Sull'Amor di Patria

1.

La commozione popolare evocata dalla strage di Nassiryia è stata sorprendente. Nonostante la maggioranza degli italiani continui a considerare errata la scelta del governo di partecipare ad una missione di pace adottata prima dell'autorizzazione dell'ONU, e in condizioni di subordinazione totale alla leadership statunitense, la partecipazione alle esequie è stata massiccia, e ha coinvolto un numero rilevante di giovani. Molti di questi hanno reso onore alle salme con la fascia tricolore arrotolata sul petto. Numerose bandiere sono state esposte alle finestre, spesso associate alle bandiere della pace. Quasi unanime è stato il consenso sulla decisione del governo, appoggiata anche dall'opposizione, di non ritirarsi dall'Iraq, in segno di rispetto dei caduti e per non darla vinta al terrorismo.

L'inaspettata partecipazione popolare all'evento ha rimesso in movimento i discorsi sull'amor di patria, che, per lungo tempo, sono stati appannaggio della destra nazionalista. Tra gli opinionisti è prevalsa la tendenza ad interpretare il "ritorno" di questo sentimento come indizio di un intensificarsi, anche presso le giovani generazioni, di un bisogno di appartenenza, che trova appagamento solo in un quadro comune di riferimenti culturali (la lingua, la storia, le tradizioni, ecc.).

Che questo ritorno dell'amor sia un fatto univocamente positivo, come si sarebbe indotti a pensare leggendo i commenti dedicati alla vicenda in questione, discende da una serie di problemi che l'urgenza della cronaca ha fatto accantonare. E' vero che l'amor di patria va considerato come l'unico, indispensabile fondamento dell'identità culturale di un gruppo umano? Qual è il confine tra l'amor di patria, il nazionalismo, l'etnocentrismo, la xenofobia? Come si concilia il patriottismo con un mondo che si va globalizzando, e pone sempre più in luce la relatività delle culture e delle tradizioni locali, sia pure a livello nazionale?

L'identità culturale, come peraltro, su un'altra scala, quella individuale, è un problema complesso: si tratta, infatti, di un prodotto storico - macrostorico nell'un caso, microstorico nel secondo - che implica meccanismi molteplici di selezione e di rimozione della realtà vissuta. Essa, come risulta chiaro dal saggio di Remotti, Contro l'identit ! , si costruisce estrapolando dal flusso degli eventi alcuni dati che vengono valorizzati e la cui valorizzazione serve anche a porre in ombra altri. Questo articolo non intende contestare il significato dell'amor di patria: mira a rivelarne appunto le ombre che inesorabilmente lo sottendono.

2.

Uno dei mali più antichi dell'umanità è il confinarsi del sentimento di appartenenza al genere umano nell'ambito di un gruppo dotato di un'identità culturale. Il bisogno di appartenenza è naturale e quindi universale. Ogni bambino viene al mondo predisposto a riconoscere il simile, e a riconoscerlo in ogni altro essere umano. A differenza degli animali superiori, nei quali l'allevamento si conclude con il misconoscimento dei legami parentali, al di là del quale però persiste, all'interno della specie, il riconoscimento del simile, l'uomo, dato la consapevolezza persistente di quei legami, alla fine dell'evoluzione della personalità, sviluppa un sentimento specifico di appartenenza ad una famiglia, ad un'etnia, ad una cultura, ad una nazione. Dire che l'uomo, nella sua natura più profonda, è un animale tribale, è improprio. La tribù è già un aggregato culturale. Il confinamento del sentimento di appartenenza al genere entro i limiti di un'etnia è un prodotto culturale. In sé e per sé, vale a dire per natura, l'uomo è un animale sociale.

Il vincolo tribale, che si definisce in conseguenza della cultura, si estende nella misura in cui si estende il gruppo cui il soggetto appartiene. L'amor di patria, dunque, è null'altro che l'estensione del tribalismo entro i limiti di una Nazione, che ovunque, è un agglomerato di etnie originarie che, nel corso del tempo, vengono unificate da una lingua nazionale (la quale peraltro convive con dialetti reciprocamente incomprensibili, indiziari dell'originaria separazione culturale), da un potere politico centrale comune, e da usi, costumi e tradizioni che, diversi all'origine, tendono a confluire in una cultura piuttosto omogenea, differenziata rispetto alle altre.

L'appartenenza ad una nazione funziona come una barriera del bisogno di socialità, perché al di là di essa si definisce il problema del confronto con il diverso, lo straniero, la cui lingua e i cui costumi sono più o meno incomprensibili. Questo problema è minimo allorché nazioni confinanti geograficamente, hanno radici culturali in comune a partire dalle quali si diversificano. In questo caso, sormontare la diversità in nome delle radici comuni riesce agevole: si tratta infatti solo di trascendere la barriera del nazionalismo. Il problema diventa invece rilevante allorché la distanza geografica coincide con diversità culturali che limitano la comunicazione e la comprensione reciproca.

Se la patria viene considerata non già come un'entità astratta, bensì come un prodotto storico, riesce del tutto evidente che l'evoluzione la quale ha portato al superamento delle tribù e delle etnie, producendo le nazioni, implica la possibilità che anche i confini nazionali possano essere superati in nome dell'estensione del sentimento di appartenenza al genere umano. Questo superamento, di fatto, già è avvenuto in un ambito culturale particolare: quello delle religioni universali. Quando Paolo scrive, nella Lettera ai Galati, che "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.", egli definisce un nuovo codice di appartenenza che, in nome della comune origine divina, sancisce il superamento di tutti i confini definiti dalla storia e dalla cultura precedente. Tale superamento, su una diversa base, giusnaturalistica, è avvenuto anche a livello di diritto internazionale con la Dichiarazione Universale dei Diritti umani.

Perché esso stenta a realizzarsi a livello politico e culturale in un'ottica laica? Perché la globalizzazione ha, per ora prodotto, un rigurgito di conflitti etnici e religiosi, un'accentuazione dei nazionalismi e il ritorno dell'amor di patria (fino all'estremo dell'invenzione di patrie immaginarie come la Padania)?

3.

Secondo alcuni - filosofi, antropologi, sociologi, psicologi - il bisogno di appartenenza dell'essere umano si associa ad un incoercibile bisogno di differenziazione. L'identificazione del familiare, dell'amico, del simile culturalmente è imprescindibile dall'identificazione dell'altro da sé, del non familiare, dell'estraneo, del nemico. Senza questa distinzione, sostengono gli studiosi, l'uomo cadrebbe in una situazione psicologica di smarrimento e di anomia, perderebbe i parametri essenziali del suo orientamento nel mondo.

Da questo punto di vista, l'uomo sarebbe per natura un animale neofobico, che vede nel nuovo e nel diverso una minaccia alla sua identità. Queto punto di vista può avvalersi di una prova tratta dalla psicologia evolutiva: l'angoscia nei confronti dell'estraneo, che sopravviene intorno all'8° mese, e fa sì che il bambino, il quale prima risponde con il sorriso a tutti i volti umani, giunge a distinguere nettamente il familiare, a cui s'aggrappa, e l'estraneo, alla cui presenza corrisponde una reazione di paura e di terrore. Non si può minimizzare questo aspetto, che conferma la centralità della categoria familiare/estraneo nella strutturazione della personalità, ma non la si può neppure enfatizzare. Il problema, infatti, sta nel capire perché tale categoria non viene sormontata restaurando la consapevolezza culturale dell'appartenenza al genere, che precede naturalmente la distinzione tra familiare e estraneo.

La risposta si può ricavare agevolmente dall'analisi di qualunque cultura, etnica o nazionale. Non si dà di fatto nessuna cultura che non tenda a porsi come assoluta, i cui valori cioè prescindano da un processo di naturalizzazione che ne estingue o maschera la genesi e il significato storico. Se questo è vero, la neofobia sembra espressiva, piuttosto che di un orientamento naturale, di un problema più profondo: quello per cui l'uomo, avendo bisogno di certezze, non può vivere la propria cultura come un insieme di valori sempre e comunque relativi. In conseguenza di questo, l'adesione ad una cultura richiede un atto di fede che rende ogni soggetto connivente con il processo di naturalizzazione sulla quale essa si fonda, e cioè gli impedisce di vederne le contraddizioni.

L'amor di patria è l'espressione di questa connivenza. Essa consente ai soggetti che si riconoscono in una nazione di minimizzare le contraddizioni intrinseche alla propria cultura, e, di conseguenza, di massimizzare quelle intrinseche alle altre.

Il patriottismo è dunque un valore, che soddisfa un bisogno profondo degli esseri umani, quello di riconoscersi in un gruppo dotato di una sua identità culturale, ma, per ciò stesso, è un valore sempre sotteso da un'ambivalenza: il significato positivo associato al "familiare" implica il significato negativo associato al non-familiare. Il nazionalismo, l'etnocentrismo, la xenofobia sono, potenzialità intrinseche all'amor patrio. Quali di questi pericoli si può ritenere maggiore nell'epoca della globalizzazione? Il nazionalismo è destinato inesorabilmente ad essere messo in gioco dalla globalizzazione. Non è per caso che l'Europa, che è stata la culla dei nazionalismi e che ha pagato in nome di ciò gravissime conseguenze, si sta orientando verso un'aggregazione comunitaria sovranazionale rispettosa delle diverse tradizioni civili e culturali. Anche la xenofobia, che si è attivata con l'avvio della globalizzazione, è destinata ad attenuarsi via via che la mescolanza multietnica, prodotta dai flussi immigratori, superata una fase critica, permetterà di sperimentare non solo la possibilità ma l'utilità di un'integrazione tra le diverse culture. Il pericolo maggiore, a mio avviso, è l'etnocentrismo, vale a dire la convinzione intrinseca ad ogni cultura che il suo quadro di valori sia superiore a tutti gli altri.

Sormontare questo pericolo è estremamente difficile, perché comporta l'accettazione del fatto che il sistema di valori su cui si fonda l'identità non è assoluto, ma relativo: è, insomma, uno dei possibili sistemi a cui può fare riferimento un gruppo per dotarsi di un'indentità, assicurare la sua coesione e favorire la riproduzione sociale. Il passaggio dall'etnocentrismo al pluralismo culturale richiede che gli uomini siano disposti a mortificare, in qualche misura, il loro bisogno di certezze. Questo sarà possibile solo in nome della consapevolezza che un qualunque sistema di valori culturali di riferimento è intrinsecamente contraddittorio.

In questa ottica, l'amor di patria non è un sentimento che si possa giudicare in sé e per sé positivo o negativo. Funzionale a soddisfare un incocercibile bisogno di appartenenza culturale ad un gruppo, se esso si associa al carattere relativo del quadro comune di valori cui fa riferimento può essere positivo, poiché tale consapevolezza lo rende compatibile con il sentimento di appartenenza al genere umano; se esso, viceversa, si riconduce alla superiorità di quel quadro di valori rispetto a tutti gli altri, vale a dire all'etnocentrismo, esso è negativo, perché, se anche non promuove l'intolleranza, impedisce all'individuo e al gruppo di prendere coscienza delle contraddizioni intrinseche alla cultura di appartenenza.

4.

In quale misura queste considerazioni sono pertinenti in rapporto alla commozione popolare suscitata dall'uccisione dei militari e dei civili italiani impegnati in una missione di pace? La risposta si ricava distinguendo, nella circostanza in questione, le motivazioni che hanno sotteso quella commozione e l'uso politico che ne è stato fatto.

Se teniamo conto che il 70% degli italiani non era d'accordo con l'invio di un contingente italiano in Iraq, verrebbe da pensare immediatamente che almeno una parte di essi abbiano cambiato idea nel corso dei mesi, e ancor più in seguito alla strage. Io non penso che questo sia accaduto, non fosse altro che per il fatto che l'invasione statunitense dell'Iraq si va rivelando di giorno in giorno una decisione sciagurata.

E' più probabile che, nell'attivare una commozione generale, abbia inciso l'influenza mediatica che, fin dal primo giorno successivo all'eccidio, ha puntato sulle qualità umane e professionali delle vittime, che sono state immediatamente circonfuse dell'aureola dell'eroismo. Ciò non è accaduto per caso. Il sottolineare i fattori umani inerenti il tragico episodio - gli intenti pacifici delle vittime, il dolore straziante dei loro congiunti - è servito soprattutto a estinguere, nell'immediato, ogni polemica politica sulla missione intrapresa. Il premier Berlusconi, in questo senso, è stato chiaro nel richiamare l'opposizione a non strumentalizzare l'accaduto. Il sangue versato dai compatrioti ha assunto immediatamente il significato di un sacrificio di cui l'Italia doveva essere orgogliosa.

La risposta della nazione è stata di fatto orgogliosa al punto che l'eccidio ha orientato l'opinione pubblica a sancire la necessità di continuare la missione. Allontanarsi dopo l'accaduto - è stato detto da alcuni e pensato da molti - equivarrebbe ad esibire una codardia che l'orgoglio nazionale ricusa e a darla vinta ai terroristi assassini.

Per quanto pilotata mediaticamente, e dunque tutt'altro che spontanea, la commozione popolare può essere assunta come significativa. L'identificazione popolare con i caduti è stata promossa dall'averli assunti come alfieri di pace, espressivi, nei loro comportamenti, di una vocazione umanitaristica che fa parte della tradizione italiana. Si può mettere in discussione il fatto che tale vocazione non sembra sempre avere riscontro nel rapporto con gli immigrati, nella solidarietà tra le regioni e nella pratica della vita quostidiana. Seppure inquinata da contraddizioni, tale vocazione, che indubbiamente fa capo anche all'influenza della religione nella cultura italiana, è un valore nella misura in cui essa implica l'identificazione con l'altro, con lo straniero bisognoso di aiuto, e quindi il superamento del riferimento etnico in nome del genere.

Se si trascende il piano psicosociologico, che permette di dare senso alla commozione che ha coinvolto il popolo italiano, l'aspetto politico della vicenda riesce molto più inquietante, poiché esso fa capo ad una conseguenza inevitabile dell'amor patrio: la pretesa che la propria patria, oltre che ricca di storia e di tradizioni, sia anche e comunque potente. Questa pretesa ha un significato del tutto particolare per quanto riguarda l'Italia.

La storia italiana è contrassegnata da una contraddizione mai risolta: lo scarto tra le sue remote origini, che fanno riferimento alla Roma imperiale, il suo essere da sempre il centro della Cristianità, il contributo straordinario dato con il Rinascimento all'avvio di un mondo nuovo, e il suo relativo peso politico nell'età moderna. I tentativi ricorrenti di rimediare a questo scarto, vissuto in termini frustranti in rapporto ad un sentimento atavico di superiorità, sono stati molteplici. In nome dell'orgoglio nazionale, l'Italia, pochi decenni dopo la sua unità, si è lanciata nell'impresa coloniale, con esiti a dire il vero modesti. In nome di quell'orgoglio, frustrato dai trattati di pace, Mussolini praticò la politica di "un posto al sole", appellandosi senza infingimenti ai fasti dell'Impero romano. In nome dello stesso orgoglio, nel secondo dopoguerra, la Democrazia cristiana ha fatto leva sulle radici cattoliche del popolo italiano, immaginando che l'Italia avrebbe potuto conseguire peso e credito internazionale all'ombra della Chiesa. Con Silvio Berlusconi, quell'orgoglio è refluito nei canali di una scelta di campo occidentale, rivendicata come una vittoria (quasi personale) sul comunismo. Tale scelta di campo, definendo un'alleanza privilegiata con gli Stati Uniti, avrebbe dovuto portare l'Italia fuori dal cono d'ombra delle nazioni di grandi tradizioni ma di scarso peso politico.

L'amor di patria italico da cui sono affetti alcuni politici, in breve, è contrassegnato da una decadenza che non è mai stata accettata. Nel contesto internazionale, l'Italia è una piccola nazione che, tra l'altro sta, negli ultimi anni, perdendo progressivamente terreno sul piano industriale, anche in conseguenza di una continua emorragia di "cervelli", affetta da un persistente provincialismo (reso esplicito dall'affermazione di movimenti come la Lega Nord), squalificata dall'aver consegnato il potere ad un individuo plurindagato, l'origine della cui fortuna è sospetta, e che detiene il monopolio dei mezzi d'informazione, pervasa da fenomeni di corruzione di dominio pubblico che non hanno risìcontro negli altri paesi occidentali. A questa realtà, sostanzialmente mediocre, corrisponde, in quei politici, una tracotante presunzione di grandezza.

Certo, il mondo apprezza le rovine romane, la Chiesa cattolica, Dante, la civiltà rinascimentale, le bellezze naturali di cui l'Italia dispone. Ma questo apprezzamento, comprovato da un enorme e ininterrotto flusso turistico, attiene la sua storia e la sua collocazione geografica, non la sua realtà attuale. L'Italia conta poco sullo scacchiere internazionale militarmente, politicamente e culturalmente. Non sarebbe questo un gran male, se essa si riconducesse al carico di storia di cui è depositaria ed erede. Il passato che la rende grande potrebbe ammorbidire il riferimento ad un presente mediocre.

Consapevoli di questa realtà, le classi dirigenti del passato, dalla Democrazia Cristiana al governo Prodi, hanno tentato di rilanciare il ruolo dell'Italia come alfiere di pace. Sulla carta, anche il governo Berlusconi prosegue questa politica. Il problema è che la sua "megalomania" non gli consente di accettare la realtà. Egli riprende la politica del "posto al sole": aspirazione paradossale nella misura in cui si realizza in virtù di una totale subordinazione all'attuale politica statunitense, che ormai gran parte degli opinionisti definiscono imperialista.

C'è solo da sperare che l'amor di patria, che sé riattivato in questo periodo, non significhi un'accettazione di tale politica. La bandiera della pace e il tricolore non sono incompatibili, a patto che si riconosca nella prima il simbolo di un'identità indubbiamente meno definita ma, in prospettiva, più importante della seconda. Le storie e le tradizioni locali non potranno mai essere cancellate. Se il mondo ha un futuro, questo però passa attraverso il riconoscimento dell'appartenenza ad uno stesso genere. Essere cittadini del mondo non significa rinnegare le proprie tradizioni, bensì riconoscerne nello stesso tempo il valore e i limiti.

Dicembre 2003