Psicofarmacoterapia: prassi corrente e prassi dialettica

1.

L'arma elettiva della neopsichiatria sono gli psicofarmaci, vale a dire sostanze chimiche capaci di incidere sull'attività delle cellule nervose. La scoperta e l'uso terapeutico degli psicofarmaci risale agli anni '50 del secolo scorso. Nel giro di cinquant'anni lo spettro farmacologico si è notevolmente ampliato.

La tabella pubblicata a giugno comprende gran parte degli psicofarmaci attualmente disponibili sul mercato italiano, classificati per categorie (ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici, stabilizzatori dell'umore, induttori del sonno) e classe chimica. La tabella comprende anche farmaci (sedativi e nootropi) che non hanno un effetto psicofarmacologico in senso proprio, ma vengono talora prescritti in alternativa o in associazione agli psicofarmaci.

Scorporando dalla tabella i sedativi, in gran parte fitoterapici, e i nootropi, gli psicofarmaci in senso proprio in commercio sono circa 150. Le molecole attive in realtà sono solo una novantina. Come risulta evidente dalla tabella, la stessa molecola è commercializzata sotto nomi diversi.

Le classi chimiche sono in numero ancora inferiore. Tra i farmaci ansiolitici prevalgono in assoluto le benzodiazepine, tra gli antidepressivi prevalgono gli inibitori non selettivi della ricaptazione delle monoamine e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, tra gli antipsicotici le classi fondamentali sono le fenotiazine e i derivati del butirrofenone, tra gli induttori del sonno si dà una prevalenza di derivati delle benzodiazepine. Tra farmaci appartenenti alla stessa classe chimica si danno delle differenze terapeutiche non rilevanti.

Ciò significa che, nella pratica terapeutica, un neopsichiatra che assume i sintomi come espressione di una malattia cerebrale e pretende di curarli con gli psicofarmaci ha una competenza che si riduce ad uno spettro di prescrizioni estremamente limitato; una competenza che non giustifica dieci anni di studio, poiché potrebbe essere acquista da chiunque con pochi mesi di tirocinio e l'adozione dei criteri diagnostici del DSM. Le sottili elucubrazioni sulle combinazioni di farmaci adatti al singolo paziente lasciano il tempo che trovano. Le linee-guida ufficiali sono ormai protocolli terapeutici adottati comunemente. Nei disturbi di panico si prescrivono un antidepressivo e un ansiolitico, nelle depressioni uno o più antidepressivi associati ad uno stabilizzatore dell'umore, nelle sindromi psicotiche uno o più neurolettici di vecchia e nuova generazione, associati, a seconda dei casi ad uno stabilizzatore dell'umore o ad un ansiolitico o ad un antidepressivo. Se la cura non funziona, si cambiano semplicemente i farmaci. Lo schema terapeutico è sempre lo stesso.

Il potere stregonesco dei neopsichiatri agli occhi dell'opinione pubblica è dunque un dato illusionale, dovuto ad una scarsa informazione. Ciò giustifica una serie di articoli sulla farmacoterapia, per illustrare la diversità radicale tra l'uso corrente e quello che si iscrive nell'ambito della prassi teraputica dialettica. In questo primo articolo, mi limiterò a fornire alcuni elementi che possono permettere di valutare tale diversità in termini generali, riservandomi di approfondire ulteriormente il problema in riferimento alle varie situazioni cliniche.

2.

La critica della pratica neopsichiatrica non implica né il rifiuto né la negazione dell'utilità degli psicofarmaci. Nella lotta contro la sofferenza umana, la scoperta degli psicofarmaci si può ritenere di fatto rivoluzionaria, a patto però che si riconosca che il loro potere non è terapeutico ma semplicemente sintomatico. Esso, in altri termini, vale ad alleviare la sofferenza del paziente, ma non può incidere, se non eccezionalmente, sulle cause che lo generano.

Questo è un luogo comune nell'ottica psicodinamica, violentemente contestato dai neopsichiatri. In realtà, espresso da psicologi che operano una netta distinzione tra cervello e psiche, esso rischia di essere insignificante. E' importante dunque formularlo in termini precisi, specificando meglio ciò che s'intende per sintomo.

Da un punto di vista psicodinamico, il cervello è un sistema complesso che ha due sfere di funzionamento: la coscienza e l'inconscio. La coscienza coinvolge il 20% dell'attività cerebrale, è legata al presente e ha un orientamento realistico, l'inconscio coinvolge l'80% dell'attività cerebrale, è denso di memorie connotate emozionalmente e utilizza un linguaggio prevalentemente simbolico.

Se si vuole utilizzare una metafora, la coscienza è come un'imbarcazione che scorre su di una superficie al di sotto della quale si dà un mondo fluido, cangiante nei suoi stati emozionali (dalla quiete alla tempesta) e piuttosto complesso.

La comunicazione tra coscienza e inconscio è di solito unilaterale. L'inconscio comunica di continuo con la coscienza: nel giro di un solo giorno, ogni uomo sperimenta stati d'animo e talora memorie e pensieri la cui origine non è chiara. La coscienza è difesa dall'inconscio da un meccanismo naturale di rimozione al quale si possono sovrapporre livelli di rimozione di ordine personale. La rimozione naturale tende a schermare la coscienza dall'afflusso dei contenuti inconsci che, per la loro ricchezza e il loro simbolismo, la presipiterebbero in uno stato di confusione costante. La rimozione personale tende a tenere la coscienza al riparo da memorie e contenuti soggettivi dolorosi, inquietanti o, semplicemente, incomprensibili in rapporto all'attrezzatura culturale di cui dispone il soggetto.

Entrambe le rimozioni utilizzano un potere intrinseco alla struttura cerebrale. Questa comporta circa cento miliardi di cellule nervose, metà delle quali favoriscono lo scorrimento degli impulsi traducendosi in percezioni, pensieri, memorie, fantasie, ecc., mentre l'altra metà inibisce lo scorrimento, bloccando i canali attraverso cui esso avviene.

La natura, in altri termini, ha dotato evoluzionisticamente l'uomo di un congegno con un motore potentissimo ma con un sistema frenante ancora più potente.

L'integrazione tra la coscienza e l'inconscio, dalla quale dipende l'equilibrio personale, si fonda sullo stato di cose esistente a livello inconscio. In ogni soggetto l'attività inconscia è fluida e in qualche misura turbolenta. L'attivazione a livello inconscio di un conflitto psicodinamico strutturale (fondato cioè sull'opposizione irriducibile tra Super-io e io antitetico) aumenta il grado di turbolenza, fino ad un limite critico al di là del quale fantasie, pensieri, memorie ed emozioni inconsce riescono a sormontare la rimozione e ad apparire a livello cosciente. La turbolenza inconscia in pratica rende utilizzabili canali comunicativi che sono normalmente inibiti.

L'affioramento a livello cosciente di tali contenuti non è immediatamente identificabile con i sintomi. Invadendo la coscienza, i messaggi inconsci mirano a fare presenti conflitti o problemi che richiedono una soluzione. Se la coscienza fosse dotata di strumenti adeguati, non avrebbe difficoltà a decodificare tali messaggi in termini psicodinamici. Di fatto, non essendosi formata nella consapevolezza dell'esistenza di un mondo interiore al di là di essa, la coscienza non riesce ad operare questa decodificazione. Essa, confrontandosi con contenuti che le sono estranei, è costretta però ad interpretarli. Dato che i messaggi che lancia l'inconscio danno luogo a stati d'animo negativi (ansia, depressione, eccitamento) o a fenomeni allucinatori, i codici interpretativi adottati sono in pratica due: la malattia, intesa come qualcosa che non va dentro di sé a livello fisico o psichico, e un'influenza esterna che altera il proprio equilibrio.

I sintomi psichiatrici sono l'espressione delle interpretazioni che la coscienza dà dei messaggi inconsci. Dato che queste interpretazioni non decodificano nel modo giusto quei messaggi, e quindi non permettono al soggetto di affrontare i problemi cui essi fanno riferimento, l'inconscio è costretto a continuare a produrli o ad incrementarne la produzione.

Gli psicofarmaci non hanno alcun potere di modificare il patrimonio di esperienza di un soggetto. Essi si limitano ad intervenire sui canali di comunicazione tra coscienza e inconscio, allentando o impedendo che i messaggi inconsci invadano la coscienza. Questo è il loro potere, meramente sintomatico. Nella misura in cui i messaggi inconsci mirano a fare presente una situazione conflittuale, che essi non siano recepiti comporta un vantaggio soggettivo: la coscienza si riorganizza un po' sulla base della struttura preesistente all'avvento dei sintomi. I conflitti, però, tanto più se sono strutturati, continuano ad evolvere a livello interiore.

L'uso degli psicofarmaci, nell'ottica dialettica, mira ad alleviare la sofferenza del soggetto, ma senza alcuna pretesa di estinguerla, perché, in persistenza dei conflitti, il ricomporsi della coscienza sulla base dell'organizzazione preesistente al disagio viene ritenuta una condizione di stabilità precaria.

E' vero che si danno delle eccezioni. Un episodio depressivo grave o un episodio psicotico acuto giovanile, curati solo con i farmaci possono regredire senza ripresentarsi mai più. In casi del genere si può pensare che gli episodi di "malattia" siano dovuti ad un concorso di variabili oggettive e soggettive a tal punto casuale da rendere impossibile una sua ripetizione nel corso della vita. Si tratta però, per l'appunto, di eccezioni. Più spesso, mettendo tra parentesi le situazioni reattive a circostanze di vita negative, il disagio si fonda su di uno scarto più o meno rilevante tra l'organizzazione della coscienza e il patrimonio esperienziale inconscio su cui essa galleggia, reso turbolento da un conflitto strutturale. In tali casi, senza un tragitto autoconoscitivo che ponga la coscienza in grado di comprendere ed elaborare i conflitti inconsci, integrandoli, la possibilità che i sintomi si ripresentino è elevata, e il potere degli psicofarmaci di curare una presunta malattia praticamente inesistente.

Il criterio scientifico che presiede l'uso dei farmaci nell'ottica psicodinamica consiste dunque nel porre al riparo, entro una certa misura, la coscienza dal contatto immediato con contenuti inconsci che non è in grado di decodificare e che, male interpretati, si traducono in sintomi, per dare ad essa modo di sviluppare, con l'analisi, moduli interpretativi più adeguati, che le consentano di affrontare e risolvere i problemi strutturali cui quei messaggi fanno riferimento.

3.

Il limite di quest'orientamento viene solitamente ricondotto alla difficoltà di sormontare delle convinzioni coscienti profondamente radicate. Questo problema esiste in rapporto a qualunque esperienza di disagio. Le interpretazioni che la coscienza fornisce dei messaggi inconsci, e che li trasformano in sintomi, sono in realtà tendenzialmente radicali. Chi ha un attacco di panico ha il terrore di star male e di morire, l'ipocondriaco avverte di continuo indizi che lo convincono di essere affetto da una malattia, il fobico sente l'esigenza di evitare la situazione che gli fa paura, chi è depresso sente che la vita è finita, ecc. In questi casi, la neopsichiatria ha facile gioco nello sfruttare la convinzione soggettiva di essere ammalato.

Ancora più arduo è il problema, che si pone per le psicosi e per la schizofrenia, laddove tra i sintomi della malattia la neopsichiatria fa rientrare anche l'assenza di coscienza che il soggetto ne ha o la negazione addirittura di essere malato. In questi casi, le cure farmacologiche vanno somministrate, spesso, contro la volontà del paziente, e si ritiene che l'approccio psicoterapeutico sia inutile, tranne che esso non sia orientato cognitivisticamente a promuovere la compliance del paziente stesso nei confronti delle prescrizioni.

Negare questo problema è ridicolo. Dal punto di vista dinamico, però, esso va affrontato criticamente. Non c'è alcuna sostanziale differenza tra le interpretazioni che chi ha un attacco di panico dà di ciò che sta accadendo nel suo corpo e quelle fornite da un soggetto che delira in rapporto alle voci. Entrambe sono errate, muovono da un ingenuo realismo che adotta la logica lineare della causalità - per cui un fenomeno va interpretato nel modo più semplice e immediato -, e si fondano su di una totale inconsapevolezza di come è strutturato l'inconscio e di come esso funziona. Il problema di sormontare l'ingenuo realismo della coscienza e di acquisire consapevolezza sul funzionamento dell'inconscio è, dunque, assolutamente comune.

La differenza, peraltro importante, è che, mentre un paziente affetto da attacchi di panico, un ipocondriaco o un depresso identificano nei sintomi l'espressione di una malattia, misconoscendo il significato autentico, psicodinamico dei sintomi, un paziente delirante rivendica che la sua esperienza non può non avere un senso. Il fatto che egli attribuisca alle allucinazioni un senso realistico, nulla toglie al fatto che la sua negazione di essere malato di mente è più vicina alla verità di quanto egli stesso pensi e di quanto pensino solitamente i neopsichiatri.

Certo, passare dall'intuizione che anche l'esperienza allucinatoria ha senso alla consapevolezza di ciò che essa realmente significa è un'impresa di grande portata, che, per realizzarsi, richiede tutta una serie di fattori soggettivi e oggettivi favorevoli. Nell'ottica di quest'impresa l'uso degli psicofarmaci può essere, oltre che utile, necessario ai fini dell'analisi, posto che il paziente giunga a collaborare, vale a dire a comprendere che gli psicofarmaci non curano alcuna malattia, ma possono servire tutt'al più a farlo soffrire di meno.

La collaborazione non si ottiene con il persuadere il paziente d'essere malato, bensì sulla base di informazioni adeguate che lo mettano in grado di capire che il senso della sua esperienza c'è, ma non coincide con il senso che egli dà ad essa. Se si prescinde dallo stereotipo della malattia mentale, quest'obiettivo può essere raggiunto in un numero di casi non insignificante.