1.
Una prova indiretta del fatto che l'introversione in sé e per sé è di natura genetica è rappresentata, a mio avviso, dall'illuminazione che, in parecchi soggetti, sopravviene in seguito alla lettura del Saggio. Essi si riconoscono in gran parte dei vissuti che sono esposti e analizzati al punto che alcuni, con i quali ho intrattenuto o intrattengo un rapporto terapeutico, sono giunti a pensare che il libro sia stato scritto sulla base della loro esperienza o addirittura per loro. Anche lettori a me del tutto ignoti mi hanno scritto affermando di essersi riconosciuti. L’illuminazione riguarda ovviamente sia le caratteristiche che ho definito genotipiche dell'introversione sia gli sviluppi, più o meno negativi, che intervengono in seguito all'interazione con l'ambiente. Le une dipendono dal corredo genetico, le altre dal fatto (essenziale nell’ottica della teoria psicopatologica struttural-dialettica) che i conflitti psicodinamici, i quali si definiscono sulla base dell’interazione con l’ambiente, si esprimono secondo modalità psicodinamiche invarianti.
Anche quest’ultimo aspetto dipende dalla genetica dei bisogni intrinseci. Ma è il primo che qui interessa.
Tra i vari vissuti che caratterizzano le carriere di vita degli introversi, il più universale in assoluto è quello legato alla presa di coscienza, che interviene a partire da cinque-sei anni, ma che, negli introversi, appare di solito ritardata, di come stanno le cose nel mondo. Tale presa di coscienza è univocamente dolorosa, perché la realtà è molto distante dal “sogno” intrinseco all’introversione. Si potrebbe ricondurla ad un persistente infantilismo, se non fosse che quel sogno, quando le cose vanno bene, di fatto si realizza nella forma di un modo di essere soggettivo e di una pratica sociale, affettiva e culturale che lo designano come non utopistico in rapporto alla natura umana.
L'unica reazione all’ambiente che sembra estranea alla predisposizione è il desiderio di cambiare radicalmente pelle, che, in alcuni casi, dà luogo ad un'identificazione immaginaria con un modo di essere opposto, più o meno estrovertito. Non è un caso, però, che questo tentativo urta solitamente, a livello inconscio, contro un ostacolo che, se non lo frustra, lo rende disfunzionale e improduttivo.
Tradire il proprio modo di essere non è consigliabile per gli introversi perché l'essere o meglio il diventare se stessi corrisponde ad una vocazione geneticamente determinata. Ma che cosa significa questo con precisione?
Una risposta di ordine generale si può ricavare proprio dai tentativi di cambiare pelle che hanno esiti del tutto negativi. I sintomi che sopravvengono in conseguenza di tali tentativi - dal panico alla depressione e al delirio persecutorio - attestano che l'inconscio si ribella e protesta contro un maltrattamento, anche se il soggetto non ne è consapevole. Ma in nome di cosa l'inconscio protesta se non di vincoli naturali, per esempio di una sensibilità sociale che va coltivata piuttosto che anestetizzata?
Questa strana circostanza per cui gli introversi giungono inesorabilmente a soffrire orientandosi in una direzione che, nelle loro intenzioni, dovrebbe esitare in un maggior benessere, è di fondamentale importanza per portare avanti la riflessione dell'incidenza dei fattori genetici sull'introversione.
Ho parlato di vincoli: termine ambiguo che evoca una coercizione. Di fatto, i vincoli in questione non sono coercitivi se non nella misura in cui definiscono i limiti naturali all'interno dei quali il soggetto può svilupparsi rimanendo fedele alla sua vocazione ad essere.
Il concetto di limite dello sviluppo della personalità introversa può illustrato in maniera elementare. Dato l'insieme x dei possibili modi di essere intrinseci al genoma umano, che sono indefiniti per quanto non infiniti, l'introversione rappresenta un sottoinsieme che riconosce ampie potenzialità di sviluppo ma entro limiti contrassegnati dai vincoli genetici. Le potenzialità di sviluppo comportano che, al di là della fase evolutiva e fino alla fine della vita, gli introversi rimangono plastici per quanto concerne l’apprendimento: essi, in altri termini, maturano, migliorano, si arricchiscono, ecc.
I vincoli genetici per eccellenza sono l'empatia, il senso di giustizia e l'apertura mentale. L'empatia promuove una tendenza spontanea ad identificarsi con chi soffre e limita la possibilità di danneggiare gli altri. Il senso di giustizia implica la difficoltà di accettare e di adattarsi a circostanze di vita che comportano la violazione della dignità dell'essere umano sia in sé che negli altri. L'apertura mentale implica l'esigenza di capire in termini sempre più profondi la realtà umana e non umana.
Sui primi due aspetti mi sono soffermato già molte volte. Essi sono intimamente, anche se non univocamente, correlati. L'empatia umanizza nella misura in cui comporta l'intuizione che ogni soggetto è dotato di un suo mondo interiore che può essere compreso come espressione dell'umano. Il senso di giustizia, viceversa, attiva reazioni emotive di indignazione e di rabbia quando l'introverso si confronta con comportamenti altrui lesivi della dignità propria o di altri esseri umani. Essa fa riferimento al principio per cui nessun essere umano dovrebbe far soffrire, maltrattare, opprimere o, al limite, sopprimere un simile.
La dinamica di questi due aspetti è complessa. Nella misura in cui l'empatia si mantiene, il senso di giustizia scorre entro canali che associano alla indignazione la comprensione critica dei motivi per cui gli esseri umani possono comportarsi in maniera alienata o lesiva dei diritti altrui. Spesso però, paradossalmente, l'identificazione con coloro che subiscono questi comportamenti è tale che la rabbia anestetizza l'empatia, dando luogo alla demonizzazione dell'aggressore, del prepotente, del violento. Questa è la matrice della sindrome di Robespierre su cui mi sono soffermato altrove.
Il terzo aspetto – l'apertura mentale – richiede qualche riflessione, perché può essere facilmente malintesa.
L'apertura mentale (openess) è una delle cinque dimensioni o fattori che gli psicologi utilizzano per definire la personalità. Gli altri quattro sono: conscentiousness, extroversion, agreeableness e neuroticism. Si tratta di una teoria discutibile nella misura in cui assume come modello implicito di riferimento un soggetto aperto alle novità, coscienzioso, estroverso, affabile, socievole e tranquillo, vale a dire un soggetto normale nell'ottica dello stereotipo borghese. Nell’ottica di tale teoria, l'introversione non viene di solito considerata associata all'apertura mentale in questione, che fa riferimento alla flessibilità adattiva ai cambiamenti sociali.
Di fatto, l'apertura mentale degli introversi è di ordine particolare. Essa comporta un interesse vivo per l'umano in tutte le sue dimensioni, sotteso da una tendenza ad interrogarsi sulle contraddizioni che lo caratterizzano. Più che un intento di adattamento sociale, essa comporta una valutazione dello stato delle cose sulla base di un modello ideale, di come gli uomini dovrebbero essere. Questo orientamento spiega la suggestione che gli introversi hanno nei confronti della filosofia, della letteratura, dell'arte, vale a dire di tutte le discipline che sondano l'universo dei mondi e dei modi di essere possibili.
L'umano è una polarità che esercita sugli introversi una suggestione permanente, ma non è l'unica. Di fatto nello spettro introverso rientrano anche coloro che subiscono meno il fascino dell'umano che non quello, per esempio, della natura o degli animali. Al limite estremo, una quota di introversi sono attratti prevalentemente dagli universi simbolici in sé e per sé. Un certo numero di matematici e di fisici rientrano in questa categoria. Per quanto la rigorosa applicazione del metodo logico possa far pensare che essi rappresentano un'eccezione rispetto alla legge per cui l'introversione è caratterizzata da un corredo emozionale molto intenso, ciò non è vero. Quando si dedicano alla manipolazione dell'universo dei simboli, matematici e fisici sperimentano emozioni di particolare intensità.
In breve, l'apertura mentale intrinseca al modo di essere introverso fa riferimento piuttosto che al mondo reale, sociale, all'universo dei mondi possibili. Tra questi mondi si dà anche quello fatto a misura d'uomo, che essi, se non sono gravati da troppi problemi, cercano di realizzare e di cui sono testimoni nel loro modo delicato ed empatico di entrare in relazione con gli altri, soprattutto con coloro che soffrono.
Con queste considerazioni sembra che ci si sia allontanati dalla tematica del rapporto tra genetica e introversione. Esse invece ci portano in medias res.
2.
Numerosi misteri ancora gravano sulla nascita della specie umana e sull'apparato mentale che l'ha promossa. Un dato, però, sembra poco confutabile: il carattere spiccatamente neotenico del cervello umano, che, in virtù di un ritardo della maturazione enorme rispetto a quello degli altri primati, ha prodotto sia modificazioni caratteriali di tipo pedomorfico (con un netto aumento della socievolezza e il mantenersi per sempre di una curiosità esplorativa) sia la crescita della neocorteccia frontale.
La neotenia, insomma, ha inciso sia sul mondo delle emozioni che su quello della Ragione. Tra i due aspetti si dà un'intima correlazione. Il mantenersi nell'uomo del pedomorfismo emozionale non è stato solo funzionale all'ingentilimento della specie, alla strutturazione del gruppo sociale sulla base dell'empatia e della solidarietà, alla nascita della famiglia e al rapporto di identificazione dei membri adulti con i bambini. Esso, in virtù della ricchezza dell'immaginazione e della fantasia che caratterizza l'emozionalità infantile e, soprattutto, in virtù della dilatazione del mondo delle emozioni sul registro dell'infinito, ha rappresentato la matrice del pensiero che si è ritrovato ad esplorare l'universo dei mondi possibili che esso ha arricchito e strutturato simbolicamente.
Se valorizziamo la correlazione tra emozionalità pedomorfa e pensiero simbolico arriviamo ad intuire che essa implica una legge tendenziale intrinseca all'apparato mentale umano. Tale legge comporta che il mantenersi di un mondo emozionale la cui ricchezza di fantasia e di immaginazione ostacola la cattura della mente a livello percettivo, impedendo al soggetto di calarsi totalmente nell'infinito presente del reale, che rappresenta la dimensione vissuta da tutti gli altri animali, è direttamente proporzionale all'intensità dell'attività cognitiva e simbolica, che non ignora la realtà fattuale ma non può prescidere dall'universo dei mondi possibili, immaginari e simbolici.
In questa ottica, l'introversione rappresenta la massima espressione di questa legge, la punta estrema di uno sviluppo evolutivo della specie sul registro dell'allentamento della cattura percettiva e dell'apertura ai mondi possibili. Una straordinaria capacità riflessiva associata e sottesa ad un sentire vivo sia nella direzione dell'umano che in quello della natura e/o degli oggetti culturali: questa è, a mio avviso, la definizione più pregnante del modo di essere introverso. Una definizione che, alla luce di quanto detto, appare comprensibile in termini genetici.
Con ciò, naturalmente, non sono risolti tutti i problemi teorici.
La genetica comportamentale, vale a dire la disciplina che studia il comportamento degli individui riconducendolo all'azione dei geni, è recente ed è inficiata, se non addirittura negli studiosi nelle traduzioni pubblicistiche dei risultati che essi raggiungono, da un certo determinismo biologico.
Occorre intanto restaurare il significato scientifico della disciplina. Indagare il rapporto tra geni e comportamento non ha nulla a che vedere con l’intento di stabilire relazioni lineari di causa/effetto. La formula che ha inaugurato la disciplina – un gene, un comportamento -, formula più propagandistica che reale, è stata ormai sormontata in nome del fatto che la complessità del comportamento umano, a tutti i livelli, implica sempre e comunque il coinvolgimento di diversi geni il cui numero si ammette che sia solitamente elevato.
Se ciò è vero per quasi tutti i comportamenti, quando si arriva a livello della personalità e dei modi di essere attraverso cui essa si esprime, il polimorfismo genetico non è ormai più negato da alcun studioso.
In questa ottica, la distinzione tra introversione e estroversione si può ritenere essenziale, per quanto problematica. Essa, infatti, nell’ambito della teoria della personalità, è l’unica che si può ritenere universale poiché fa riferimento all’attrazione originaria e persistente nel tempo che sul soggetto esercitano rispettivamente il mondo interno e quello esterno: un’attrazione nella quale è difficile non identificare l’influenza dei geni.
Ma come si realizza tale influenza?
L’ipotesi più probabile è che essa sia da ricondurre all’intensità del patrimonio emozionale.
Ormai è universalmente riconosciuto che lo scorrimento originario delle emozioni corrisponde ad un’attività intrinseca del cervello, che precede quella cognitiva. E’ anche riconosciuto che le emozioni funzionano come una sorta di filtro per tutte le informazioni che il soggetto riceve dal mondo esterno, ovvero che le percezioni vengono “qualificate” prima di arrivare ai centri corticali.
Se si ammette che questo filtro funziona in maniera più attiva negli introversi e meno attiva negli estroversi si ha la chiave esplicativa del fatto che, negli uni, le percezioni assumono un significato soggettivo, mentre negli altri esse mantengono un significato prevalentemente oggettivo.
E’ su questa base, a mio avviso, che si realizzano due modi di essere differenziati tra loro, ma che non vanno contrapposti poiché, non dandosi un’introversione e un’estroversione pura in alcun soggetto, nulla vieta che gli introversi, nel corso della vita, accomodino i loro vissuti attraverso una conoscenza maggiore degli oggetti, e che gli estroversi comprendano quanto di soggettivo c’è comunque nella loro interpretazione del mondo oggettivo.
Il nodo genetico è, dunque, legato ad un diverso patrimonio emozionale: più ricco negli introversi, meno negli estroversi. Ma come si determina su base genetica un potenziale emozionale più o meno ricco? Il mistero è ancora denso.
Per quanto oggi, le ricerche neurobiologiche sugli animali (soprattutto legate all’opera di Le Doux) hanno fornito molte informazioni di interesse su alcune strutture sottocorticali legate alle emozioni, a livello umano, pur riconoscendo che tali strutture sono attive, il problema è molto più complesso.
Il dato, su cui non mi stancherò di insistere, è che se le emozioni di base (paura, rabbia, gioia, tristezza, piacere, dolore, ecc.) sono rappresentate negli animali e nell’uomo, l’emozionalità umana ha una dimensione sua propria che non ha riscontro alcuno negli animali: la sua apertura all’infinito, che sottende l’orizzonte previsionale della coscienza, e che riverbera sulle emozioni di base che solo nell’uomo si infinitizzano.
Su questo dato, la neurobiologia è del tutto muta, e comprensibilmente, perché esso implica una modificazione strutturale globale del cervello nella quale sono coinvolti un numero indefinito ma sicuramente elevato di geni. Nonostante il mistero, questo è il nodo da sciogliere per giungere ad una comprensione profonda dell’apertura all’infinito della mente umana sulla base della dilatazione dell’orizzonte emozionale, che ha permesso ad essa di creare, penetrare e indagare l’universo dell’immaginario, del simbolico.
Dato però che l’orizzonte previsionale aperto all’infinito è universale, concerne cioè tutti gli esseri dotati di un cervello umano, c’è da chiedersi che cosa significhi la differenziazione intervenuta tra introversione e estroversione, il cui spettro combinatorio comporta in una quota minoritaria di soggetti una prevalenza dell’introversione.
Per ora, si può procedere solo sul piano (sdrucciolevole) delle ipotesi. Si può solo dire che, come nell’ambito della logica, si riconoscono diversi infiniti, gli uni maggiori degli altri, qualcosa di analogo, mutatis mutandis, deve valere anche per l’emozionalità umana. L’intuizione emozionale dell’infinito potrebbe intendersi come un “contenitore” entro il quale il fascino esercitato dall’immaginazione e dai simboli è diverso da persona a persona.
Negli introversi il contenitore dovrebbe essere molto denso, negli estroversi meno (eccezion fatta per gli estroversi iperdotati).
Il significato evoluzionistico di questa diversa densità è misterioso. L’intuizione emozionale dell’infinito, come ha “donato” all’uomo la consapevolezza di essere finito e destinato a finire, così lo ha sollecitato a progettarsi, a vivere il presente in rapporto al futuro. Una volta creato, il contenitore è stato utilizzato dall’uomo per scopi che trascendono la logica dell’evoluzione.
Si tratterebbe, dunque, di un fenomeno che, per utilizzare il linguaggio di Gould, si potrebbe definire esattamento, vale a dire un uso che l’uomo ha fatto di potenzialità intrinseche alla struttura del cervello che la natura ha prodotto con lo scopo unico di promuovere la trasformazione dell’ambiente naturale per compensare il drammatico allentamento degli istinti intervenuto con la comparsa della specie umana. Si tratterebbe di uno scopo adattivo che sicuramente comportava la solidarietà empatica e cooperativa tra i membri del gruppo, ma che, in sé e per sé, si sarebbe potuto realizzare anche in difetto di un mondo simbolico e, forse, addirittura del linguaggio.
Per ora, al di là di questo non si può andare.