in pratica, era un valore primario che non azzerava le differenze individuali, ma le conteneva entro schemi comportamentali ritualizzati, scarsamente flessibili.

Oggi, secondo alcuni, le cose sono radicalmente cambiate. Una nuova sensibilità educativa comporterebbe una particolare attenzione per lo sviluppo dell'individuo come unico e irripetibile. Nessun educatore ovviamente prescinde dall'insegnare le buone maniere, ma si dà per scontato che ciò avvenga rispettando la diversità e la particolarità dell'individuo.

Si tratta di un mito piuttosto che di una realtà. Anche se, infatti, in genere gli educatori tendono a riconoscere la diversità che si dà tra i figli e in una certa misura a rispettarla, essi non riescono a prescindere dal dovere che la società assegna loro: quella di costruire cittadini adattati a questa società, vale a dire ad una società dinamica e competitiva, che assume lo status sociale come indice del valore dell'individuo.

Il modello di riferimento al quale, lo voglia o no, ogni educatore si riconduce, è dunque piuttosto univoco. Esso valorizza l'adesione e l'adattamento alla realtà, la capacità di comunicare e di stare con gli altri, un certo grado di competitività, lo spirito pratico necessario per conseguire risultati oggettivi, il non farsi troppi problemi, il prendere la vita come viene, ecc.

Si tratta di un modello marcatamente estroverso, il cui potere di omologazione è enorme perché punta sull'efficienza sociale, vale a dire privilegia in assoluto quello che l'individuo riesce a fare (e ad avere) rispetto a quello che riesce a diventare coltivando tutte le sue potenzialità (l'essere).

La triste conseguenza di tale modello è che, nel nostro mondo, si dà un numero indefinito ma rilevante di individui efficienti, normali sotto il profilo dell'adattamento sociale, ma la cui personalità si può ritenere poco sviluppata nel suo complesso.

Dirò tra poco perché il modello normativo dominante nella nostra società è un handicap per gli introversi.

Immediatamente. è importante rilevare che esso non è vantaggioso per nessuno. Se ci affranca dallo stereotipo per cui l'introversione è il modo di essere dei soggetti introversi, occorre ammettere che si tratta di una polarità intrinseca ad ogni personalità, in difetto della quale nessun soggetto giungerebbe alla consapevolezza di sé, vale a dire di essere un soggetto, di avere un mondo interiore e un'esperienza mentale privata. In quanto polarità riflessiva, che pone l'uomo nel suo intimo a contatto con se stesso, l'introversione dovrebbe essere in qualche misura coltivata da tutti.

Il modello normativo vigente nella nostra società non solo non favorisce tale coltivazione: esso promuove una tendenza quasi ossessiva a rimanere affacciati sulla realtà esterna e a rifuggire dallo stare da soli, vale a dire dallo stare con sé. Sarebbe facile comprovare quanto c'è di alienato in questa condizione ritenuta solitamente normale. Basterebbe proporre ad un campione scelto a caso della popolazione di trascorrere un'ora al giorno nel chiuso di una camera per dedicarsi alla riflessione. Alcuni, semplicemente, rifiuterebbero una proposta del genere, altri, tentando di realizzarla, sperimenterebbero un malessere più o meno profonda, altri, infine, realizzandola, la considererebbero insignificante e vuota di interesse.

Se c'è un male che affligge il nostro mondo è l'autofobia, la paura di ritrovarsi faccia a faccia con se stessi. Agli introversi capita di solito il contrario: inclini al raccoglimento, il loro disagio maggiore sopravviene nell'interazione con gli altri. Sono insomma tendenzialmente chiusi rispetto al mondo esterno in quanto aperti a quello interno.

La categoria aperto/chiuso ñ come accennato ñ è il criterio in conseguenza del quale il senso comune qualifica positivamente l'estroversione e negativamente l'introversione. E' evidente che, assumendo come referente il mondo interno, il giudizio potrebbe essere semplicemente invertito di segno.

2.

Il termine introversione tout-court è fuorviante. Un'introversione allo stato puro non esiste o, se esiste, appartiene alla preistoria di ciascuno di noi, quando siamo ancora nel grembo di nostra madre e il cervello, isolato dal mondo, manifesta una vivacissima attività intrinseca.

Dalla nascita in poi, ogni soggetto procede verso la conoscenza del mondo esterno e l'autoconsapevolezza. In quanto autoconsapevole, ogni uomo vive nell'interfaccia tra due mondi: quello esterno, al quale lo vincolano le percezioni e sul quale è letteralmente affacciato, e quello interno, che non può essere visto o toccato, ma è esperito. Raccogliendosi dentro di sé, ogni soggetto sente di avere un'esperienza mentale. Egli può addirittura parlare con se stesso dandosi del tu ñ per esempio incoraggiandosi o rimproverandosi -, rievocare il passato, proiettare nel futuro le sue aspirazioni, abbandonarsi alla fantasia, ecc.

Un certo grado di estroversione, di affacciamento, di contatto e di interesse per il mondo esterno, e un certo grado di introversione, di vita interiore, di introspezione e di riflessione sono costitutive di ogni esperienza umana.

Si dà però, tra gli individui, una diversità tipologica, nota da sempre all'umanità, che Jung ha avuto il merito di mettere in luce. Alcuni individui, infatti, privilegiano il rapporto con il mondo esterno e hanno bisogno di mantenere con esso un contatto assiduo; altri individui hanno una particolare propensione per il mondo interno e tendono al raccoglimento e alla riflessione.

Estroversione e introversione definiscono, dunque, modi diversi di rapportarsi dell'essere umano ai due mondi nella cui interfaccia egli vive.

Non si dà un'estroversione pura, che implicherebbe l'assenza dell'autoconsapevolezza, e non si dà un'introversione pura, che coinciderebbe con un distacco completo dal mondo esterno.

In ogni individuo l'orientamento estroverso e quello introverso si combinano nelle formule più varie, secondo uno spettro indefinito che esclude gli estremi (100% di estroversione, 0% di introversione e viceversa). Numerosi dati portano però a pensare che tale spettro non sia omogeneo né riconducibile ad una curva a cupola (nel qual caso la maggioranza delle persone avrebbe una dotazione equilibrata di estroversione e di introversione).

La prevalenza di una componente introversa è, infatti, di gran lunga minoritaria rispetto alla prevalenza di quella estroversa, interessando non più del 5-7% della popolazione: un soggetto su venti all'incirca. La ragione di tale squilibrio è ignota: a riguardo si possono fare a riguardo solo congetture sulla base della funzione dell'estroversione e dell'introversione .

L'estroversione, indubbiamente, favorisce l'adattamento al mondo esterno e, in conseguenza dello spirito pratico che la connota, promuove anche l'intraprendenza, il darsi da fare per trasformarlo. Senza la spinta motivazionale dell'estroversione, l'umanità sarebbe presumibilmente rimasta ferma al modo di essere originario, incentrato sulla caccia e sulla raccolta. All'estroversione si può ricondurre, in misura rilevante, lo sviluppo della tecnologia, del commercio, dell'industria, ecc.

L'estroversione svolge anche un'altra funzione. Essa, infatti, comporta una tendenza naturalmente adattiva all'ambiente culturale, al mondo prodotto dall'uomo, che viene naturalizzato e giunge ad esercitare lo stesso effetto di cattura della realtà fisica. In nome della naturalizzazione, il modo di vivere proprio di un gruppo, con i suoi sistemi di valori e i suoi codici normativi, si assolutezza: diventa l'unico modo in cui si può vivere, sentire, pensare ed agire.

L'estroversione è la matrice dell'etnocentrismo, vale a dire della convinzione di ogni gruppo sociale che la sua cultura sia superiore a tutte le altre.

Sotto il profilo pratico dell'adattarsi al mondo esterno e del darsi da fare, l'introversione è piuttosto carenziale. Ciò è avvalorato dal numero degli introversi che, da sempre e forse oggi più che mai, vivono nell'ombra e sperimentano un disagio psichico. Che, a livello di senso comune, il termine introversione suoni negativo e faccia paura non è sorprendente.

C'è un altro dato, però, che non si può trascurare. L'uomo non vive di solo pane. Se si considera il patrimonio della Cultura non materiale ñ religione, filosofia, letteratura, arte, scienza, ecc. -, ci si trova di fronte al fatto inconfutabile che essa, in una misura assolutamente rilevante (intorno al 60-70%), è stata prodotta da soggetti introversi. Un elenco dei Grandi Introversi che hanno contribuito alla civilizzazione della specie umana occuperebbe un enciclopedia. Basterà citare, per il passato remoto, Gesù, Budda, Socrate, e, per l'età moderna, Rousseau, Darwin, Nietzsche, Freud, Kafka, Einstein.

Pochi introversi, ovviamente, sono geni, ma gran parte dei geni sono introversi.

Se si tiene conto del contributo che questa quota minoritaria della popolazione ha dato all'evoluzione della Cultura, forse si capisce immediatamente perché l'introversione, nonostante alcuni aspetti disfunzionali sotto il profilo adattivo, non è andata incontro ad una selezione naturale. Essa, infatti, attraverso l'esplorazione dei mondi possibili, impedisce al senso comune, alla normalità di cristallizzare l'evoluzione della specie umana nella direzione di un'ulteriore oggettivazione delle sue potenzialità.

Oggi, il rischio che si profila è quello di una selezione culturale, che squalifichi definitivamente questo modo di essere a vantaggio di quello estroverso, culturalmente dominante.

Estroversione e Introversione sono entrambi orientamenti psichici importanti. Qualificare il primo come normale, in quanto adattivo, e l'altro come disadattivo o difettoso, è un errore conoscitivo. Si tratta però di un errore diffuso nella nostra società, che investe anche gli psicologi se è vero che molti di essi propagandano la loro capacità di "curare" l'introversione.

3.

Il pregiudizio nei confronti dell'introversione ha un fondamento empirico.

Incontrare nel nostro contesto sociale un introverso sereno ed equilibrato, autentico e chiaramente appagato di essere com'è, è un eccezione. Più spesso, gli introversi hanno dei tratti di comportamento che sembrano attestare un qualche disagio psicologico: sono riservati (sino alla chiusura), poco loquaci e comunicativi, spesso visibilmente impacciati, talora addirittura cupi e ombrosi. Per quanto, poi, appaiano inoffensivi, il loro modo di essere determina, in genere, un campo d'interazione sgradevole. Se non è vero che sono scostanti e altezzosi ñ per cui evocano un moto di antipatia -, si intuisce facilmente che non sono spontanei, nutrono diffidenza, sembrano impegnati a celare qualcosa. Se si giunge a conoscerli da vicino, si rimane sorpresi della loro sensibilità umana, delle doti intuitive e della ricchezza del loro mondo interiore. Al tempo stesso, si recepisce in genere un atteggiamento rigido e ipercritico nei confronti del mondo.

Il giudizio sociale sull'introversione si fonda dunque su un dato di realtà. In che senso si può parlare di pregiudizio? Per rispondere a questo quesito, occorre considerare due aspetti: il primo fa capo ad un concetto teorico, cui si è già accennato - la distinzione tra genotipo e fenotipo -, il secondo al metro di misura comunemente adottato per valutare il comportamento delle persone.

La distinzione tra genotipo e fenotipo è facile da capire. Se si pone lo stesso seme di una pianta (cosa possibile oggi con la clonazione) in vasi con terreni diversi, si ottengono risultati diversi. In un vaso, al limite, il seme non si sviluppa. Negli altri vengono fuori piante che sono più o meno diverse per altezza, rigogliosità, ecc.

Il seme contiene il genotipo, vale a dire il patrimonio genetico di un determinato genere botanico. Le piante sono l'espressione dello sviluppo diversificato dello stesso corredo genetico in rapporto ai diversi ambienti di sviluppo.

Il pregiudizio sull'introversione consiste nel confondere il fenotipo, il modo di essere e il comportamento della maggioranza degli introversi nel nostro mondo, con le caratteristiche intrinseche al genotipo introverso.

Al comportamento apparente, poi, viene applicato il metro di misura della normalità estroversa, che fa capo all'essere sicuri di sé, disinvolti, aperti, comunicativi, intraprendenti, pragmatici, ecc.

Purtroppo, il pregiudizio sull'introversione ha un'incidenza notevole sui processi di produzione dell'uomo, vale a dire sull'allevamento e sull'educazione degli introversi. Esso, infatti, se gli educatori rilevano nel comportamento del bambino qualche tratto riconducibile all'introversione dà luogo, in assoluta buona fede, ad una strategia correttiva.

Quasi sempre il tratto comportamentale più allarmante è la tendenza del bambino o dell'adolescente a non legare con gli altri, ad isolarsi e a distrarsi. L'inserimento e la partecipazione attiva alla vita di gruppo è uno degli indici valutativi del comportamento più spesso adottato dagli insegnanti per redigere le schede quadrimestrali. Anche le famiglie in genere sono piuttosto attente alla socialità del figlio

Partiamo da questo aspetto per penetrare un po' nel modo di essere introverso.

Il bambino introverso ha un bisogno di socialità intenso, ma diverso rispetto alla media dei coetanei.

Intanto, egli ha una netta predilezione per gli adulti, che tende ad idealizzare e con i quali si trova a proprio agio perché è affascinato dai loro discorsi (anche se non li capisce del tutto). Talora è netta l'impressione che, stando con i grandi, egli penda dalle loro labbra.

Che significa questa predilezione? Né più né meno che il bambino introverso ha una "vocazione" a diventare grande, maturo, una predisposizione innata al capire e al sapere. E' come se fosse ossessionato dalla "grandezza", ed è inutile dire che, in conseguenza di questa ossessione, egli idealizza gli adulti.

Questa idealizzazione spiega perché egli non si trovi a proprio agio tra i coetanei, che non esercitano su di lui grande attrazione, anzi spesso, con la loro iperattività motoria e il loro perpetuo vociare, lo disturbano.

In conseguenza di ciò, alcuni bambini introversi rifiutano nella maniera più radicale l'inserimento asilare e spesso hanno difficoltà anche nel frequentare la scuola materna.

Un bambino introverso che, condotto all'asilo o alla scuola materna, si aggrappa al genitore, piange disperatamente e punta i piedi, appare immaturo in rapporto agli altri. Per spiegare questo comportamento, al di là della predilezione per le figure adulte, occorre considerare un altro aspetto. Il bambino introverso, per legare con un coetaneo, ha bisogno di percepire un'affinità nel modo di sentire. Se questa si dà, egli stabilisce un rapporto intenso e quasi passionale con l'amico del cuore.

Il bambino introverso, insomma, è un bambino riflessivo, che ama ambienti tranquilli e rapporti interpersonali significativi. Odia il rumore, l'affollamento, la frenesia, ecc. Ha bisogno, insomma, di un mondo che rispetti i suoi bisogni, i suoi tempi e il suo modo di essere.

La partecipazione sociale in termini di attenzione è interferita anche dal fatto che il bambino introverso convive con un mondo interiore perennemente attivo, dove scorrono emozioni, fantasie, riflessioni di ogni genere (anche se, fino ad una certa età, non sotto forma di pensieri coscienti). La "distrazione" è dovuta a questo. Se si richiede ad un bambino introverso di rimanere sempre attento e aderente alla realtà esterna, gli si chiede l'impossibile: egli è inesorabilmente attratto dal mondo interno.

4.

Quanto detto consente di capire meglio la differenza che intercorre tra genotipo e fenotipo. Il bambino introverso ha un suo bisogno di socialità, diverso rispetto alla media, che deve fare i conti, tra l'altro, con un bisogno incoercibile di raccoglimento. Se esso si realizza nei tempi e nei modi prescritti dalla natura, dà luogo lentamente allo stabilirsi di rapporti selettivi, dunque poco numerosi, ma profondi, intensi, duraturi. Una socializzazione forzata, invece, può produrre un'avversione indifferenziata nei confronti del sociale la cui conseguenza è la chiusura, il rifiuto, l'incupimento, ecc.

Il bisogno sociale selettivo, fondato sull'affinità, è genotipico, la chiusura e il rifiuto di socializzare fenotipico, dovuto alle circostanze ambientali.

Non è colpa di nessuno se il nostro mondo si è organizzato in maniera tale da rendere necessaria un'istituzionalizzazione precoce dell'infanzia (quella che uno storico ha definito il grande "internamento"). Bisognerebbe però, anziché esaltare questa pratica come corrispondente ad un bisogno primario del bambino, rendersi conto che si tratta sempre e comunque, se non di una "violenza", di una forzatura, talora molto dolorosa per i bambini introversi.

Ciò significa che il genotipo introverso è particolarmente vulnerabile allo stress adattivo? La vulnerabilità dipende dalle richieste di adattamento che provengono dall'ambiente, dalla loro compatibilità con le esigenze intrinseche al corredo genetico introverso. Ritenere che i bambini in media non abbiano difficoltà a stare per ore in ambienti ñ quali quelli asilari e materni ñ acuticamente inquinati, semplicemente perché il frastuono sono essi stessi a produrlo, è un errore. Gran parte di essi diventano irritabili e iperattivi proprio per questo. Pretendere che i bambini introversi si adattino a tali ambienti, è chiedere troppo. Neppure gli adulti introversi e sereni riescono a tollerare l'inquinamento acustico.

Se si ammette che l'introversione implica una vulnerabilità all'ambiente, occorre tenere conto che essa è la conseguenza di un patrimonio prezioso in termini evolutivi.

Quanto si dà di prezioso nell'introversione riesce chiaro elencando e analizzando le sue caratteristiche genotipiche, che sono le seguenti:

" un corredo di emozioni superiore alla media, associato, talora, ad un'intelligenza vivace;

" un senso di pari dignità e di giustizia precoce, persistente e d'intensità drammatica, che fa capo ad        un'intuizione viscerale dei diritti individuali, attribuiti a sé non meno che agli altri;

" un orientamento innato di tipo idealistico, che si esprime nel "sogno" di un mondo caratterizzato da rapporti       interpersonali "corretti" e "delicati", tali da ridurre al minimo la possibilità reciproca di farsi del male;

" una tendenza a stabilire con le persone, gli animali e le cose legami affettivi intensi, profondi e        tenacemente conservatori;

" un orientamento incline alla riflessione, all'introspezione e alla fantasia più che all'azione;

" una predilezione per interessi intellettuali e per attività creative, alimentata dal piacere del funzionamento       della mente, che è sempre spiccato.

Il corredo emozionale particolarmente ricco è indubbiamente l'aspetto più specifico del modo di essere introverso, quello che si riflette in tutte le altre caratteristiche (anche nella vivacità intellettiva).

Ma cosa significa un corredo emozionale particolarmente ricco? Non è un eufemismo per dire quello che tutti sanno, che l'introverso, in fondo, è un iperemotivo, e dunque ancora una volta difettoso?

Nel nostro mondo, le emozioni non godono buona fama: qualificate in opposizione alla ragione e alla razionalità, sono ritenute (ahimè anche da alcuni psicologi) dimensioni squilibranti e irrazionali della soggettività.

Si parla di emozioni e si pensa immediatamente all'ansia, alla paura, alla rabbia, alla malinconia, quando non addirittura all'aggressività: a stati d'animo, insomma, solitamente spiacevoli, dolorosi e disadattivi, sperimentati occasionalmente, che si associano tra l'altro a reazioni neurovegetative e somatiche piuttosto intense.

Per capire qualcosa del modo di essere introverso, occorre contestare il discredito che, nel nostro mondo, investe il mondo delle emozioni.

L'emozionalità è il continuum dell'esperienza umana, il mare sul quale galleggiamo e nel quale scorriamo. Ciascuno di noi sperimenta tale continuum sotto forma di uno stato d'animo che sottende la propria esperienza.

Il continuum emozionale dà all'esperienza soggettiva una "qualità" unica e irripetibile. Tutti i fatti della vita assumono un senso, un colore, un peso perché essi sono qualificati emotivamente. Ciò vale per il dolore vivo che si prova in conseguenza di un lutto come per l'ebbrezza che si sperimenta quando si ama, si guarda la luna piena, ci si appassiona ad un'attività ñ studio, lavoro, hobby, ecc.

L'emozionalità è uno spettro le cui polarità estreme sono intimamente correlate. Non si potrebbe provare gioia se non esistesse anche la capacità di provare dolore, non si potrebbe sperimentare la quiete e l'estasi se non fosse possibile provare ansia, ecc.

Ciò significa, né più né meno, che le persone più ricche di emozionalità sono capaci di sperimentare in maniera più intensa rispetto alla media le indefinite qualità intrinseche al registro della sensibilità. Possono provare dolori intensi e gioie estatiche, sentimenti d'amore profondi come avversioni e rabbie, ansie incontrollabili ma anche una quiete profondissima, ecc.

Una dotazione emozionale superiore alla media, che è propria degli introversi, è dunque una condizione di potenziale squilibrio ma anche di ricchezza. Dipende dall'evoluzione della personalità e dalle circostanze ambientali che lo squilibrio prevalga sulla ricchezza o viceversa.

A questa considerazione di ordine generale, occorre aggiungerne un'altra di maggiore peso.

L'uomo ha ereditato dagli animali la capacità di sperimentare le emozioni. La tavolozza di base delle emozioni (paura, rabbia, tristezza, piacere, dolore, ecc.) è comune a tutti gli animali superiori.

L'emozionalità umana, però, ha caratteristiche sue proprie: è una tavolozza molto più ricca rispetto a quella di qualunque altro animale. Si danno, infatti, nel patrimonio umano, almeno tre emozioni specie-specifiche: l'empatia, il senso di dignità e di giustizia e l'infinito.

L'empatia è la capacità di un soggetto di identificarsi con l'altro, di mettersi nei suoi panni e di ricostruire la sua esperienza dentro di sé. Dato che l'empatia, nella misura in cui si dà, funziona automaticamente, a livello inconscio, raramente capita di soffermarsi a riflettere su di essa. In realtà si tratta di una capacità intuitiva complessa che permette di sentire ciò che l'altro sente: il suo stato d'animo, le aspettative, i desideri, le paure.

Questa capacità di identificarsi con l'altro sembra spiccata soprattutto in rapporto a stati di sofferenza. Essa sconfina addirittura dall'ambito umano e investe tutto il vivente. Se ci si chiede perché la carcassa di un animale sfracellato da una macchina, fa rabbrividire, la risposta è semplice. L'empatia induce un'identificazione con un essere vivente che ha subito un trauma terribile e presumibilmente ha provato dolore.

Una particolare dotazione di empatia produce naturalmente una disponibilità sociale che porta ad aiutare gli altri che hanno bisogno e a fare il possibile per non farli soffrire o per alleviare la loro sofferenza.

Il senso di dignità e il senso di giustizia sono profondamente radicate nel corredo genetico umano: rappresentano il fondamento della percezione innata che l'individuo ha di sé come persona dotata di diritti naturali.

L'umanità ha dovuto fare un lungo percorso storico per sancire giuridicamente la pari dignità degli esseri umani e per riconoscere a ciascuno di essi diritti naturali inviolabili. Questo lungo percorso, esitato nella promulgazione sotto l'egida dell'ONU della Carta dei Diritti dell'Uomo è sorprendente se si pensa che quei diritti ogni essere umano se li porta dentro dal momento in cui viene alla luce.

E' in nome di essi, infatti, che un bambino di tre anni, quando ancora non sa concettualmente cosa siano la dignità e la giustizia, si arrabbia (talora tremendamente) quando viene, consapevolmente o inconsapevolmente, maltrattato o quando si trova di fronte a comportamenti altrui che egli sente come ingiusti, arbitrari, prepotenti, ecc.

L'intuizione emozionale dell'infinito è misconosciuta dalla psicologia, ma ha un'importanza fondamentale. Essa, infatti, affiora lentamente nel corso dello sviluppo, ma giunge ad influenzare tutta l'esperienza soggettiva umana.

C'è un passaggio evolutivo importante nella vita di ciascuno di noi che segnala l'avvento mentale dell'infinito emozionale. Tra i 5 e i 7 anni ogni bambino giunge a capire che esiste la morte, vale a dire che, nel corso del tempo, i genitori verranno meno ed egli stesso è destinato a finire. Tale consapevolezza non potrebbe sopravvenire se lo sviluppo mentale non evocasse il riferimento ad una dimensione ñ quella temporale ñ come successione di istanti che si succedono senza fine.

Qualcosa di analogo avviene per lo spazio, anche se non è stato individuato a riguardo un momento critico dello sviluppo. Ciascuno di noi però può rievocare la prima volta che, di fronte alla volta del cielo stellato, ha avvertito un senso di smarrimento e di sgomento (associato o meno ad una sorta di vibrazione estatica).

L'intuizione emozionale dell'infinito non riguarda, però, solo il tempo e lo spazio: essa, infatti, apre la mente umana sulla frontiera del possibile, dell'immaginabile, del fantasticabile, ecc.

La presenza dell'infinito nel corredo emozionale umano è una medaglia a due facce. Essa ha due conseguenze di rilievo.

La prima è quella di determinare l'ansia esistenziale, quella che giace al fondo di ogni esperienza soggettiva ed è dovuta alla consapevolezza di essere finiti, dunque vulnerabili e precari, e destinati a finire.

A che serve questa consapevolezza? A mobilitare, come sostengono alcuni psicologi, le risorse e le energie umane nella direzione di ammortizzare il suo impatto? E' senz'altro vero, ma non è tutta la verità. Per quanto, però, l'uomo darsi da fare per precedere e prevenire i pericoli che incombono su di lui, quella consapevolezza ansiogena rimane sullo sfondo della sua esperienza.

Essa lo costringe ad interrogarsi sulla condizione umana e sul suo significato, a riflettere, a chiedersi che cos'è il bene, il male, il giusto, l'ingiusto, perché esiste il dolore, la malattia, la morte, perché gli uomini aggiungono ai mali naturali della condizione esistenziale altri mali, altri dolori, ecc. Per quanto poco gradevole, l'ansia esistenziale obbliga, insomma, l'uomo a filosofare e a prendere posizione.

La seconda conseguenza fa da contrappeso alla prima.

Alla luce dell'infinito, il finito, ciò che esiste, si relativizza: al di là di esso si dà il possibile, l'immaginario: una categoria aperta, appunto sull'infinito. La categoria del possibile è la matrice dell'utopia, dell'arte, della letteratura e della scienza.

5.

Mi sono dilungato sul tema delle emozioni più specificamente umane per un motivo molto semplice. Esse, infatti, sono sempre presenti con particolare intensità negli introversi e determinano molte delle caratteristiche cui ho fatto cenno in precedenza.

Quando alcuni psicologi affermano che le emozioni sono dimensioni psichiche intrinsecamente squilibranti colgono solo il loro aspetto allo stato nascente: ignorano che, creandole, la natura ha previsto un lungo periodo di maturazione perché esse possano dare frutto: un periodo sterminatamente lungo.

Nell'uomo, in una proporzione incommensurabile rispetto a tutti gli altri animali, la fase evolutiva dura una ventina d'anni, un quarto all'incirca dell'intera esistenza. Di solito si riconduce questo aspetto allo sviluppo dell'intelligenza e delle strutture cognitive. Non è vero. Il bambino impara a parlare a due anni, a leggere e a scrivere a sei anni, raggiunge una capacità logica a 8-9 anni e acquisisce la capacità di astrazione simbolica a 11-12 anni.

La lunghezza della fase evolutiva è dovuta in gran parte alla necessità di una lunga maturazione delle emozioni e degli affetti.

Se l'esperienza evolutiva è un'esperienza "squilibrata", in quanto sottesa da un'emozionalità non ancora educata né canalizzata dalla cultura, quella dei bambini e degli adolescenti introversi, dato la loro iperdotazione emozionale, lo è di più rispetto alla media ed è più prolungata.

Quest'ultimo aspetto richiederebbe un lungo discorso. Mi limiterò a dire l'essenziale.

L'essere umano è un animale ritardato nello sviluppo rispetto a tutti gli altri, che, tra l'altro, conserva nella sua stessa anatomia gli indizi del ritardo. Gli specialisti parlano a riguardo di neotenia, vale a dire della persistenza nell'adulto di caratteristiche fetali (la proporzione elevata della testa in rapporto al corpo, la cute glabra, la dentatura piccola, ecc.).

Alle nostre orecchie, condizionate dall'ideologia dello sviluppo illimitato, della velocità, della fretta, il termine ritardo ha un suono sinistro. Se, però, diamo credito agli specialisti, l'uomo è diventato homo (sapiens sapiens) proprio in virtù del ritardo nello sviluppo.

Tale ritardo è confermato dal fatto che, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri animali, nell'uomo la maturazione dei caratteri sessuali primari e secondari, vale a dire l'acquisizione della cpacità procreativa, non coincide con il passaggio allo statuto adulto. Tra quella maturazione e la fine della fase evolutiva si danno almeno 6-7 anni.

E' difficile minimizzare il ruolo evoluzionistico, filogenetico e ontogenetico, della neotenia.

Sotto il profilo filogenetico, essa ha prodotto tre formidabili conseguenze. Per un verso, infatti, ha costretto la specie umana ad organizzarsi sulla base della necessità di allevare i piccoli per un periodo sterminatamente lungo, determinando un rapporto intimo e prolungato tra le generazioni. In secondo luogo, essa, ponendo costantemente gli adulti a contatto con i bambini, ha intenerito e ingentilito la specie (come sa chiunque oggi sperimenta, a contatto con un infante, un'inesprimibile tenerezza), dando ad essa la piena consapevolezza di una condizione esistenziale di vulnerabilità e di precarietà drammaticamente rappresentata da un essere dipendente e impotente quant'altri mai. In terzo luogo, rallentando il processo di adattamento al mondo esterno, che negli altri animali è precoce, la neotenia ha plasticizzato la struttura cerebrale, mantenendola a contatto con il mondo interiore, immersa nel flusso delle emozioni, aperta alla fantasia, alla creatività e all'esplorazione di mondi e di modi di essere possibili.

Non ci si soffermerà mai abbastanza su quest'aspetto. Il ritardo nello sviluppo evita che la mente umana venga catturata e irretita dal mondo esterno. Esso mantiene per un certo tempo il primato del mondo interno su quello esterno e, in conseguenza di questo, apre l'uomo all'intuizione dei mondi possibili, vale a dire sull'infinito.

Se questo è vero per tutti gli esseri umani, lo è ancora più per gli introversi, la cui ricca emozionalità comporta uno sviluppo ritardato al punto tale che la fine dell'evoluzione della loro personalità avviene tra i venticinque e i trenta anni. Questo dato, misconosciuto, non è affatto sorprendente. Per costruire un puzzle di duemila pezzi occorre un tempo almeno doppio rispetto ad un puzzle di mille pezzi. In termini di potenzialità di sviluppo, gli introversi devono portare a termine un puzzle più complesso rispetto alla media.

Il ritardo nello sviluppo degli introversi riguarda, peraltro, la personalità globale, soprattutto sotto il profilo dell'acquisizione delle competenze sociali. Per alcuni aspetti, che concernono soprattutto la capacità di registrare le aspettative degli adulti e di rispondere ad esse, gli introversi spesso sono precoci e appaiono caratteristicamente più maturi dei coetanei.

Lo scarto tra maturità e immaturità è quasi sempre evidente. Lo stesso bambino che, a cinque-sei anni, fa un discorso del tutto sorprendente, da "grande", in una situazione di interazione sociale appare timoroso e a disagio.

Lo scarto in questione è costitutivo del modo di essere introverso e significativo (come espressione della neotenia). Il problema è che né l'ambiente né, in genere, l'introverso stesso riescono a coglierne il senso.

6.

Dobbiamo dare per scontato che l'esperienza interiore dei bambini introversi è squilibrata e per alcuni aspetti, legata all'intensità del sentire, drammatica.

Di questo scenario interiore, di solito, si vede poco all'esterno, perché gli introversi sono estremamente pudichi nell'espressione delle emozioni. Quello che si vede, occasionalmente, è una certa paurosità in genere e nei contatti sociali, un disagio più o meno rilevante nell'affrontare situazioni nuove, un attaccamento particolare alle figure genitoriali, una fluttuazione talora incomprensibile del loro stato d'animo (che passa dalla serenità alla cupezza), ecc.

Se si analizzano, però, i due comportamenti globali tipici dei bambini introversi si capisce meglio in che senso la loro esperienza è squilibrata, anche se ciò riesce immediatamente evidente solo per uno dei due. I comportamenti globali tipici sono quello del bambino d'oro (che concerne la maggioranza) e quello del bambino oppositivo, difficile (una quota minoritaria).

Se ci si chiede com'è possibile che, dato un corredo genetico introverso, si definiscano due orientamenti apparentemente antitetici, la risposta è semplice. L'empatia definisce l'intensità del bisogno di appartenenza che, nel bambino, si traduce nel desiderio di essere quello che gli altri vogliono che egli sia. Il senso di dignità e di giustizia, viceversa, definisce il bisogno di individuazione, vale a dire l'esigenza di affermare la propria vocazione ad essere, la volontà propria anche in contrasto con l'ambiente.

E' sorprendente che lo stesso patrimonio genetico implichi due possibilità evolutive apparentemente del tutto diverse, tali per cui alcuni bambini introversi appaiono docili e infinitamente accondiscendenti, mentre altri sono tendenzialmente ribelli e oppositivi.

Su un fondo comune di iperdotazione emozionale, ciò dipende semplicemente dalla prevalenza di un bisogno (di appartenenza o di individuazione) sull'altro.

La prevalenza in questione riguarda solo le fasi primarie dell'evoluzione della personalità, dalla nascita sino all'adolescenza. Per quanto in alcuni bambini introversi il bisogno di appartenenza possa essere spiccato, il genotipo introverso contiene univocamente un potenziale d'individuazione nettamente superiore alla media. Ciò significa che i soggetti introversi, anche quelli (e sono la maggioranza) che manifestano nei primi anni di vita una sorta di iperadattamento alle richieste dell'ambiente, sono poi spinti dal bisogno di individuazione sulla via di una differenziazione, di un'integrazione e di uno sviluppo della personalità che non ha mai fine.

Alla luce di questi concetti occorre valutare le due carriere tipiche cui ho fatto cenno prima.

Il figlio d'oro, in nome di un'empatia spiccata, registra le aspettative e i desideri consci e inconsci degli adulti e si obbliga a rispondere ad essi senza limite. Egli si impone di essere quello che gli altri vogliono che sia al fine di ricevere conferme, di non deludere e non dispiacere i suoi. La perfezione è estranea all'uomo, ma i bambini introversi empatici la realizzano apparentemente al prezzo di enormi sacrifici e nella paura costante di venir meno al loro dovere di essere quello che gli altri vogliono.

Nulla di questo dramma traspare all'esterno. Ma, se è lecito fare una critica agli adulti, è assolutamente sorprendente che essi giungano a pensare che un bambino possa arrivare laddove essi non sono arrivati: ad essere precocemente sempre posato, educato, riflessivo, capace di fornire prestazioni scolastiche eccellenti e uniformi, insomma perfetto.

Il perfezionismo infantile, che talvolta si perpetua nell'adolescenza, è una "patologia" perché esso implica che il bambino non dà spazio ad alcuno dei suoi bisogni naturali, eccezion fatta per la sua disperata volontà di fare contenti i suoi e di esserne confermato.

Talora può sembrare che il figlio d'oro sia contento di essere così com'è, appagato delle conferme che riceve di continuo dagli adulti. Ma si tratta di un'apparenza. Lo stress di essere sempre all'altezza di un modello perfezionistico è enorme.

Tale modello, poi, incide quasi sempre nel rapporto con i coetanei. Apprezzato dagli adulti, il bambino d'oro risulta troppo spesso antipatico ai coetanei, che, al tempo stesso, lo avversano e lo invidiano. Sulla base di quest'antipatia, si realizzano con una frequenza inquietante vere e proprie "persecuzioni", fatte di prese in giro, derisioni, attacchi verbali e fisici che inducono ferite non facilmente rimediabili.

Non posso soffermarmi troppo su quest'aspetto di quotidiana crudeltà. Mi preme solo dire che la tendenza degli adulti a minimizzare quello che avviene nelle scuole in nome del fatto che si tratta di bambinate o ragazzate è deleteria. In conseguenza di queste ragazzate, un numero rilevante di bambini introversi giungono all'adolescenza con un carico di rabbia cieca e di odio indifferenziato nei confronti del mondo che può comportare conseguenze psicologiche e psicopatologiche di ogni genere.

Aggiungerei anche che la tendenza degli adulti, e soprattutto degli insegnanti, a proporre agli alunni il bambino d'oro come modello equivale a gettare benzina sul fuoco: ad attizzare l'avversione dei coetanei.

La chiusura sociale e l'isolamento che spesso intervengono negli introversi nel corso dell'adolescenza raramente sono espressione del loro bisogno di differenziarsi dalla media e di seguire la loro via verso l'individuazione. Più spesso sono l'indizio di una radicale sfiducia nei confronti degli esseri umani e della rassegnazione a vivere come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro.

L'altro comportamento, tipico degli introversi oppositivi, nei quali il senso di dignità e il senso di giustizia prevale sull'empatia, non è mai adeguatamente compreso.

Devo confessare che il problema del bambino difficile è oltremodo complesso. In alcuni casi, il suo comportamento è chiaramente interpretabile come reattivo all'ambiente familiare e scolastico. Anche senza fare riferimento a circostanze congiunturali, riconducibili ad un orientamento consciamente o inconsciamente autoritario e perfezionistico degli adulti, basta pensare che gli educatori, nel rapportarsi ai figli, fanno tutti riferimento al bambino medio. Se non ignorano le diversità che si danno tra gli individui, ignorano la diversità intrinseca al corredo genetico introverso oppositivo, che richiede da parte dell'ambiente un'infinita pazienza e una grande comprensione per un orientamento di sviluppo che sembra incentrato su di una perenne sfida all'ambiente.

Al di là di queste circostanze, però, occorre riconoscere che si dà, nel corredo genetico introverso oppositivo, un quid che talora sembra irriducibile all'ambiente. Alcuni bambini vengono al mondo apparentemente predisposti ad interagire negativamente: hanno difficoltà a dormire, a mangiare, sono irrequieti, capricciosi, lamentosi. Alcune volte, con lo sviluppo, tali difficoltà si appianano. Altre volte si perpetuano, cronicizzano e progressivamente si esasperano.

Al fondo di queste esperienze, io ritengo che si dia un potenziale d'individuazione enorme e precocemente attivo: un azzardo della natura nella sua incoercibile tendenza alla sperimentazione. Una prova a favore di tale ipotesi è data dal fatto che alcuni soggetti oppositivi che, nelle fasi evolutive, creano problemi di ogni genere, imboccano poi con l'adolescenza la via dello sviluppo di una personalità altamente differenziata, originale e creativa. Ciò che all'origine appare disfunzionale, in questi casi, rivela infine la sua funzionalità e il suo autentico significato.

Si tratta però di casi rari. Più spesso la carriera del bambino oppositivo è devastante per l'ambiente e per lui stesso, ed esposta, in particolare, al rischio della devianza.

Ritengo che, se questo problema fosse colto nella sua intrinseca drammaticità, occorrerebbe programmare un aiuto sociale per le famiglie che lo affrontano. Per quanto, infatti, i genitori possano essere affettuosi e dediti ai figli, l'impegno eccede le loro risorse e, nella migliore delle ipotesi, li induce a maledire il giorno che hanno messo al mondo quel figlio.

Anche prescindendo da casi estremi di bambini che sembrano precocemente animati da una vis disadattiva, l'allevamento di un bambino introverso oppositivo non è mai una passeggiata.

L'introverso difficile entra in guerra con l'ambiente, si attesta su di un registro di opposizionismo e di negativismo perché registra precocemente tutte le contraddizioni che si danno in famiglia, a scuola e nel mondo. Egli non riesce a rispettare nessuna regola se non viene persuaso della sua giustezza e se non se ne appropria. Non tollera di essere iperprotetto né di essere comandato né, tanto meno, di essere abusato in nome del suo essere piccolo.

Ha bisogno di sentire che la sua dignità è integralmente rispettata dai grandi, che non devono approfittare in alcun modo del potere di cui dispongono.

Ha un bisogno spiccato di autonomia, che lo porta a voler fare da sé anche ciò che non è ancora in grado di fare. Arginare questa pulsione verso l'autonomia che, per alcuni aspetti, è anche rischiosa, determina in molti casi una risposta iperattiva.

Poco contenibile negli spazi domestici, il suo inserimento negli spazi istituzionali (asilari, scolari) corrisponde spesso al desiderio del genitore di scaricarsi di un peso insostenibile. Il comportamento oppositivo e negativistico, però, si ripete spesso in quegli spazi dando luogo spesso a strategie di repressione, di emarginazione, ecc. da parte degli insegnanti e dei coetanei.

Tutti riconoscono che si tratta di bambini particolarmente vivaci e intelligenti, i quali, in alcuni momenti, manifestano anche una straordinaria sensibilità (per esempio prendendo le difese dei più deboli). Ciò non toglie che la loro carriera scolare spesso è contrassegnata da una cattiva condotta, da un mediocre rendimento, da un progressivo isolamento, ecc.

Allo "squilibrio" dei bambini d'oro dalla parte dell'empatia corrisponde, dunque, lo squilibrio dei bambini difficili dalla parte del bisogno d'individuazione, incentrato su un bisogno prepotente di individuazione.

Allevare un bambino d'oro sembra semplice, visto che egli non pone alcun problema. Allevare un bambino oppositivo è, invece, un'impresa vissuta come logorante.

In entrambi i casi, per non fare danni, occorre andare al di là delle apparenze comportamentali e cogliere l'intimo travaglio che sottende le due forme di esperienza.

Per quanto possa sentirsi confermato dai grandi, il bambino d'oro sperimenta la vita come una dimensione di impegno estremo e angoscioso, come uno stress senza fine. Confrontandosi con gli altri, egli intuisce che essi se la prendono con molta calma, ma la cosa gli appare starna. Ancora più strano gli appare il fatto che, mentre gli adulti confermano il suo modo di essere, i coetanei sviluppano nei suoi confronti un'antipatia che in alcuni casi si traduce in una sequela infinita di prese in giro, commenti infamanti o addirittura aggressioni fisiche.

Via via che cresce, è inevitabile che sviluppi una percezione del mondo negativa, che si arrabbi, insomma, con gli adulti che chiedono sempre di più e chiudono gli occhi sulle sopraffazioni che subisce, e con i coetanei che, ai suoi occhi, appaiono superficiali, selvaggi e intollerabili.

Dall'adolescenza in poi, il rischio che la rabbia dia luogo ad una trasformazione radicale del carattere e del comportamento, per cui il bambino d'oro diventa un adolescente ribelle e anarchico, è elevata (oggi più che mai).

Se l'assetto perfezionistico persiste, il vantaggio è relativo. L'introverso drammatizza lo scarto tra il suo modo di apparire, conforme alle aspettative altrui, disponibile, inappuntabile, e la rabbia che cova nel suo intimo, e, in conseguenza di questo, vive il suo modo apparente di essere come una maschera falsa. Ciò significa che, se anche ottiene conferme di ogni genere, egli ritiene di non meritarle, di averle conseguite in virtù di un inganno, e di fatto rimane un essere intimamente infelice.

Il bambino introverso difficile, viceversa, anche quando si comporta persistentemente male, si carica di immani sensi di colpa. Questo può dare luogo, dall'adolescenza in poi, a tragitti evolutivi diversi. Alcuni bambini difficili, prendendo coscienza di essere grandicelli, si riordinano, diventano trattabili e ragionevoli, prendono a studiare, manifestando talora eccellenti qualità. Altri si chiudono a riccio sulle loro frustrazioni, covano rabbia di ogni genere nei confronti di un mondo che non li comprende, e sono esposti al rischio di imboccare la via della devianza sociale e psicopatologica. Di questi, infatti, alcuni, per negare di sentirsi in colpa, si impongono di essere sempre più insensibili e "cattivi". Altri, infine, semplicemente crollano e pagano le loro "colpe" sotto forma di un disagio psichico.

Il paradosso dell'introversione nel nostro mondo è che una condizione di potenziale ricchezza si traduce troppo spesso in un'esistenza soggettivamente penosa o oggettivamente contrassegnata da disturbi psichici.

Se si fa eccezione per il credito assegnato al modello normativo univoco di cui si è parlato in precedenza, nessuno ha colpa di questo. Tanto meno però ce l'hanno gli introversi, che non sanno di essere diversi dagli altri, non capiscono il significato della loro diversità e sono spinti, pertanto, o a tentare di mascherarsi da normali o a vivere nell'ombra con un senso penoso di inadeguatezza e di inferiorità.

E' evidente che bisogna fare qualcosa per rimediare a questa situazione. Sarebbe inutile, però, da parte mia, fornire delle ricette. Per essere affrontato e risolto, un problema va anzitutto colto e analizzato.

L'intento primario della LIDI è indurre la presa di coscienza di tale problema. Può sembrare questo un impegno riduttivo, riferito ad una minoranza della popolazione. In realtà, esso implica un obiettivo di ordine generale.

Il disagio degli introversi nel nostro mondo è dovuto in gran parte ad un'organizzazione della società e della cultura totalmente incentrata sul modello normativo estroverso. Il problema, però, è che tale modello non funzione neppure per gli estroversi, poiché, in nome dell'efficientismo pragmatico, esso aliena l'uomo, lo spinge sul terreno di un incessante darsi da fare rivolto all'acquisizione di uno status sempre più elevato senza concedere alcuno spazio alla riflessione e all'introspezione.

Ora, per quanto si possa essere prevalente la componente estroversa si associa sempre e comunque ad una componente introversa, che implica la necessità di interrogarsi sulla propria condizione per capire (nei limiti del possibile) chi siamo, dove andiamo, se è giusto o meno quello che facciamo, se ci rende umanamente felici, ecc.

L'inibizione dell'introversione, la fuga dal raccoglimento e dalla riflessione, che caratterizza il mondo contemporaneo, e giunge in molti casi a determinare una vera e propria fobia di stare da soli, vale a dire con se stessi, è la chiave che spiega il paradosso rilevato da anni ufficialmente dall'Organizzazione Mondiale della Sanità: quello per cui la crescita del benessere materiale coincide con la crescita e la diffusione dei disturbi psichici (ansia, depressione, ecc.). Una recente proiezione dell'OMS anticipa addirittura, se questo trend continua, che i disturbi psichici, nel giro di alcuni decenni, diventeranno la "patologia" più diffusa sulla faccia della Terra.

Se gli introversi sono i soggetti più sensibili al ritmo che la società impone ad un essere il cui valore si fonda sul ritardo nello sviluppo, quel ritmo, e i modi di vivere che esso detta, sembrano ormai scarsamente compatibili con l'umanità tout-court.

7.

Non ritengo di poter dire di più sul modo di essere introverso nei limiti imposti da una Conferenza. Mi dispiace, in particolare, di non potermi soffermare sui grovigli nevrotici che, in molti casi, soffocano sul nascere lo sviluppo dei soggetti introversi o lo distorcono, e sui grovigli che intossicano l'esperienza di molti introversi adulti.

Riguardo a questi ultimi, mi limito ad una sola osservazione.

Gli introversi, nella stragrande maggioranza, sono esseri assolutamente inoffensivi. Non meno di nove introversi su dieci, però, nutrono fin dall'infanzia nel loro intimo rabbie terribili nei confronti del mondo così com'è: mediamente piuttosto superficiale, rozzo e ingiusto per tanti aspetti. Negli adulti, tali rabbie persistono e danno luogo, nonostante le apparenze sempre corrette e rispettose, ad un atteggiamento interiore ipercritico e intollerante.

Certo, si tratta di un limite del modo di essere introverso, che fa sì che gli introversi rimangono vincolati al "sogno" di un mondo giusto, delicato e solidale e misurano il mondo reale alla luce di tale modello, arrabbiandosi ogni volta sperimentano la distanza di quello da questo.

Gran parte delle problematiche psicologiche degli introversi fanno capo a questa rabbia, che viene sistematicamente colpevolizzata perché avvertita come terribilmente contrastante con l'innata sensibilità sociale. Molti introversi giungono addirittura a pensare che la loro vera natura sia rabbiosa e aggressiva, dunque negativa.

E' questa attribuzione di negatività che determina il disagio sociale, la timidezza, la vergogna e la paura di essere smascherati. Questi aspetti, colti come espressivi dell'introversione in sé e per sé, sono dunque fenotipici: sono, insomma, indizi di uno sviluppo evolutivo già pesantemente contrassegnato dall'interazione con l'ambiente.

Consiglio, ovviamente, a chi volesse approfondire queste tematiche, di leggere il saggio Sei Introverso? e di visitare il sito della LIDI (www.legaintroversi.it).

Prima di concludere, a rischio di ripetermi, vorrei dire due parole sul significato ultimo dell'introversione e sul perché la natura, dalla notte dei tempi, insiste a produrre corredi genetici che, nel nostro mondo in particolare, appaiono in genere disfunzionali sotto il profilo adattivo.

Creando l'uomo, la natura ha commesso un azzardo poiché la specie umana, a differenza di tutti gli altri animali, è sprovveduta di strumenti istintivi di adattamento e di difesa, e, per di più, ha uno sviluppo ritardato. L'azzardo è consistito nel vedere come se la sarebbe cavata una specie così anomala. Ormai sappiamo come se l'è cavata: producendo la cultura, vale a dire strumenti tecnologici, beni materiali e beni "spirituali" (idee, codici di comportamento, norme morali, ecc.).

Tra cultura materiale e cultura spirituale si dà, però, una differenza essenziale.

Lo sviluppo della tecnologia e la produzione di beni materiali non ha avuto un ritmo costante: in alcuni periodi storici esso è stato lento, in altri (come il nostro) celere e quasi vorticoso. Nonostante i ritmi diversi, esso però è stato continuo.

Per quanto concerne la cultura "spirituale", invece, il discorso è diverso. Se si fa riferimento alla filosofia, all'arte, alla letteratura, alla religione, alla scienza è facile identificare periodi di sviluppo rigoglioso (Grecia antica, Islam medievale, Rinascimento europeo, Ottocento europeo, ecc.). Se, invece, si fa riferimento ai codici normativi e alle norme morali, ci si trova di fronte ad un'incredibile inerzia. Faccio solo due esempi.

La schiavitù è stata ritenuta una legge di natura dagli albori della storia sino alla metà dell'Ottocento. La distinzione tra ricchi e poveri è stata avallata dalla Chiesa come espressiva dell'imperscrutabile volontà divina sino ai primi dell'Ottocento. Ancora ai primi del Novecento, in Occidente, il diritto di voto veniva negato alle donne.

Che significano fenomeni del genere che, a posteriori, sembrano aberranti? Nè più né meno che, una volta prodotte, alcune idee o norme o valori sono naturalizzate, vale a dire vengono vissute dalla maggioranza della popolazione come equivalenti a leggi di natura.

Per evitare che la cultura si cristallizzi, trasformandosi in senso comune, vale a dire in un'alienazione scambiata per normalità, c'è bisogno che qualcuno continui ad esplorare i mondi e i modi di essere possibili per l'umano.

In quanto esploratori del mondo interiore e delle sue dimensioni aperte all'infinito, gli introversi hanno svolto e svolgono questa funzione indispensabile: mettere in discussione il reale in nome del possibile. Ciò è comprovato, appunto, dal numero rilevante di introversi che si ritrovano tra le file dei filosofi, degli artisti, degli scienziati, dei fondatori di religioni, dei dissidenti e dei rivoluzionari, ecc.

C'è, però, un altro aspetto intrinseco all'introversione il cui significato è ancora più profondo. Nonostante le rabbie che spesso albergano, le quali fanno riferimento ad uno stato di cose esistente intollerabile, in quanto vincolato ad una normalità mediamente egoistica, competitiva, superficiale e aggressiva, gli introversi sono i depositari di un "sogno" (quello di un mondo umanizzato, solidale e "nobile") che, valutato razionalmente, si può considerare espressione di un ingenuo idealismo che non cede alla constatazione del mondo così com'è.

Si può anche pensare, però, che essi siano i precursori di un cambiamento, di un ulteriore ingentilimento della specie umana, destinato un giorno o l'altro a prodursi. Dato lo stato di cose esistente nel mondo, forse questo "sogno" è l'unica speranza di salvezza per la specie umana.