Lanciata sul mercato italiano come antidepressivo appartenente alla categoria degli SSRI, con i nomi commerciali citati, la paroxetina ha conseguito un largo successo giungendo a competere, sul piano del mercato, con la fluoxetina (Prozac). Il successo si è incrementato negli ultimi due-tre anni perché le industrie farmaceutiche produttrici, sulla scorta delle solite ricerche universitarie (prezzolate), sono riuscite ad accreditare alla sostanza un'efficacia sugli attacchi di panico, sui disturbi ossessivo-compulsivi e sulla fobia sociale.
Negli Stati Uniti, ove deteneva una fascia di mercato nettamente inferiore al Prozac, dopo l'11 settembre 2001 la paroxetina (il cui nome commerciale è Paxil) è andata incontro ad una vera e propria escalation dovuta al fatto che il trauma terroristico ha determinato un incremento delle depressioni associate ad attacchi di panico. La larga diffusione del farmaco ha finito però con l'evidenziare due effetti che le industrie farmaceutiche hanno tentato invano di negare prima e di minimizzare poi. Il primo effetto è la dipendenza chimica, che si instaura rapidamente e, in caso di sospensione, può dare luogo ad una penosa sindrome di astinenza caratterizzata da cefalea, insonnia, irritabilità, malumore, ecc. Il secondo effetto è l'aumento del rischio suicidiario nelle prime settimane di cura, associato spesso ad un aumento dell'aggressività sociale.
I consumatori statunitensi di psicofarmaci sono sostanzialmente diversi da quelli europei. Ciecamente fiduciosi nelle industrie farmaceutiche, che essi pensano assoggettate a severi controlli, non oppongono alcuna resistenza alle prescrizioni mediche. La loro compliance è dunque, in genere, nettamente superiore rispetto ai pazienti europei. Nello stesso tempo, essi sono implacabili nei confronti di informazioni non corrette sugli effetti collaterali degli psicofarmaci.
La dipendenza è stata segnalata fin dall'epoca della messa in commercio del farmaco, ma la casa farmaceutica ha a lungo negato che si trattasse di una dipendenza in senso proprio attribuendo i casi segnalati ad una brusca interruzione del trattamento, vale a dire ad un effetto rebound. Trovatasi poi di fronte ad un numero elevato di pazienti che accusavano una sindrome di astinenza anche in seguito all'interruzione del trattamento dopo pochi giorni dalla prima assunzione, ad un dosaggio dunque ancora non terapeutico, essa ha ammesso la dipendenza minimizzandola. La strategia non ha funzionato. I pazienti si sono rivolti agli avvocati, si sono coalizzati e hanno avviato un processo con richieste di risarcimento di svariati miliardi.
Una cosa del genere non potrebbe mai accadere in Italia. Il motivo è di ordine culturale. Per i cittadini americani l'indipendenza è un valore sacro. Essi possono anche rinunciare ad essa per motivi terapeutici, ma a patto che ciò sia il frutto di una libera scelta conseguente ad una corretta informazione. Diventare schiavi di un farmaco senza essere stati messi al corrente del pericolo è assolutamente intollerabile e lesivo dei diritti individuali. In casi del genere, la legge di solito dà ragione ai consumatori.
Il secondo effetto si verifica raramente, ma è ovviamente più grave. Anche in rapporto ad esso, l'industria farmaceutica ha tentato di negare le responsabilità della paroxetina. Di fatto, tutti i trattamenti con antidepressivi comportano tradizionalmente un aumento di rischio suicidiario nelle prime settimane. Ciò è attribuito al fatto che l'effetto farmacologico "rivitalizza" il paziente prima di incidere sul fondo dell'umore e sull'ideazione depressiva. In conseguenza di questo, la recuperata capacità di progettare e di agire può dare luogo alla realizzazione del suicidio.
Nel caso della paroxina, però, le cose sembrano andare diversamente. Alcuni pazienti, nelle prime settimane di cura, diventano irritabili, aggressivi e violenti.. In casi estremi, l'aggressività dà luogo ad un suicidio preceduto da uno o più omicidi. La responsabilità della paroxetina nel produrre questi effetti è stata riconosciuta già una volta dai giudici in seguito ad un processo avviato dai parenti. Il rischio di comportamenti autolesivi e eterolesivii è stato riconosciuto come nettamente superiore agli altri antidepressivi della stessa categoria (Prozac, Zoloft) al punto che la commissione di vigilanza sui farmaci statunitense ha imposto, in questi giorni, il ritiro del farmaco dal commercio perché la casa farmaceutica possa provvedere ad inserire tale rischio esplicitamente nel foglietto illustrativo. E' ovvio prevedere che ciò comporterà una netta riduzione delle prescrizioni di paroxetina.
E' inutile sottolineare moralisticamente la disinvoltura con cui vengono messi in commercio gli psicofarmaci dopo sperimentazioni cliniche che, coinvolgendo un numero limitato di soggetti, possono facilmente impedire di rilevare alcuni effetti collaterali seri. La fretta è legata a intenti speculativi: la domanda di farmaci cresce in misura direttamente proporzionale all'aumento delle depressioni. Il business è tale che conquistare una fetta di mercato significa corroborare solidamente i bilanci. L'industria che produce la paroxetina è una grande multinazionale, la GlaxoSmithKline, nel cui fatturato degli ultimi anni l'antidepressivo incide nella percentuale del 20%! Conquistata una fetta di mercato, è naturale che le industrie farmaceutiche tendono sistematicamente, sulla scorta di ulteriori ricerche universitarie prezzolate, a negare o a minimizzare gli effetti collaterali che derivano dall'impiego clinico su vasta scala. Esse sanno di correre il rischio, almeno negli Stati Uniti, di essere trascinate in tribunale e di dovere risarcire un numero imprecisato di pazienti. Se agiscono in questo modo, però, è perché, a conti fatti, il gioco vale la candela.
2.
Il discorso però non può esaurirsi qui. Posto che il rischio suicidiario legato alla paroxetina nel corso delle prime settimane è più spiccato (quando sono in gioco depressioni gravi), è pur vero che esso è comune a tutti gli antidepressivi. Ciò, come si è detto, è spiegato dalla neopsichiatria in riferimento al fatto che i sintomi della depressione non sono ugualmente sensibili temporalmente agli psicofarmaci. Se, come accade talora, la motivazione ad agire migliora prima dello stato dell'umore, il quale influenza l'ideazione pessimistica e catastrofica, il pericolo di comportamenti auto- e eterolesivi aumenta. E' esauriente questa spiegazione? Penso di no. Se si tiene conto, oltre che degli effetti paradossali, anche del numero rilevante delle depressioni resistenti (Depressioni e farmacoterapia) e dei residui sintomatologici, legati all'incapacità di provare piacere (Psicofarmacoterapia razionale), che riguardano anche le depressioni sensibili al trattamento, riesce chiaro che la teoria monistica della neopsichiatria, che fa della depressione un'unica malattia con diverse espressioni cliniche, non ha fondamento. Adottando un'ottica psicopatologica razionale, appare immediatamente evidente che la sintomatologia depressiva è sovradeterminata, vale a dire è un insieme di fenomeni che non sono univocamente riconducibili ad un processo morboso e quindi non hanno tutti lo stesso significato. Ma è possibile tradurre questa evidenza in un'ipotesi più fedele ai dati clinici? Io ritengo di sì.
Nella depressione, come in ogni condizione di disagio psichico, la sintomatologia è, nello stesso tempo, l'indizio di uno smottamento conflittuale che avviene a livello inconscio e dell'interpretazione che il soggetto dà di ciò che avviene a livello cosciente in seguito a tale smottamento. Non si può né si deve escludere che tale smottamento corrisponda immediatamente a squilibri biochimici o che esso, una volta realizzatosi, possa indurli.
In sé e per sé, però, lo smottamento, come attesta l'analisi, è univocamente riconducibile dinamiche conflittuali che comportano costantemente una quota più o meno rilevante di rabbia, inerente la relazione tra il soggetto e il mondo sociale, talora accumulata nel corso degli anni, e un'attribuzione di colpa che risulta orientata verso il soggetto e verso qualcun altro. Il conflitto tra rabbia e attribuzione di colpa si può mantenere in equlibrio, a livello inconscio, anche per molto tempo o esprimersi secondo modalità subcliniche. La depressione sopravviene quando esso supera un punto critico che, facendo saltare l'equilibrio, richiede una ristrutturazione del conflitto. In difetto di consapevolezza da parte del soggetto del conflitto in questione, la ristrutturazione implica l'affiorare di sintomi che non hanno tutti lo stesso significato.
I sintomi immediatamente significativi delle dinamiche inconsce sono per un verso l'autosvalutazione e le autoaccuse, che esprimono i sensi di colpa, e per un altro l'irritabilità, la scontrosità, l'aggressività, che esprimono la colpevolizzazione di qualcun altro. Questi sintomi si associano sempre ad altri - come l'apatia, l'astenia, l'inappetenza - che vanno ricondotti alla necessità di uno svuotamento energetico che disarma il soggetto mettendolo in condizione di non nuocere né a sé né agli altri.
Questo si può ritenere il nucleo proprio della depressione in senso psicodinamico. L'affiorare dei sintomi a livello cosciente innesca poi una rimuginazione interpretativa che tende a dare ad essi senso. In difetto di consapevolezza del conflitto sottostante, questa attività interpretativa è un rimedio peggiore del male. Essa infatti può portare il soggetto a sentirsi finito e destinato a soffrire per sempre. Questa conclusione, nella quale si esprimono ancora i sensi di colpa, determina un'angoscia grave che, attraverso l'insonnia, può indurre un circolo vizioso psicosomatico.
Si dà anche un'altra possibilità. L'attività interpretativa può anche portare il soggetto a ritenere di avere subito un danno irreversibile per colpa di qualcuno e spingerlo a ruminare odio e sentimenti di vendetta, che naturalemnet lo colpevolizzano e incrementano la depressione.
E' su questo complesso sfondo psicodinamico che agiscono gli psicofarmaci. Gli effetti positivi sono dovuti essenzialmente al loro potere di schermare o anestetizzare la coscienza rispetto al mondo interiore che emerge attraverso i sintomi. Talora, sia pure raramente, ciò vale a restituire al soggetto lo stato d'animo e l'immagine di sé presistente l'avvento della depressione: a sostituire, in breve, un circolo vizioso psicosomatico con un circolo virtuoso fondato sulla rimozione. A volte, però, come nel caso della paroxetina, il farmaco rimuove i sintomi inibitori (astenia e apatia) senza operare una rimozione dei contenuti profondi: il senso di colpa e la rabbia. Ciò può indurre il soggetto ad agirle auto- e eterolesivamente.
In un numero rilevante di casi, la depressione, che pone a contatto con la coscienza i contenuti inconsci, può determinare un marchio di negatività tale per cui, sentendo di meritare di soffrire, il soggetto non ricava vantaggio alcuno dal trattamento o solo un vantaggio parziale. La fobia della felicità, che sottende psicodinamicamente l'anedonia, basta a capire sia il significato delle depressioni resistenti sia il significato dei residui sintomatologici.
Devo aggiungere infine una considerazione su di una dinamica che ho rilevato costantemente nei depressi: il confrontare la propria condizione con quella dei sani, il ritenere ingiusta e incompresibile la sofferenza, e il giunegre ad uagurare il male agli altri per pareggiare i conti. Dietro questi vissuti, non c'è alcuna cattiveria, ma solo l'espressione di un senso astratto di giustizia. Tranne i casi in cui il soggetto è affetto da sensi di colpa così profondi da ritenere giusta la sua sofferenza, in tutti gli altri casi questa dinamica basta da sola a rinfocolare la rabbia e i sensi di colpa, e a giustificare sia il peggioramento della depressione che l'inefficacia dei trattamenti psicofarmacologici.
Ottobre 2002