Sulla mentalità piccolo-borghese

1.

Nell'articolo sull'esito delle elezioni di aprile, anticipavo la necessità di una riflessione sulla mentalità piccolo-borghese, che ha prodotto il sorprendente (e imprevedibile) recupero elettorale della coalizione di centro-destra fino a consentire ad essa di lambire il successo. Le analisi realizzate dai politologi di professione sono insoddisfacenti perché appaiono legate al contingente. La realtà è che, in Italia, come negli Stati Uniti, quella mentalità ha concorso a definire un blocco storico che assegna stabilmente al centro-destra la metà dell'elettorato. Già questo aspetto sarebbe inquietante perché esso significa: primo, che il centro-sinistra, il cui elettorato reale e potenziale è più eterogeneo e fluido, può ambire alla vittoria solo in conseguenza di circostanze eccezionali o in seguito a gravi errori del centro-destra; secondo, che il progetto del riformismo progressista, che consiste nel cooptare una quota consistente di piccoli borghesi (eufemisticamente moderati), urta contro il loro viscerale conservatorismo.

Il vero nodo, però, è di ordine psicosociologico, e consiste nello spiegare come sia possibile che il bisogno di sicurezza e i fantasmi di disordine sociale che sottendono da sempre la mentalità piccolo-borghese, e fanno univocamente riferimento alla minaccia rappresentata dalla "sinistra", finiscano con l'indurre, più o meno consapevolmente, una scelta elettorale a favore del capitalismo neoliberista, nonostante la sua fase attuale di sviluppo - legata alla globalizzazione e all'egemonia del capitale finanziario - rappresenti la massima minaccia al tenore di vita del ceto piccolo-borghese (nonché di un'aliquota crescente della media borghesia).

Focalizzare il discorso sulla mentalità piccolo-borghese piuttosto che sulla classe sociale è necessario perché, in rapporto ai cambiamenti avvenuto negli ultimi decenni, il rapporto tra le due dimensioni - l'una riconducibile ad una determinata visione del mondo, l'altra alla collocazione dell'individuo nella gerarchia sociale - non è più univoco (posto che lo sia mai stato).

Rispetto al secondo dopoguerra, e ovviamente in misura maggiore rispetto alle epoche precedenti, la struttura sociale e i sistemi di valore culturali sono andati incontro a molteplici cambiamenti.

Ciò non significa negare che si dia ancora una certa correlazione tra condizioni oggettive di vita, visione del mondo soggettiva e ideologia politica. Tale correlazione, però, è molto meno univoca rispetto al passato.

L'analisi della mentalità piccolo-borghese è importante anche perché essa non ha ricevuto sinora, perlomeno in rapporto alla configurazione che ha assunto di recente, una grande attenzione da parte dei politologi. Per esempio, il Dizionario di Politica di Bobbio, Matteucci e Pasquino (UTET, Torino 2004), pur eccellente per tanti aspetti, si limita semplicemente a citare la piccola borghesia come una sotto-classe della borghesia.

In un certo senso, che non manca di sorprendere, è come se la classe e la civiltà borghese fossero rimaste contrassegnata dalla descrizione che ne fa Marx nel Manifesto del Partito Comunista, nella quale non c'è alcun riferimento alla piccola borghesia. Per quanto nota, la citazione è obbligatoria per avviare il discorso:

"Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.

L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.

Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.

La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.

Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.

Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.

Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo,unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.

La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.

La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.

Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili,da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso,ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, cosÏ per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.

Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente.

La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti,vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.

Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?

Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendola borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.

Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi."

Queste poche righe, d'incomparabile genialità, che anticipano di un secolo e mezzo la globalizzazione, sono state al centro di un vivace dibattito nell'ambito del marxismo. Gli ortodossi - genia di sciocchi esegeti che hanno ridotto Marx a economista puro (definizione che lo avrebbe fatto inorridire) - hanno giudicato l'analisi troppo benevola per un verso e troppo deterministica per un altro, in quanto essa subordinava il passaggio al socialismo al massimo sviluppo dell'attività produttiva assicurato dal capitalismo.

I revisionisti, viceversa, hanno fatto appello ad esse per dimostrare che Marx aveva colto i valori positivi del capitalismo, e pertanto il superamento di cui egli parlava non poteva né doveva prescindere da essi. Una versione estrema del revisionismo è quella che attualmente va sotto il nome di riformismo, secondo il quale l'economia di mercato, in quanto efficiente, non può essere sormontata in virtù di qualsivoglia pianificazione centrale. Essa va solo regolata in maniera tale da impedire per un verso la sua intrinseca tendenza al monopolio e, per un altro, l'iniqua distribuzione della ricchezza che produce favorendo, in grado estremo, la concentrazione dei capitali.

In realtà, l'interpretazione del pensiero di Marx è ancora oggi problematica per l'eccesso di genialità che si condensa nei suoi scritti. La genialità è una condizione di "squilibrio" mentale, tale per cui, in misura direttamente proporzionale all'intuizione che la sottende, essa focalizza e porta alla luce aspetti profondi della realtà umana e storica, che quindi vengono letteralmente rivelati, sacrificando o ponendo nell'ombra altri, che sono meno importanti, ma fanno parte anch'essi della complessità del reale. Il genio è colui che vede ciò che gli altri, vincolati alle apparenze superficiali delle cose, non riescono a vedere. Il prezzo della genialità, però, è che le apparenze perdono concettualmente senso mentre esse, nell'organizzazione della realtà, continuano ad averne.

Applicare questa riflessione al brano citato permette di capirne meglio il significato.

E' evidente che Marx identifica in toto la civiltà borghese con la grande borghesia, o meglio con la figura del capitalista-imprenditore che, successivamente, Schumpeter avrebbe elevato al ruolo di eroe innovatore, con la sua capacità di correre rischi, di sondare nuove frontiere produttive e di concepire disegni di vasto respiro sotto il profilo industriale. E' anche evidente che egli identifica, anticipando Weber, nella "razionalità" economica, che travolge tutto ciò che ad essa si oppone - vale a dire le tradizioni, i valori morali e religiosi, i vincoli di solidarietà di gruppo, ecc. - lo spirito del capitalismo.

In virtù di ciò Marx coglie l'essenza rivoluzionaria della grande borghesia - imprenditori, banchieri, finanzieri, ecc. -, ma trascura il suo piedistallo sociale: la piccola borghesia, rappresentata da piccoli contadini proprietari, artigiani, commercianti, piccoli liberi professionisti, impiegati, ecc., che ha una vocazione eminentemente conservatrice e una capacità di correre rischi molto ridotta, essendo impregnata di paure e di insicurezze di ogni genere.

Non c'è da sorprendersi per questa "svista" che, paradossalmente, consente ancora oggi al centro destra di identificare nella borghesia una classe storicamente rivoluzionaria e di qualificare il suo programma come compimento della rivoluzione liberale (formula, purtroppo, adottata anche dal riformismo progressista).

Quando Marx avviò la sua analisi del capitalismo, la struttura sociale dei Paesi che avevano imboccato la via dell'industrializzazione era di fatto semplice: si davano da una parte i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e dall'altra i lavoratori, "liberi" di vendere sul mercato la forza-lavoro. Marx era perfettamente consapevole che queste due categorie non esaurivano l'intero corpo sociale, C'era, infatti, anche un'ancora rilevante classe nobiliare di proprietari terrieri che vivevano di rendita, una classe di piccoli borghesi (contadini, artigiani, commercianti, impiegati, ecc.), alcuni dei quali disponevano ancora di mezzi di produzione, un'emergente media borghesia (liberi professionisti, funzionari statali) e una classe di sottoproletari, emarginati dal sistema e dediti spesso alla criminalità. Egli però prevedeva che la struttura sociale, ad opera del capitalismo, si sarebbe sempre più semplificata, costringendo i nobili a vendere ai capitalisti le loro terre o a coltivarle adottando i criteri dell'economia di mercato, i piccoli borghesi ad entrare nelle file dei proletari, ecc.

In realtà, le cose sono andate diversamente. La struttura sociale si è fluidificata, in conseguenza di un'accresciuta mobilità sociale, i capitalisti sono stati progressivamente sostituiti dai manager, il tenore di vita dei lavoratori è migliorato, inducendo fenomeni di imborghesimento, artigiani e commercianti hanno mantenuto il loro statuto di lavoratori autonomi, il ceto impiegatizio è cresciuto considerevolmente, la media borghesia si è espansa esponenzialmente, ecc.

Tutto ciò ha prodotto una progressivo smescolamento delle classi (con conseguente perdita di pregnanza del termine stesso) e un'articolazione ideologica della società più complessa rispetto a quella definita originariamente da Marx.

2.

Per quanto cambiata rispetto al passato, la realtà sociale comporta però una sorta di zoccolo duro, non colto originariamente da Marx, drammatizzato sino all'inverosimile dai marxisti ortodossi (al punto che gran parte delle "purghe" staliniste vertevano sulla monotona accusa di deviazionismo piccolo-borghese), e che oggi viene riconosciuto anche da sociologi non marxisti.

Tale zoccolo duro è rappresentato dalla mentalità piccolo-borghese, che definisce, forse, l'orientamento psicosociologico più tipico della civiltà liberale contemporanea. Essa rimane per alcuni versi agganciata al ceto sociale che originariamente l'ha espressa (contadini, artigiani, commercianti, piccoli liberi professionisti, impiegati, ecc.), ma si configura come un quadro di mentalità che può facilmente irretire un numero consistente di individui appartenenti ad altri ceti-sociali, compresi operai (in particolare specializzati), e addirittura sottoproletari.

Si tratta dunque di una mentalità che, pur avendo matrici storiche ben definite, ormai si è, almeno relativamente, autonomizzata rispetto ad esse, e attraversa tutto il corpo sociale. La sua diffusione spiega, tra l'altro, la perdita di pregnanza dell'opposizione tra destra e sinistra.

Oggi la mentalità piccolo-borghese rappresenta un recinto mentale che cattura, nel nostro mondo, l'esperienza soggettiva di un numero straordinario di persone. Il problema sta nel tentare di definirla in maniera adeguata e di spiegarla.

Per questo aspetto, l'analisi di Marx va sormontata perché all'epoca in cui egli operò la classe piccolo-borghese, e dunque la mentalità che la caratterizzava, era una componente minoritaria del corpo sociale.

In questa ottica, uno strumento ancora valido di analisi si può ritenere il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini, anche se esso è stato pubblicato nel 1988, prima dunque che si avviassero o prendessero forma i processi di globalizzazione che hanno inciso profondamente sulla struttura sociale di tutte le società occidentali.

Nonostante il Saggio sia datato, al punto che molte delle statistiche riportate non hanno più una corrispondenza attuale, esso rimane apprezzabile per lo sforzo di analizzare e definire l'universo variegato e inquieto a cui appartengono le "classi medie", che va col nome di ´piccola borghesiaª. Infatti, se la classe operaia è stata spesso oggetto di studio, dal Capitale di Karl Marx in poi, pochi si sono preoccupati di approfondire la conoscenza di questa ´quasi classe socialeª, a cui va riconosciuta una costante centralità nell'evoluzione di tutte le democrazie occidentali.

Nell'analisi di Sylos Labini, la piccola borghesia rappresenta uno dei tre gruppi sociali identificabili nella nostra società. Il quadro che egli fornisce della struttura sociale, infatti, è il seguente:

´I) Borghesia vera e propria: grandi proprietari di fondi rustici e urbani (rendite); imprenditori e alti dirigenti di società per azioni (profitti e rendite misti che contengono elevate quote di profitto); professionisti autonomi (redditi misti, con caratteri di redditi di monopolio).

IIa) Piccola borghesia impiegatizia (stipendi).

IIb) Piccola borghesia relativamente autonoma (redditi misti: coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisti, commercianti).

IIc) Piccola borghesia: categorie particolari (militari religiosi ed altri) (stipendi).

IIIa) Classe operaia

IIIb) Sottoproletariatoª

Già all'epoca, Sylos Labini sottolinea un dato di estrema importanza: ´il fortissimo aumento della piccola borghesia impiegatizia e commerciale: da meno di un milione su 16 milioni di occupati al principio del secolo [ventesimo] ad oltre 5 milioni su 19 milioni di occupati.ª

Nonostante la loro espansione quantitativa, però, secondo l'autore, ´i ceti medi non sono propriamente una classe: si può parlare al massimo di una quasi solidarietà di fondo (per ragioni economiche e culturali), ma che è suddivisa in tanti e tanti gruppi, con interessi economici diversi e spesso contrastanti, con diversi tipi di cultura e con diversi livelli di quella che si potrebbe chiamare moralità civile.ª

Da questo punto di vista, il collante dei ceti medi non sarebbe dunque una mentalità bensÏ piuttosto interessi in comune.

Sotto il profilo culturale, si darebbe addirittura una scissione all'interno della piccola borghesia. Gli strati civilmente più solidi della piccola borghesia vanno cercati fra quelli estremi, di formazione più antica o più recente, che portano in sè, da passare alle nuove generazioni, valori ´austeriª: quelli consolidati della tradizione borghese o quelli della tradizione contadina e operaia. Tra questi due estremi, capaci di distinguersi per comportamenti esemplari, allignano gli individui peggiori, i ´topi nel formaggioª, disposti a tutto nella scalata al benessere.

Se si volesse aggiornare il quadro delineato da Sylos Labini, occorrerebbe aggiungere che, in seguito alla globalizzazione e all'esplosione dell'area terziaria dei servizi, la piccola borghesia è divenuta in assoluto la classe quantitativamente più rappresentata nella nostra società. Nel suo contesto, inoltre, - e questo è il dato in assoluto più significativo -, i "topi nel formaggio" sono aumentati in misura esponenziale, al punto che si può ritenere che essi costituiscano la maggioranza silenziosa della società.

La mentalità piccolo-borghese, dunque, oggi condensa, in uno spettro che comporta una serie indefinita di combinazioni, valori che vanno dall'estremo dell'etica del lavoro, del dovere, del decoro e della rispettabilità all'estremo opposto del denaro, del successo ad ogni costo (e con ogni mezzo), delle apparenze, del consumismo, dell'identificazione con i vincenti e il disprezzo dei perdenti.

Qual è il fattore che, nonostante l'evidente dissociazione rilevata da Sylos Labini, unifica tale mentalità?

La risposta a questo quesito può essere ricavato da un brevissimo excursus storico.

2.

Alle origini della rivoluzione liberale, la piccola borghesia rappresenta per eccellenza il Terzo Stato, vale a dire l'unica classe in grado di contrapporsi allo strapotere nobiliare e clericale. Essa, la cui componente artigiana e commerciale è di gran lunga maggioritaria rispetto a quella impiegatizia, è univocamente caratterizzata da uno stile di vita incentrato sull'etica del lavoro, del risparmio e dell'ascetismo.

Si tratta dunque di una classe "seria" e austera, che contrappone la sua laboriosità incessante al parassitismo dei nobili, in massima parte proprietari terrieri, e la sua previdenza, che implica la rinuncia alla soddisfazione immediata dei desideri e, dunque, una sorta di ipercontrollo emozionale, all'imprevidenza (vera o presunta) e alla passionalità dei ceti proletari e sottoproletari.

Via via che l'etica del lavoro si afferma e produce ricchezza, il quadro dei valori si arricchisce anche del decoro e dell'onore, che consentono alla piccola borghesia di darsi una patina di "signorilità", atta a distinguerla ulteriormente dalla classe dei proletari.

Il rapporto originario tra queste due classi, socio-economicamente contigue, è conflittuale sin dall'inizio. La piccola borghesia si afferma infatti avallando le leggi del liberismo economico, mentre la classe operaia le subisce ma le contesta. La libertà economica che significa per gli uni possibilità di arricchimento, per l'altra significa mercificazione e sfruttamento.

Questo rapporto conflittuale fa della piccola borghesia la classe del moderatismo borghese per antonomasia, e del proletariato la classe "rivoluzionaria", che preme nella direzione di cambiamenti radicali dell'assetto socio-economico. Solo in alcuni rari momenti storici, riferiti all'800, tra queste due classi si è realizzata una convergenza. Ma si tratta di circostanze quasi casuali, che si esauriscono sempre, come attesta la storia ottocentesca dal '48 alla Comune di Parigi, con la paura della piccola borghesia di una rivoluzione sociale radicale.

Solo lentamente, il potere borghese, espressione del nascente capitalismo, intuisce di avere bisogno di una più solida e larga base sociale per arginare le spinte rivoluzionarie o le istanze di un nuovo ordine sociale, che muovono dalla classe operaia. A partire dalla seconda metà del XIX secolo, il miglioramento delle condizioni di vita dei "lavoratori" diventa un obbiettivo costante dei governi anche conservatori. Nel contempo, le leggi del liberismo sono tali per cui un miglioramento graduale può essere previsto solo in una prospettiva di lungo periodo. Nell'immediato, la possibilità alternativa è la burocratizzazione piccolo-borghese dello Stato, che si realizza attraverso la progressiva cooptazione a livello impiegatizio di ex-contadini e lavoratori che abbiano un minimo di istruzione, e di artigiani e commercianti che non reggono lo stress dell'attività autonoma.

La crescita progressiva del ceto impiegatizio statale, che salda il suo moderatismo con la piccola borghesia originaria, sostanzialmente artigianale e mercantile, giunge a rappresentare il piedistallo della società borghese, lo zoccolo duro che sostiene il sistema capitalistico e, contrapponendosi al ceto operaio, consente alla media e all'alta borghesia di decollare verso una ricchezza costantemente in crescita. Il collante tra i due ceti sociali giunge ad essere la mobilità sociale, sulla quale si fonda la speranza del piccolo borghese di poter acquisire uno status sociale prestigioso. Purtroppo, però, questa speranza convive con una realtà che, per molti, o è frustrante o precaria.

In tutte le crisi economiche e sociali, dall'800 fino ad oggi, se la classe più danneggiata è univocamente quella operaia, quella piccolo-borghese corre sempre il rischio di perdere lo status acquisito e di precipitare nell'immiserimento.

E' superfluo soffermarsi sul ruolo che la piccola borghesia ha svolto nell'epoca tra le due guerre, allorché, minacciata dalla crisi del 1929 e dall'ascesa in Europa dei partiti socialisti e comunisti, essa ha contribuito in misura rilevante all'avvento dei regimi nazi-fascisti.

Benché scongiurata, la minaccia del comunismo, che ha caratterizzato tutto il periodo della Guerra Fredda, è rimasto profondamente radicato nell'immaginario piccolo-borghese, che, in seguito alla vittoria della democrazia, ha rivendicato il suo ruolo moderato come essenziale ai fini dell'ordine e dell'equilibrio sociale.

La stagione del secondo dopoguerra si può considerare l'epoca egemonica della mentalità piccolo-borghese (esemplificata in Italia dal potere della Democrazia Cristiana); l'epoca, nel corso della quale, il tradizionalismo piccolo-borghese, il culto della famiglia e della religione, il lavoro, il decoro, l'onore hanno raggiunto una enorme estensione e influenza sociale, appena scalfita dalla contestazione sessantottina.

Negli ultimi vent'anni è intervenuto, però, un cambiamento di grande portata, di cui in precedenza si davano solo labili indizi. Sul tronco, infatti, dei valori tradizionali si sono innestati, infatti, quelli nuovi del neoliberismo. Si tratta, a dire il vero, di una novità relativa e, per alcuni aspetti, apparente. Il neoliberismo di fatto ha restaurato l'originaria ideologia della classe borghese, caratterizzata da una cieca adesione al darwinismo sociale, la cui conseguenza, per chi riesce ad ascendere nella scala sociale e ad avere successo, è un senso di infinita superiorità rispetto a chi rimane in basso, il considerare la ricchezza frutto esclusivo del merito personale, e la povertà frutto del demerito e della colpa. La novità consiste nel fatto che, mentre nell'800, tale visione del mondo elitaria riguardava solo gli appartenenti all'alta borghesia, che quindi non si identificavano con la massa confusa dei piccoli borghesi, negli ultimi venti anni essa è stata interiorizzata da tutti coloro che, a torto o a ragione, pretendono di appartenere alla classe, al ceto e alla civiltà borghese.

Questo significa, né più né meno, che, mentre in passato era l'acquisizione di una rilevante ricchezza attraverso il lavoro a giustificare il senso di appartenenza ad una classe elitaria, attualmente, a livello piccolo-borghese, l'appartenenza è autoreferenziale: basta insomma aderire più o meno consapevolmente allo stato esistente di cose, ritenere sostanzialmente giusto l'ordinamento sociale, aspirare alla ricchezza e al lusso, coltivare il gusto delle apparenze (molto al di là del decoro) e, soprattutto - conditio sine qua non - essere anticomunisti, antisindacalisti, antioperai, antiimmigrati, ecc.

L'aspirazione incoercibile alla ricchezza non rimuove i valori tradizionali, ma li rende avulsi dalla vita quotidiana ispirata al principio per cui il fine giustifica i mezzi. Il fine ultimo non è più pertanto lo star tranquillo con la propria coscienza, che ha contrassegnato per lungo tempo la mentalità piccolo borghese, che identificava nell'ordine sociale al quale partecipava la Norma assoluta, bensÏ il perseguimento e il mantenimento, ad ogni costo, di uno status superiore alla soglia, peraltro variabile, della povertà relativa, al di sotto della quale si dà il fantasma del diseredato, del reietto, dell'impotente, del colpevole, ecc.

Nonché propositiva, vale a dire ispirata al principio di godersi la vita, quell'aspirazione ha dunque una matrice sostanzialmente fobica.

Questo consente di capire come mai la mentalità piccolo borghese non comporta alcuna percezione della dissociazione intervenuta in seguito all'evoluzione sociale. In quanto continua a fare riferimenti ai buoni e sani principi che rappresentano la tradizione di cui è erede, e che egli vede perpetuamente minacciati, il piccolo borghese è assolutamente cieco in rapporto al suo comportamento quotidiano, che è strumentale, opportunista e cinico.

Il dato univoco della mentalità piccolo-borghese è rappresentato non già da interessi comuni - che non esistono quasi tra un impiegato statale, un artigiano, un commerciante e un piccolo libero professionista -, bensÏ da un rapporto ambivalente nei confronti dello Stato e da una visione del mondo angusta e dissociata.

L'ambivalenza nei confronti dello Stato condensa ad una persistente percezione persecutoria di origine storica, che fa riferimento all'originaria oppressione (soprattutto fiscale, oltre che politica) esercitata dall'Assolutismo sulla nascente classe borghese, un'aspettativa di tipo protezionistico, tale per cui il Potere deve privilegiare soprattutto gli interessi del ceto sociale di cui esso è espressione nell'ambito di un regime liberale.

La visione del mondo piccolo-borghese è un impasto di tradizionalismo, utilitarismo, individualismo, etnocentrismo, conservatorismo e radicalismo estremista nei confronti di qualunque gruppo sociale o movimento che contesta, direttamente o indirettamente, l'ordine borghese.

Le diverse componenti che fanno parte di questa visione del mondo, essendo eterogenee, non riconoscono un'univoca formula di equilibrio. Esse possono, nel reciproco gioco dinamico, potenziarsi o depotenziarsi vicendevolmente, e talora anche entrare in conflitto. CosÏ, per esempio, il tradizionalismo comporta la tendenza a riconoscere nei valori cristiani le radici della civiltà occidentale, ma l'utilitarismo induce a porre da parte ogni riferimento alla solidarietà sociale nella vita civile; il conservatorismo esalta le virtù della borghesia (operosità, parsimonia, risparmio), ma esso convive con una spiccata tendenza all'esibizione di status symbol e, laddove possibile, al lusso. L'etnocentrismo comporta un'accanita difesa del lavoro indigeno, ma la tendenza a sfruttare il lavoro nero legato agli immigrati. Il radicalismo estremista si rivolge contro qualunque valore che faccia riferimento alla sinistra, ma quando si tratta di chiedere e ottenere favori dal governo ogni remora assistenzialista viene meno.

Si potrebbe continuare all'infinito l'elenco delle contraddizioni intrinseche alla mentalità piccolo-borghese. Ciò che, nell'immediato sembra più importante, è però considerare l'uso che ne viene fatto dalle forze e dai partiti di centro-destra. Tale uso, al di là delle elezioni, consiste nel fomentare in ogni modo il "qualunquismo" implicito nella mentalità piccolo-borghese, l'atavica paura e insicurezza dei membri che in essa si riconoscono - legata ad uno status che, quando non è precario, è sempre e comunque al di sotto dei desideri e delle ambizioni personali - per impedire un qualsivoglia approccio critico alla realtà.

Di questo uso si possono fornire prove molteplici. Le più importanti sono due.

La prima fa riferimento alla tendenza a dare corpo all'atavica paura e insicurezza che contraddistingue la piccola-borghesia - ed è il dato più specificamente differenziale rispetto alla borghesia di cui parla Marx, che ha l'amore del rischio e della sfida - identificando un nemico che le giustifica. Negli Stati Uniti, sormontata la lunga stagione in cui era il comunismo sovietico, oggi è il terrorismo islamico a rappresentarlo. In nome di questa minaccia, il Potere politico autorizza se stesso a scatenare guerre anche contro il diritto internazionale e, praticamente, a violare la privacy dei cittadini per motivi di sicurezza. In Europa, il nemico ormai sta diventando l'immigrato, in quanto esso si pone in concorrenza con la manodopera indigena e, se proviene dai paesi islamici, oltre al sospetto di fiancheggiare il terrorismo, è imputato di non voler rinunciare alla sua cultura per adattarsi a quella occidentale. In Italia, la Lega Nord mantiene vivo questo fantasma, che è stato però sormontato, nel corso del quinquennio del governo di centro-destra, da quello del comunismo onnipresente agitato dall'ex-Presidente Berlusconi.

La seconda prova è da ricondurre alla tendenza ad impedire alla piccola-borghesia di trascendere il suo angusto orizzonte, fatto di interessi privati, e di arrivare, se non a capire, ad intuire le vere ragioni del malessere che serpeggia nel mondo e nella società occidentale.

Tale malessere fa capo al cinismo con cui il grande capitale finanziario persegue l'obbiettivo di accrescere se stesso anche a rischio di attizzare nel mondo intero l'odio contro l'Occidente e la sua "civiltà" e di produrre bolle speculative - borsistiche e immobiliari - la cui esplosione può compromettere l'equilibrio economico di un'intera nazione e, in essa, di gran parte dei cittadini (eccezion fatta per una quota minoritaria di privilegiati, che accrescono la loro ricchezza anche in periodi di crisi).

C'è da chiedersi se e quando la piccola-borghesia si risveglierà dal suo sogno di appartenere ad una classe che guida il mondo sulla strada del progresso, e scoprirà che, ormai da molti decenni, essa viene sistematicamente utilizzata per giochi economici e politici che trascendono i suoi stessi interessi e che, alla fine, potrebbero coinvolgerla in una crisi totale del sistema socio-economico.

La risposta è molto incerta. Le forze di centro- destra, vincolate ai destini del capitalismo selvaggio, non hanno ovviamente alcun interesse ad indurre quel risveglio. Le forze di centro-sinistra si baloccano nell'intento di attrarre a sé parte dell'elettorato moderato, piccolo-borghese, puntando sul fatto che, alle sue origini storiche, esso veicolava istanze di giustizia. E' come se esse non si rendessero conto dell'acqua che è passata sotto i ponti, e della mutazione avvenuta nel corso degli ultimi decenni.