1.
Chi non ricorda la pubblicità sui giornali che alcuni anni fa sollecitava i soggetti depressi a rivolgersi ai medici, promettendo la guarigione all'80 % di essi? Si trattava già all'epoca di un falso colossale, fondato, al solito, su ricerche universitarie sponsorizzate. Quella pubblicità, che andava e andrebbe perseguita in termini di legge, ha contribuito non poco ad indurre la convinzione che la depressione è una malattia biologica e ad aumentare il fattirato delle industrie farmaceutiche. Che essa non avrebbe retto alla prova dei fatti, era fin troppo facile da prevedere. Negli articoli precedenti ho documentato il balletto delle cifre che hanno lentamente ridotto la percentuale delle guarigioni e le argomentazioni addotte per spiegare il fenomeno delle depressioni-resistenti, che sono aumentate.
Torno sull'argomento per illustrare in quale modo la neopsichiatria, anzichè riconoscere il potere limitato dei farmaci, utilizza anche i suoi scacchi per rilanciare un progetto di medicalizzazione della salute mentale. Ancora una volta, utilizzo una fonte insospettabile: la rivista Facts News Views, Organo ufficiale della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia. Sul n. 2 del giugno 2003, è comparso, a nome di autori vari, un articolo il cui titolo è: Remissione e guarigione clinica della depressione: end point della terapia antidepressiva.
In esso, finalmente, l'asse del discorso sulle cure antidepressive si sposta dal criterio tradizionale della risposta clinica, definita operativamente come la diminuzione del 50 % del punteggio ottenuto in scale che misurano la sintomatologia, al criterio della remissione clinica, comprovata dalla scomparsa dei sintomi e dal completo recupero funzionale. E' evidente che il primo criterio oggettiva la malattia come un insieme di sintomi, mentre il secondo privilegia l'esperienza soggettiva del paziente. Ora, adottando quest'ultimo criterio viene fuori che non più del 40 % dei pazienti giungono, con le cure psicofarmacologiche, alla remissione clinica. La percentuale si è dunque dimezzata rispetto a quella pubblicitaria. Io ritengo, in base all'esperienza, che anche questa percentuale sia superiore alla realtà, Ma, pur prendendola per buona, non c'è motivo di entusiasmarsi.
Anche laddove si dà una remissione completa, infatti, il rischio di una recidiva è elevato: esso rigurada infatti il 90 % dei pazienti! Nulla di strano nell'ottica neopsichiatrica, trattandosi di un disturbo cronico di origine costituzionale. Se si analizzano, però, i dati inerenti le recidive con un occhio critico, subito appare che essi sono ben poco integrabili in un'ottica biologica. Il rischio di ricorrenza aumenta infatti con il numero degli episodi: esso è 10 volte maggiore dopo il primo episodio e 14 - 18 volte maggiore dopo più di un episodio. Inoltre è pari al 25 - 40 % dopo due anni di malattia, al 60 % dopo cinque anni, al 75 % dopo dieci anni, all'87 % dopo quindici anni, con progressivo aumento della rapidità e gravità di ogni successivo episodio. L'intervallo tra il primo episodio e il successivo è in media di 4 anni, per poi scendere ad un anno dopo una recidiva. Infine - ed è questo un dato di estrema importanza - in conseguenza di ogni recidiva aumenta la possibilità che, superato l'episodio, persistano stati residuali invalidanti (ridotta capacità d'iniziativa, indecisione e diminuita progettualità, ipoedonia, difficoltà di relazione familiare e sociale).
Come interpretare questi dati? In un'ottica biologica, non si va al di là del riferimento ad un disturbo imperscrutabilmente "maligno". In un'ottica psicodinamica, l'interpretazione è molto più semplice e razionale. Posto infatti che il primo episodio è riconducibile ad un conflitto psicodinamico, anche di antica data, che ad un certo punto della vita si scompensa e dà luogo a sintomi, è ovvio che esso, finchè non viene capito e elaborato dal soggetto, rimane attivo sotterraneamente, anzi si potenzia progressivamente e incide sempre più spesso nell'esperienza del paziente.
Occorrerebbe arrendersi all'evidenza. I dati clinici stanno più dalla parte di un modello psicodinamico che biologico. Pretendere però dalla neopsichiatria un'inversione di rotta, che sarebbe semplicemente un atto di onestà epistemologica, è pretendere troppo, dopo il can-can propagandistico degli ultimi quindici anni. E poi invertire la rotta significherebbe sciogliere o, meglio, porre su basi rispettose di canoni scientifici il patto d'acciaio che la corporazione psichiatrica ha stretto con le industrie farmaceutiche. La cosa per ora è impossibile.
Perciò non v'è da sorprendersi che l'assunzione del criterio della remissione clinica, che pone di fronte al sostanziale fallimento delle cure antidepressive, venga utilizzato per rilanciare un progetto profilattico enunciato in questi termini: "Le strategie per un'efficace terapia profilattica comprenderanno la ricerca di una completa remissione e una terapia farmacologica di mantenimento a dosaggio pieno da protarsi da 1 a 5 anni in rapporto al rischio di ricorrenza". Fare accettare ai pazienti una terapia psicofarmacologica protratta negli anni, tanto più se essi continuano ad avere una sintomatologia residua - cioè a stare male - e non sono in grado di valutare il significato profilattico della stessa, non è semplice. E' a questo livello che deve impegnarsi persuasivamente lo psichiatra, e, se non basta, intervenire gli psicologi. L'intento univoco è di fare accettare al paziente la realtà d'essere affetto da un disturbo mentale cronico, che rimane attivo anche nelle fasi di latenza, e promuovere da parte loro la compliance con le prescrizioni farnmacologiche.
Spentasi dunque l'enfasi della pubblicità, che prometteva la guarigione con due o tre mesi di adeguate terapie farmacologiche, ci si avvia verso una medicalizzazione a tempo indeterminato dell'esperienza del soggetto. E' certo che questa nuova strategia otterrà risultati migliori di quelli raggiunti sinora. Per quanto infatti i conflitti psicodinamici, una volta scompensati, rimangano attivi, essi fanno riferimento a problematiche che, tranne rare eccezioni, nel corso degli anni o dei decenni, tendono ad evolvere o a decantarsi. Ad un certo punto della vita, un paziente depresso finisce per stare meglio per forza. laddove questo non dovesse avvenire, si potrà sempre dire che egli sta meno peggio di quanto starebbe se non avesse fatto le cure farmacologiche.
2.
Alcuni lettori di SMT e alcuni visitatori del sito hanno sottolineato la virulenza dei miei attacchi nei confronti della corporazione psichiatrica, ritenendola eccessiva. Per essi, è incredibile che le cose stiano così come le descrivo. Sinceramente, anche a me sembra incredibile che le cose stiano così nell'ambito dell'ideologia e della pratica psichiatrica corrente. Sono continuamente in attesa di segnali che m'inducano a dubitare della fondatezza delle critiche. Non è colpa mia se non solo tali segnali non arrivano, ma ne arrivano di contrari. Uno di questi, qui documentato, è la tendenza a reagire all'impotenza teraputica con un'escalation dei dosaggi e dei periodi di trattamento.
Vero è che un'ideologia così rozza come quella neopsichiatrica non avrebbe potuto imporsi, nonostante il sostegno delle case farmaceutiche, se essa non si fosse imbattuta nella connivenza dei pazienti e dell'opinione pubblica, i primi recalcitranti dal prendere atto che qualcosa non va nella loro vita invece che in una semplice trasmissione sinaptica, la seconda incline a confermare che la normalità (anche presunta) nulla ha a che cedere con la malattia mentale. Questo impasto di mistificazioni tra potere istituzionale e subjecti non è specifico dell'ambito psichiatrico: è un segno dei tempi. In quell'ambito esso, semplicemente, si rende più trasparente. Questo è il motivo che mi porta a pensare che la crisi della psichiatria, quando avverrà, sarà l'indizio di una rivoluzione culturale improvvidamente abortita alla fine degli anni '70.