Genetica e Introversione (2)


1.

L'articolo precedente ha proposto l'ipotesi forse sorprendente, ma niente affatto azzardata per cui, posto che l'uomo è un animale per eccellenza neotenico, l'introversione rappresenterebbe uno spettro estremo del ritardo dello sviluppo il cui significato sarebbe quello di valorizzare al massimo grado il patrimonio emozionale, mantenendolo persistentemente vincolato ad una modalità originaria (da "cuccioli").

L'ipotesi può risultare sgradevole solo a chi vi legge il riferimento ad un infantilismo emozionale. In realtà, essa comporta solo il mantenersi di una ricchezza, di una plasticità e di una creatività emozionale che sono tipiche del mondo delle emozioni allo stato nascente, e che di solito tendono ad appiattirsi in conseguenza dello sviluppo della personalità, laddove esso persegue come suo unico obbiettivo l'adattamento al mondo esterno.

Se questo è vero, la chiave esplicativa dell'introversione concernerebbe l'irriducibilità del patrimonio emozionale ad un processo di normalizzazione, presente in qualche misura in ogni società, che sollecita il soggetto ad aderire al senso comune e, in ultima analisi, alla formula secondo la quale il reale è razionale. Quel patrimonio, infatti, comporta l'intuizione che la realtà stessa si fonda su di una rete complessa di significati e che, al di là di essa, si dà un mondo possibile, un universo immaginario e simbolico.

Il discorso è a tal punto complesso che richiede di procedere con molta cautela.

C'è da chiedersi, infatti, anzitutto perché la genetica, anziché tentare di valutare il peso globale dell'emozionalità nell'organizzazione della personalità umana, insiste ad identificare nell'introversione non già un modo di essere che investe in toto il rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo, bensì solo un tratto di carattere riconducibile all'attività di uno o più geni.

Trattandosi di un discorso specialistico, che investe il modo riduzionistico con il quale la genetica affronta il problema della personalità, esso richiederebbe un excursus piuttosto lungo e complesso. Preferisco aggirare lo scoglio fornendo, in appendice, alcune nozioni elementari sulla genetica (che successivamente tenterò di arricchire) e fornendo immediatamente un esempio di come essa attualmente procede. L'esempio è tratto da Il gene agile di Scott Ridley (recensito sul sito). Nel capitolo tre, l'autore affronta il problema dell'influenza dei geni sulla personalità in questi termini:

"Che tipo di gene potrebbe causare una variazione della personalità? Un gene è un insieme di istruzioni per la sintesi di una molecola proteica. Pare impossibile saltare da questo esempio di semplicit digitale a qualcosa di complesso come la personalità; oggi tuttavia, per la prima volta, è possibile farlo. Stiamo scoprendo le alterazioni della sequenza genica che portano a modificazioni del carattere: il pagliaio sta svelando i suoi primi, pochi, aghi.

Prendiamo, per esempio, il gene di una proteina denominata ´fattore neurotropico di derivazione cerebrale', o BDNF, localizzato sul cromosoma Il. Si tratta di un gene breve: un segmento di DNA lungo solo 1335 lettere, codificante (con un codice di quattro lettere) la ricetta completa per la sintesi di una proteina che agisce come una sorta di concime cerebrale, incoraggiando la crescita dei neuroni (e che probabilmente fa anche molte altre cose). Nella maggior parte degli animali, la centonovantaduesima lettera del gene è una G, ma in alcune persone è una A. Circa tre quarti dei genomi umani contengono la versione con la G, il quarto restante la versione con la A. Questa minuscola differenza, un'unica lettera in un lungo paragrafo di testo, determina la sintesi di una proteina leggermente differente - con una metionina al posto di una valina nella sessantaseiesima posizione. Poiché tutti gli esseri umani hanno due copie di ciascun gene, al mondo esistono tre tipi di persone: quelle che hanno entrambi i geni codificanti nella sessantaseiesima posizione la metionina, quelle che hanno entrambi i geni codificanti la valina, e quelli che hanno un gene codificante la etionina e l'altro codificante la valina. Se sottoponete un questionario sulla personalità a un gruppo di individui, e simultaneamente verificate la loro situazione genetica relativamente al BDNF, scoprirete un effetto impressionante. I soggetti met-met sono decisamente meno nevrotici dei met-val, i quali a loro volta lo sono molto meno dei val-val.

Depressione, timidezza, ansia e vulnerabilità sono massime nei val-val e minime nei met-met e queste sono quattro delle sei facce che costituiscono la dimensione del nevroticismo degli psicologi. Delle altre dodici facce della personalità, solo una (apertura di sentimenti) presenta una qualche associazione. Questo gene, in altre parole, influenza in modo specifico il nevroticismo.

Non lasciatevi trasportare troppo: questo dato rende conto solo di una piccola parte, forse un 4 per cento, della variazione interindividuale - e potrebbe anche dimostrarsi una peculiarità delle 257 famiglie di Tecumseh (Michigan), dove è stato ese-guito lo studio. Non si tratta assolutamente del gene del nevroticismo. Tuttavia, almeno a Tecumseh, si tratta di un gene la cui variazione spiega alcune delle differenze di personalità riscontrabili fra due individui qualunque, e lo fa in un modo coerente con gli standard di cui ci serviamo per descrivere la personalità. E anche il primo gene a mostrare un'associazione così potente con la depressione, il che ci dà un barlume di speranza per uno dei disturbi più comuni e meno facilmente curabili dei nostri tempi.

La lezione che vorrei trarne non è che questo particolare gene si dimostrerà particolarmente significativo, ma che può insegnarci quanto sia facile effettuare il salto da un cambiamento ortografico nel DNA, a una reale differenza nella personalità. Non sono in grado (e come me, nessuno può farlo) nemmeno di cominciare a spiegare come o perché un cambiamento tanto piccolo possa dar luogo a una personalità diversa; il fatto che riesca a farlo, comunque, sembra quasi certo.

L'appello all'incredulità, tanto caro ad alcuni critici della genetica comportamentale - ´i geni sono solo ricette per sintetizzare proteine, e non determinanti della personalitàĒ, proprio non convince. Una modifica nella ricetta di una proteina può effettivamente dar luogo a un cambiamento della personalità. Attualmente stanno emergendo anche altri geni candidati." (p. 134-136)

En passant, non è superfluo sottolineare che la ricerca cui fa riferimento Ridley, effettuata presso una residua comunità di Indiani d'America (i Tecumseh, appunto), è arrivata pochi anni fa sui giornali con il titolo: "Scoperto il gene dell'introversione".

Ridley, per fortuna, è una persona seria.

Attribuire ad un gene la depressione, la timidezza, la vulnerabilità e l'ansia significa tutt'al più che esso incide sul patrimonio emozionale, rendendolo più ricco e dunque squilibrato. Ma lo squilibrio dovuto ad un aumento del peso delle emozioni nell'organizzazione della personalità, come noto, è una medaglia a due facce: può incidere a livello di comportamento sociale e, allo stesso tempo, aumentare la capacità del soggetto di esplorare il mondo simbolico, immaginario, creativo.

La ricerca in realtà conferma solo quello che è ovvio: i geni influenzano lo sviluppo e l'organizzazione della personalità, naturalmente interagendo con l'ambiente.

In rapporto all'introversione, tale influenza si esercita, a mio avviso, mantenendo per alcuni aspetti il primato del mondo interno su quello esterno, vale a dire mantenendo viva un'emozionalità (associata alla fantasia, all'immaginario e alla creatività) che di solito viene sacrificata sull'altare dell'adattamento percettivo, cognitivo e culturale al mondo esterno.

In questo senso, l'introversione può essere definita una dimensione intrinsecamente disadattiva, nel senso che, rallentando la cattura che l'ambiente esterno esercita sull'apparato mentale umano, essa incide anche, in qualche misura, sull'adattamento ad esso. L'interferenza può essere ricondotta al fatto che le informazioni che provengono dall'esterno si imbattono in un filtro emozionale più potente rispetto alla media, e assumono dunque una qualità particolare, soggettiva.

Il concetto di filtro emozionale è di grande importanza, per quanto difficile da mettere a fuoco.

La coscienza vive solitamente sul registro di un ingenuo realismo, affacciata su un mondo esterno che viene percepito come oggettivo, stabile e coeso. L'immediatezza e la vivacità delle percezioni incrementano tale realismo inducendo la convinzione di una comunicazione diretta tra mondo esterno e mondo interno.

L'affermarsi del cognitivismo ha dato paradossalmente credito a tale convinzione, minimizzando il ruolo che le emozioni e l'inconscio svolgono nella "conoscenza" del mondo.

Solo di recente, si è preso atto che l'orientamento cognitivista è finito in un vicolo cieco e ci si è ricondotti ad una tradizione psicoanalitica che appare convalidata dalle ricerche neorobiologiche.

Ormai, dunque, con deboli sacche di resistenza ideologica, si riconosce che le informazioni che provengono dall'ambiente esterno attraverso i sensi sono qualificate emotivamente a livello delle strutture sottocorticali e sono valutate in nome delle memorie (esse stesse emotivamente connotate) prima di pervenire ai centri corticali sensoriali e alle aree associative.

La categorizzazione delle percezioni, messa in luce dal cognitivismo, non appare dunque prescindibile dalla valutazione emozionale che le investe ed avviene, per molti aspetti, a livello inconscio. Occorre ammettere, dunque, che il sistema delle emozioni funziona come un filtro del rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo esterno.

E' probabile che la chiave esplicativa dell'introversione sia da ricondurre ad una particolare potenza della funzione del filtro emozionale.

Naturalmente il termine filtro emozionale è una metafora. Se si volesse sostituirla, però, con una descrizione più propria, neurobiologica e psicologica, ci si troverebbe in difficoltà.

Sono stati infatti individuati, nell'ambito di quello che un tempo si chiamava il sistema limbico, numerosi centri che sembrano coinvolti nella valutazione emotiva dei contenuti mentali consci e inconsci, ma il sistema delle emozioni, nella sua complessità e nella sua funzione, è ancora in parte poco noto.

Sembra però del tutto vero che l'emozionalità rappresenta il "mare" su cui la coscienza galleggia e scorre, subendone l'influenza.

Non è poco importante aggiungere che il sistema delle emozioni non funziona solo filtrando le percezioni. Esso riceve di continuo informazioni che provengono dal mondo interno, dall'inconscio.

2.

Nessuno può ragionevolmente dubitare che le due dimensioni fondamentali dell'apparato mentale siano da ricondurre al sentire e al pensare. Oggi quasi tutti concordano sul fatto che si tratta di due diverse modalità di rapportarsi al mondo, valutandolo e interpretandolo: dunque due modi di intelligere. Si può, però, sviluppare più in profondità la differenza tra questi modi?

Il pensiero, tranne che l'individuo non si impegni in un assiduo lavoro di riflessione, tende a canalizzarsi in maniera stereotipica poiché, in genere, esso è irretito dall'affacciamento del soggetto sul mondo esterno e dall'interazione con l'ambiente culturale, che lo sollecita verso il conformismo del senso comune. Nel corso della crescita, il pensiero assume sempre più una configurazione operativa, finalizzata all'adattamento del soggetto al mondo così com'è, nel quale egli deve inserirsi assumendo ruoli che sono codificati.

L'attività emozionale, invece, ha una qualità sua propria, una creatività intrinseca per cui lo stesso stimolo può essere qualificato e significato in una molteplicità di modi. Anche il sentire può essere canalizzato entro codici normativi, ma, a livello inconscio, tale normalizzazione non si realizza mai in misura rilevante. A questo livello, infatti, l'emozionalità, rispetto al pensiero, è fluida ed esuberante.

A differenza del pensiero, poi, che, almeno a livello cosciente, adotta una logica analitica e discreta, fondata sulla distinzione degli ėoggetti" e sui significanti linguistici che consentono di denotarli, l'emozionalità, particolarmente a livello inconscio, adotta una logica sintetica e continua, che crea infiniti nessi significativi tra gli "oggetti".

Su quest'aspetto non ci si soffermerà mai abbastanza.

Attraverso l'attività percettiva e cognitiva l'uomo cerca di porre ordine nel caos, vale a dire di distinguere, categorizzare, concettualizzare, denotare linguisticamente gli "oggetti". Dopo averli simbolizzati, il pensiero può anche manipolarli all'infinito, creativamente. Resta fermo il fatto che la sua funzione primaria è fondata sulla tendenza a differenziare cose, persone, eventi, ecc.

L'emozionalità, al contrario, sembra funzionare qualificando gli oggetti secondo modalità intuitive tali per cui tra essi si stabiliscono nessi profondi, significativi, simbolici. Essa sembra rivolta ad ėimpastare" il mondo facendo rientrare in vasti insiemi gli oggetti che condividono una stessa caratteristica.

La cognizione, insomma, tende a compartimentare il reale, rendendolo chiaro e distinto, mentre l'emozionalità tende a rispettarne se non addirittura ad accrescerne la complessità. L'emozionalità apre dunque la mente umana su di un universo potenzialmente infinito.

Che io sappia, l'unico autore che ha dedicato attenzione a quest'aspetto è stato lo psicanalista Ignacio Matte Blanco (L'inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino 1981), al cui pensiero ho dedicato già un'introduzione nella Bibiliografia.

Matte Blanco ha valorizzato il nesso tra emozioni e infinito, riconducendolo alla presenza a livello inconscio di due principi logici - il principio di generalizzazione e il principio di simmetria - il cui effetto congiunto è di generare insiemi infiniti nei quali la distinzione tra gli elementi si attenua progressivamente sino all'estremo di un insieme ultimo nel quale si dà una totale identificazione tra di essi, vale a dire una totalità indistinta.

Se è fuor di dubbio che l'emozionalità stabilisce nessi molteplici tra gli oggetti e le informazioni che trascendono la distinzione implicita nelle percezioni e nella cognizione, è altrettanto indubbio che l'attività mentale umana si organizza a partire dal principio dell'opposizione, al di là del quale si darebbe solo il caos.

Nel pensiero di Matte Blanco è implicita una dialettica dell'attività mentale che egli non riesce, però, a ricondurre ad alcun principio di ordine generale cha la giustifichi. L'apparato mentale di cui parla non sembra riconducibile ad una concezione evoluzionistica del cervello. Il principio di generalizzazione è facilmente spiegabile nell'ottica di tale concezione: esso, infatti, servirebbe a compensare la cattura che la percezione del mondo esterno esercita sul cervello. Il principio di simmetria, che, al limite estremo, secondo Matte Blanco, comporta un'indistinzione totale tra tutte le cose, l'intuizione, insomma, di una totalità indistinta, non rientrerebbe in alcun modo in quell'ottica.

Penso che ci sia una sola possibilità per risolvere il problema: ammettere l'esistenza di un'intuizione emozionale dell'infinito primaria, dovuta ad un incremento dell'attività intrinseca cerebrale che, ad un certo punto dell'evoluzione, produce, a partire dalla percezione emozionale dello spazio e del tempo come dimensioni illimitate, la creazione di un universo simbolico, possibile, immaginario la cui esplorazione ha prodotto e produce una rete indefinita di significati.

In questa ottica è l'intuizione emozionale dell'infinito la matrice del pensiero e del linguaggio.

3.

Che nell'apparato mentale esista l'infinito come intuizione emozionale preriflessiva e precognitiva è confermata da numerose circostanze, la più importante delle quali è la consapevolezza della finitezza alla quale l'uomo perviene precocemente (tra i cinque e i sette anni), prima ancora di essere dotato di strumenti cognitivi che gli consentano di applicare al tempo il concetto della successione infinita. Alla stessa epoca, soprattutto in alcuni bambini, risalgono, soprattutto in rapporto al contatto con la natura, esperienze di tipo panico, che evocano una sorta di fusione del soggetto con la totalità.

Non è indifferente rilevare che la presenza dell'infinito emozionale negli adulti una conferma dell'assunto, poiché essa solo raramente discende da una riflessione cognitiva sul significato dell'infinito.

Il fondamento neurobiologico di tale intuizione è del tutto sconosciuto. Occorre ammettere però che, nel corso dell'ominazione, sia avvenuta una ėdilatazione" dell'orizzonte emozionale che ha trasceso la realtà del mondo tangibile. La dilatazione si ripete costantemente nel corso dell'evoluzione di ogni personalità.

Quale significato evolutivo può avere avuto la capacità del cervello di "sentire" l'infinito è molto difficile da capire.

Se si fa riferimento alla conseguenza più immediata e universale dell'infinito emozionale, vale a dire la consapevolezza della finitezza individuale, si potrebbe dire che esso, attivando l'ansia conseguente ad un orizzonte previsionale incommensurabile rispetto a quello di ogni altro animale, ha mobilitato la specie umana nella direzione dell'adattamento attivo all'ambiente esterno. Si tratta, però, evidentemente, di una risposta non esauriente.

Sembra di giungere più vicini alla verità se si tiene conto che l'infinito emozionale, trascendendo la realtà tangibile, ha determinato l'intuizione di un mondo possibile, immaginario, fantastico, che ha rappresentato la matrice della produzione e della manipolazione dei simboli.

Tra i prodotti di questa matrice il linguaggio ha svolto senz'altro una funzione adattiva. La manipolazione dei simboli, però, è andata molto al di là dell'adattamento inteso in senso proprio, come sopravvivenza e riproduzione. Una prova di questo si può ricavare dal fatto che un elemento indiziario dell'attribuzione alla specie umana di alcuni resti paleontologici è rappresentata dalle rappresentazioni pittoriche rupestri, che non si trovano mai, per esempio, associate ai Neanderthal.

L'intuizione emozionale dell'infinito ha, insomma, aperto la mente umana sul fronte dell'universo dei mondi possibili, frutto dell'immaginazione e della simbolizzazione: l'universo del libero pensiero, affrancato da istanze operative, della religione, dell'arte, della musica, della letteratura, della matematica, ecc.

E' certo che tale universo è stato esplorato cognitivamente, e che molti dei suoi contenuti implicano una somma di aspetti legati al sentire e al pensare. Il primato del sentire, però, appare quasi fuori di dubbio. L'infinito emozionale è la forma della cultura.

Su questi aspetti complessi e, forse, impenetrabili tornerò.

Per ora sembra importante riferire tale discorso all'introversione.

Se si ammette che la neotenia sia stato il fattore decisivo nell'avvento della specie umana e se si dà per scontato che essa abbia determinato un primato del mondo interiore, il mondo delle emozioni, su quello esterno, il mondo delle percezioni, l'introversione rappresenterebbe una condizione caratterizzata da una spinta evolutiva neotenica superiore rispetto alla media.

Il paradosso legato a questo fatto è che la stessa condizione la quale, mantenendo una grande plasticità della struttura cerebrale, attiva una percezione del mondo fortemente incentrata sulle emozioni, e quindi caratterizzata da intuizioni profonde, che impastano il mondo e creano una serie di nessi apparentemente impercettibili, promuove una cattura immaginaria nella rete dei significati culturali trasmessi dalle generazioni precedenti, determina un ritardo nello sviluppo delle competenze sociali trasversali, riguardanti i coetanei, che sono vissuti come esseri semplici, poco interessanti.

Il soggetto introverso ha una vocazione primaria a capire il mondo nella sua complessità: è un "filosofo" o un ėmistico" di professione, avulso per alcuni aspetti dal quotidiano, dal tran-tran del vivere come si deve vivere.

L'intuizione emozionale dei mondi e dei modi di essere possibili lo rende, per un lungo periodo, poco adattivo nei confronti dell'esistente, del senso comune.

Che questa predisposizione evolva in senso positivo, di realizzazione delle potenzialità individuali, o negativo, di sviluppo ėnevrotico", sembra in gran parte riconducibile alle circostanze ambientali.

Se ciò è vero, continuare a cercare il gene dell'introversione è ridicolo. Non ho alcun dubbio riguardo al fatto che l'introversione abbia un fondamento genetico, ma oggi tale fondamento non può essere ricondotto che ad una modificazione profonda della struttura e delle funzioni cerebrali realizzatasi con l'avvento della specie umana, la quale ha accentuato il peso delle emozioni nell'organizzazione dell'esperienza umana. Negli introversi, tale peso è semplicemente maggiore rispetto alla media.

Appendice

Alcune nozioni fondamentali di genetica

Tutti sanno che la genetica è la scienza dell'eredità. Essa studia i "programmi" biologici che si trasmettono di generazione in generazione e determinano, per un verso, alcune caratteristiche anatomiche e funzionali che consentono di definire l'appartenenza di un individuo ad una specie e, per un altro, variazioni di tali caratteristiche tra gli individui appartenenti alla stessa specie.

L'evoluzione delle forme viventi nel corso del tempo, la formazione delle specie (o speciazione) e la varietà degli individui all'interno di una specie sono i problemi fondamentali che la genetica indaga. C'è dunque una genetica specie-specifica, che mira a valutare l'influenza dei geni sulle caratteristiche che consentono di differenziare una specie dalle altre (che determinano, tra l'altro, l'impossibilità di un incrocio riproduttivo tra specie diverse), e una genetica del comportamento, il cui obbiettivo è definire l'influenza dei geni sulla diversità interindividuale.

Il risultato più rilevante sinora conseguito dalla genetica è che entrambi gli aspetti (l'unicità della specie e la varietà individuale al suo interno) sono riconducibili ad un'unica chiave: il DNA, che è il depositario del patrimonio genetico e lo strumento attraverso il quale esso si trasmette di generazione in generazione.

Il DNA è contenuto nei cromosomi presenti nel nucleo di ogni cellula, il cui numero varia da specie a specie: nell'uomo sono ventitre coppie, dunque quarantasei in tutto. "Srotolando" un cromosoma, si scopre che esso ha una struttura detta ėa collana di perle", costituita da nucleosomi - sferette formate da molecole proteiche impacchettate (le ėperle") - attorno alle quali è arrotolato il DNA (acido desossiribonucleinico). Questo è costituito da due lunghe catene attorcigliate su se stesse a doppia elica, la cui struttura è omologabile ad una scala a pioli. I pioli sono costituiti da 4 basi azotate (citosina, guanina, adenina e timina) complementari due a due (C-G, A-T).

Le basi azotate che si susseguono nella catena del DNA possono essere considerate come un alfabeto di quattro "lettere" con le quali è possibile scrivere diverse ėparole". Queste sono costituite da gruppi di tre lettere ciascuna, cioè da ėtriplette". Le combinazioni possibili a tre a tre delle quattro lettere sono sessantaquattro (per esempio, in riferimento alle 16 triplette che riconoscono al primo posto la citosina CTT, CTC, CTA, CTG, CCT, CCC, CCA, CCG, CAT, CAC, CAA, CAG, CGT, CGC, CGA, CGG). Tali combinazioni rappresentano il codice genetico.

La funzione essenziale del DNA è la fabbricazione o sintesi delle proteine. Le informazioni ereditarie si identificano con tale fabbricazione. Dalle proteine, infatti, dipendono tutte le funzioni delle cellule. Esse servono sia a dare una forma, un'architettura alla cellula e ai suoi organuli, sia a controllare rigorosamente tutte le reazioni chimiche che in esse avvengono (in quest'ultimo caso si parla di enzimi).

Le proteine consistono in lunghe catene di molecole dette aminoacidi di cui esistono in natura venti tipi diversi (fenilalanina, glutamina, metionina, triptofano, ecc.). Gli aminoacidi, in pratica, sono i ėmattoni" delle proteine.

Le "triplette" servono a costruire aminoacidi. Perché esistono 64 triplette se gli amonoacidi sono venti? E' semplice: uno stesso aminoacido è specificato o codificato da una oppure da più di una tripletta. Per esempio la fenilalanina è specificata sia da TTT che da TTC. Tre triplette, inoltre, - TAA, TAG e TGA - non codificano nessun aminoacido, ma designano la fine della catena proteica.

Un gene è semplicemente un segmento di DNA, contenente qualche decina di migliaia di nucleotidi, che porta l'informazione necessaria a costruire una proteina. Letta a gruppetti di tre nucleotidi contigui la sequenza di un tratto di DNA corrispondente ad un gene specifica la successione degli aminoacidi presenti nella catena della corrispondente proteina.

I geni non dirigono direttamente la sintesi delle proteine. Quando in una cellula è necessaria la presenza di una certa proteina, una delle due catene del DNA viene trascritta in un altro acido nucleinico, l'acido ribonucleico o RNA messaggero. La trascrizione del DNA in RNA segue il principio per cui la successione di basi sul primo dà luogo alla successione sul secondo di basi complementari.

L'RNA messaggero, fuoriuscendo dal nucleo, termina nella cellula la sintesi di una proteina i cui aminoacidi si allineano secondo l'ordine delle triplette rappresentate sull'RNA stesso.

La "traduzione" del messaggio veicolato dall'RNA in specifiche proteine è il dogma centrale della genetica. Esso però rappresenta una semplificazione delle potenzialità informazionali del DNA. Oltre ai geni strutturali, che determinano la sintesi delle proteine, si danno, nel DNA, anche geni regolatori che producono la sintesi di proteine la cui funzione è di veicolare istruzioni per la lettura selettiva del codice genetico. Esse in pratica regolano in modi molteplici la traduzione del codice adattandola alle diverse esigenze della cellula.

Questo aspetto è straordinariamente importante. Esso infatti significa che il potenziale informazionale dei geni è molto maggiore rispetto al loro numero, che è di 30000 (mentre fino a qualche tempo fa si pensava che fossero almeno centomila).

Il gene è presente nel DNA di ciascun individuo di una data specie e passa dai genitori ai figli e da questi ai nipoti. Non può scomparire o apparire improvvisamente se non su una scala di tempi lunghissimi, quelli dell'evoluzione biologica che si misurano in milioni di anni. Può però subire delle mutazioni casuali dette ėmutazioni". Un gene mutato è un gene diverso, poco o tanto, dalla sua forma più frequente o "normale".

Le mutazioni sono inevitabili: ce ne sono sempre di nuove in ogni individuo di ogni specie in ogni epoca. Perché? Perché il patrimonio genetico deve essere continuamente copiato e in questo esercizio di copiatura viene sempre commesso qualche errore.

Il tasso di mutazione spontanea non può essere ridotto, ma può innalzarsi a causa di agenti fisici o chimici detti mutageni (per esempio i raggi ultravioletti, le sostanze radioattive, ecc.).

Se la mutazione interviene in una cellula che darà luogo a gameti (spermatozoo, ovocita), essa verrà probabilmente trasmessa ai figli e a tutti i discendenti dell'individuo in questione.

Gran parte delle mutazioni sono silenti, nel senso che non incidono né sulla struttura né sulle funzioni di un organismo. Alcune predispongono o determinano malattie.

Nella storia della vita sulla Terra, le mutazioni sono state importanti perché, attraverso il meccanismo della selezione naturale, hanno assicurato la varietà necessaria a promuovere l'evoluzione biologica.