Tra parentesi. La confusione del movimento postbasagliano


1.

Il 16 e il 17 0ttobre si è riunito a Roma il I° Forum di Salute Mentale al quale hanno partecipato gran parte degli operatori psichiatrici "basagliani", vale a dire impegnati da venticinque anni a realizzare sul territorio la legge 180. Nel corso del Forum è stato presentato un Documento "programmatico" che chiarisce gli intenti di un'iniziativa che, sulla base di un'adesione spontanea, mira a raccogliere le file di un movimento, identificatosi a partire dagli anni '70 con Psichiatria Democratica, che si ponga come oppositore e interlocutore critico rispetto al progetto governativo, da vario tempo ventilato, di una riforma della legge 180.

La lettura del Documento è di un certo interesse. Ne riassumo i punti fondamentali nella maniera più fedele possibile.

Fin dall'esordio, si riconosce lo scarto tra i principi che informano la legge 180 e la realtà dell'assistenza psichiatrica territoriale:

"Ridurre la dissociazione che molti da tempo avvertono tra enunciati e pratiche nel campo delle politiche della salute mentale è il motivo fondante l’incontro di oggi e la proposta di lavoro del Forum per la Salute Mentale di cui abbiamo voluto la nascita e proponiamo qui lo sviluppo."

L'interpretazione di questo scarto è univoca:

"La legislazione di riferimento è ben nota e a nostro parere in nulla da modificare. Se poi sia da integrare, anche questo il Forum è chiamato eventualmente a dire. Si pone invece con forza ed urgenza, ed appare ormai improrogabile, la questione della qualità dei servizi, che appaiono troppo spesso segnati da una ambigua dissociazione tra le pratiche e le enunciazioni teoriche, tra i principi e i modelli organizzativi, tra le risorse in campo e i percorsi reali di cura, quali modifica concreta delle condizioni di vita e di ben-essere dell’individuo/a e del suo contesto."

Posta la validità della legge, è dunque la qualità, evidentemente scadente, dei servizi che non riesce a produrre una pratica efficace, la quale funzioni a livello di prevenzione, di cura e di aumento della salute mentale. Tale deficit viene genericamente attribuito al restringimento delle pratiche per la salute mentale alla sola psichiatria", che comporta come rischi "l’azzeramento della forza innovativa dell’esperienza italiana di deistituzionalizzazione, l’oscuramento dei soggetti, la negazione dei diritti, l’abbandono degli utenti con più basso potere contrattuale." Per scongiurare tali rischi, occorre "riunire ciò che in questi anni è stato diviso: la clinica, il sociale, il biologico, lo psichico, le istituzioni e i soggetti, l’assistenza e il lavoro e tante altre."

L'intento, sacrosanto, prescinde dall'analisi delle cause che hanno prodotto quel restringimento e questa separazione E’ come se una forza - si legge nel Documento - spingesse proprio tutti verso un destino separato, passivo, assegnato". L'esistenza di questa "forza" viene confermata da un'analisi critica dei servizi psichiatrici attualmente operanti, che è dettagliata e inconfutabile:

I "Centri di Salute Mentale (CSM), pressocchè adeguati dal punto di vista quantitativo, pur tuttavia si presentano per lo più organizzati come semplici ambulatori specialistici, con lunghe liste di attesa, aperti solo nei giorni feriali, a volte neanche sulle 12 ore, separati dalla comunità locale. Costruiti e modulati su logiche privatistiche, caratterizzati da spazi ed arredi asettici, a volte degradati, troppo spesso vuoti, sembrano adatti all’evitamento della presa in carico, ad una attenzione superficiale verso i "quasi normali" e alla rimozione dei "pazienti gravi" che faticano ad accedere alle cure, che infatti rapidamente vengono rimossi verso le strutture private convenzionate.

Lo psichiatra riceve su appuntamento per dispensare psicofarmaci, lo psicologo riceve su appuntamento per dispensare psicoterapia, l’infermiere prende gli appuntamenti e somministra la terapia farmacologica, l’assistente sociale riempie i moduli per le domande di invalidità e l’immissione nel circuito della cronicità. E’ assente o rara la pratica della presa in carico della persona, della famiglia e del contesto. La visita domiciliare, in particolare quella infermieristica, è finalizzata perlo più alla somministrazione dei long-acting."

"I Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) in troppi Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) sono collocati in luoghi degradati, situati nei sottoscala o nei piani alti dell’ospedale, privi di spazi aperti, muniti spesso di grate o di telecamere a circuito chiuso. Con le porte chiuse verso l’interno e verso l’esterno, fino all’estremo caricaturale e insopportabile della definizione del tutto extralegale di "reparti per TSO".

Puramente medicalizzati, separati nella sostanza dal circuito degli altri servizi territoriali, come dal resto dell’ospedale generale, forniscono solo risposte contenitive e dequalificate, cristallizzando e stigmatizzando la sofferenza della persona come non curabile nel suo abituale contesto.

"I Centri Diurni spesso si limitano a raccogliere le persone rifiutate o espulse dai CSM, diventando luoghi di stazionamento e di intrattenimento che producono oggetti inutili e dequalificati."

"Le Strutture Residenziali hanno avuto in questi ultimi anni, in particolare dopo il ’98 a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici, una notevole crescita numerica: dalla ricerca Progres i posti-residenza dei DSM risultano essere circa 17.000. Peraltro alcune strutture appaiono sovradimensionate nel numero, 40 e oltre utenti, lontane dalla quotidianità dei paesi e dei quartieri, anonime, prive di oggetti, regolate ancora da logiche manicomiali. Spesso separate operazionalmente dal CSM, a volte con equipe del tutto distinte e con profili professionali inadeguati, si presentano come totalmente autoreferenziali. Sono per lo più luoghi da cui non si esce verso forme di habitat/convivenza più autonome e più integrate nella comunità."

A questa analisi critica, che sottolinea il "tradimento" della lettera e dello spirito della legge 180, segue la proposta di rilanciare un progetto forte di attuazione: "Il Forum vuole più Centri di Salute Mentale degni di questo nome, sulle 24 ore, più laboratori connessi e financo confusi con i luoghi della produzione, luoghi di formazione e di inserimento al lavoro, piùcase, e, contemporaneamente, meno posti letto in SPDC, nelle comunità terapeutiche e nelle case di cura, quindi nessun abbandono, ma una presa in carico della persona sofferente verso sempre maggiore abilitazione alla vita.

In sostanza si dovrebbe dunque passare da una psichiatria ancora contenitiva e sempre più elementaristica centrata sull’asse ambulatori-SPDC-case di cura-strutture residenziali ad una salute mentale integrata nel tessuto sociale e basata sull’asse CSM-habitat assistiti-forte sostegno sociale/sanitaria-assistenza materiale-percorsi di integrazione sociale e di emancipazione-comunità locale."

Il richiamo alla necessità di strutture, di un organico e di un metodo di lavoro adeguato alla realizzazione della legge 180 non dovrebbe prescindere dal fatto che quest'ultimo è l'aspetto cruciale. Il metodo di lavoro dipende dalla formazione degli operatori e dalla teoria del disagio psichico cui essi fanno riferimento. Il Forum, in nome di una tradizione propria del movimento basagliano, ritiene ancora oggi che "in presenza di un’episteme "debole" come è quello della psichiatria, in assenza di certezze, etiologiche e non, la formazione debba essere fatta (come è stato per il superamento del manicomio) "sul campo", come incontro, riflessione, scambio a più voci, a partire dalla specificità di quel soggetto, la sua storia, il suo contesto, le determinanti in gioco, le risorse, quelle in campo e quelle da attivare, le opportunità. Come interrogarsi, ricercare, sperimentare modelli organizzativi, risposte in divenire, ricercare altri attori, mettere in gioco altri saperi, favorire la partecipazione e la fantasia."

Il linguaggio utopistico attesta, purtroppo, che il Forum è fermo sul concetto di una prassi movimentista che, attraverso la creatività degli operatori e degli utenti e il coinvolgimento del sociale, possa produrre un nuovo sapere sul problema della salute mentale. Dopo venticinque anni di movimentismo, peraltro apprezzabilissimo, c'è da chiedersi perché di questo sapere non si vede ancora l'ombra.

Un motivo lucidamente colto dal Documento, esterno al movimento basagliano, è la persistente psichiatrizzazione dei servizi, attestata dal centrare la cura sulla prescrizione di psicofarmaci: "Nella prassi dei servizi di salute mentale, l’uso di farmaci da ausilio alla cura sitrasforma nell’intervento principale, che declassa tutto il resto a puro intervento satellite, a mera pratica di supporto alle terapie farmacologiche stesse. La ricaduta sui servizi è notevole. Si crea un circolo vizioso in cui la necessità (vera o presunta) di somministrare farmaci giustifica perfino pratiche repressive come la contenzione. Di fronte alla "efficacia" del farmaco, cioè alla sua capacità di dare risposte rapide, gli operatori non medici della psichiatria hanno spesso accettato un ruolo di contorno". Alcuni medici, dal canto loro, hanno rinunciato ad essere promotori di processi di cura articolati, in cambio di un indiscusso primato all’interno dei servizi e di una nuova immagine "professionale" da camice bianco ed esperto del cervello. Si aggiunga inoltre che le multinazionali del farmaco, finanziando ricerche universitarie, intervengono pesantemente anche sui manuali statistico-diagnostici."

Una conseguenza della psichiatrizzazione dell'assistenza è anche la diffusione, negli SPDC, delle pratiche contentive: "La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che spesso proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento. La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere."

Un'ulteriore conseguenza della psichiatrizzazione è "l’annosa questione del rapporto pubblico/privato/privato sociale. Questo rapporto è sempre difficile e ambiguo, quando si sostanzia come delega o come affidamento di sofferenza non "gestibile" da parte di un servizio pubblico spogliato di ogni potere ad affrontare questa sofferenza nel suo diverso esprimersi, e in particolare nelle cosiddette forme di "cronicità vecchia e nuova" prodotto di fatto della inadeguatezza della cura e presa in carico da parte dei servizi stessi, più intenti alle funzioni residuali di regolatori del traffico verso i privati che all’esercizio di una funzione cui hanno rinunciato."

C'è però un altro motivo, interno al movimento, che viene quindi misconosciuto, anzi restituito come un punto di riferimento essenziale. Esso si riconduce al "grande valore teorico dell’ossessivo richiamo di Franco Basaglia al privilegio delle pratiche."

Il Documento di fatto si conclude con un'affermazione che non potrebbe essere più esplicita: "Vogliamo ribadire il primato della pratica non solo come mero "fare", ma come produttrice di altra realtà e di altra cultura quando agiamo contemporaneamente sulla struttura materiale delle istituzioni, sul pregiudizio scientifico, sui rapporti di potere, sui legami sociali, quando operiamo per una universalizzazione dei diritti e delle libertà individuali."

2.

Ho già scritto, in un articolo precedente, che la difesa della legge 180 è sacrosanta, tanto più se si pensa che il progetto di riforma tuttora in via di elaborazione ha un solo aspetto realmente innovativo e inquietante: l'estensione del Trattamento Sanitario Obbligatorio a tutti i pazienti che, a giudizio del medico e dei familiari, ne hanno bisogno, e quindi l'obbligo da parte loro, anche se residenti a domicilio, di accettare e di sottoporsi alle cure prescritte, pena l'essere inseriti, eventualmente, nelle Strutture Residenziali. Ciò significa, in pratica, al di là delle belle parole, sottoporre a trattamento psicofarmacologico tutti gli psicotici, soprattutto gli schizofrenici, che pongono i maggiori problemi di gestione. Si tratterebbe, infine, di una completa psichiatrizzazione farmacologica dell'assistenza. Contestare vigorosamente questo orientamento, già in atto, è fondamentale per non avallare l'ideologia neopsichiatrica secondo la quale i disturbi psichici gravi sono null'altro che l'espressione di una malattia cerebrale.

Temo però che il Forum, perlomeno per qunto è dato di capire attraverso il Documento programmatico, possa risultare non all'altezza di questo compito. I motivi che alimentano questo timore sono molteplici.

Il primo è che il movimento da cui trae origine, pur avendo mantenuto nel corso degli anni, un atteggiamento fermamente critico nei confronti della psichiatria tradizionale, non ha saputo arginare la marea montante della neopsichiatria - erede di quella - che, avvalendosi delle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche, ha svolto, attraverso i mass-media, una propaganda capillare che ha fortemente influenzato l'opinione pubblica. Contrapporre a questa propaganda il riferimento alla sostanziale debolezza dell'episteme neopsichiatrico, insistere sulle incertezze etiologiche sulla natura e sulle cause delle malattie mentali, è stato un errore. La messa tra parentesi dell'etiologia delle malattie mentali, proposta da Basaglia, ha avuto un senso finché si è potuto dimostrare, nell'istituzione manicomiale, che, quale che fosse quell'etiologia, il cambiamento delle condizioni ambientali e del modo di rapportarsi degli operatori ai pazienti, modificava in maniera netta e clamorosa la condizione psicopatologica e il comportamento di questi. Dopo venticinque anni di esperienza territoriale, vale a dire un numero indefinito di pazienti passati attraverso i servizi territoriali la cui presa in carico si è realizzata spesso a partire dalla prima crisi, mantenere quella messa tra parentesi significa, né più né meno, non essere riusciti ad articolare una teoria alternativa a quella neopsichiatrica sulla malattia mentale.

Il Documento, ripetendo pedissequamente il verbo basagliano, implica che ogni teoria a riguardo sarebbe accademica, uno sterile esercizio interpretativo, e, da ultimo, nefasta nella prospettiva del nuovo sapere che la legge 180 avrebbe dovuto promuovere. Il problema però è che l'opinione pubblica è animata da un bisogno di sapere immediato, criticabile quanto si vuole, ma che si riconduce ad una logica causale universale: quella per cui, dato un qualunque fenomeno apparentemente incomprensibile, gli uomini si ciedono perché accade, quali ne sono le ragioni o le cause. Opporre il non lo sappiamo ancora alla sicumera con cui i neopsichiatri fanno riferimento alle "sostanze" biochimiche in difetto o in eccesso è una pessima strategia. Aggiungere poi a questo che le cause sono molteplici, di ordine biologico, psicologico, sociale e culturale, senza specificare come e quanto agiscono è confusivo.

Il movimento evidentemente ritiene che l'interesse dell'opinione pubblica per le cause sia ben minore rispetto a quello per la gestione della malattia mentale. Su questo piano, l'operatività dei basagliani è ammirevole: la loro presa in carico delle situazioni è di fatto ad ampio raggio. Dopo venticinque, però, occorre riconoscere che, in difetto di un serio progetto di prevenzione e di un'incidenza terapeutica maggiore rispetto a quella attuale, circostanze entrambi dipendenti da un modello di riferimento sulla malattia mentale, la pratica a tutto campo sembra un po' un vicolo cieco. Tra la domanda di cura, che fa capo alla crescente capacità che la nostra società ha di produrre disagio psichico, e l'offerta, vale a dire le capacità di presa in carico dei servizi, il rapporto tende sempre più a squilibrarsi verso la prima. Se poi la presa in carico, come avviene in rapporto agli schizofrenici, è una presa in carico a tempo indeterminato, è inevitabile che i servizi vadano incontro ad un sovraccarico lavorativo che riduce progressivamente le prestazioni e comporta, quasi ineluttabilmente, la necessità di adottare in misura crescente provvedimenti farmacologici.

La somministrazione di psicofarmaci long-acting - è triste dirlo - non sono solo una prerogativa degli psichiatri organicisti. Questa pratica è ormai sempre più diffusa anche nei servizi d'ispirazione basagliana. Certo, essa è associata ad un'attenzione costante per la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie. Mel momento in cui, però, si ritiene indispensabili, ai fini del controllo dei sintomi, l'assunzione regolare degli psicofarmaci, ciò significa in pratica accreditare il presupposto di fondo della neopsichiatria.

Veniamo dunque al verbo della "pratica" che, in opposizione a qualsivoglia sforzo teorico, si continua a definire come "produttrice di altra realtà e di altra cultura". Ripetere questo slogan dopo venticinque anni senza documentare l'altra realtà e l'altra cultura prodotta sembra francamente ridicolo. L'altra realtà prodotta si riduce, di fatto, all'esistenza di servizi che adottano localmente una logica "umanitaristica", rispettosa dei diritti dei pazienti, apprezzata da alcune famiglie un cui membro è in cura e meno da altre, appoggiata da alcuni politici e amministratori locali, e che, talora, comporta un coinvolgimento di una parte della popolazione sul registro della solidarietà. L'altra cultura invece è di là da venire, se è vero (oggi come vent'anni fa) che, anche nelle aree in cui più è attivo il movimento, il tasso di utenza giovanile è nettamente minore rispetto a quella dei "cronici" e degli anziani. Ciò significa che, malauguratamente, le famiglie dei pazienti accedono ancora alla sirena della neopsichiatria, posto che poi, dopo anni di varie cure farmacologiche, "scaricano" i pazienti sui servizi.

Occorre, infine, riconoscere una verità che, all'interno del movimento, viene sistematicamente rimossa. Lo scarto tra enunciazioni teoriche e pratiche assistenziali non riguarda solo i servizi gestiti da psichiatri tradizionali o da neopsichiatri. Riguarda, purtroppo, anche i servizi alternativi. Non pochi basagliani "storici" si sono assicurati, sull'onda della lotta antistituzionale, una rendita di posizione, ed esercitano il loro indiscusso potere in maniera sostanzialmente burocratica. Un indizio probante di questo si ricava anche dallo stile del Documento, che è di fatto a tratti insopportabilmente datato e scontato.

Un ulteriore indizio è fornito dall'assenza, nel Documento stesso, di una qualunque valenza autocritica. La difesa della legge 180 diventa, pertanto, un obbiettivo fideistico dietro il quale celare gli errori commessi. Il principale tra questi - lo ripeto - è continuare a contrapporre la pratica alla teoria, come se quest'ultima fosse solo una perdita di tempo e uno sterile esercizio intellettualistico. E' vero - come diceva Basaglia - che, avendo appena un'infarinatura specialistica, non ci vuole nulla a scrivere un bel libro sui fenomeni psichiatrici, senza che questo abbia alcuna incidenza sulla realtà. E' anche vero però che affrontare quei fenomeni prescindendo da una cornice teorica vincola l'assistenza alla gestione dell'esistente, nell'attesa di un'improbabile rivoluzione sociale e culturale, e comporterà inesorabilmente, per la saturazione dei servizi (che in parte già si sta realizzando) una regressione verso forme di gestione sempre più farmacologiche e sempre meno psicoterapeutiche e sociali.

Anni fa proposi l'istituzione di un archivio a livello nazionale di situazioni cliniche analizzate nei loro diversi aspetti (biologico, psicologico, interattivo, sociale e culturale) e valutate nella loro evoluzione attraverso le diverse pratiche. Un tale archivio favorirebbe la produzione di un nuovo sapere, scientificamente organizzato, più dell'aspettativa che esso nasca per partenogenesi nel seno della società sotto la spinta del movimento. Riproporrei volentieri la proposta se non fossi certo che essa è destinata ad imbattersi nelle critiche di chi attribuisce alla pratica sociale un significato catartico.

Dicembre 2003