L'Introversione alla luce della neurobiologia
Alcuni mesi fa il Prof. Duccio Demetrio, con cui intrattengo un rapporto epistolare, mi invitò a scrivere, per la Rivista che egli dirige (Adultità) un articolo sulla neurobiologia dell’Introversione. L’articolo è stato pubblicato sul numero 28 della Rivista stessa dedicato a I nuovi adulti e curato da Micaela Castiglioni.
Lo riporto integralmente. Non c’è alcunché di nuovo rispetto ad altri scritti già pubblicati. Ogni sintesi, però, focalizza qualche aspetto particolare.
Premessa
L’interesse di uno psichiatra critico o, se si vuole, un antipsichiatra, per l’introversione discende dalla constatazione che i tratti di questo modo di essere, caratterizzato da un corredo emozionale e spesso intellettivo superiore alla media, si associano troppo spesso a vissuti di disagio psichico perché tale associazione possa essere assunta come casuale.
In questo articolo metterò tra parentesi le conclusioni cui sono giunto a riguardo per illustrare le riflessioni che ho fatto, nel corso degli anni, sul modo di essere introverso.
Tali riflessioni sono procedute su due registri. Per un verso, ho tentato di ricostruire il modo di essere introverso nei suoi aspetti tipologici – considerati di origine genetica – e nei suoi sviluppi conseguenti all’interazione con il mondo. Per un altro, mi sono dedicato ad approfondire il significato funzionale del modo di essere introverso nell’ottica dell’evoluzionismo, vale a dire a tentare di capire i suoi aspetti genetici e neurobiologici.
In questo articolo, mi soffermerò soprattutto su questi ultimi, dato che essi sono meno noti dei primi. Utilizzerò in gran parte dati acquisiti scientificamente, ma dovrò poi necessariamente azzardare qualche ipotesi su loro significato nella cornice del sapere sull’uomo. La ricerca scientifica postula sempre una riflessione filosofica.
1.
In un’ottica scientifica, il termine introversione si può ritenere ancora oggi pregnante e insostituibile. Esso, infatti, fa riferimento ad un orientamento caratterologico genotipico che, nel corso della vita, si manifesta attraverso uno spettro di comportamenti fenotipici espressivi sia della natura sia dell’interazione con un determinato ambiente culturale.
Focalizziamo, anzitutto, l’attenzione, sulla distinzione tra genotipo e fenotipo, che è assolutamente semplice ma implica già un nodo complesso di problemi..
Per genotipo si intende un corredo genetico individuale che comporta potenzialità di sviluppo il cui spettro si definisce norma di reazione. La norma di reazione è l’insieme dei possibili fenotipi che si possono realizzare nell’adulto in conseguenza dell’interazione con l’ambiente.
E’ evidente che, per ogni corredo genetico individuale, si danno ambienti più o meno favorevoli allo sviluppo delle potenzialità che esso contiene. Ciò significa che la norma di reazione può essere più o meno ampia, ma ha un limite, superato il quale lo sviluppo fenotipico non si realizza (com’è il caso di un seme di banano impiantato in un terreno nordico) o si realizza in forme molto riduttive rispetto alle potenzialità.
L’applicazione di questi concetti all’uomo è, naturalmente, reso difficoltoso dal fatto che l’ambiente di sviluppo in questione non è solo di ordine naturale ma culturale. La cultura è prodotta dall’uomo, ma, nella misura in cui diventa tradizione, convenzione, senso comune, si dà per scontato che essa rappresenti un ambiente che offre a tutti gli individui pari opportunità di sviluppo. Su questo assunto implicito si fonda il concetto di normalità.
Il problema è che, mentre la natura ama la varietà, per cui, ad eccezione dei gemelli omozigoti, produce corredi genetici individuali unici e irripetibili, la cultura tende, attraverso i suoi codici comportamentali, ad uniformare una determinata società, mortificando in una certa misura, i potenziali di individuazione.
L’influenza della cultura sull’apparato mentale umano è fuori di dubbio. Ma qual è quella della natura, dei fattori genetici?
Per quanto riguarda le caratteristiche di specie, che consentono di definire l’appartenenza di un individuo ad un determinato phylum, il problema non si pone. Il cervello umano, nel quale esse sono depositate, è stato selezionato dall’evoluzione naturale, attraverso una serie di mutazioni che hanno raggiunto l’acme cinquantamila anni fa. Molto più complesso è il problema delle caratteristiche individuali.
Quale sia l’incidenza dei fattori genetici e di quelli ambientali nell’organizzazione psico-fisica di un individuo umano adulto è ancora dibattuto. Si ammette che i caratteri fisici (peso, altezza) riconoscano una notevole influenza genetica. Per quanto riguarda, invece, la personalità nei suoi diversi aspetti, il contrasto tra deterministi (innatisti) e ambientalisti (empiristi) è ancora notevole.
Le uniche ricerche attendibili in merito riguardano i gemelli omozigoti separati alla nascita e allevati in ambienti diversi. Da tali ricerche si è giunti alla conclusione che “poco più del 40% della variazione nella personalità è da ascriversi a fattori genetici diretti, meno del 10% alle influenze ambientali condivise (principalmente alla famiglia) e circa il 25% a influenze ambientali che rappresentano esperienze esclusive dell’individuo… Il restante 25% costituisce, semplicemente, l’errore di misura .” (Matt Ridley, Il gene agile, p. 132-133)
Questi dati, che assegnano quasi la parità ai fattori genetici e a quelli ambientali, non devono turbare. I fattori genetici vincolano ma non determinano univocamente lo sviluppo. Aperti all’ambiente, essi definiscono per l’appunto la norma di reazione, vale a dire lo spettro fenotipico espressivo di un determinato corredo genetico. Potentemente influenzato dall’ambiente culturale, tale spettro non esclude affatto un certo grado di libertà personale, posto che essa sia esercitata per promuovere lo sviluppo all’interno dello spettro stesso.
3.
Lo studio della personalità umana è reso arduo dalla complessità dell’apparato mentale. Di questa complessità conosciamo ancora poco sotto il profilo scientifico: quanto basta, comunque, ai fini del nostro discorso.
L’evoluzionismo attribuisce la nascita della specie umana a mutazioni genetiche intervenute negli ultimi duecentomila anni, che hanno portato all’homo sapiens sapiens. Di tali mutazioni non sappiamo nulla. Dei loro effetti, invece, sappiamo qualcosa.
Due dati in particolare vanno presi in considerazione. Il primo è noto, trattandosi della crescita della corteccia, soprattutto a livello frontale. Il secondo – che va sotto il nome di neotenia - è molto meno noto, per quanto si tratti di un’acquisizione scientifica certa.
Per quanto noto, il primo dato merita comunque una puntualizzazione. Se è vero, infatti, che il cervello dell’homo sapiens riconosce uno sviluppo che, rapportato alla massa corporea, si può ritenere incommensurabile rispetto a quello degli altri animali, non è vero che esso sia il più grande mai esistito nell’ambito dell’ominazione. Scrive Matt Ridley:
“Nel Mesolitico (circa cinquantamila anni fa) il cervello umano aveva un volume medio di 1468 cc (nelle femmine) e di 1567 cc (nei maschi). Oggi quei valori si sono rispettivamente assestati su 1210 e 1248 cc: anche tenendo conto di una certa diminuzione del peso corporeo, sembra trattarsi di una netta riduzione. Forse, in tempi recenti, c'è stata una domesticazione della nostra specie…”
Di fatto, il riferimento a cinquantamila anni fa è un riferimento critico. Da quell’epoca, infatti, si è avviato uno sviluppo culturale la cui progressione ha avuto e ha un ritmo impressionante rispetto al milione di anni precedente, che è stato di stagnazione.
E’ facile essere indotti ad attribuire alla cultura tale progresso. Ma le cose non sono così semplici. La cultura è espressiva della capacità del cervello umano di produrre /manipolare simboli e di comunicare. Questa capacità è stata però acquisita in un periodo precedente al mesolitico, nel corso del milione di anni che hanno portato ad esso.
Matt Ridley scrive: “Il grande cervello che rese gli esseri umani capaci di rapidi progressi culturali […] si formò ben prima che si fosse accumulata molta cultura. La cultura progressiva e cumulativa apparve molto tardi nell’evoluzione umana; quando […] le dimensioni del loro cervello […] avevano già raggiunto il massimo senza bisogno di grandi stimoli culturali.” (op. cit., p. 333-334)
Questo significa, né più né meno, che la struttura biologica ha preceduto la cultura, e di parecchio tempo.
Quale sia il significato di questa lunga pausa, nel corso della quale potenzialità intrinseche al cervello non sono state in pratica utilizzate, e che cosa ne abbia determinato il superamento è quasi del tutto misterioso. Forte, a riguardo, è la tentazione di ricondursi al pensiero di S. Y. Gould e al suo concetto di esattamento, che fa riferimento a strutture che l’evoluzione seleziona con una finalità adattiva e che solo successivamente sono utilizzate in modo diverso rispetto a quello originario. Ma è una tentazione che va messa da parte perché quel concetto non è convalidato dalla comunità dei biologi.
Il mistero è quasi assoluto perché, di fatto, almeno alcuni indizi, certi perché ancora oggettivabili, esistono..
Si tratta del ritardo dello sviluppo che differenzia la specie umana da tutti gli altri animali. Questo termine, apparentemente paradossale, è stato adottato originariamente da Louis Bolk e fa capo immediatamente al fenomeno che i biologi definiscono neotenia.
Per neotenia si intende semplicemente la persistenza nell’individuo umano adulto di segni anatomici caratteristici di fasi primarie dello sviluppo, segni dunque fetali o pedomorfi. Bolk ne ha rilevati diversi i più importanti tra i quali sono: il grande volume della testa in rapporto al corpo, la pelle glabra, i denti piccoli, le ossa fragili.
L’interesse per questo fenomeno discende dal fatto che alla fetalizzazione anatomica si associano costantemente modificazioni del comportamento e del carattere. Un esempio di grande significato è legato all’addomesticamento degli animali, e in particolare del cane.
Il progenitore delle diverse razze canine attuali è ormai unanimemente identificato con il lupus selvatico: animale di straordinario interesse etologico per i suoi comportamenti sociali, ma il cui rappresentante adulto è un individuo temibile per qualunque straneo, uomo compreso. L’addomesticamente è avvenuto, probabilmente, a partire dalla cattura di individui meno paurosi o meno aggressivi che non reagivano immediatamente con la fuga alla presenza dell’uomo. Attraverso incroci di questo genere ripetuti nel corso dei secoli, dai lupi sono derivati le razze canine. Rispetto ai lupi, i cani sono animali neotenizzati, cioè cuccioli di lupo. I segni della neotenia anatomica sono un rimpicciolimento del cervello, l’accorciamento dei denti, le orecchie flosce, il manto pezzato, la coda arrotolata, ecc. A questi segni anatomici corrispondono modificazioni caratteriali per cui i cani adulti, rispetto ai lupi, mantengono spesso alcune caratteristiche dei cuccioli (socievolezza, giocosità, vivacità emozionale), che li rendono amabili.
La neotenia sembra caratterizzata da un blocco che interviene nella maturazione dei centri sottocorticali dai quali dipendono le emozioni. In particolare, più un animale è neotenico, più la sua emozionalità rimane da cucciolo, vale a dire intensa, vivace, curiosa, ludica, e tendenzialmente non aggressiva.
L’uomo è un animale neotenico per eccellenza.
Alla neotenia fanno capo altri due aspetti con essa correlati che rientrano nell’ambito del ritardo dello sviluppo.
Il primo è l’assetto carenziale del bagaglio istintuale umano sotto il profilo dell’adattamento.
Il passaggio dall’animale più evoluto all’uomo è stato contrassegnato, come ha rilevato A. Gehlen, da un drammatico allentamento del bagaglio istintuale, che promuove l’adozione di comportamenti in parte almeno automatici di adattamento all’ambiente. A tale allentamento corrispondono anche altri cambiamenti rilevati fa Gehlen: la privazione della pelliccia, la perdita degli artigli, la dentatura senza zanne, ecc. Tutti questi cambiamenti facilmente possono essere ricondotti alla neotenia.
Il secondo aspetto è l’allungamento della fase evolutiva che porta un essere umano dalla dipendenza e dalla prematurità originaria ad assumere uno statuto adulto. Se l’uomo, in quanto essere neotenico, è di fatto un animale globalmente ritardato nello sviluppo, un aspetto specifico e sorprendente di questo ritardo riguarda per l’appunto la fase evolutiva, sterminatamente lunga in rapporto agli altri animali. Le scimmie diventano adulte intorno ai sette anni, quando raggiungono la maturità sessuale. A sette anni, l’uomo è ancora un bambino, e, anche quando raggiunge (oggi sempre più precocemente) la maturità sessuale, non è ancora adulto.
Se la natura avesse voluto selezionare una specie ad alto rischio di estinzione, non avrebbe potuto fare di meglio. Che cos’è che ha salvaguardato la specie umana da questo pericolo?
La risposta consueta sottolinea di solito il ruolo adattivo dell’intelligenza umana, vale a dire della capacità di costruire utensili e di comunicare attraverso il linguaggio. Non si considera che l’uso dell’intelligenza postula un gruppo sociale organizzato, solidale e cooperativo.
Certo, la socialità di gruppo l’uomo l’ha ereditata dalle scimmie. Ma il cervello umano è molto più neotenico rispetto a quello delle scimmie. Che ruolo ha svolto la neotenia nella comparsa e nell’evoluzione della specie umana?
La risposta è semplice. Essa, allungando i tempi dell’evoluzione della personalità, ha obbligato il gruppo ad organizzarsi sul piano della cura e della tutela dei piccoli. Al di là della probabile nascita della famiglia, ciò ha comportato un rapporto prolungato tra adulti e bambini, che ha ingentilito i primi mantenendo la plasticità degli affetti, della tenerezza e della pietas (in riferimento ad una vulnerabilità che è propria del bambino, ma sopravvive anche nell’adulto).
Nessuno sa con precisione quando, nella storia dell’ominazione, si sia definita la neotenia. Il suo effetto globale di ingentilimento emozionale della natura umana, come presupposto della strutturazione di un gruppo legato da vincoli affettivi, è indubbio. Altrettanto indubbio è che essa ha potenziato l’empatia, che, in forma embrionale, esiste anche presso le scimmie, fondando la possibilità di identificarsi con l’altro, di intuire i suoi stati d’animo, di sollecitare la pietas nei confronti di un simile bisognoso o sofferente.
Tutto ciò, però, non basta a capire il progresso culturale intervenuto cinquantamila anni fa e il suo andamento esponenziale.
Un gruppo solidale e coeso da vincoli affettivi avrebbe potuto adattarsi all’ambiente anche senza trasformarlo e senza produrre l’universo della cultura “spirituale”.
Qualcosa di nuovo è avvenuto, probabilmente in conseguenza di mutazioni genetiche.
4.
Entriamo qui nell’ambito delle ipotesi, ma sulla base del principio per cui esse devono appoggiarsi su dati positivi.
L’empatia, come conseguenza della neotenia, significa che il mondo delle emozioni si è intensificato prima dell’avvento dell’attività cognitiva.
Di fatto, l’emozionalità umana rappresenta nel suo complesso un salto di qualità critico rispetto agli altri animali.
Purtroppo, la teoria delle emozioni, nel contesto delle discipline psicologiche, è un autentico buco nero. Tutti ormai riconoscono, accettando le originarie intuizioni freudiane, la loro importanza per l’equilibrio e il funzionamento della personalità. Se, però, si consultano i trattati e i manuali di Psicologia, ci si trova di fronte ad affermazioni come questa:
“Allo stato attuale non siamo in grado di fornire dell’emozione e della motivazione una teoria esaustiva e generalmente condivisa di che cosa esse siano e di quali siano i loro rapporti.” (Paolo Legrenzi, Psicologia generale, il Mulino, Bologna 1997).
Allo stato attuale: dopo, cioè, un secolo e mezzo dal distacco della Psicologia dal seno della Filosofia e la sua pretesa di essere una disciplina scientifica!
E’ accaduto, di fatto, che gli studiosi si sono arenati sul primo scoglio - la definizione e la classificazione delle emozioni – con risultati sconfortanti. C’è chi ne enumera cinque, chi sette, chi addirittura nove. L’imbarazzo discende dal confine tra emozioni e sentimenti, che è piuttosto labile.
Su un solo punto gli studiosi sono d’accordo: nel sottolineare il fatto che le emozioni, in quanto selezionate naturalmente, debbano avere un significato adattivo.
Il problema è che neppure questo sembra del tutto vero.
In realtà, la comparsa delle emozioni (che ovviamente avviene prima dell’uomo) non sembra affatto migliorare l’adattamento rispetto agli istinti che governano i comportamenti degli animali inferiori. Casomai lo rende più precario.
Per esempio, i babbuini che, trovandosi in gruppo a qualche metro di distanza da una coppia di felini stesi a riposare, li sfidano provocatoriamente avvicinandosi ad essi e prendendoli quasi in giro, agiscono un comportamento che nessun animale dotato di istinti esibisce di fronte ad un predatore. Lo fanno per aumentare il loro “prestigio” agli occhi delle femmine? Può darsi. Fatto si è che qualcuno di loro, sia pure raramente, ci rimette le penne.
L’esempio pone di fronte ad un dato importante. Non tutti gli individui si comportano allo stesso modo. Alcuni osano di più, altri meno, altri ancora si mantengono a debita distanza, pronti alla fuga.
Se anche si ammette che tale diversificazione comportamentale è adattiva nel senso che seleziona i più coraggiosi aumentando la loro possibilità di riprodursi, l’adattamento è aleatorio. Il maschio più coraggioso di fatto può conquistare le femmine. Se egli però fa una brutta fine, il suo comportamento è disadattivo, e, complementramente, diventa adattivo quello degli individui meno coraggiosi che sopravvivono.
La comparsa delle emozioni, che si sovrappongono agli istinti, non sembra corrispondere, insomma, solo ad una finalità adattiva, ma anche ad una diversificazione dei comportamenti individuali in rapporto allo stesso ambiente. Con essa, insomma, nasce in un certo qual senso la “soggettività” e il mondo si amplia, assumendo significati diversi per i diversi individui.
Dato che la varietà comportamentale è il presupposto della selezione naturale, la comparsa delle emozioni sembra offrire ad essa un range più vasto.
Questo duplice aspetto, adattivo ed esplorativo dei modi possibili di interagire degli individui con l’ambiente, sono entrambi presenti nell’uomo. Ma sarebbe assurdo non considerare che, nel passaggio all’uomo, è avvenuto qualcosa di ben più sorprendente. Tutte le emozioni presenti negli animali (allarme, quiete, paura, rabbia, dolore, piacere, tristezza, gioia,ecc.) sono attive anche nell’uomo, Ma: primo, esse hanno una potenzialità espressiva di gran lunga maggiore rispetto agli animali; secondo, convivono con emozioni specificamente umane: l’empatia, appunto, il senso di dignità e di giustizia, e – least but no last – l’intuizione emozionale dell’infinito.
E’ su quest’ultimo aspetto che occorre soffermare l’attenzione.
5.
Io penso che, alla sua origine, l’intuizione emozionale dell’infinito sia comparsa, per effetto di una mutazione genetica, associata alla neotenia, producendo una dilatazione dell’orizzonte emozionale che si è aperto all’infinito sul registro dello spazio e del tempo. Per effetto di questa dilatazione, si è prodotta (l’intuizione è di Lévi Strauss) una forma vuota, per molti aspetti inconscia, che ha comportato il riferimento ad un universo che trascende, nello spazio e nel tempo, il reale, un universo immaginario, possibile che l’uomo ha cominciato ad esplorare.
Si danno alcuni dati della psicologia evolutiva che depongono a favore di questa ipotesi. Il riferimento consueto è all’ansia “metafisica” che sopravviene spesso con l’adolescenza. In questa fase avanzata dello sviluppo, però, anche se poco probabile, il dubbio di componenti cognitive legate all’acquisizione della capacità di astrarre è legittimo. Più pertinente è il riferimento ad un fenomeno più precoce: l’intuizione di ciò che significa la morte, che sopravviene tra i 5 e i 7 anni. Certo, anche a questa epoca il bambino dispone di un’attrezzatura cognitiva. L’intuizione però implica la percezione del tempo come una dimensione che fluisce all’infinito: una percezione vissuta, non riflessiva, che attesta una dilatazione dell’orizzonte emozionale e determina la presa di coscienza della finitezza mortale.
Il tema dell’infinito emozionale è, ovviamente vertiginoso, ma, riconducendolo ad una dilatazione dell’orizzonte emozionale intervenuta per una o più mutazioni genetiche, se ne capisce meglio il ruolo che esso ha giocato nell’aprire la mente umana sul registro dell’immaginario e del simbolico. Solo l’apertura di tale orizzonte ha consentito l’entrata in azione delle potenzialità cognitive già intrinseche alla struttura cerebrale.
L’intuizione emozionale dell’infinito ha prodotto due conseguenze: la prima è stata la presa di cocsienza della condizione esistenziale umana, caratterizzata dalla vulnerabilità, dalla precarietà e, come accennato, dalla finitezza. La seconda è consistita nel riverberare sulle emozioni di base infinitizzandole. Presenti in tutti gli animali, esse sono adattive in quanto strettamente riferite a oggetti e situazioni reali. Nell’uomo, il valore adattivo delle emozioni persiste, ma associato ad un’infinitizzazione che va al di là di esso. Solo l’uomo può provare un’angoscia, un dolore, una gioia, un amore, una rabbia infiniti: vissuti che, per chi li sperimenta, hanno sempre un oggetto, ma la cui intensità eccede l’oggetto stesso.
Con l’intuizione emozionale dell’infinito si è realizzato, in breve, una salto qualitativo, critico rispetto a tutti gli altri animali di enorme portata. In un certo qual modo, essa ha contrassegnato, in senso proprio, la nascita del mondo interiore allentando la cattura percettiva e mettendolo in condizione di esplorare gli universi possibili da essa prodotti come forma vuota.
L’introversione, nella misura in cui è presente in ogni corredo genetico e comporta la percezione del mondo interno come distinto da quello esterno, è una conseguenza di quela salto critico.
6.
Alla luce di queste riflessioni, il problema del modo di essere introverso, come modo geneticamente determinato e caratterizzato dall’attrazione dell’esperienza soggettiva da parte del mondo interno, può essere affrontato su basi che hanno una relativa solidità.
Se, infatti, l’uomo è un animale neotenico, non tutti gli individui lo sono nella stessa misura, dato che la natura ama la varietà su cui sperimenta. L’introversione rappresenta la banda estrema della neotenia, come se essa rappresentasse una spinta evolutiva in una direzione ulteriore di ingentilimento della specie.
Due dati confermano la fondatezza di questa ipotesi.
Il primo è di ordine biologico. Gran parte degli introversi hanno un corpo che dimostra sempre meno degli anni che hanno. Questo, che in fase evolutiva è uno svantaggio, dato che l’adolescente introverso ha una fisionomia un po’ infantile e il giovane introverso una fisionomia vagamente adolescenziale (che persiste anche ulteriormente), diventa un vantaggio in età matura e in età senile perché l’introverso conserva, in genere, un aspetto giovanile e ha uno sguardo inconfondibilmente ingenuo e penetrante.
Il secondo, di ordine psicologico, è naturalmente più importante. La neotenia, infatti, in virtù della ricchezza emozionale che produce, incrementa al massimo grado la plasticità del cervello e mantiene una curiosità esplorativa inesauribile, che spesso si traduce in una vera passione per la conoscenza. Non necessariamente questa passione si oggettiva attraverso prodotti culturali o scientifici rilevanti. Essa comporta però univocamente dare alla vita il significato di un’incessante ricerca di significati vissuti, cioè partecipati emozionalmente.
La plasticità emozionale assicurata dalla neotenia si associa nell’introversione ad un’intuizione emozionale dell’infinito superiore alla media.
Mi rendo conto che quest’affermazione può apparire paradossale. Se quell’intuizione, infatti, è costitutiva dell’apparato mentale umana, è insomma specie-specifica, com’è possibile che essa sia in alcuni individui superiore alla media? Per fortuna, a questo livello, viene in soccorso la matematica dell’infinito, che riconosce infiniti maggiori e minori.
La forma vuota prodotta dall’intuizione emozionale dell’infinito, che la cultura ha riempito di significati e di simboli, ma che, in sé e per sé, è inesauribile, esercita, infatti, un fascino diverso sui soggetti. Alcuni si limitano a convivere con essa, esplorandola quanto basta ad adattarsi al mondo così com’è, vale a dire utilizzando contenuti già prodotti (i codici normativi) nella misura in cui sono funzionali a vivere in un determinato contesto storico-sociale. Altri, invece, sono affascinati dalla ricchezza di contenuti che non hanno un immediato valore adattivo (religione, filosofia, letteratura, musica, arte, scienza) e sono irretiti, sia pure in misura diversa, dalle infinite possibilità di significati intrinseci alla forma stessa.
Se identifichiamo nell’introversione una dimensione massimamente neotenica, quindi caratterizzata da una grande empatia e da una scarsa aggressività, associata ad un’intuizione emozionale dell’infinito di grande intensità, abbiamo forse la chiave esplicativa più profonda di questo singolare modo di essere. Per un verso, infatti, essa promuove l’utopia di un mondo umano all’interno del quale il simile sia riconosciuto e trattato sempre come tale. Per un altro verso, sollecita l’esplorazione dell’universo infinito dei segni, dei simboli, delle parole, dei suoni, delle immagini, ecc.
Esploratori avventurosi (costretti per natura) della morale, del sapere e dell’ignoto (non noto e inconoscibile): questo e non altro sono gli introversi.
Se ne riconosca la loro vocazione e il loro ruolo, per affrancarli da un ingiusto pregiudizio. Li riconoscano - è l’augurio - essi stessi.