Legge 180 XXX Anno


1.

In ambito psichiatrico, evidentemente, il destino mi ha riservato il ruolo del bastian contrario, peraltro a tal punto isolato da non infastidire nessuno. La mia critica radicale nei confronti della neopsichiatria è ben nota ai (pochi) lettori dei miei libri e di Nilalienum. Purtroppo, però, nonostante la condivisione di numerosi principi, non sono riuscito a trovare una collocazione neppure nell’ambito della psichiatria cosiddetta alternativa di ispirazione basagliana.

In articoli precedenti, ho cercato di chiarire i motivi della mia dissociazione dal movimento, al quale ho partecipato attivamente lavorando in Ospedale psichiatrico nel periodo più fervido della contestazione antistituzionale, coronata dall’approvazione, nel 1978, della legge 180.

Ricordo ancora che, il giorno successivo all’approvazione della legge, entrando in Ospedale fui accolto dal gelido silenzio dei colleghi “conservatori” il cui messaggio implicito ma eloquente era: Avete vinto, ma siete più matti dei matti!

Il boicottaggio nei confronti delle comunità che gestivo, aperte e nelle quali era bandito sia l’elettroshock (allora ancora largamente praticato) sia l'uso dei mezzi di contenzione, già evidente in precedenza, si incrementò.

Quando decisi di dimettermi nel 1982, tra i motivi c’era anche il peso di eccessive responsabilità. In conseguenza del boicottaggio, parecchi medici di guardia si rifiutavano di intervenire per urgenze che riguardavano i “miei” pazienti, in quanto in disaccordo sui principi con cui venivano gestite le comunità. In realtà, essi sapevano che gli infermieri rifiutavano sia l'uso delle triplette (un cocktail di neurolettici atto a sedare un cavallo) sia il ricorso alle contenzioni, per cui la “gestione” delle crisi notturne rischiava di fargli “perdere tempo” e sonno. Gli psichiatri “duri”, con la minaccia di un ricorso all'autorità giudiziaria per omissione di assistenza, talora riuscivano a piegare gli infermieri. Dovevano, però, affrontare nei giorni seguenti la mia contestazione del loro operato in presenza del paziente e degli infermieri stessi.

Ad un certo punto, essi sostennero che, essendo i criteri gestionali delle comunità troppo distanti dalla comune pratica della psichiatria, richiedevano la mia presenza in caso di urgenze. In conseguenza di questa richiesta, non eludibile, mi trovai costretto ad assicurare la reperibilità praticamente 24 ore su 24, domenica compresa. Mi riposavo, insomma, quando mi capitava il turno di guardia.

La goccia che fece traboccare il vaso non fu, però, l'impegno (che comunque squilibrava sia l’attività di terapeuta privato che gli affetti familiari), ma la ventilata disposizione da parte del Primario “basagliano”, nel 1980, due anni dopo l'entrata in vigore della legge 180, di utilizzare tutti gli psichiatri dipendenti dal SSL (compresi quindi quelli dell’Ospedale psichiatrico) in turni di guardia presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale civile (il San Filippo Neri). Colà la pratica delle contenzioni, in caso di pazienti “agitati”, era resa obbligatoria dalla presa di posizione di alcuni infermieri che non volevano saperne di pratiche alternative che permettevano, a loro dire, allo psichiatra di “farsi bello” agli occhi dei pazienti mettendo a rischio la loro incolumità.

Ero entrato, insomma, in Ospedale psichiatrico, vigendo ancora la legge del 1904, con l’intento di eliminare ogni trattamento contrario ai diritti dei pazienti, tra cui le contenzioni, e rischiavo di trovarmi costretto, dopo averle abolite nelle comunità manicomiali, ad autorizzarle nel Centro di Diagnosi e Cura dopo la promulgazione della 180!

Non ero affatto sorpreso per questa contraddizione. Tutti sapevano che la cosiddetta cosiddetta legge Basaglia (presentata di fatto in Parlamento dall'on. Bruno Orsini) era il frutto di un compromesso tra Basaglia stesso e gli psichiatri che non intendevano rinunciare alla connotazione medica della loro disciplina. Basaglia aveva ottenuto ciò che considerava essenziale: la chiusura degli Ospedali psichiatrici e il decentramento territoriale dell’assistenza psichiatrica. Sulla costituzione di centri di diagnosi e cura negli Ospedali civili era stato costretto a cedere, nonostante fosse stata ventilata la possibilità di istituire presso ogni Dipartimento di salute mentale territoriale un centro per le crisi. Gli psichiatri imposero il principio di riconoscere il carattere medico delle emergenze psicopatologiche: a posteriori risulta chiaro che tale principio ha rappresentato il cavallo di Troia atto a minare dall’interno la legge e a restaurare il potere psichiatrico.

In termini politici apprezzavo il realismo di Basaglia, il quale riteneva che, se l’assistenza territoriale avesse funzionato, il ruolo e il potere ideologico dei centri ospedalieri sarebbero progressivamente diminuiti. Al di là della difficoltà personale di subordinare le mie convinzioni alla logica del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – circostanza irrilevante se non per il fatto di troncare la mia carriera ospedaliera -, altri erano i motivi della mia preoccupazione.

Cominciava, infatti, a prendere corpo in me la convinzione che, vinta la battaglia della legge 180, il movimento alternativo potesse perdere la guerra di un superamento del paradigma psichiatrico e quindi di una nuova cultura sulla “salute” e sulla “patologia” mentale.

Ero affascinato dal carisma personale di Basaglia, dal suo spessore culturale, dalla sua coerenza etica e dal suo pragmatismo “creativo”. Non ero affatto convinto, invece, che la “messa tra parentesi” della “malattia mentale” potesse bastare a fare affiorare la faccia reale di quest’ultima, vale a dire quella sociale, e a dare luogo ad un nuovo “senso comune” riguardo ad essa. In rapporto alla mia formazione ero (e sono) convinto che l’interazione con l’ambiente è la matrice dei conflitti che si esprimono sotto forma di psicopatologia. Al tempo stesso, ero (e sono) convinto che il rapporto tra soggettività e ambiente è più articolato e complesso di quanto si possa ricavare da un’analisi dei fattori sociali.

Ho sempre ritenuto che, entusiasmato dai suoi indubbi successi, Basaglia, che disprezzava profondamente (e giustamente) la psichiatria organicistica ed era oltre modo critico nei confronti della psicoanalisi, non abbia mai compreso a fondo che il mantenersi della psichiatria nell'ambito di una specializzazione medica serviva essenzialmente a riverberare sugli psichiatri il prestigio crescente di cui godeva la medicina (nonostante le critiche di I. Illich). Ancora oggi, o forse oggi ancor più che in passato, la gente comune non sa che le etichette diagnostiche e la manciata di psicofarmaci che gli psichiatri utilizzano corrisponde semplicemente a protocolli standardizzati e non ad un itinerario formativo adeguato all'oggetto in questione. Ritenere gli psichiatri depositari dei misteri e degli abissi della mente è del tutto ridicolo: nella grande maggioranza, essi sono solo capaci di rilevare i sintomi, applicare ad essi i criteri diagnostici del DSM-IV e adottare, di conseguenza, le linee-guida farmacoterapèeutiche, che vengono stilate o sponsorizzate dalle industrie farmaceutiche.

Ciò che la lotta antistituzionale aveva dimostrato era la brutalità dell'Ospedale psichiatrico, l'essere i “matti” persone e il loro rispondere positivamente a chi interagiva con essi rispettandone la dignità e i diritti. Al di là di questo, l'opinione pubblica non aveva minimamente cambiato idea sull'esistenza della malattia mentale come patologia medica.

Nel momento in cui, il modello basagliano, che aveva dato rilevanti risultati a Gorizia, a Trieste, a Perugia, ecc. si fosse generalizzato sul territorio nazionale, laddove psichiatri, infermieri e operatori sociali alternativi rappresentavano un'assoluta minoranza, cosa avrebbe potuto impedire la restaurazione in forma strisciante del modello psichiatrico medico?

Era necessario, a mio avviso, fare un salto di qualità: affrontare “scientificamente” il problema dei fenomeni psicopatologici considerandoli, sì, espressioni dell'interazione dei soggetti con i contesti ambientali – familiari e socio-culturali -, ma al tempo stesso facendosi carico, sul piano della comprensione e della spiegazione, dei nodi e delle dinamiche conflittuali che essi implicano, la cui soluzione può essere agevolata dall'ambiente, ma deve avvenire, da ultimo, sul registro soggettivo o intersoggettivo.

Data una formazione fenomenologica, totalmente incentrata sull'incontro tra le persone e su una straordinaria capacità di capire il mondo vissuto del paziente, e una formazione politica che tributava un valore enorme alle opportunità offerte dall'ambiente sociale per riuscire ad esprimere gli autentici bisogni umani, Basaglia era apertamente ostile a qualsivoglia forma di psicologismo. Si può ben dire, con il rispetto che si deve ad una straordinaria personalità, che, nella sua ottica, il soggetto si configurava marxianamente (ma in un’accezione riduttiva del pensiero di Marx) come un prodotto delle circostanze sociali.

Basaglia non pensava affatto che, in una società fatta a misura d'uomo, la “follia”, intesa come una “patologia della libertà umana”, potesse scomparire. Di sicuro, riteneva che la sua faccia più nascosta, quella sociale ed esistenziale, sarebbe stata agevolmente comprensibile.

2.

Il trentennale della legge 180 viene festeggiato dal movimento basagliano sotto la spada di Damocle di un'imminente riforma, che fa parte del programma dell’attuale governo, la quale, rispettandone apparentemente la lettera, se non altro per il prestigio di cui gode a livello internazionale (anche se, e non è un caso, rimane una rivoluzione in un solo paese), quasi di sicuro, stando ai progetti avanzati, ne violerà lo spirito, spostando l'asse dell'assistenza dalla presa in carico a tempo pieno del paziente alla tutela delle famiglie e della società. Via via che le esigenze di sicurezza sociale verranno affrontate, come già sta accadendo, in termini repressivi, è impensabile che possa essere accettata la libera circolazione nel territorio urbano di soggetti manifestamente disturbati, anche se nella stragrande maggioranza inoffensivi.

Il movimento alternativo ha preso atto di questo pericolo e si sta organizzando per opporre ad esso la massima resistenza possibile. Tra le varie iniziative, c'è da segnalare la ripresa della pubblicazione di una rivista periodica (Fogli di informazione), che, dal 1972, ha documentato la pratica-teorica basagliana attiva sul territorio nazionale. Il numero 5-6 della terza serie, uscito da poco, s'intitola appunto Legge 180 XXX anno e cerca, per un verso, di fare un bilancio del significato storico, culturale e operativo della legge stessa e, per un altro, di ribadirne la validità di fondo. Gli interventi, sotto forma di articoli o di testimonianza, coinvolgono gran parte degli operatori psichiatrici dichiaratamente basagliani, alcuni amministratori vicini al movimento e alcuni pazienti che hanno usufruito di una valida assistenza territoriale.

Non intendo recensire l'intero numero della Rivista. Mi limiterò a qualche riflessione su alcuni contenuti esposti, fermando l'attenzione soprattutto sulla pratica teorica che viene rivendicata dal movimento alternativo come l'unica fedele al pensiero basagliano.

Intanto riesce esplicita la preoccupazione per le proposte di riforma della legge 180 che, sia pure in strutture assistenziali protette, tende a restaurare il principio della claustrazione o dell'obbligo per il paziente di curarsi o di “lasciarsi” curare. La preoccupazione è del tutto fondata, data la maggioranza parlamentare di cui dispone il governo. Ma c'è da chiedersi se quella proposta di riforma potrebbe giungere in Parlamento se l'opinione pubblica fosse favorevole, in maggioranza, alla legge 180 (come lo è per esempio per la legge sull'aborto e sul divorzio) e se non fosse stata influenzata in maniera decisiva dalla psichiatria restaurata, che è riuscita nuovamente a riproporre lo stereotipo culturale della malattia mentale come malattia biologica.

Si può ritenere un indubbio successo della 180 l'avere indotto nell'immaginario collettivo, con una sistematica e documentata denuncia, il rigetto del manicomio e della logica segregativa, repressiva e brutale che lo ha caratterizzato. Da questo punto di vista, l'Italia può essere orgogliosa di un progresso civile e politico che non ha riscontro nel mondo intero.

Il rifiuto del manicomio, però, non sembra avere inciso, se non minimamente, sulla percezione che l'opinione pubblica ha della malattia mentale.

E' vero che, con l'abolizione dei manicomi, la legge ha restituito ai pazienti “la possibilità di restare cittadini, di essere titolari dei propri diritti, di avere la speranza di rimontare il corso delle proprie esistenze, persino di guarire.” (Peppe Dell'Acqua, p. 23) Dato però che l'ultima possibilità si realizza con estrema rarità, la libertà dei pazienti è esposta al rischio di un giudizio sociale di stranezza o di incomprensibilità che conferma il loro essere affetti da una malattia mentale e, talvolta, non adeguatamente (vale a dire farmacologicamente) curati. Si tratta certo di un ritardo del senso comune rispetto alla realtà complessa della psicopatologia. Ma è un ritardo che coinvolge anche i pazienti i quali, continuando a confondere il mondo interno con quello esterno, negano spesso di avere dei problemi o, se li riconoscono, non sono in grado di comprenderli, e gli stessi psichiatri alternativi che, continuando a mettere tra parentesi la “malattia” e prefiggendosi l’obiettivo di aiutare i pazienti a vivere con essa, di fatto o la negano o la reificano come un oggetto misterioso. Cosa è stato fatto per colmare questo ritardo? Purtroppo poco.

Ancora Dell'Acqua scrive: “Conosco persone che avevano la mia stessa età quando ho iniziato a lavorare 36 anni fa e le conosco ancora adesso. Sono guarite? Potrei dire di sì, però poi ad una valutazione psichiatrica, a un esame obiettivo, i miei colleghi psichiatri potrebbero forse dire che hanno un delirio cronico, si potrebbe dire che hanno una schizofrenia residuale, che hanno un restringimento della vita affettiva e relazionale, che sono malati e sono malati cronici. Ma io continuo a dire che sono guariti. Hanno recuperato un loro ruolo, vivono relazioni amicali e familiari, attraversano luoghi e tempi della città, insomma stanno vivendo la loro vita. Stanno vivendo in una dimensione di possibilità.” (p. 34)

Il problema è che lo stesso giudizio degli psichiatri, sia pure senza termini tecnici, lo esprimono alcuni amici, parecchi familiari e la maggioranza dei cittadini. Se si confronta la situazione dei pazienti con quella che sarebbe stata la loro esperienza all'interno dei manicomi, il salto di qualità è indubbiamente rilevante. E' stato dimostrato, dunque, che si può intervenire sui pazienti in un altro modo rispetto a quello tradizionale, che ne rispetta la libertà e i diritti, e che essi possono vivere con la malattia. Ma questo può bastare per indurre una diversa cultura collettiva sui problemi della salute mentale e del disagio psichico?

Sandro Ricci scrive a riguardo: “Occorre secondo me riflettere meglio sul fatto di avere un po' tutti sottovalutato l'operazione scientifico-culturale dei DSM e di avere un po' forse snobbato i suoi aspetti più riduzionistici, trascurandone la pervasività. Ciò che è risultato più convincente di questo modello è diventato nel tempo più pericoloso: l'avere separato il soggetto dalla sua malattia.” (p. 111)

E' assolutamente vero, ma non è meno vero che la psichiatria alternativa ha prodotto l'effetto opposto: quello di incorporare la malattia nel soggetto fino a definirla una possibilità del suo essere o meglio dell'umano. Si tratta, però, di una possibilità sgradevole per il soggetto che la sperimenta e, talora, per coloro con cui interagisce. Meno sgradevole forse della normalità che, secondo Ricci, va criticata radicalmente. Ma come si può criticare la normalità se non dimostrando che la “follia” è il tentativo fallito di andare al di là di essa?

Questo era il senso dell'antipsichiatria degli anni '70 del secolo scorso. Dato però che essa non ha contribuito alla lotta contro l'istituzione manicomiale, è stata in pratica bandita e squalificata dal movimento alternativo.

In due diversi articoli il rapporto tra psichiatria antistituzionale italiana e antipsichiatria viene richiamato.

Ferruccio Giacanelli, ricostruendo i primi anni della lotta avviata da Basaglia e da altri contro il manicomio, liquida la questione in poche righe: [Non] ci aiutò molto la grande ventata dell’antipsichiatria che il più spesso si risolse, nel panorama italiano, in generalizzato, confuso ideologismo e facile negazionismo di ogni presupposto scientifico, tecnico, di ogni agire terapeutico, o dell’esigenza di analisi concreta della prassi psichiatrica o delle sue vere radici-storico-sociali. Il rischio fu evitato dall’impegno di quegli operatori, variamente sostenuti da qualche amministrazione locale, che dimostrarono come nella pratica si potesse agire un’altra psichiatria, creare e vivere un altro rapporto con il paziente e il suo ambiente, addirittura rendere decifrabili comportamenti sino ad allora percepiti come assurdi e inaccettabili.” (p. 8)

Giacanelli ha perfettamente ragione nel sottolineare l’incidenza di gran lunga maggiore che la prassi antistituzionale, incentrata sull’ospedale psichiatrico, ha avuto rispetto al movimento denominato antipsichiatrico. Egli però confonde gli slogan antipsichiatrici fatti propri, all’epoca, da alcune frange estremistiche della sinistra (che, tra l’altro, chiedevano anche la chiusura delle carceri) con il pensiero antipsichiatrico che faceva capo, per fare solo due nomi, a Th. Szaz e a R. D. Laing.

Che il giudizio di Giacanelli sia riduttivo si ricava dalla rievocazione che Paolo Tranchina fa del viaggio in Inghilterra con Basaglia, avvenuto nel 1969, per conoscere Laing e Cooper e visitare la comunità terapeutica di Kingsley Hall. Dopo aver tratteggiato le diverse personalità di Laing e di Cooper, egli scrive: “Nonostante l’aspetto modesto, si respirava a Kingsley Hall un intenso senso di pace, di accettazione, come di un posto dove si può stare in pace, ritrovare la pace con se stessi…

Anche Franco era stato colpito dall’esperienza e discuteva animatamente delle sue possibilità di diffusione, di utilizzazione pratica. Riportava infatti ogni proposta terapeutica all’interno di tematiche istituzionali, politiche. La passione che ci metteva, il fatto di avere alle spalle l’esperienza di superamento del manicomio, tutto il ribollire di tematiche politiche, antistituzionali, di quegli anni in Italia, davano al suo discorso uno spessore critico, un’incidenza concreta, che spesso mancavano ad altri.” (p. 53)

E’ senz’altro vero che sia Laing che Cooper si sono rapidamente ritirati dalle istituzioni pubbliche per contrapporre alla pratica psichiatrica corrente un modello alternativo privato, incentrato sulla comunità terapeutica, che ha inciso minimamente sulla gestione della malattia mentale in Inghilterra.

Ma perché – ci si può chiedere ancora oggi – non è stato possibile integrare nel movimento alternativo italiano il pensiero psicopatologico profondo e radicale di Laing?

Qui si giunge al nodo della questione. Cercherò di essere chiaro per evitare equivoci.

3.

Basaglia di fatto pensava che, essendo la malattia mentale una forma di risposta ad una società normativa e intollerante, che opponeva ad essa il suo potere repressivo, la cura della malattia doveva fondarsi sulla pratica sociale, vale a dire sulla chiusura dei manicomi, sulla restituzione ai pazienti della loro libertà e dei loro diritti e sul loro reinserimento nel contesto sociale, finalizzato alla possibilità di recuperare ruoli vitali e di “guarire” i pregiudizi dei normali.

Come strategia antistituzionale, non c’era di meglio da fare.

Il problema è che, nonostante le remore basagliane nei confronti di ogni teorizzazione della malattia mentale, trasferendosi sul territorio, la prassi antistituzionale è divenuta essa stessa una teoria e un’ideologia.

Lo spostamento dell’assistenza psichiatrica sul territorio ha infatti rivelato ciò che la segregazione manicomiale occultava: la tendenza intrinseca a gran parte dei disagiati psichici al ritiro e all’isolamento sociale. Certo, questa tendenza si può (e si deve) interpretare come conseguenza d interazioni familiari e sociali negative e disturbanti. Ma come non leggere in essa nodi interiori che fanno capo ad un carico di emozioni espressive di conflitti psicodinamici (rabbia, paura, vergogna, sensi di colpa, ecc.)?

Per sciogliere questi nodi, che affondano le loro radici nelle memorie soggettive (spesso inconsce) e in alcuni aspetti strutturali dell’apparato psichico, lo stabilirsi di un rapporto interpersonale con operatori disponibili alla comunicazione, attenti ai bisogni dei pazienti ed empatici è essenziale. Sicuramente, ma purtroppo non sempre, essa serve a scongiurare un isolamento totale che, alla fine, produce cronicità, ma non basta. Così come non basta il tenere il paziente a contatto con la realtà attraverso pratiche riabilitative di vario genere.

Lo stabilirsi di un valido rapporto con gli operatori è la premessa perché quei nodi siano affrontati. La scelta del movimento alternativo è stata ed è, però, quella di metterli tra parentesi per non rischiare di cadere nello psicologismo.

Ritengo che, a distanza di trent’anni dalla Legge 180, tale scelta sia esiziale. E’ vero: la terapia “sociale” riduce i rischi della cronicità, ma costringe i pazienti a vivere con la malattia, come se questa fosse una fatalità che va incapsulata in un’esperienza che si mantiene comunque a contatto del mondo.

E’ quanto si ricava dall’unico articolo scritto da un’assistita, Annalisa Landi, che si definisce ironicamente “a volte paziente, a volte contenta giullare della psichiatria (ma prima di questo di se stessa” (p. 78). In esso si legge:

“Grazie alla Legge 180 io ho potuto vivere l'evento della mia frammentazione, (avvenuto per la prima volta nell'infanzia e da adulta nella forma più estrema per un tempo di quattro anni ininterrottamente), restando nel mio ambiente naturale, in mezzo alla varietà degli altri cittadini, in una dimensione di andirivieni da un day hospital all'interno di un CSM del mio Quartiere, potendo così continuare ad esprimermi con i miei tentativi autonomi di ricostruzione e mettermi in dialogo con la vita della città (anche con il mio grido), con le sorprese della natura e degli incontri inaspettati con i viventi, con le altre persone. Ho potuto viverlo in un ambiente dove non c'era né sorveglianza né custodia nei miei confronti, senza sbarre, per poter non confondere l'evento che mi era accaduto con altro da quello che realmente era, dove non dovevo chiedere permessi per circolare liberamente. L'ho vissuto come un evento accaduto a me, non una costruzione della coercizione psichiatrica e senza essere obbligata a darmi degli obiettivi che dovevo rispettare per forza, ma accogliendo la molteplicità degli stimoli - e anche spontaneamente sottraendomi ad essi secondo il mio sentire del momento - che mi facevano desiderare e cercando di seguire proprio quei desideri che spontaneamente sbocciavano in me. Vivendo, insomma, senza artificialità imposta la verità del processo di lotta tra paura e desiderio che costituisce la sublime "follia" dell'essere uomo in questo mondo, caratterizzati dalla vulnerabilità e senza paradiso terrestre (che è poi ii percorso di cura per trovare la propria autenticità che vuoi dire essere davvero viventi di tutti e che ha il suo piacere e il suo aspetto sofferto, anche in modo estremo). E continuo a viverlo in libertà questo evento che accade di nuovo e frequentemente, non solo dopo lunghi periodi, ma anche più volte nella stessa giornata, in modo improvviso e pervasivo, come già un fatto compiuto, senza segni premonitori per prevenirlo. Adesso posso viverlo senza più ricoveri in day hospital, ma frequentando il CSM, anche assiduamente se lo ritengo opportuno, perché rilevo che gli operatori mi comprendono. Senza la Legge 180 - che critico radicalmente per la presenza al suo interno del TSO, e pur avendo un nucleo famigliare del tutto contrario ai ricoveri psichiatrici - se anche io stessa avessi cercato spontaneamente aiuto, avrei avuto un percorso obbligato, avrei trovato l'unico luogo che pretendeva di occuparsi dell'angoscia dell'uomo: il manicomio (dal quale forse non sarei mai più uscita).” (pp. 68-69)

Con il rispetto che è giusto avere per un soggetto che rivendica i diritti legati alla diversità, non posso non rilevare che definire la “follia” “un evento che accade di nuovo e frequentemente, non solo dopo lunghi periodi, ma anche più volte nella stessa giornata, in modo improvviso e pervasivo, come già un fatto compiuto, senza segni premonitori per definirlo” (p. 68), conferma più di quanto contesti le ipotesi della psichiatria tradizionale.

L’affrancamento dal circuito psichiatrico pone al riparo da una serie di atteggiamenti e di trattamenti umilianti, tra cui la restrizione della libertà, ma, se il paziente non viene oggettivato, in quanto portatore di una malattia, è questa ad essere oggettivata dal paziente stesso e dagli operatori alternativi come evento che “rappresenta l’universale angoscia dell’uomo, la sua esperienza di spezzettamento, la sua frammentazione naturale nel profondo, che è tanto condivisa quanto terrorizza, che tutti sentiamo, seppure per momenti magari più brevi, ma non meno intensi” (77), e il cui unico rimedio è viverlo “nella comunita come si è capaci e così come si è” (p. 74)

Il persistente rifiuto dello psicologismo da parte del movimento alternativo, per tanti aspetti meritevole, penso che sia un’eredità basagliana da cui esso dovrebbe liberarsi. Se si prescinde, infatti, dal ritenere che l’incontro fenomenologico tra mondi di esperienza – quello degli operatori e quello dei pazienti – e che l’interazione libera con la vita e con la società siano tout-court terapeutici, il problema dei nodi interiori, dei conflitti psicodinamici, va ripensato senza remore. Quei nodi, infatti, non necessariamente postulano, per essere spiegati, di immergersi nell’universo dei fantasmi psicoanalitici: essi, anzi, almeno dal mio punto di vista, illuminano i nessi tra soggettività e storia sociale, che altrimenti rimangono una petizione di principio.

D’altro canto, continuare a contrapporre allo psicologismo un approccio sociologista sembra non solo fuori tempo, ma anche indiziario di un’ideologia riduttiva in rapporto alla realtà umana. Se, infatti, l’esperienza di ogni soggetto si svolge sul registro di un’interazione costante con il mondo sociale, nel bene e nel male, sociologizzarla in toto significa negare che, sulla base di quell’interazione, il mondo interiore si struttura e talora in maniera tale da vincolare il soggetto a moduli di comportamento che sono intrinsecamente determinati.

Certo, non esiste una strutturazione psicopatologica che renda il soggetto inaccessibile e ininfluenzabile da parte dell’ambiente. Se un soggetto che sperimenta un delirio paranoico viene ricoverato contro la sua volontà e trattato con la consueta prassi oggettivante, ha le sue ragioni per incrementare i suoi vissuti persecutori che fanno riferimento ad un complotto.

Viceversa, se egli viene affrontato con comprensione empatica per il suo stato di sofferenza, è probabile che i suoi vissuti si attenuino transitoriamente e che egli giunga a sperimentare, nel corso dell’incontro, una certa serenità.

Non c’è nulla di più sorprendente, in analisi, dell’interagire con un soggetto che sente pressoché di continuo “voci” che lo ingiuriano e lo minacciano e constatare, nel corso del colloquio, una continua fluttuazione soggettiva tale per cui egli si apre alla comunicazione e interagisce verbalmente in maniera assolutamente appropriata e poi, repentinamente, si distacca dalla realtà e scruta fuori dalla finestra o alza lo sguardo verso il soffitto angosciato per capire da dove vengono le voci e cosa dicano.

Negare la realtà di un mondo interiore che ha una sua relativa autonomia rispetto alla realtà sociale e le cui modalità di funzionamento si basano sulla storia interiore del soggetto, laddove si danno le memorie significative che permettono di capire le interazioni sociali che hanno prodotto il disagio, è negare la luce del sole.

Dopo trent’anni, il movimento alternativo continua ad operare questa negazione. Rimane fedele a Basaglia? Può darsi, ma si tratta di una fedeltà ossequiosa e mitizzante. L’autentico rispetto che si deve ai Maestri comporta il tenere conto del loro messaggio e l’andare al di là di esso.

“Non nostalgie né trionfalismi” in occasione del trentennale della legge, scrive Ferruccio Giacanelli. Di fatto in vari articoli della rivista risuonano echi nostalgici e toni trionfalistici. Penso che questo sia inevitabile per un movimento che, sul piano politico e giuridico, ha raggiunto un successo insperato (e dovuto almeno in parte a circostanze irriproducibili come l’imminente scadenza del referendum promosso dal Partito radicale che, in pratica, avrebbe cancellato la legge vigente del 1904).

C’è di peggio però della nostalgia e del trionfalismo: c’è la retorica insopportabile della socioterapia come panacea. Il farsi carico dei bisogni dei pazienti e delle famiglie e il lottare contro tutte le forme di istituzionalizzazione e di impoverimento dell’umano presenti nella nostra società sono autentici valori. Ma perché non considerare che tra i bisogni dei pazienti c’è anche quello di capire che il rapporto tra la storia sociale e la loro soggettività. vale a dire cosa avviene nel loro spazio interiore, quali dinamiche psicologiche li tormentano, qual è il significato dei sintomi che li affliggono, che cosa essi possono fare attivamente per risolverli?

La preclusione antipsicologista (o meglio antipsicoanalitica) del movimento alternativo italiano è una zavorra che impedisce di fare un salto di qualità e di porre la teoria e la pratica sul piano di una panantropologia che integri le diverse dimensioni dell’esperienza umana, dalla storia alla neurobiologia. In difetto di questo salto, la pratica territoriale basagliana sembra avere un’ossessione costante: quella di porre il soggetto al riparo dal suo mondo interiore attraverso una rete di interazione (con gli operatori, con altri pazienti, con gli amici, i familiari, i colleghi di lavoro, ecc.) che lo mantenga il più possibile in rapporto con la realtà.

E’ vero che il manicomio praticamente escludeva il paziente dalla vita sociale ed è vero ancora oggi che la società, nella sua ossessione normativa, tende ad emarginare e ad escludere qualunque soggetto manifesti un comportamento diverso dalle aspettative del senso comune. Lottare contro l’esclusione sociale era ed è giusto e necessario. Se la lotta, però, diventa una tendenza continua ad includere il paziente in situazioni sociali che gli consentono ma lo obbligano anche ad interagire con gli altri, come se solo la capacità di relazionarsi socialmente fosse l’espressione delle parti sane del suo essere e solo essa potesse assicurargli di stare al riparo dagli incubi interiori, come si può negare che tale orientamento terapeutico ha un paradossale e inquietante carattere di adattamento normativo?

Sembra che gli psichiatri basagliani, sicuramente attenti ai “bisogni” concreti dei pazienti e meritevoli per le risposte che riescono a dare ad essi, continuino ad essere motivati dall’esigenza di dimostrare che i “folli” riescono a vivere apparentemente in maniera molto simile ai normali. Apparentemente, questo è il punto.

Purtroppo il mondo interiore ha una sua relativa autonomia, una sua strutturazione e le sue leggi dinamiche. Finché questo non sarà riconosciuto, il rischio è che la prassi territoriale basagliana, utilissima nell’impedire che le esperienze si avviino verso la cronicità che in passato produceva il manicomio e che adesso producono le cure farmacologiche e oggettivanti della psichiatria tradizionale, dia luogo ad un’interminabile dipendenza dei pazienti dagli operatori e dai servizi territoriali.

4.

Quanto detto sinora è una critica ad alcuni aspetti della psichiatria alternativa che continua ad ispirarsi, talora un po’ pedissequamente, al “verbo” di Basaglia, che non mette in discussione il significato storico della lotta antistituzionale e dei principi di fondo che l’hanno ispirata. Che tali principi, il cui intento era di demistificare la pratica manicomiale e il suo quadro di riferimento paradigmatico, si siano per alcuni aspetti trasformati in una nuova ideologia che tiene troppo conto dei fattori sociali ed economici e poco conto di quelli psicologici e neurobiologici, non è sorprendente. La pretesa di Basaglia che si desse una faccia reale della follia - quella sociale -, che sarebbe affiorata naturalmente togliendo via le incrostazioni che gravavano su di essa, era ed è un presupposto ideologico.

Il problema è che, nell’ambito dell’esperienza e dei fatti umani, nulla può sfuggire alla trappola dell’ideologia, per cui il criterio distintivo tra i diversi modi di vedere con cui le persone, i gruppi e i movimenti, e anche la scienza, si rapportano alla realtà consiste nel valutare il grado di mistificazione di un’ideologia, che può essere più o meno rilevante e avere effetti alienanti più o meno consistenti. da questo punto di vista, l’ideologia basagliana si può ritenere indubbiamente meno mistificata e meno nociva rispetto a quella della psichiatria nosografica.

Proporne un’ulteriore demistificazione, senza la pretesa di arrivare alla verità assoluta, mi sembra lecito e necessario. Così come mi sembra necessario, ai fini di un ulteriore avanzamento delle scienze umane, recuperare e valorizzare il pensiero antipsichiatrico.

Il mio atteggiamento critico è dunque nettamente diverso da coloro che hanno partecipato al movimento antistituzionale e hanno successivamente preso le distanze da esso sulla base di una contestazione radicale di alcuni suoi principi. Tra questi, c’è indubbiamente Giovanni Jervis, la cui conversione conservatrice ho analizzato recensendo l’infelice libro che ha scritto sulla depressione. Data la sua fama, almeno in parte immeritata perché si tratta di un intellettuale di grande levatura, capace di scrivere libri densi di citazioni, ma sprovveduto di una qualunque originalità creativa in ambito psichiatrico e psicoanalitico (un divulgatore e un compliatore eccellente, dunque, ma nulla di più), Jervis viene intervistato ogni volta che pubblica un saggio.

L’intervista concessa a Luciana Sica su Repubblica il 4 settembre fa riferimento, per l’appunto al suo ultimo saggio il cui titolo - La razionalità negata - implica una dura presa di posizione nei confronti del movimento basagliano e, in particolare dell’antipsichiatria, che si estende a gran parte della cultura di sinistra degli anni ‘70 del secolo scorso.

La riproduco integralmente:

Intervista a Giovanni Jervis

di LUCIANA SICA

"Le aggettivazioni sono tutte al negativo: «vaga, poco chiara, generica». E poi, per trent´anni l´abbiamo chiamata legge Basaglia, ma sbagliando. Non perché l´avremmo dovuta indicare più correttamente con il numero "180" - e ai numeri siamo sempre un po´ ostici, si sa. Il punto è un altro: si doveva chiamare con un altro nome! Il vero padre di quella legge - «fatta all´italiana» - non sarebbe Basaglia, ma un medico psichiatra, un parlamentare democristiano: a Bruno Orsini si deve «la formulazione e la promulgazione» della celebre normativa che ha cancellato i manicomi.

«Lo sanno tutti!», si sorprende Giovanni Jervis, in questa intervista. «Tutti quelli che se ne sono occupati, ne sono perfettamente a conoscenza. Orsini ha raccolto le esigenze di cambiamento, certe idee che avevano conquistato un largo consenso nell´opinione pubblica, ma la sintesi è stata sua, e Basaglia non era mica d´accordo, lo ha detto subito, non gli piaceva per niente l´ispirazione generale favorevole alla medicalizzazione, considerava la psichiatria una disciplina sbagliata e oppressiva proprio per un eccesso nell´impostazione medico-biologica - quella che aveva permesso i peggiori abusi. Per dire, Basaglia non avrebbe mai voluto strutture psichiatriche come i reparti negli ospedali: immaginava piuttosto "un network di appartamenti anti-crisi"... Lui e il movimento antipsichiatrico erano violentemente contrari all´interpretazione del problema psichiatrico in termini medici - per loro era piuttosto una questione politica. Al contrario, l´impostazione di Orsini era del tipo: basta con i matti che turbano l´ordine pubblico, questa è gente che ha disturbi, insomma sono malati e come tali vanno trattati...».

"Jervis contro Basaglia"? Messa così, non si coglie il senso del nuovo libro di Giovanni Jervis che si presta poco a una lettura tanto riduttiva, a una semplificazione così sciatta, anacronistica e anche un po´ brutale, restituendo l´immagine di un duello con un´ombra (il grande psichiatra veneziano è morto nell´estate del 1980 a cinquantasei anni, per un tumore al cervello). È un pamphlet - senz´altro discutibile e decisamente destinato a far discutere - che Jervis firma con Gilberto Corbellini, un cinquantenne storico della medicina, e infatti si presenta sotto forma di dialogo: si chiama La razionalità negata - sottotitolo "Psichiatria e antipsichiatria in Italia" (esce giovedì 11 da Bollati Boringhieri, pagg. 174, euro 12).

Corbellini svolge un ruolo d´interlocutore dello studioso settantacinquenne, autore di saggi importanti che spesso hanno come oggetto temi sociali e politici, oggi più coinvolto nel mestiere di analista, dopo aver lasciato molto tempo fa la psichiatria "attiva" e nel 2005 l´insegnamento universitario alla "Sapienza" di Roma. È Corbellini, nelle ultime righe dell´introduzione, che incoraggia «a prendere consapevolezza dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana». Un invito genericamente rivolto a chi si occupa delle innumerevoli varianti del disturbo mentale, ma anche - e forse soprattutto - «a politici e intellettuali». Sia per la questione che si solleva - gli ideologismi che indubbiamente hanno segnato la nostra storia recente - sia per i destinatari della riflessione inevitabilmente rapida, in ballo c´è qualcosa di più di una valutazione più o meno condivisibile della legge Basaglia. L´impressione generale è quella di una presa di distanza nettissima, radicale, inequivocabile da un certo clima politico e culturale in cui si era sempre e comunque "con" o "contro" qualcuno o qualcosa.

Professor Jervis, la sua ripulsa degli anni Settanta è priva di sfumature: sembra viscerale, oltre che razionale... È vero?

«Certo, e per molte buone ragioni: ho maturato un giudizio negativo di quella stagione per quel suo gusto dell´astrattezza, la tendenza al trionfalismo e alla retorica, i settarismi, le contrapposizioni, gli schematismi, ignorando totalmente la realtà fattuale, il rigore dell´analisi, la previsione delle conseguenze di azioni o anche solo di parole... Una stagione incline alla violenza - non solo verbale, come sappiamo - intrisa anche di romanticherie vagamente spiritualiste, di confusi esistenzialismi, d´improbabili sperimentazioni, e molto più spesso di eccessi tutt´altro che innocui... Del resto, sappiamo anche come le follie collettive possano essere terribilmente normali».

La razionalità negata fa vistosamente il verso a L´istituzione negata, il famoso volume collettaneo uscito nel ´68 da Einaudi. Il sottotitolo di quel libro era "Rapporto da un ospedale psichiatrico", e infatti si raccontava la straordinaria esperienza di Gorizia. "A cura di Franco Basaglia" era l´unica dizione che appariva in copertina. Come mai non figurava anche il suo nome?

«Perché era giusto così. Perché Basaglia era il vero artefice di quell´esperienza, era lui il capo dell´équipe. In quegli anni io ero consulente della casa editrice Einaudi e andai a Gorizia nel ´66 - avendo già in mente il progetto di quel libro - affascinato dalla personalità di Basaglia, uomo di grande intelligenza, con uno sguardo sulle cose penetrante, perspicace, spiritoso, spregiudicato in senso buono. Non si può dire che avesse un buon carattere, non era sempre facilissimo andare d´accordo con lui, ma non era mai una persona mediocre. In ogni caso io non l´ho idolatrato e molto presto è venuto fuori che avevamo opinioni diverse - mai però c´è stata una lite tra noi. Del resto, il mio maestro era già stato Ernesto De Martino, l´antropologo della devianza: non mi sono mai considerato un allievo di Basaglia, e di fatto non lo ero».

L´istituzione negata ha un successo enorme e Basaglia diventa di colpo una star. Lei che ha ammirato il modello goriziano "razionale e moderato", nello stile delle comunità terapeutiche britanniche, detesta invece il movimento antipsichiatrico degli anni Settanta che in Italia avrà un indiscusso capo carismatico: Franco Basaglia, appunto. È questo a rendere il vostro rapporto sempre più ambivalente?

«Basaglia era un uomo ambizioso, sanamente ambizioso, e fino a quel momento con una vita professionale un po´ frustrata perché lui avrebbe voluto fare la carriera universitaria e inoltre non amava né Gorizia né i goriziani. Ma lui, uomo di forte carattere, lì aveva fatto una scommessa: voleva trasformare in un´esperienza-pilota quel vecchio ospedale retrivo in un angolo periferico d´Italia - con pochi mezzi, senza l´appoggio delle amministrazioni locali, con un paio di medici che lo spalleggiavano. E quella scommessa, lui l´ha vinta. Dopo, nulla è stato più uguale a prima, di fatto Basaglia è stato un po´ travolto dal successo, dal culto della sua personalità e dalle ubriacature ideologiche di quegli anni».

Certi suoi modi di fare non lo nobilitano: ad esempio, il rapporto piuttosto autoritario con gli infermieri, a volte con gli stessi medici... Ma che senso ha dissacrarne il mito tirando fuori questi aspetti un po´ meschini della personalità?

«Io non li considero meschini, perché Basaglia - per quanto egocentrico - non era mai un uomo volgare. Piuttosto apparteneva a una famiglia abituata a comandare. Le racconterò un aneddoto: un giorno andammo insieme a prendere la sua macchina, nel garage accanto alla stazione di Venezia. Per qualche ragione la sua auto gliel´avevano spostata, in un posto non suo e comunque molto meno prestigioso. Lui si era scocciato, e non poco. "Noi", mi disse in quell´occasione, "certi privilegi sociali, abbiamo il difetto di prenderli un po´ per dovuti"...».

Nel ´75, da Feltrinelli, esce il Manuale critico di psichiatria. Piace molto quel suo libro, ma a Basaglia no. Perché?

«Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata, neppure troppo originale, spiegava che parole come delirio, allucinazione, psicosi non sono designazioni arbitrarie ma fenomeni tragicamente reali. Per Basaglia, era un´operazione culturale sbagliata: il punto è che non accettava volentieri nessun comprimario, dire che era un accentratore è dire niente. Se uno pubblicava una cosa per conto suo, era automaticamente diffidente».

Il suo Manuale rispecchia in pieno un certo linguaggio degli anni Settanta, è un libro "contro le istituzioni, contro la scienza borghese, contro le gerarchie e l´autorità", in cui neppure manca quella frase-simbolo per eccellenza: "ciò che è personale è politico". Oggi, ne La razionalità negata, lei dice "ammettiamolo, siamo tutti cambiati, anche noi studiosi...". Ammetterebbe di essere cambiato un pochino più di altri?

«Il discorso politico è sempre rimasto al centro dei miei interessi, ma prima del Sessantotto credevo di più nel mondo della politica e dopo, mano a mano, com´è accaduto anche ad altri, sempre meno. Io ero un po´ filocinese, ma non sono mai andato a un´assemblea o a un corteo, non sono mai stato un militante, un organizzatore, un uomo d´apparato... Io ero un intellettuale conficcato nei libri, m´interessava la psicoanalisi seppure con molte riserve, e non disperavo di finire all´università, come poi è accaduto. Sapevo perfettamente che l´esperienza della psichiatria "attiva" sarebbe stata a termine, e lo dissi subito a Basaglia nel ´66: io vedevo il mio futuro come quello di un clinico e di uno studioso... Sì, lo ammetto: ho molto annacquato il vino politico, ma chi non l´ha fatto?».

Lei e Corbellini menate fendenti in più direzioni: sono attaccati, quasi ridicolizzati non solo gli antipsichiatri, ma anche tutti quelli che anche oggi non disdegnano la letteratura e la filosofia per la comprensione della "follia", tenendo magari poco conto delle categorie nosografiche o delle ricerche epidemiologiche. L´intellettuale per il quale lei mostra la più totale idiosincrasia è Michel Foucault: è stato davvero un cattivo maestro?

«Di Ronald Laing, non lo direi mai: lo definirei senz´altro un antipsichiatra, ma anche un poeta, un mistico, un rinnovatore, uno spontaneista, uno che navigava su territori politico-culturali rarefatti. Foucault invece è stato proprio un cattivo maestro: uno che generalizzava molto e analizzava pochissimo, con il grave demerito di aver idealizzato la devianza sociale. È vero che non è stato il solo, ma lui l´ha fatto in modo particolarmente convincente. Non per me, comunque».

Torniamo all´oggi, con l´aiuto dei dati che fornisce Corbellini nelle ultime pagine del libro. Particolarmente sconfortanti sono quelli che confermano in modo inequivocabile l´eccessivo peso del settore privato nella cura dei malati. Nel Sud - si legge - i letti privati sono addirittura il doppio di quelli pubblici. Ma se in questo Paese regna il malaffare, se le Regioni privilegiano le cliniche convenzionate piuttosto che rafforzare le strutture territoriali pubbliche, Franco Basaglia cosa c´entra?

«Assolutamente niente. Se oggi la psichiatria continua a zoppicare, se l´assistenza ai malati è ancora quella che è, i motivi vanno fatti risalire alle derive della politica e della cultura, ai fallimenti delle Regioni, alla vulgata di certe idee antipsichiatriche. Non a Franco Basaglia, che ne è del tutto innocente... Questa è l´Italia»."

Recensirò il libro di Jervis prossimamente. Anticipo che sono d’accordo con alcune critiche nei confronti della confusione ideologica post-sessantottina, che peraltro si è chiarita nel corso degli anni: i soggetti pseudorivoluzionari, di fatto, sono passati tutti dall’altra parte. Sono d’accordo anche (ed è questo il senso dell’articolo) sul fatto che il movimento basagliano è rimasto ancorato a formule ideologiche che vanno superate. Il problema è in quale direzione e con quali strumenti. I maggiori danni psichiatrici ancora oggi non sono certo riconducibili alla pratica alternativa basagliana, che ha i limiti di cui ho parlato, bensì alla restaurazione psichiatrica e al riproporsi dell’ideologia organicistica. la lotta contro il manicomio si è esaurita, ma quella contro la Psichiatria come Istituzione è oggi urgente come non mai.