Introversione e interazione sociale (1)


1.

La storia di M., che ho pubblicato in Nilalienum (Il significato funzionale dei sintomi psicopatologici 5) e alla quale ho fatto riferimento nell'articolo Lavoro e Introversione (1), può fornire lo spunto per riflettere sul problema più ampio delle varie circostanze di interazione tra introversione e mondo sociale.

M., come ho scritto, è un giovane che costruisce la sua personalità sulla base di un modello perfezionistico incentrato sul rispetto degli altri, sull'educazione e sulla compitezza. Egli da bambino e da adolescente non avverte mai un bisogno particolare di stabilire con gli altri rapporti di familiarità, di amicizia o di affetto. La sua socializzazione a livello scolastico è buona perché egli è apprezzato dai grandi per il suo rendimento e dai coetanei per la sua semplicità e bontà.

Nel corso degli anni dedicati agli studi universitari, con l'affanno di non sprecare un solo minuto, M., per qualche tempo, frequenta due amici con caratteristiche affini. Gli impegni di studio lo portano poi a lasciar cadere anche queste relazioni.

Gli ultimi due anni di Università sono, di fatto, caratterizzati da una solitudine totale soggettivamente tollerata senza alcun disagio. M. studia con passione, ricava grandi soddisfazioni dai risultati che consegue e vede davanti a sé un futuro abbastanza roseo.

Sotteso dalle numerose conferme accumulate nel corso degli anni, il progetto di vita di M., infatti, si incentra sull'aspettativa ingenua, ricavata dal contesto familiare piccolo-borghese, che se un soggetto fa il suo dovere, si impegna ed esibisce un comportamento compito e corretto, tutto nella vita fila liscio.

L'accesso la mondo del lavoro mette in crisi questa ideologia. M. in effetti fa il suo dovere, ma in preda ad un'ansia perfezionistica estrema. La sua dedizione al lavoro è a tal punto cieca che egli si inchioda al computer dall'inizio alla fine dell'orario di lavoro, sbocconcella nell'ora di pausa un panino senza allontanarsi dalla "stazione" e non spreca un solo minuto nell'intrattenersi con i colleghi di lavoro. Certo, egli mantiene nei loro confronti un comportamento che oggettivamente è corretto: li saluta immancabilmente quando arriva (o quando essi arrivano) e quando vanno via (quasi sempre prima di lui).

Non si rende conto che il suo perfezionismo per un verso (che gli consente di ottenere fuori busta gratificazioni economiche di cui gli altri vengono a sapere qualcosa) e il suo formalismo per un altro, per cui egli non concede alcuna confidenza ai colleghi, attiva in essi (o almeno in alcuni) delle reazioni emotive negative di invidia, antipatia e avversione.

Dato che una circostanza interattiva del genere non rientra nell'ambito delle aspettative di M., che ritiene che un comportamento inappuntabile come il suo, non possa suscitare negli altri che un moto di stima e di simpatia, il registrare emozioni negative ha un effetto interiormente sconvolgente.

Scoprendo repentinamente la gratuita, incomprensibile e irrazionale cattiveria del mondo, e non potendo dare ad essa senso, M. imbocca la via del delirio di riferimento, cominciando ad avvertire un'ostilità diffusa anche fuori dell'ambiente di lavoro. Il delirio poi, nel corso del tempo, assume una configurazione persecutoria, poiché, oltre che avversato, M. giunge a sentirsi oscuramente minacciato.

E' evidente che l'esperienza di M. si presta ad un'interpretazione di tipo cognitivista: in ultima analisi, il delirio di riferimento si avvia sulla base di un'interpretazione errata della situazione che si realizza nell'ambiente lavorativo. In realtà, l'approccio cognitivista, anche in un caso del genere, è superficiale. La proiezione sul mondo intero del giudizio negativo e dell'avversione dipendono da un fattore emozionale. Quando M. recepisce l'avversione dei colleghi, non ritenendola giustificata (a ragione) né comprensibile (a torto), egli, che ha un senso di giustizia rigoroso, nel suo intimo si arrabbia a morte, ed è la rabbia, attraverso il consueto meccanismo di colpevolizzazione, ad avviare il circolo vizioso per cui più si arrabbia, più si sente avversato, ecc.

2.

L'esperienza di M. è inconsueta ñ per i suoi sviluppi psicopatologici -, ma esemplare di un problema che concerne il rapporto degli introversi con il mondo sociale.

A riguardo, ovviamente, non si dà una formula univoca perché, su un fondo comune, l'introversione riconosce organizzazioni della personalità piuttosto differenziate sotto il profilo interattivo: dall'estremo di un'accondiscendenza totale, per cui l'introverso è sempre e solo quello che gli altri desiderano che egli sia, all'estremo opposto di una diffidenza più o meno marcata, che si traduce spesso nel ben noto atteggiamento di cupa chiusura in rapporto agli altri. Per quanto differenziata, la gamma degli atteggiamenti interattivi comporta però una banda intermedia che si può ritenere percentualmente maggioritaria, caratterizzata da un atteggiamento sociale formalmente corretto, compito e inappuntabile, ma più o meno riservato.

Di questi due aspetti, il primo non è difficile da interpretare. Affetto di solito da un vissuto di insicurezza, di inadeguatezza, di percezione della propria diversità in termini di inferiorità in rapporto agli altri, l'introverso, a livello di interazione sociale, cerca di comportarsi nella maniera la più normale possibile per sentirsi confermato. La normalità è la forma, l'agire un comportamento corretto e adeguato alle circostanze. In questo modo di agire, indubbiamente, l'introverso riversa anche il suo innato rispetto per gli altri e la sua (ugualmente innata) signorilità, ma, spesso, l'irrigidimento formale giunge a mortificare questi valori.

Già solo per questo aspetto, l'introverso, nelle situazioni di esposizione sociale, rischia di attivare un giudizio positivo ma associato ad un'emozione negativa (di disagio o di antipatia).

Il secondo aspetto ñ la riservatezza ñ è invece parecchio più complesso da analizzare. Il termine riservatezza si riconduce ad una famiglia di parole la cui matrice è il verbo serbare ñ tenere da parte qualcosa -, sinonimo di conservare o custodire. Riservare, composto da quel verbo e da un prefisso rafforzativo, sta per tenere in serbo, vale a dire mettere da parte qualcosa in vista di un futuro utilizzo o di una destinazione particolare. Riservatezza, infine, come termine psicologico, ha due significati: se è in gioco un segreto, essa equivale a discrezione,vale a dire alla capacità di custodirlo (un tratto di carattere solitamente ritenuto positivo); se è in gioco l'intimità, il significato oscilla, a seconda delle circostanze, dalla discrezione, intesa come cautela o modestia, alla chiusura. La riservatezza degli introversi, a livello di interazione sociale, assume quasi sempre la valenza negativa implicita nell'ultimo termine. Non è un caso che, a livello di senso comune, introverso e chiuso sono quasi sinonimi, e la sinonimia non ha mai un significato descrittivo, neutrale: essa implica qualcosa che non è (almeno del tutto) normale.

E' evidente che l'accezione negativa dipende dal riferimento alla normalità estroversa, caratterizzata da una capacità di contatto e di comunicazione con gli altri nelle più varie circostanze della vita sociale che rappresenta un'apertura, una sorta di fiducia e di credito ad essi accordato e l'indizio di una personalità che non ha nulla da nascondere.

Se si vuole capire un po' meglio il rapporto tra introversione e interazione sociale, occorre però andare al di là di questo riferimento (che pure rimane importante).

3.

Come è stato ipotizzato e confermato nell'ambito della sociologia e della psicologia sociale (un testo di riferimento a riguardo è E. Goffman, Il comportamento in pubblico, Einaudi, Torino 1971), esistono in ogni società regole implicite che governano la comunicazione interpersonale. Una di queste riguarda la modulazione del comportamento in rapporto al grado di familiarità o di estraneità che si dà tra due o più soggetti.

E' agevole rendersi conto dell'esistenza di questa regola facendo riferimento a due circostanze interattive piuttosto frequenti.

Se incontro per strada un amico e, per distrazione, non lo saluto, accade spesso che egli richiami la mia attenzione. Quando prendo atto di non averlo riconosciuto, avverto un senso di disagio, come se gli avessi fatto un torto, e il mio atteggiamento cambia repentinamente, adattandosi al grado di familiarità del rapporto.

Può accadere anche il contrario. Per strada, scambiando uno sconosciuto per un amico con cui ha una qualche somiglianza, gli sorrido e lo saluto con la mano. La sua perplessità mi fa prendere atto dell'errore commesso e mi induce a scusarmi con un certo imbarazzo, poiché mi sono rivolto a lui in una maniera che non è autorizzata dalla relazione di estraneità.

L'interazione sociale, insomma, è governata dalla categoria familiare/estraneo (in tutte le sue possibili gradazioni).

Si tratta di una categoria intrinseca all'apparato mentale umano, tanto è vero che l'affiorare, intorno all'8" mese, della reazione di angoscia nei confronti dell'estraneo, che determina una scissione dell'universo sociale in due sfere ñ l'una limitata ai genitori e ai parenti, l'altra estesa al resto del mondo -, viene ritenuto un momento fondamentale dell'evoluzione della personalità, a partire dal quale crescere significa sostanzialmente familiarizzare con il mondo spostando, in qualche misura, quel rigido confine.

Il fondamento genetico di questa categoria è, dunque, fuor di dubbio. Essa, però, per quanto concerne la sua modulazione, dipende dal contesto ambientale e dalla tipologia della personalità.

Il primo aspetto è immediatamente comprovato dall'apparente familiarità che intrattengono i membri di un paese, che si conoscono tutti, e dall'anonimato che vige nelle città, laddove ogni soggetto conosce un numero molto ridotto di cittadini. Oltre che da processi legati allo sviluppo socioeconomico, la città nasce, infatti, anche dall'esigenza di affrancarsi dal controllo sociale totalizzante che vige nel paese. L'aria della città rende liberi è stato un motto proverbiale dalla seconda metà dell'800 fino ad alcuni decenni orsono.

L'anonimato urbano, che consente a ciascuno, protetto dalla privacy, di ritagliarsi un piccolo mondo e di poter interagire con gli tutti gli altri sul registro delle comuni regole della convivenza civile, non è però esente da problemi.

Uno di questi, che ha un certo rilievo nelle esperienze introverse, concerne le situazioni di interazione che, per il loro costante ripetersi, giungono a porsi come intermedie tra l'estraneità e la familiarità.

La situazione lavorativa, che ha tanto inciso nel determinare la crisi di M., è una di queste. Quando ci si inserisce in un ambiente di lavoro e si ha rapporto con i colleghi (oltre che con i capi), si parte da una condizione reciproca di estraneità, per cui la regola comunicativa è la correttezza formale. Via che passa il tempo, però, la regola cambia. Gli altri (soprattutto i colleghi) nutrono l'aspettativa che, prima o poi, si instauri una qualche familiarità sul registro della conoscenza, dello scambiare delle opinioni, dell'utilizzare le pause per stare insieme, ecc. Chi rimane attestato su di un registro comunicativo formale, per cui il rapporto si riduce al buongiorno e all'arrivederci, è esposto inesorabilmente al rischio di andare incontro ad un giudizio negativo. Quel comportamento, infatti, viene sistematicamente interpretato come espressivo di una volontà di mantenere le distanze, al di sotto della quale si presume che si dia o un senso di superiorità scostante e sprezzante o, viceversa, qualche problema psicologico che inibisce l'individuo. In entrambi i casi il rapporto del gruppo con l'introverso si negativizza.

M. ritiene ingiusta e incomprensibile l'avversione che, ad un certo punto, avverte da parte dei colleghi. Essa, come ho accennato, è ingiusta, ma niente affatto incomprensibile, poiché corrisponde di fatto alla violazione di una regola interattiva implicita.

Alla stessa conclusione si arriva tenendo conto di altre circostanze più banali, ma ugualmente significative.

Se, per esempio, un soggetto frequenta abitualmente persone con cui intrattiene un rapporto solo commerciale (il giornalaio, l'esercente di un bar, il droghiere, ecc.), il rapporto di sostanziale estraneità, legato ai ruoli di acquirente e di venditore, non dovrebbe implicare alcun comportamento che vada al di là della correttezza. Anche in casi del genere, però, se dopo alcuni mesi, il rapporto rimane attestato da parte dell'acquirente sul registro della formalità - per cui saluta, chiede ciò che gli interessa, paga e ringrazia -, è inevitabile che da parte del venditore si mobiliti, associato al riconoscimento di avere a che fare con una persona educata, una certa antipatia dovuta al fatto che egli sente di esistere solo in virtù del ruolo che esercita e di non esistere come persona.

4.

A qualcuno problemi del genere potranno sembrare di lana caprina, inutili sottigliezze che hanno poco a che vedere con il fatto inconfutabile che, misurato alla luce del modello estroverso, l'introverso nel nostro mondo viene pregiudicato.

Io ritengo, invece, che siano più importanti di quanto comunemente si pensi, perché l'interazione sociale è un aspetto continuo dell'esperienza soggettiva, e l'avvertire, più o meno consapevolmente, da parte degli introversi, un'antipatia di fondo che sottende gran parte dei rapporti quotidiani contribuisce ad incrementare l'immagine interna negativa che hanno di se stessi e/o ad alimentare un'avversione nei confronti del mondo per la sua superficialità e la sua "irrazionalità".

Ciò non significa che l'introverso debba fare violenza a se stesso e accettare supinamente le regole interattive vigenti nella nostra società. Si danno però a riguardo due possibili modi di rapportarsi al sociale che limitano o scongiurano quelle conseguenze.

Il primo, più ovvio ma anche più immediatamente realizzabile, è prendere atto che esistono, nel nostro contesto sociale, regole interattive implicite che possono essere violate. In tal caso, però, le reazioni degli altri, in quanto comprensibili, vanno accettate e tollerate, mettendo da parte il riferimento al fatto che esse siano o meno giuste in assoluto. Si può prendere atto, insomma, che la correttezza formale induce negli altri un'ambivalenza. Essa viene riconosciuta come un valore (in riferimento alla compitezza), ma, nello stesso tempo, genera una reazione avversativa di antipatia.

Il secondo modo è più complesso e richiede un livello elevato di integrazione della personalità. Esso si fonda sul fatto che l'altro con cui si realizza un'interazione ricorrente o quotidiana, per quanto possano darsi differenze sul piano dell'affinità tali per cui stabilire un'autentica familiarità è impossibile o semplicemente non desiderato, è pur sempre, al di là del suo ruolo, una persona bisognosa di essere riconosciuta come tale.

Questo modo si riconduce alla pietas, vale a dire alla considerazione che gli esseri umani, al di là delle distorsioni che subiscono in rapporto ai condizionamenti culturali, hanno delle intrinseche "debolezze" di cui non si può non tenere conto. Essi, infatti, hanno bisogno di sentirsi confermati nella loro identità personale per sfuggire all'angoscia della loro insignificanza ontologica. Nulla più dell'essere costantemente investiti da un comportamento corretto ma impersonale promuove, nel corso del tempo, una reazione di avversione e rigetto.

Certo, entrambi le possibili soluzioni del problema interattivo urtano contro la stessa obiezione. Perché mai l'introverso dovrebbe sforzarsi lui solo per rendere il mondo sociale più tollerabile o, addirittura per migliorarlo, laddove gli altri possono tranquillamente continuare a vivere così come gli viene? La risposta è univoca: semplicemente perché gli conviene e gli consente di vivere un po' meglio nel mondo così com'è.

Ulteriormente, forse, cercherò di analizzare gli altri moduli interattivi che si riconducono allo spettro comportamentale dell'introversione.