1.
Tra le questioni di lana caprina cui si dedica da tempo la psichiatria, il rapporto tra ansia e depressione è una delle più ricorrenti. Da un punto di vista psicodinamico, il problema non si pone. Ansia e depressione sono entrambe espressioni di un conflitto psicodinamico attivo che possono intrecciarsi tra loro nelle combinazioni più varie. Ad un limite estremo, una sindrome d'ansia generalizzata comporta costantemente il riferimento ad un pericolo (morte, pazzia) che sta lì lì per realizzarsi. E' ovvio che una previsione del genere, imminente e catastrofica, nella misura in cui mantiene uno stato d'allarme massimale, quindi angoscioso, comporta anche una valenza depressiva, che può essere mascherata dall'attivazione dei centri emozionali. Se ci si mette nei panni di un soggetto che si sente condannato ineluttabilmente a morire o ad impazzire, è un po' difficile attribuirgli uno stato d'animo (o dell'umore) che non dia un po' sul grigio.
Al limite estremo opposto, una depressione grave, che porta il soggetto a sentirsi infinitamente stanco, spento nella sua vita emozionale, incapace di provare gusto alcuno, gravato di pensieri neri e di oscuri sensi di colpa, "finito" insomma, e per di più convinto che la sua condizione non potrà mai cambiare, può non comportare apparentemente una componente ansiosa. Se ci si mette nei suoi panni, e si tenta di ricostruire che cosa possa significare per un soggetto sentirsi già morto e lucidamente consapevole di essere destinato solo a soffrire, è difficile non pensare che un vissuto del genere debba comportare, ad un livello viscerale e inconscio, un'angoscia vitale.
Tra i due estremi, come ho accennato, si possono dare le combinazioni più varie, nelle quali le valenze ansiose e quelle depressive s'intrecciano, si sommano, si alternano, ecc. Queste combinazioni riescono comprensibili non appena s'identifica il conflitto strutturale che le sottende, il quale può attivare o disattivare i centri delle emozioni, determinando rispettivamente l'affiorare dell'ansia e/o della depressione.
Da un punto di vista psicodinamico, i sintomi dovuti al conflitto psicodinamico e i vissuti soggettivi non sono la stessa cosa. I sintomi espressivi del conflitto sono messaggi che l'inconscio invia alla coscienza segnalando una situazione di squilibrio interiore, riconducibile a problemi non risolti. I vissuti sono interpretazioni, solitamente errate, che il soggetto opera di quei messaggi. Un attacco di panico claustrofobico, per cui il soggetto sente che il cuore batte all'impazzata, la vista s'annebbia, il respiro diventa difficile, ecc., segnala che il regime di vita del soggetto è per qualche aspetto intollerabilmente coercitivo. Il soggetto in questione però interpreta il messaggio pensando che, se rimane bloccato in qualche ambiente chiuso, egli corre il rischio di svenire, morire o impazzire. Una depressione che repentinamente determina un'inibizione delle energie vitali corrisponde spesso allo scatto dell'interruttore elettrico, che segnala o un'eccessiva richiesta di energia o il pericolo di un corto circuito (per esempio un'esplosione di rabbia). Il soggetto interpreta quell'inibizione come se essa significasse una perdita irreversibili di vitalità e del gusto di vivere.
La questione di lana caprina viene fuori nel momento in cui la neopsichiatria, ignorando la psicodinamica e il doppio significato dei sintomi, riconduce questi ad una malattia del cervello. Da questo punto di vista, si danno disturbi di ansia e disturbi dell'umore, nettamente differenziati non solo da un punto di vista clinico ma anche neurobiologico. Trattandosi, nell'ottica psichiatrica, di due malattie in senso proprio, il loro intrecciarsi in maniera più o meno complessa a livello clinico crea sempre un qualche imbarazzo. E' su questa base che la nosografia neopsichiatrica si ramifica di continuo in virtù di distinzioni sempre più sottili.
Il culto della nosografia è giustificato dal fatto che una diagnosi corretta è indispensabile al fine di mettere in atto una terapia farmacologica mirata. Mirata a che non si capisce, dato che le etichette denotano una realtà d'esperienza che non viene capita.
2.
La distinzione natta tra disturbo d'ansia e disturbo dell'umore ha presieduto il trattamento farmacologico sino a qualche anno fa. Solo raramente ansiolitici ed antidepressivi venivano prescritti insieme, allorché ansia e depressione si manifestavano entrambe. Da qualche anno le cose sono cambiate. In teoria il cambiamento è avvenuto sulla base della consapevolezza che l'umore, inteso come dimensione fondamentale dell'esperienza soggettiva, non può non essere compromesso in conseguenza di uno stato ansioso. Nella misura in cui l'ansia implica la percezione o la previsione di un pericolo, casomai indefinito, ma comunque grave, essa non può non incidere sull'umore. Questa considerazione, ovvia sotto il profilo psicodinamico, ha dato luogo a livello neopsichiatrico ad una revisione non teorica, ma pratica. Sempre più spesso ansiolitici e antidepressivi sono stati prescritti in associazione. Per ottenere, poi, un effetto terapeutico più incisivo è invalsa l'abitudine di cominciare a prescrivere anche stabilizzatori dell'umore (Tegretol, Depakin, ecc.).
L'input che ha promosso questo cambiamento è stata l'esplosione epidemica, a partire dagli inizi degli anni '90, della sindrome da attacchi di panico. Giungendo ad investire il 2-3% della popolazione, questa sindrome ha dischiuso una nuova frontiera da colonizzare per le case farmaceutiche. Tenendo conto che gli ansiolitici sono farmaci a basso costo e gli antidepressivi di ultima generazione farmaci ad alto costo, era prevedibile che qualcuno avrebbe dimostrato l'efficacia degli antidepressivi sugli attacchi di panico. Guarda caso, questo è regolarmente accaduto.
Nel 1994, in seguito alle solite ricerche prezzolate, l'Efexor, un antidepressivo già in commercio, è stato dichiarato efficace nel disturbo di ansia generalizzato e nella fobia sociale. A distanza di due anni, anche il Sereupin è stato dichiarato efficace negli attacchi di panico.
In seguito a queste "scoperte" la prescrizione standard negli attacchi di panico si è attestata su una miscela di ansiolitici, antidepressivi e stabilizzatori dell'umore.
La fame però, come si dice, vien mangiando. Scoperta la possibilità di estendere gli antidepressivi nell'ambito di alcuni disturbi d'ansia, è venuto naturale chiedersi se non fosse possibile trasformare gli antidepressivi in farmaci di prima scelta per quei disturbi. Il progetto può apparire singolare. La distinzione tra disturbi d'ansia e disturbi dell'umore fa capo anche ad una diversa eziologia: nei primi si ammette una disfunzione del sistema gabaergico, nei secondi del sistema serotoninegico e noradrenergico. Se gli antidepressivi funzionano nelle sindromi ansiose, la distinzione eziologica salta e, con essa, l'impinato nosografico della neopsichiatria.
Evidentemente, le motivazioni speculative sono più potenti di quelle scientifiche. Il problema, però, è riuscire ad occultarle sotto il prestigioso mantello della scienza. La strategia adottata è stata duplice. La prima è stata orientata a squalificare gli ansiolitici per predisporre i pazienti al cambiamento. A tale fine, l'arma propagandistica utilizzata ha fatto leva sulla dipendenza da essi indotta. Questo effetto collaterale, noto da sempre, è piuttosto facile da lottare. Posto che il paziente abbia elaborato le problematiche generatrici dell'ansia, basta adottare il metodo dello scalaggio graduale delle dosi per impedire il sopravvenire di sintomi di astinenza (peraltro tollerabili anche nei casi di una sospensione brusca). Si dà, però, nel nostro mondo, una particolare sensibilità psicologica nei confronti del pericolo di diventare schiavi di uno psicofarmaco. Sfruttare questa sensibilità è stato un gioco da ragazzi. Da alcuni anni tutti i giornali hanno pubblicato articoli sulla dipendenza ad ansiolitici e sulla necessità di limitarne l'uso ad alcune settimane per non incappare nella dipendenza fisica. E' vero che c'è stato anche qualche intervento di esperti orientato a sdrammatizzare il fenomeno. Questo però si può spiegare facilmente.
Tutte le grandi industrie farmaceutiche producono sia ansiolitici che antidepressivi. Solo alcune piccole industrie, non avendo sufficienti risorse per lanciare sul mercato un antidepressivo, si limitano a produrre solo ansiolitici. La propaganda contro gli ansiolitici è stata avviata dalle grandi industrie. La debole difesa si deve, ovviamente alle piccole industrie.
La propaganda ha avuto effetto perché, quando l'uso di un farmaco viene criticato, l'opinione pubblica non può sospettare che dietro questo ci sia la lunga mano delle industrie. Invece c'è, ed è facile dimostrare la logica economica della propaganda.
L'industria che ha avviato la new-age farmacologica con la scoperta dell'efficacia dell'Efexor nei disturbi d'ansia è la Wyeth, la stessa che produce il famigerato Tavor, vale a dire l'ansiolitico più diffuso al mondo, la cui vendita rappresenta l'80% del fatturato della Wyeth stessa. Una compressa di Tavor costa circa 500 vecchie lire, mentre una compressa di Efexor ne costa circa 4000. Se un paziente, che usa una-due compresse al giorno di Tavor passa all'Efexor, il cui dosaggio standard è una compressa, il guadagno della Wyeth aumenta da un massimo dell'800% ad un minimo del 400%. Non si stenta certo a capire la strategia commerciale dell'industria farmaceutica!
Al di là dei mass-media, la seconda strategia è stata la solita: le ricerche universitarie prezzolate i cui esiti sono poi presentati ai medici come risultati scientifici. E' inutile dire che la propaganda ricolta ai medici, data l'enormità dei guadagni, si avvale anche di strumenti di persuasione concreti: gadgets, libri, partecipazione a congressi, ecc.
Quale risultato ha prodotto sinora la propaganda? Sul piano "scientifico" l'orientamento della neopsichiatria è favorevole alla sostituzione degli ansiolitici con gli antidepressivi, che sarebbero più efficaci e non danno dipendenza. Certo, essendo il disturbo di ansia una malattia biochimica, la cui matrice è genetica, si tratta di assumere il farmaco vita natural durante. Ma in fondo si tratta solo di una compressa al giorno. I pazienti oppongono una certa resistenza al cambiamento in parte per conservatorismo, in parte perché l'antidepressivo fa pensare ad una malattia più grave. Basterà avere pazienza e convincerli che l'antidepressivo è anche un potente ansiolitico, e che l'ansiolitico è un farmaco ormai sconsigliabile.
3.
Tutto ciò può sembrare incredibile a chi ha fede nella scienza e nella psichiatria. Purtroppo la gente continua a credere che le industrie, pur mirando al profitto, non possono non privilegiare i bisogni dei pazienti rispetto alle logiche di mercato. Non è così. Taluno potrebbe ritenere che il discorso fatto sia ideologico o addirittura fazioso. Riporto per ciò in appendice, a prova di quanto detto, un dialogo tra due psichiatri pubblicato su sito Medascape. Il dialogo, purtroppo, è in inglese, e non è certo una denuncia della psichiatria. Tra le righe, sia pure in forma dubitativa, però, la strategia delle industrie è fin troppo chiara, anche se i colleghi specificano che, nonostante la propaganda, gli psichiatri continuano a pensare con la loro testa. E' vero, ma, da tempo a questa parte, la loro testa inclina insistentemente al calcolo economico.
Marzo 2004
Appendice
(il corsivo è redazionale)
07/10/2003
Dr K: When do you actually use benzodiazepines to treat anxiety? I mean, how many other drugs will the patient actually have to fail before you would prescribe them?
Dr. F: Well, sometimes none. A lot of the time, I would use them right away. First-line.
Dr K: Really?
Dr. F: Sure. It wasn't that long ago that benzos were used routinely as first-line treatment for generalized anxiety. It's only fairly recently that they've been supplanted by SSRIs and SNRIs.
Dr K: And aren't those drugs better? Don't benzos tend to make patients sleepy, stupid, and addicted? I mean, not using benzos as first-line treatment is a step forward, right?
Dr F: Certainly, SSRIs and SNRIs are important treatment options. But benzos have their virtues, too. They work right away; antidepressants in general take a few weeks to work. When dosed appropriately, they don't make people sleepy or stupid. As far as addiction goes, that's pretty controversial, but my feeling is that the risk of addiction for benzos is grossly overstated. Certainly, in a vulnerable population, like people with substance abuse history or strong family histories of substance abuse, tolerance and dependence can be a problem. But that is a very small percentage of patients who present for treatment for anxiety. I've seen a lot of patients who have taken 10 mg a day of Valium for years with good result. They don't escalate the dose, and if they try to come off it or miss a few doses, all that happens is that they get anxious again. Benzos don't really have very many side effects besides the ones you mentioned, and since antidepressants have side effects of their own, there are some patients who can tolerate benzos who cannot tolerate antidepressants.
Dr K: So why don't we use them any more?
Dr F: I do. But the sense I get, in what little adult work I do, is that they have really fallen out of favor.
Dr K: You're right, but I don't think that's for good reason. I think that's basically a function of marketing.
Dr F: You mean, drug companies are trying to get us to write for their SSRIs and SNRIs for anxiety as opposed to benzos?
Dr K: Exactly. The other side of that coin is that nobody is marketing benzos at the moment. That may change soon with the launch and subsequent marketing of rapidly dissolving Klonopin and Xanax XR, but for the time being, all of the marketing efforts of the pharmas for anxiety treatments are focused on antidepressants.
Dr F: So you are saying that we all are really controlled by the pharmaceutical industry? That their marketing efforts really do control our behavior?
Dr K: Well, no. I do think that at least some of us are capable of independent thought. The problem, I think, has more to do with sources of information. So much research and educational programming is funded by pharmas that they have an enormous amount of influence over what is defined as the state of the art. While they may not have direct control over the results of published research, or the content of educational programs at meetings, or the information that is sent to us in the mail, they have enough influence to determine a lot of what it is you are going to see when you go to "read the literature." You end up thinking that the treatments for which they choose to fund research and programs are indeed the state of the art. After all, you read all of these advantages of these new treatments. No one's putting material in front of you telling you about the advantages of the older treatments.
Dr F: And no one is funding head-to-head studies between the new and the old treatments, either.
Dr K: Exactly. Why should they? The only people who fund clinical trials these days are pharmas -- although that has changed a little bit with some new NIMH studies that are actually comparing different treatments without any pharma funding -- and pharmas are certainly not going to fund such a study because it may not look so good for them. Look, I have nothing against marketing. I think that the pharma industry, like any other industry, is entitled to promote its products. I am also sympathetic to the fact that is not easy for them to do this. It is hard to get the attention of busy physicians. My concern is that some things are marketing that aren't labeled as such. I am tired of hearing the words "unrestricted educational grant." There ain't no such animal. Simply deciding what it is you're going to fund with such an unrestricted educational grant gives you a fair amount of discretion as to what clinicians will hear about and know. And as far as research is concerned, it seems to me that the results of studies sponsored by pharmas seem to almost always be good news for the company actually doing the sponsoring. I'm not saying that they manipulate the data, but I am saying that they have a fair amount of control over what data you see and what data never sees the light of day.
Dr F: I can see a little bit of this happening now with ADHD treatments. While stimulants can have bad side effects, particularly weight loss and insomnia, they do work for most kids, and as we start to get alternatives to stimulant medications for ADHD, some materials and programs I've seen are starting to imply that stimulants may become obsolete. Immediate-release stimulants are a very good example of what you're talking about. They're treated in current discussion as if they're obsolete, but they can have a great deal of clinical utility, particularly as augmenting medications.
Dr K: I think the best example of this phenomenon is lithium. Lithium is a fabulous drug. Unfortunately, nobody is marketing it presently, and there's a lot of aggressive marketing of other medications for bipolar disorder. As a result, I think a lot of clinicians are becoming convinced that lithium is an inferior drug. There have even been a few papers written by old-timer psychopharmacologists defending lithium as a treatment of choice, particularly for classic, nonrapid cycling bipolar I disorder. I have even seen things written saying that lithium has become less effective over time. That's crazy. Lithium may have been used less than successfully for bipolar subtypes for which it is less effective, such as rapid cycling or mixed dysphoric states, but for classic mania it really works, and these days clinicians really need to be reminded of that fact. This kind of marketing has almost relegated a useful medication to the status of historical artifact.
Dr F: Interesting.
Dr K: Yeah, and you know what else? I think we just wrote my next column.
Thomas A. M. Kramer, MD, Associate Professor of Psychiatry, University of Chicago, Chicago, Illinois