Psicofarmacoterapia razionale?


Più passa il tempo, più lo slogan della depressione come malattia che guarisce con gli psicofarmaci comincia a fare acqua. La quota delle depressioni resistenti, come si è detto in un articolo precedente (Depressioni e farmacoterapia), è ormai comunemente ritenuta maggiore rispetto al 20% di cui si è parlato per anni. Le ricerche, anche condotte con metodologie simili, portano a risultati troppo divergenti, dal 30 al 70%, per non indurre il dubbio che si dia qualche difetto di fondo nell'impianto metodologico. Per ridurre lo "scandalo", ci si orienta verso un compromesso. Si comincia a riconoscere ufficialmente che le depressioni resistenti oscillano intorno al 50%.

Il difetto metodologico di fatto c'è, e consiste nello scarto tra il dato oggettivo del miglioramento dei sintomi depressivi, che si ricava dall'uso delle varie scale di valutazione adottate, e i vissuti soggettivi dei pazienti. Utilizzando le scale valutative, un "miglioramento clinicamente significativo" si riscontra nella maggioranza dei pazienti. Tenendo conto dei vissuti dei pazienti, tale miglioramento si riduce drasticamente. L'insonnia, l'inappetenza, l'astenia, l'apatia sono i sintomi più sensibili al trattamento farmacologico; i difetti di concentrazione, il disagio nelle relazioni private e sociali, l'incapacità di provare piacere sono, viceversa, i sintomi meno sensibili. Questi ultimi rappresentano il nucleo proprio delle depressioni resistenti. Se si valorizza però il piano dei vissuti, quello che emerge immediatamente è che una completa risoluzione della malattia, vale a dire la guarigione, intesa come restitutio ad integrum, è praticamente un'eccezione. Essa riguarda in pratica quasi solo le depressioni reattive ad eventi negativi di vita accidentali, che rappresentano non più di un quarto delle depressioni.

Tra i sintomi residui, tali per cui il paziente clinicamente migliorato in maniera significativa, cioè guarito, soggettivamente continua a non stare bene, il più costante e insidioso è l'anedonia, l'incapacità o la difficoltà di provare piacere. Tale sintomo, che incide nettamente sulla qualità della vita, è a tale punto imbarazzante per la teoria neopsichiatrica che già si è data qualche proposta di metterlo tra parentesi, di non tenerne conto in quanto troppo soggettivo per essere "operazionabile". Nell'attesa che i neopsichiatri, confortati da questa rimozione, possano dire ai loro pazienti, che hanno ripreso una vita normale ma non provano piacere in quello che fanno, che sono comunque sani come pesci, affiora interlocutoriamente la strategia della psicofarmacoterapia razionale. In cosa consiste questa strategia? Nel convalidare, dando ad essa una patente di razionalità, una pratica già corrente, per cui alle lamentele dei pazienti resistenti o residui si risponde somministrando più farmaci antidepressivi contenporaneamente: quindi un SSRI (come il Prozac o il Sereupin), un NaRi (come l'Edronax) e un equilibratore dell'umore (come il Tegretol o il Depakin). Un cocktail di farmaci? Per carità: la prescrizione è razionale perché lo SSRI agisce sulla disforia (impulsività, irritabilità, aggressività, ecc), il NaRi sulla concentrazione e sull'interesse per la vita, e l'equilibratore sul disturbo di fondo dello squilibrio umorale.A conferma della razionalità di questa impostazione, vengono prodotti naturalmente una serie di schemi che corroborano il fatto che, riconoscendo la depressione una sintomatologia polimorfica, l'attacco farmacologico deve avvenire su più fronti.

L'analisi di questi schemi, che non hanno alcun significato scientifico, chiarisce il fatto che la psicofarmacoterapia razionale è null'altro che un tentativo delle industrie farmaceutiche di stabilire tra di loro un patto di non belligeranza, insomma di risparmiare soldi investiti in ricerche ch esaltano le qualità di un prodotto a confronto con l'altro (un gioco a somma zero), e di convogliare le loro risorse nell'indurre, anziché una spartizione del mercato, un maggior comsumo da parte dei pazienti.

La psicofarmacoterapia razionale, come si è detto, è imposta dalle crescenti lamentele dei pazienti, a cui è stata promessa la guarigione e che, nel loro intimo, continuano a vivere male anche se hanno recuperato una funzionalità sociale apparentemente normale. Il malessere persistente è dovuto in massima parte all'anedonia, che si può comprendere solo psicodinamicamente. Essa infatti è espressione di un bisogno inconscio di punizione o, nelle sue forme più sfumate, di una fobia della felicità che attesta il fatto che il paziente sente di non avere diritto a stare bene. Si tratta dunque dell'indizio di un'economia interiore che, per motivi diversi, non comporta l'autorizzazione a provare piacere. Gli psicofarmaci urtano contro una barriera insuperabile perché quell'economia verte su ciò che soggettivamente è giusto e non è giusto.