1.
Se si vuole prendere atto di ciò che si significa la mistificazione neopsichiatrica basta visitare il sito http://mp.medscape.com/cgi-bin1/DM/y/efpm0FoQmZ0D2q0Foju0A5. In esso viene annunciato il lancio sul mercato di un antipsicotico (il Risperdal), ormai in uso da alcuni anni per bocca, in una nuova confezione che può essere iniettata al paziente e il cui effetto si mantiene per quindici-venti giorni. Tecnicamente si tratta dunque di un nuovo antipsicotico depôt, che si aggiunge a quelli già in commercio (Moditen e Haldol). Rispetto a questi, il Risperdal sarebbe efficace sia sui sintomi positivi (come le allucinazioni) sia su quelli negativi (come il distacco emotivo dalla realtà): insomma, una panacea.
La mistificazione è visibile immediatamente. Sulla pagina compare infatti un gruppo di ragazzi giovani, due bianchi e due negri, sorridenti come una pasqua; un ragazzo negro che lavora alacremente sorridendo; una coppia teneramente abbracciata. Che c'entra tutto questo con la schizofrenia? I pubblicitari ne sanno una più del diavolo. Esclusa la possibilità che i ragazzi delle foto siano schizofrenici in cura con il Risperdal, le immagini fanno riferimento alla normalità cui lo schizofrenico può aspirare lasciandosi somministrare il farmaco. La normalità in questione è definita, in un'altra pagina, da quattro parametri (successo, salute, felicità, padronanza di sé) che vengono illustrati da dotte citazioni: "There is only one success to be able to spend your life in your own way." Christopher Morley (1890-1957); "Success is to be measured not so much by the position that one has reached in life as by the obstacles which he has overcome while trying to succeed." Booker T. Washington (1856-1915) "The first wealth is health." Emerson (1803-1882); "To wish to be well is a part of becoming well." Seneca (B.C. 3-65 A.D.); "Three grand essentials to happiness in this life are something to do, something to love, and something to hope for." Addison (1672-1719); "Happiness consists more in small conveniences of pleasures that occur every day, than in great pieces of good fortune that happen but seldom to a man in the course of his life." Franklin (1706-1790); "Change your thoughts and you change your world. " Norman Vincent Peale (1898 - 1993); "One of the most important results you can bring into the world is the you that you really want to be." Robert Fritz; "Until you try, you don't know what you can't do." Henry James.
Vivere con la schizofrenia è lo slogan associato alle immagini. Esso corregge implicitamente il trionfalismo delle immagini. Dando per scontato che la schizofrenia è una malattia cronica, di origine genetica, la neopsichiatria non può promettere, come avviene per la depressione, una guarigione completa. Il paziente deve accettare d'essere affetto da una malattia genetica, tra l'altro insidiosa perché comporta spesso una componente di ostilità nei confronti dei parenti e del mondo extrafamiliare. Posto ciò, egli deve sapere però che, se si assoggetta a trattamenti farmacologici adeguati, può raggiungere una condizione che, se non arriva ad una felicità piena, gli consente però un'esistenza quasi normale.
In cosa consista la mistificazione è presto detto.
Il Risperdal è un neurolettico di nuova generazione. Rispetto a quelli più antichi (Largactil, Serenase, ecc.), esso di sicuro determina minori effetti collaterali, soprattutto per quanto riguarda i movimenti involontari (discinesie) che attestano un'attivazione dei centri extrapiramidali. Non si dà alcuna prova che la sua efficacia terapeutica sia maggiore rispetto ai neurolettici tradizionali. E' indubbio però che minori effetti collaterali rappresentano un vantaggio per il paziente.
Il problema è che si tratta pur sempre di un neurolettico, che agisce sul sistema dopaminergico. Questo sistema ha un effetto stimolante sulle funzioni psichiche: contribuisce a mantenere la vigilanza e un certo tono psicofisico, determina lo scorrimento delle idee e delle emozioni. Nella misura in cui agisce, un neurolettico funziona come un freno dell'attività psichica. Ciò può essere senz'altro utile nelle situazioni schizofreniche caratterizzate da una turbolenza dei processi mentali che, facendo affiorare a livello cosciente dei contenuti inconsci (per esempio le allucinazioni), determina di conseguenza a livello cosciente l'allarme, l'agitazione, l'aggressività, ecc.
L'inibizione del sistema dopaminergico è però globale, non selettiva: in breve non può riguardare solo i neuroni la cui iperattività produce i sintomi, bensì tutti i neuroni dopaminergici. In conseguenza di questo, è inevitabile che il neurolettico produca, al di là degli effetti terapeutici, anche effetti collaterali: una sedazione che può arrivare alla sonnolenza, un certo grado di astenia fisica e psichica, un'inibizione dell'attività ideativa, una diminuzione dell'affettività. In effetti, quasi tutti i pazienti che usano neurolettici, lamentano di sentirsi, sia pure in misura diversa, intontiti, obnubilati, appannati, stanchi, sedati, spenti a livello affettivo.
E' dunque evidente che un paziente in trattamento farmacologico ha poco a che vedere con l'immagine pubblicitaria. Se neppure il Prozac, lanciato come pillola della felicità, ha mai prodotto alcunché del genere, a maggior ragione nessun neurolettico può rendere un soggetto felice come una Pasqua.
Al di là della mistificazione, per cui le case farmaceutiche insistono ad attribuire alle medicine il potere di modificare radicalmente la qualità della vita, nel privilegiare l'uso di farmaci depôt, la neopsichiatria si riconduce ad un criterio di necessità. Secondo essa, gli effetti degli psicofarmaci sono comunque un male minore rispetto ai sintomi. Dato questo principio, e la tendenza prevalente tra gli schizofrenici a rifiutare le cure e, in non pochi casi, a negare il carattere patologico dei sintomi, il ricorso ai neurolettici depôt prende, per così dire, due piccioni con una fava. Per un verso, infatti, si salta a pie' pari la quotidiana battaglia che i parenti devono fare per indurre l'assunzione dei farmaci; per un altro, si è certi che i dosaggi somministrati corrispondano a livelli ematici terapeutici.
I due piccioni hanno un obiettivo comune: dimostrare che i farmaci sono in grado di mantenere un certo ordine comportamentale e sociale.
Nell'ottica della neopsichiatria, vivere con la schizofrenia sta, tout-court, per vivere con gli schizofrenici. Si tratta di un messaggio tranquillizzante rivolto ai parenti più che al paziente. Ciò è comprovato dal fatto che i dosaggi psicofarmacologici prescritti sono solitamente massimali: tali cioè che, se non riescono ad incidere sui sintomi, sedano il paziente, ne inibiscono l'aggressività e lo mettono in condizione di non nuocere.
Nel suo apparente umanitarismo (alleviare le sofferenze del paziente, ridurre il disagio dei familiari), questa strategia ha qualcosa di diabolico. Essa, infatti, data l'impossibilità nella maggioranza dei casi di assicurarsi il consenso dei pazienti, serve ad assicurarsi la compliance dei parenti, che diventano implacabili controllori della somministrazione periodica del farmaco. Le proteste dei pazienti in rapporto agli effetti collaterali vengono ascritte al difetto di coscienza di malattia.
En passant, rilevo che tali proteste andrebbero vagliate con maggior spirito critico. La somministrazione di neurolettici di qualunque genere ad animali da laboratorio dà luogo univocamente a reazioni comportamentali avversative, le quali attestano che i loro effetti sono "soggettivamente" sgradevoli. E' difficile pensare che gli animali siano prevenuti nei confronti degli psicofarmaci.
2.
Il trattamento della schizofrenia (utilizzo questo termine con le riserve esposte nell'articolo Schizofrenia e storia sociale) non può prescindere dal tenere conto dei bisogni del paziente e dei bisogni di coloro che lo circondano. Trovare un equilibrio tra questi bisogni, spesso diversi, non è affatto semplice. Cercarlo e tentare di realizzarlo è ciò che definisce il trattamento della schizofrenia un'arte piuttosto che una tecnica (posto che anche l'arte richiede una competenza tecnica).
Ricondurre l'avversione piuttosto diffusa degli schizofrenici nei confronti degli psicofarmaci ad un difetto di coscienza di malattia è piuttosto superficiale. Tale difetto fa chiaramente riferimento al rifiuto di essere considerati "pazzi". Ora è vero che questo rifiuto implica la rivendicazione di un'assoluta normalità smentita dai sintomi. C'è però la possibilità di tradurre questa rivendicazione in termini dialettici. Io non sono pazzo, da questo punto di vista, equivarrebbe a dire: la mia esperienza deve avere un senso.
Se si prescinde da un'ottica nosografica, per cui i sintomi sono null'altro che l'espressione di una malattia cerebrale la traduzione coglie un nucleo di verità. Qualunque delirio ha un senso, anche se esso non coincide con quello realistico assegnato ad esso dal paziente. Ricostruire questo senso in termini psicodinamici e mettere il paziente in grado di riconoscerlo e appropriarsene è l'obiettivo della psicoterapia.
Molti psichiatri sostengono che tale obiettivo è utopistico. Nella mia esperienza esso è solo terribilmente difficile da raggiungere perché richiede un intervento precoce e un ambiente familiare favorevole, che creda in esso.
L'obiettivo in questione non può prescindere dal problema dei farmaci. In un'ottica dialettica, esso va affrontato sulla base di una contrattazione. Proporre i farmaci come cura di una malattia cronica e genetica del cervello, viene in genere rifiutato. Proporli viceversa come rimedi sintomatici che vicariano la difficoltà del paziente di padroneggiare, dare senso ed elaborare i contenuti inconsci della sua esperienza, può dare luogo ad una contrattazione proficua. Non è detto che il paziente accetti immediatamente questa proposta. Possono occorrere dei mesi prima che essa sia accettata. In questo periodo è importante che la famiglia sia disposta ad accettare una situazione che, in alcuni momenti, può configurarsi come critica.
La contrattazione mira a raggiungere l'obiettivo dell'autogestione del farmaco, vale a dire del suo uso in rapporto alla necessità contrassegnata dalla recrudescenza dei sintomi e dalla difficoltà del soggetto di dare ad essi un significato psicodinamico. Tale obiettivo prescinde dal problema del dosaggio terapeutico che, nell'ottica neopsichiatrica, deve essere massimale. Esso piuttosto fa riferimento al minimo dosaggio indispensabile per contenere sintomi non ancora elaborabili da parte del paziente.
Il dosaggio minimo, in un'ottica psicodinamica, è anche importante per impedire che sopravvenga, come talora accade con un dosaggio massimale, uno scollamento della coscienza rispetto all'esperienza mentale inconscia, vale a dire il raggiungimento di una pseudonormalità fondata sulla rimozione prodotta dai farmaci. Data la natura dei conflitti che, essendo psicodinamici, tendono comunque ad evolvere, questa rimozione, infatti, è destinata inesorabilmente a dare luogo, nel corso del tempo, a recidive sempre meno gestibili. La cronicizzazione della schizofrenia, che è la circostanza più frequente che si realizza in seguito a trattamenti psicofarmacologici protratti ad alte dosi, è un effetto iatrogeno.
In breve, il mantenersi di un qualche malessere, che attesta il contatto della coscienza con i contenuti attivi a livello inconscio, è necessario in un'ottica dialettica, perché esso fornisce il "materiale" su cui lavorare. E' evidente che, in questa stessa ottica, il ricorso ai farmaci depôt è bandito, perché esso significa sostanzialmente l'accettazione della natura cronica della malattia.
Ho già scritto, nel mio libro sulla schizofrenia (Miseria della neopsichiatria), che l'intervento dialettico consegue un successo pieno in una percentuale non superiore al 30% dei pazienti. La psicoterapia della schizofrenia è dunque una difficile frontiera, che richiede d'interrogarsi sulle diverse variabili che ne determinano gli esiti e sulle resistenze che i pazienti oppongono ad un approccio che restituisce alla loro esperienza la dignità di un senso, destinandoli a cadere nella spirale della psichiatrizzazione.
Prendere atto di questo, significa ritenere illegittimo l'uso di farmaci depôt in conseguenza delle prime crisi e in tutti i casi giovanili, per i quali vale la regola che i giochi sono aperti. L'uso nei casi in cui sia sopravvenuta una croonicizzazione si può ritenere il male minore solo se esso prescinde da dosi massimali, che comportano comunque effetti collaterali (per esempio l'aumento di peso) piuttosto rilevanti.
In breve i neurolettici depôt, se utilizzati come primo rimedio, sono da considerare potenzialmente antiterapeutici e iatrogeni; se utilizzati come rimedio estremo, nei casi in cui è avvenuta la cronicizzazione, sono l'indizio della sconfitta della psichiatria.
Le immagini pubblicitarie servono solo a celare queste verità, e ad enfatizzare un potere inesistente.