Nella rubrica delle lettere a la Repubblica, Corrado Augias ne pubblica tre sulla legge "180", la legge fortemente voluta da Basaglia e dal movimento antistituzionale italiano che, nel 1978, ha disposto la chiusura definitiva dei manicomi e l'avvio di un'assistenza psichiatrica incentrata sui Servizi di Salute Mentale (SSM) territoriali e su brevi degenze nei Centri Psichiatrici di Diagnosi e Cura ospedalieri (CPDC).
Due delle lettere sono favorevoli ai progetti di riforma che, a breve, dovranno essere discussi in Parlamento. La prima, di un privato cittadino, definisce pessima la legge "180" in conseguenza del fatto che essa, rivolta essenzialmente a chiudere i conti con l'istituzione manicomiale, avrebbe finito con l'abbandonare a se stessi i malati gravi, facendone ricadere il peso sulle famiglie, molte delle quali sarebbero state devastate dall'esperienza. La seconda, scritta dal Presidente di una delle numerose associazioni di familiari di malati di mente (Psiche 2000) che hanno, nel corso degli anni, sollecitato la riforma, insiste sullo stesso tasto:"gestire un malato di mente, soprattutto quando non è consapevole della malattia, è quasi impossibile. Da anni chiediamo una modifica della legge "180" che permetta di curare gli schizofrenici, oggi esistono farmaci che, assunti regolarmente, evitano i comportamenti pericolosi edella malattia e restituiscono al malato un po' di normalità. In questi anni non siamo riusciti a far comprendere alle sinistre quanta sofferenza abbia provocato la legge e soprattutto come sia possibile corregerla senza tornare ai manicomi. Dietro tanti drammi ci sono famiglie distrutte, operatori negligenti e grande disisnteresse da parte dei politici. Ora si discute la modifica della legge "180". Domandiamo che il Parlamento formuli le modifiche soprattutto per il bene dei malati."
La terza lettera difende la legge con un'argomentazione ripetuta sistematicamente dai suoi sostenitori:"La "180" viene considerata da molti un punto di riferimento, per esempio dall'OMS. I problemi vengono non dai suoi contenuti, bens" dalla sua mancata applicazione."
Corrado Augias condivide le critiche più che gli apprezzamenti:"La legge "180" è stata una legge talmente illuminata che, tolti giustamente di mezzo i manicomi, non si è occupata di vedere quali altre strutture (e con quali soldi) avrebbero accolto i poveri dementi. E' stata insomma una legge "ideologica" figlia di quel periodo che di ideologia è vissuto, ed è morto. Speriamo che nel preparare la nuova legge non si commetta, con un'altra ideologia, l'errore opposto."
Non è opportuno qui prendere in esame le proposte di riforma della legge "180" che approderanno a breve in Parlamento. Se ne discuterà quando esse saranno presentate e eventualmente approvate. E' più opportuno cercare di valutare la legge stessa in sé e per sé, sfuggendo all'alternativa secca, cui essa è stata esposta fin dall'epoca della promulgazione, tra la demonizzazione e l'esaltazione.
Occorre partire, intanto, da un paradosso. Se la legge "180" muove da un presupposto ideologico, tale presupposto è di matrice liberale: esso si fonda infatti sul riconoscimento al malato di mente di diritti civili che la condizione di malattia non può indurre a mettere tra parentesi. Tra questi diritti, fondamentale non tanto è la libertà, che può essere transitoriamente sospesa dal trattamento sanitario obbligatorio, bensì la dignità della persona. Di certo, questo riconoscimento è frutto di un'esperienza, quella antistituzionale appunto, il cui merito storico è di avere posto in luce e denunciato pubblicamente lo scandalo di un'istituzione, inserita in un contesto sociale e politico democratico, all'interno della quale la persona non solo veniva deprivata di qualsivoglia libertà ma assoggettata ad un regime di prevaricazione, maltrattamento e umiliazione. Tale merito, di cui, per ora, solo l'Italia può menare vanto, è riconosciuto da tutti, tant'è che nessuno propone il ritorno al manicomio. Per questo aspetto, la legge ha funzionato mantenendo viva nell'opinione pubblica una memoria storica irreversibile, che accomuna il manicomio al lager, e inducendo anche i "riformisti" a tenere fermo il principio della dignità del malato di mente. Nello spirito della "legge", questo principio non comporta di certo l'abbandono del malato a se stesso. Il rispetto della persona non significa misconoscere che la sofferenza psichica, quale che sia l'atteggiamento del paziente, implica una domanda di aiuto sociale. Farsi carico di questa domanda, decifrarla e portarla alla coscienza del paziente, contrattare con esso pazientemente le risposte possibili, compresa quella farmacologica, coinvolgere la famiglia e il sociale nella risposta: questo e non altro detta la legge "180".
Nella pratica, è accaduto che l'applicazione della legge a livello nazionale ha coinvolto un numero straordinario di operatori psichiatrici che, per attitudine, formazione e ideologia, non erano né d'accordo con essa né preparati a porla in essere. Il problema della carenza di strutture territoriali, più volte rilevato, è reale. Il focus dell'assistenza territoriale non è però la struttura, ma la cultura e la capacità di rapporto interpersonale e gestionale degli operatori. Tale capacità, tranne rare eccezioni, è risultata drammaticamente carente. In conseguenza di ciò, si è verificata nei servizi un'interpretazione della legge incentrata pretestuosamente sull'enfatizzazione della libertà dei malati di mente. Tale enfatizzazione ha determinato il paradosso per cui, se il paziente rifiuta di farsi curare, tranne il caso in cui la sua condizione non richiede il trattamento sanitario obbligatorio, gli operatori si appellano alla legge imputando ad essa l'impossibilità di intervenire. In conseguenza di questo si realizza l'abbandono, e l'affidamento alle famiglie di situazioni ingovernabili.
La legge "180" non è stata applicata nello "spirito", ma nella lettera, sia pure fraintesa. Il principio del rispetto della persona si è tradotto nel rispetto sacro della libertà individuale che è francamente ridicola in rapporto ad una condizione - quale quella del disagio psichico - il cui tratto, comune a tutte le forme, è una limitazione più o meno grave della libertà personale inconseguenza della sintomatologia. Se questo è vero, non sarebbe necessaria allora alcuna modifica? No, perché è vero che la legge "180" non funziona più. Non certo perché si tratta di una legge ideologica, se con ciòs'intende nel caso specifico misconoscere che i pazienti mentali gravi tendono in genere a rifiutare di essere malati e di avere bisogno di cure, bensì nel suo carattere "utopistico". Il difetto non sta nella definizione della malattia, che privilegia il bisogno sia pure inconscio o negato di aiuto e non lo ritiene un sintomo della malattia quanto piuttosto il segno di un rapporto ambivalente e conflittuale con il mondo sociale, che affonda le sue radici nella storia personale del soggetto, quanto piuttosto nella qualità della cura che richiede, oltre che attitudini, competenze elevate da parte degli operatori, e uno sfondo sociale cooperativo.
Riformare la legge è necessario perché il salto culturale che essa presumeva sarebbe potuto accadere e avrebbe portato la società a capire che la follia è uno dei prodotti dell'alienazione non è avvenuto. Insistere nel volere definire alternativa una pratica che, sempre più spesso, si riduce a somministrare psicofarmaci a coloro che si lasciano curare, solo perché essa è supportata anche da sussidi sociali, centri diurni e qualche casa famiglia non è serio né significativo. Come non è serio negare che essa produce troppo spesso una cronicità diversa da quella del manicomio, ma che è pur sempre una cronicità. Né si può continuare all'infinito a non tenere conto del disagio dei familiari dei malati di mente, come se essi fossero in qualche misura colpevoli di quanto accade ad un loro membro e, dunque, tenuti a pagare. Tranne che in situazioni locali assolutamente eccezionali, la legge "180" non ha migliorato la qualità della vita dei malati di mente (ponendo da parte come riferimento il regime manicomiale), non ha prodotto un nuovo sapere sociale, un nuovo senso comune sulla salute e sulla malattia mentale, non ha realizzato alcun obbiettivo inerente la prevenzione primaria, non ha arginato lo strapotere delle case di cura private e delle industrie farmaceutiche. Occorre prenderne atto, senza disperare.
La prospettiva che i centri residenziali previsti nelle proposte riformiste si trasformino in piccoli manicomi non è del tutto infondata. Non si arriverà certo agli orrori del manicomio storico. Di sicuro si riproporranno logiche e dinamiche di istituzionalizzazione. Ma questo avverrà almeno in un ambiente pubblico, alla luce del sole. Non è un progresso, ma è comunque meglio rispetto al fatto che quelle logiche e quelle dinamiche si realizzano negli spazi domestici.
La lotta nello spirito della "180" va ripresa con nuovi obbiettivi. Si tratta di riavviare una rivoluzione culturale abortita, incentrandola ancora una volta sulla critica della normalità alienata (che c'è anche se nessuno ne ha colpa, e tantomeno le famiglie); di sviluppare o valorizzare un patrimonio di conoscenze che consenta di programmare e realizzare un'opera seria e incisiva di prevenzione; di affrancare la psichiatria dal connubio fatale con la medicina (che non significa rifiutare l'uso degli psicofarmaci bensì assegnare ad essi un potere meramente sintomatico). La rivoluzione in questione dovrà porsi come permanente, dando per scontato che non esisterà mai una società affrancata definitivamente dal disagio psichico. Può essere ipotizzata però una società che si confronti con esso dandogli e ricavandone senso.