Ancora sull'uso di psicofarmaci nei bambini


Poche settimane fa ho commentato un articolo del Wall Street Journal che dimostrava, dati alla mano, che l'aumento esponenziale della spesa per farmaci avvenuta negli ultimi anni implicava la prescrizione di psicofarmaci ai bambini e agli adolescenti. L'articolo denunciava implicitamente un dato che ho omesso di sottolineare, vale a dire che la prescrizione di alcuni psicofarmaci avveniva già da anni di sicuro in violazione della legge. Una notizia riportata dai giornali, con grande risalto, in questi giorni, conferma questo dato. La "Food and drug administration", l'organismo americano che regolamenta l'utilizzo dei farmaci, ha approvato l'uso di un noto antidepressivo (Prozac) anche nella cura di bambini e adolescenti dai 7 ai 17 anni, vittime di depressione e disordini compulsivi-ossessivi. Si tratta di un'approvazione che non fa che sancire una pratica già in atto da anni, realizzatasi prescrivendo il farmaco ai parenti e somministrandolo poi ai bambini e agli adolescenti.

La notizia, che segue all'approvazione del Ritalin nell'ADHD infantile avvenuta nel 1999, ha destato scandalo e attivato fronti molteplici di protesta, soprattutto (ma non solo) in Italia. Al di là della istintiva ripugnanza morale per una pratica che medicalizza situazioni infantili e adolescenziali nelle quali si inutisce l'incidenza dell'ambiente, la protesta ha un fondamento scientifico. Il cervello infantile e adolescenziale è un organo in fase evolutiva anche da un punto di vista biologico. Su questo aspetto, si comincia a sapere qualcosa, ma non tutto ciò che occorrerebbe sapere. La possibilità che gli psicofarmaci possano incidere strutturalmente sull'evoluzione del cervello, inducendo danni irreversibili, non può essere, allo stato attuale delle conoscenze, scongiurata.

E' vero che la "Food and drug administration" subordina l'uso del Prozac a criteri clinici rigorosi e ristretti, e auspica che la prescrizione venga effettuata solo da neuropsichiatri infantili e psichiatri. Dato però il carattere prevalentemente privato della medicina statunitense, è evidente che tali criteri lasciano il tempo che trovano. Se uno psicofarmaco è in commercio e il suo uso per bambini e adolescenti è autorizzato, nulla può impedire a qualunque medico di prescriverlo. L'industria produttrice del Prozac peraltro ha già presentato un'abbondante documentazione clinica, basata su ricerche universitarie, che attesta l'utilità dell'uso del farmaco in alcune sindromi infantili e adolescenziali e l'incidenza modesta di effetti collaterali. Essa inoltre sta finanziando ricerche mirate ad escludere la possibilità di danni strutturali del cervello. E' noto che tutte le ricerche finanziate dalle industrie farmaceutiche esitano in verdetti favorevoli nei confronti del farmaco in questione che minimizzano sia gli effetti collaterali che i possibili danni.

La medicalizzazione dei disturbi psichici infantili e adolescenziali corrisponde negli Stati Uniti ad una realtà inquietante.Secondo le stime dell'Istituto nazionale della salute mentale, negli Stati Uniti la depressione affligge oltre il 25% dei bambini e circa l'8% degli adolescenti. I disturbi ossessivi-compulsivi riguardano il 2% della popolazione, e solitamente si manifestano per la prima volta proprio durante l'adolescenza o la prima infanzia. In Italia tali percentuali sono più modeste, ma il trend appare inesorabilmente contrassegnato da una tendenza all'aumento.

Commentare questa situazione richiede di necessità un discorso che non sia di mero principio. E' scontato che le industrie farmaceutiche mirano alla vendita su larga scala dei loro prodotti, che gli istituti di ricerca universitari forniscono dati prezzolati, che i medici stessi ricevono, in forme varie, laute tangenti sulle prescrizioni. E' scontato che attribuire a fattori genetici la disastrosa diffusione dei disturbi psichici a livello infantile e adolescenziale nei paesi occidentali è ridicolo. Se la demistificazione dell'ideologia neopsichiatrica e del suo intreccio con concreti interessi economici ha un fronte caldo, questo va riconosciuto proprio nelle parologie psichiatriche infantili e adolescenziali.

Posto ciò, opporre alla medicalizzazione il richiamo a dovere affrontare da un'altra prospettiva, sostanzialmente psicosociologica, è una petizione di principio se questa prospettiva non viene illustrata in termini concretamente praticabili. Ora questa prospettiva comporta un limite quantitativo: il rapporto tra pazienti e operatori psichiatrici. Laddove il disagio psichico assume una configurazione sociologica che investe una quota consistente della popolazione, è evidente che la possibilità di un approccio psicosociologico si vanifica in nome del numero estremamente ridotto degli operatori. Questa considerazione vale per i disturbi psichiatrici infantili e adolescenziali come per quelli degli adulti. In pratica, la produzione sociale del disagio psichico eccede la possibilità e la praticabilità di un'alternativa rispetto al trattamento psicofarmacologico. Coloro che auspicano questa alternativa, non sono in grado di formulare un progetto. Essi si limitano, in pratica, ad augurarsi che una parte della domanda sia smistata in direzione di psicologi e psicoterapeuti.

Ciò non significa ovviamente che si debba accettare la medicalizzazione dei disagi infantili e adolescenziali come una fatalità. Si tratta di riconoscere però che la diffusione sociologica di tali disagi non è riconducibile alla somma di circostanze locali, familiari, che pure in alcuni casi si danno, bensì ad un'organizzazione sociale, che coinvolge adulti e bambini, poco compatibile con la produzione che dovrebbe essere privilegiata: la riproduzione sociale, il cui aspetto fondamentale è la produzione antropologica.

Altrove, ho sottolineato la stranezza per cui la nostra società, che ama vantare la sua razionalità e la sua efficienza produttiva, non abbia mai affrontato seriamente il tema della produzione antropologica, dando per scontata la "razionalità" delle famiglie e degli insegnanti cui essa è affidata. I dati sul disagio infantile e adolescenziale attestano che questa disattenzione va urgentemente colmata nella direzione di una riprogrammazione e di una ristrutturazione sociale. Produrre l'uomo implica non solo competenze che non sono naturali, ma anche energie e tempo da investire in questa singolare produzione.

Per rimediare alla catastrofe che si va definendo, occorre porsi sul piano della prevenzione, vale a dire della critica sociale.