25 anni di Legge 180

1.

Nell'attesa che la commissione parlamentare porti in discussione la bozza unificata della riforma della legge 180, è importante valutare criticamente l'impatto che questa ha avuto sull'assistenza psichiatrica, sulla cultura e sull'opinione pubblica. Varata nel maggio del 1978, la legge 180 compie in questi giorni venticinque anni: un lasso di tempo senz'altro adeguato per un bilancio.

Una valutazione critica deve guardarsi anzitutto dal cadere nella trappola degli opposti estremismi dei detrattori (i neopsichiatri) e dei sostenitori (gli eredi di Basaglia). Tra i primi, per fortuna, non c'è più nessuno che, come accadeva nei primi anni '80, esprime manifestamente una nostalgia per il manicomio. Lo spirito umanitaristico della legge dunque ha fatto breccia anche negli psichiatri tradizionalisti. Non è di poco conto questa resipiscenza se si rievocano le critiche, le accuse, le calunnie, gli insulti da cui fu investito il movimento antistituzionale avviato a Gorizia sotto la guida di Basaglia. A posteriori, la fondatezza delle denunce del carattere non terapeutico, ma degradante e disumano del manicomio appaiono pienamente confermate.

I detrattori si limitano a sottolineare il fatto che la legge 180, territorializzando l'assistenza psichiatrica, non ha provveduto a prevedere e a predisporre le strutture adeguate a tutelare le famiglie da un'interazione spesso difficile e conflittuale con i pazienti, scaricando di fatto su di esse il peso dell'assistenza, e ha lasciato troppa libertà ai malati, non considerando, in particolare per quanto riguarda gli schizofrenici, la loro tendenza a negare di essere affetti da una malattia, e consentendo loro di sottrarsi ai rapporti terapeutici e alle cure di cui hanno bisogno.

In effetti, tutte le diverse bozze di riforma presentate mirano, con criteri e in modi diversi, a sopperire a queste due lacune, alle quali vengono imputate le ricorrenti lamentele delle famiglie dei pazienti e dell'opinione pubblica.

I sostenitori della legge 180 sottolineano, viceversa, che non è la legge lacunosa, bensì lìapplicazione che di essa è stata fatta a livello territoriale. Nel testo, di fatto, il riferimento alla necessità di creare strutture territoriali (case-famiglia, centri diurni, comunità terapeutiche, ecc.) è assolutamente chiaro. Il non avere provveduto a crearle rientra dunque nell'ambito delle responsabilità delle Regioni. Per quanto concerne l'altro aspetto - in termini tecnici la compliance dei pazienti -, la legge, secondo i fautori, definisce il rapporto terapeutico come un rapporto contrattuale che obbliga l'operatore a persuadere i pazienti della necessità delle cure e a concordare con essi la strategia terapeutica. Il rispetto dei diritti civili dei pazienti, che può dare luogo ad un ricovero coatto solo in caso di evidente stato di alterazione mentale, comporta, da parte degli operatori, un grande impegno e una grande pazienza. Da questo punto di vista, la mancata applicazione della legge andrebbe ricondotta alla scarsa motivazione e alla modesta competenza di un certo numero di operatori. La legge 180, dunque, non avrebbe bisogno di essere riformata, estendendo i criteri del trattamento sanitario obbligatorio, bensì solo di essere finalmente applicata.

E' chiaro che, dati i diversi presupposti, il dialogo tra i detrattori e ai sostenitori della 180 si esaurisce nell'ambito di formule che, ripetute negli anni, rappresentano ormai luoghi comuni.

C'è però una possibilità di dialettizzare quei presupposti, e di giungere a capire cosa si dovrebbe fare per migliorare l'assistenza psichiatrica? Se c'è, questa possibilità verte su di una nuova teorizzazione del disagio psichico: ma è qui che cade l'asino.

2.

I detrattori della 180 rifiutano ormai il manicomio ma si riconducono al disagio psichico, tanto più se è grave, come ad una malattia da curare: una malattia - sottolineano - come le altre. Posto che si accetti la medicalizzazione dei fenomeni psicopatologici, una differenza rispetto alle altre malattie c'è, e i neopsichiatri lo sanno bene. A differenza dei comuni pazienti, che si assoggettano volentieri alle cure e sempre più spesso manifestano un orientamento farmacofilico obbligando il medico a somministrare farmaci costosi e inutili (vittime del principio per cui un farmaco costoso non può essere inefficace), i disagiati psichici, eccezion fatta per gli ipocondriaci e i soggetti affetti da disturbi psicosomatici, che si medicalizzano da soli, non gradiscono in genere i trattamenti farmacologici. Il problema diventa drammatico per gli schizofrenici, che sono in assoluto i più restii e che, secondo i neopsichiatri, hanno bisogno di cure con neurolettici a dosaggi elevati vita natural durante.

Se passa il principio per cui la schizofrenia è una malattia grave da curare, è dunque inevitabile che i trattamenti farmacologici dovranno essere imposti contro la volontà dei pazienti. Questo non significherà di certo tornare ai manicomi. La riforma prevede solo l'istituzione, accanto ai centri ospedalieri di diagnosi e cura, di strutture territoriali residenziali ove i pazienti potranno essere tenuti in regime di obbligo. Data la trasparenza di tali strutture, la cui funzionalità potrà essere verificata dai familiari e da altre componenti sociali, la possibilità di una manicomializzazione è remota. Il problema è che la legge prevede anche il trattamento sanitario obbligatorio a domicilio, vale a dire il dovere per il paziente, una volta che la diagnosi sia stata fatta, di curarsi con i farmaci pena il ricovero ospedaliero o l'inserimento nella struttura territoriale. Ciò significa, né più né meno, che la diagnosi di schizofrenia, ritenuta una malattia cronica, immetterà il paziente in un circuito di controllo sanitario senza scampo. Gli effetti di questo controllo sono prevedibili: sempre più spesso, gli schizofrenici si allontaneranno dal loro contesto di vita abituale e cercheranno di mimetizzarsi nell'universo urbano degli emarginati e dei barboni. Quelli che non riusciranno a sottrarsi al controllo, precipiteranno in forme di cronicizzazione.

I sostenitori della legge 180 vantano i suoi successi facendo riferimento alla rete di presidi territoriali (ambulatori, centri diurni, case-famiglia, laboratori di apprendimento professionale, ecc.) che si sono sviluppati in conseguenza di essa, alla libertà dei pazienti che minimizza gli effetti della cronicizzazione, all'allentarsi sia pure graduale del pregiudizio sociale, all'avvio di strategie preventive centrate prevalentemente sulle scuole. Il bilancio, se si prende come metro di misura il manicomio, è indubbiamente positivo. Di fatto, il superamento dell'ospedale psichiatrico e della logica manicomiale, è il massimo successo conseguito dalla legge 180. Se si assume, invece, come metro di misura, il problema del disagio in sé e per sé, il bilancio è molto meno esaltante.

Gran parte dei pazienti seguiti a livello territoriale sono schizofrenici. Essi ammalano precocemente, tra i 15 e i 25 anni, e, tranne rare eccezioni, rimangono a carico dei servizi vita natural durante. La presa in carico si realizza su due registri: quello medico e quello riabilitativo. L'intervento medico si realizza in virtù della prescrizione di neurolettici, spesso sotto forma depôt, che, se non producono a breve e a medio termine effetti di cronicizzazione, danno luogo a effetti collaterali (aumento di peso, rallentamento motorio, intorpidimento, ecc.) che incidono comunque nella vita del paziente. L'uso degli psicofarmaci da parte degli psichiatri alternativi (che sono comunque solo una parte, e forse minoritaria, degli psichiatri operanti a livello pubblico) non è per nulla distinguibile da quello realizzato, in privato e nelle cliniche, dagli psichiatri tradizionali. Gli interventi riabilitativi si ispirano al principio di mantenere una qualità della vita tollerabile, e di fatto, in genere, ci riescono. Il verbo basagliano - convivere con la malattia - si è dunque realizzato.

La presa in carico vita natural durante di pazienti, e la domanda continua di cura di nuovi pazienti, sta determinando però un'intossicazione dei servizi, con la conseguenza di dimunuire sempre più il tempo che si può dedicare ai pazienti. Ormai è già in atto un trattamento routinario, destinato nel corso del tempo a degradare sempre più verso forme di controllo psicofarmacologico.

La protesta dei sostenitori della 180 per avere altri fondi a disposizione, altri operatori, altre strutture è a vicolo cieco. Il 5% attualmente disponibile è senz'altro insufficiente, ma è improbabile che esso possa essere aumentato, stornandolo da un budget che vede una vera e propria lotta tra poveri (malati di mente, tossicodipendenti, giovani disoccupati, ecc.). Se anche potesse essere aumentato, c'è da chiedersi comunque come sarebbe possibile fare fronte ad una domanda di cura che cresce di continuo.

Se infatti la schzofrenia, che investe l'1% della popolazione, basta da sola ad intasare i servizi e spesso, con le frustrazioni che essa produce, a demotivare gli operatori, non si vede quale servizio territoriale potrebbe fare fronte al disagio psichico giovanile, che ormai investe il 15% dei soggetti, e che appare talvolta grave sotto il profilo psicopatologico.

Il problema che i sostenitori della 180 si ostinano a non voler vedere è che la legge ha radicalmente modificato l'approccio terapeutico al disagio psichico, escludendo la segregazione e la brutale repressione, ma ha mutuato dalla psichiatria, mutatis mutandis, una concezione della malattia che, se non è di ordine strettamente medico, non è di certo né innovativa né rivoluzionaria. Basaglia, per non essere confuso con gli antipsichiatri, non avrebbe potuto fare altro che mettere tra parentesi il problema di che cos'è la malattia in sé e per sé, vale a dire il problema della sua genesi e delle dinamiche che la sottendono. Ma quella parentesi, che spostava l'ottica sul piano di un'assistenza rispettosa della dignità e dei diritti civili dei malati, si sarebbe dovuta ad un certo punto rimuovere.

Se infatti ha senso contestare la concezione biologica della malattia mentale, in nome del fatto che nella sua genesi e nella sua evoluzione concorrono anche fattori psicologici e sociali, quella concezione, così profondamente radicata nell'opinione pubblica, si sarebbe dovuta sotmontare in nome di un nuovo paradigma psicopatologico. Questo non è avvenuto.

A nulla vale, a riguardo, fare riferimento al prestigio di Basaglia, che misconosceva il significato della teorizzazione a favore di una prassi sul territorio. Primo perché ricondursi al suo pensiero senza criticarlo laddove esso va criticato è una forma di fideismo. Secondo, perché il progetto basagliano comportava comunque, forse utopisticamente, una partecipazione collettiva al problema del disagio psichico che avrebbe dovuto produrre un nuovo sapere riguardo ad esso.

Il difetto di un nuovo paradigma psicopatologico ha avuto un'incidenza pratica a livello di assistenza territoriale che è difficile minimizzare. Esso infatti non solo ha dato modo alla psichiatria tradizionale di restaurarsi e di darsi una patina di scientificità in virtù del modello multidimensionale, che incorpora gli attacchi antistituzionali riconoscendo un ruolo patogenetico anche ai fattori psicologici e sociali. Nella pratica, quel difetto - è questo il punto più importante - ha avuto la conseguenza di porre tra parentesi, con la malattia, anche il problema della sua guarigione; di indurre insomma ad accettare la schizofrenia come una sindrome cronica, il cui decorso può essere rallentato e coincidere con una qualità della vita accettabile, ma che di fatto non è curabile.

La rinuncia alla teorizzazione ha impedito anche che si avviassero progetti di prevenzione seri ed incisivi. Andare in giro per le scuole, per le fabbriche, ecc. a sensibilizzare l'opinione pubblica sui problemi legati al disagio psichico è meritorio e fors'anche utile, ma, a livello di prevenzione, non serve a motlo. Il problema è, come ho scritto altrove, che una seria prevenzione non e possibile senza una teoria sufficientemente coernete del fenomeno che s'intende prevenire.

Nonostante tutti gli sforzi di coloro che credono nella legge 180 e operano a livello territoriale, la carenza di un paradigma di riferimento spiega l'intossicazione dei servizi, la demotivazione di parecchi operatori e la lenta ma inesorabile regressione verso forme di assistenza incentrate sul controllo farmacologico che non producono effetti rilevanti di cronicizzazione solo perché vengono compensate dalle attività riabilitative.

Lo slogan basagliano - vivere con la malattia - rimane significativo dopo un quarto di secolo se l'accento viene posto sul diritto che ha il malato di vivere umanamente, e di non essere punito emaltrattato perché malato. Ha molto meno senso se ci si chiede, mettendosi nei panni dei pazienti, che cosa significa di fatto per un paziente vivere nella malattia.

3.

Non vorrei essere equivocato. Sia pure per una breve stagione (dal 1975 al 1982), ho dato un modesto contributo alla lotta contro l'istituzione manicomiale. Sono stato e rimango favorevole alla legge 180 e mi auguro che il progetto di riforma che tra poco, presumibilmente, sarà proposto dal governo, non sia approvato. Penso tutto il male possibile dei neopsichiatri, alcuni dei quali, a mio avviso, dovrebbero essere interdetti dall'esercizio della professione per i danni che fanno.

Cionondimeno, la difesa fideistica della legge 180 mi infastidisce. Sostenerla e tutelarla da una riforma che ne stravolgerebbe lo spirito è sacrosanto. Sarebbe ora però di riconoscerne le lacune e di porre rimedio.

Si tratterebbe in breve di prendere atto che se i disagi psichici non sono malattie in senso proprio (posto che nella loro evoluzione si possono dare momenti o periodi critici nel corso dei quali si realizzano squilibri funzionali del cervello), sono però drammi umani, familiari e sociali che vanno affrontati con l'obbiettivo costante di risolverli. Anche se questo obbiettivo, dato il numero di variabili che concorrrono a produrli, non è sempre raggiungibile, esso però dovrebbe essere sempre perseguito. A tal fine, con buona pace di Basaglia e del suo impagabile impegno intellettuale e sociale, una buona teoria psicopatologica è necessaria.

Nepure questo però basterebbe. La crescita esponenziale del disagio psichico impone di affrontare cocretamente il tema della prevenzione e di avviare progetti incisivi. Anche da questo punto di vitsa, una buona teoria si pone come indispensabile.

Maggio 2003