1.
Anni fa, verso la fine degli anni '70, ero a cena presso amici. Dopo la cena, la padrona di casa si precipitò, scusandosi, in salotto. Non poteva perdere - si giustificò - la puntata di una serie televisiva. Conoscendola come persona colta e aperta, rimasi incuriosito e, col marito, la seguii. Il telefilm - Dallas - veniva trasmesso da una televisione commerciale nata da qualche anno. Guardandolo con occhio critico, mi resi immediatamente conto che, al di sotto delle vicende dei personaggi, scorreva una visione del mondo che riduceva la vita all'intrigo, al denaro e al sesso. Chiesi chi fosse il proprietario della rete televisiva, e mi fu detto che si trattava di un'imprenditore rampante milanese, Silvio Berlusconi, venuto dal nulla, che aveva accumulato un cospicuo capitale costruendo palazzi. Non so bene perché, ma mi ritrovai a dire che quell'uomo avrebbe rovinato l'Italia. Facevo riferimento, ovviamente, alla cultura italiana che, per quanto mediocre e incline dal dopoguerra all'americanizzazione, manteneva comunque una sua identità: a livello di ceti colti per via di una rilevante adesione al marxismo, a livello popolare in virtù di valori ancora resistenti all'omologazione borghese.
Nel corso degli anni, la previsione si è realizzata oltre ogni misura. Le televisioni di Berlusconi hanno avviato negli anni '80, complice il potere politico, una programmazione incentrata sulle fictions statunitensi e sul varietà. Gli italiani - era la giustificazione implicita - hanno bisogno di distrarsi e, a tal fine, non c'è nulla di meglio di spettacoli leggeri nutriti di sciocchezze, di battutacce di terz'ordine e di ballerine sculettanti. Le televisioni pubbliche, per non perdere audience, non hanno potuto fare altro che accodarsi, e perdere in misura rilevante quel minimo di qualità e d'impegno mantenuti sino allora.
E' partito poi l'assalto all'editoria e alla stampa. Berlusconi si è impadronito, a livello editoriale, della Mondadori, della Rizzoli, dell'Einaudi. I cambiamenti nelle scelte editoriali sono stati lenti e impercettibili, ma incisivi. Se, per esempio, si confrontano oggi le pubblicazioni dell'Einaudi con quelle di un tempo, la trasformazione risulta evidente. Certo, si tratta ancora di una casa editrice culturalmente impegnata, ma l'impegno è di tipo erudito più che critico.
Contemporaneamente all'assalto all'editoria, Berlusconi si è appropriato di testate giornalistiche - periodici e quotidiani - prestigiose e ne ha messo in campo altre (Il Giornale, Libero, il Foglio). Chi ha memoria del dignitoso moderatismo di Panorama di un tempo, non privo di un qualche guizzo critico, sfogliandone un numero oggi, infarcito di foto di vip, di notiziole insignificanti e con due o tre articoli in media a difesa del padrone del vapore, si può rendere conto del lifting eseguito. Nelle mani di Berlusconi e dei suoi devoti giornalisti, la stampa è diventata una paccottiglia d'informazioni senza capo né coda, il cui unico collante ideologico è l'avversione nei confronti del comunismo e del pensiero critico.
Ho scritto in Abracadabra che il danno arrecato da Berlusconi alla cultura italiana, in termini di provincialismo, americanizzazione, cattivo gusto, esaltazione del senso e del luogo comune, era incalcolabile. All'epoca, la carriera politica di Berlusconi era agli esordi e i processi che incombevano a suo carico così numerosi e minacciosi che la mia previsione era quella di un rapido declino. E' noto come sono andate le cose. Incamerando con certezza i voti manovrati dalla mafia, Berlusconi si è assicurato sul centro-sinistra un vantaggio numericamente limitato, che, grazie alla legge elettorale, si è trasformato in una maggioranza parlamentare schiacciante. In virtù di questo potere, del servilismo degli alleati e di una serie di leggi ad personam, egli è divenuto il "padrone" dell'Italia. Con buona pace dei suoi avversari politici, il regime instaurato non si può definire dittatoriale. Esso però di sicuro pone in crisi il confine, ritenuto netto e incontrovertibile, tra democrazia e bonapartismo.
Con queste premesse, è difficile che, nel tentativo di delineare un profilo psicologico di questo singolare personaggio, possa mantenere un'assoluta neutralità di giudizio. Ci provo, in nome del principio per cui ogni persona, in sede analitica non meno che nelle aule dei tribunali, ha diritto ad un giusto processo.
2.
Signum contradictionis, Silvio Berlusconi è capace di attivare un consenso entusiastico nella cerchia dei suoi amici e in una parte della popolazione, e un'avversione viscerale nei nemici politici e nell'altra parte della popolazione. Di solito, questo è l'indizio di una personalità altamente differenziata e individuata.
Gli amici, di fatto, oltre a sottolinearne la genialità imprenditoriale, lo descrivono come un uomo aperto, liberale, tollerante, leale, affidabile, generoso, colto. I nemici, viceversa, ne stigmatizzano il narcisimo, la megalomania (al di sotto della quale intravedono un complesso d'inferiorità), l'arroganza, la spudoratezza, la superficialità culturale, la paranoia anticomunista. E' quasi ovvio pensare che giudizi così contrastanti, anziché escludersi a vicenda, debbano contenere entrambi una qualche verità. Se così non fosse, dovremmo pensare che la nostra società ormai è schizofrenica. Se così è, il dubbio da rimuovere è che l'Italia abbia delegato un potere enorme ad un soggetto affetto da una doppia personalità. Per fortuna, non c'è bisogno di arrivare a tanto.
L'ipotesi che si può avanzare, per dare senso a quei giudizi, è che la personalità di Silvio Berlusconi sia semplicemente mistificata, vale a dire corrisponda al modello che l'analisi definisce del falso Sé.
Il concetto di Sé fa riferimento alla totalità di un soggetto, al suo modo di essere a tutto tondo, nel quale si riflettono gli aspetti consci e quelli inconsci della personalità. Questi aspetti non possono mai essere del tutto integrati. Il Sé, di conseguenza, non coincide mai puntualmente con ciò che un soggetto crede di essere, vale a dire con l'immagine interna cosciente. Esso non coincide neppure con ciò che gli altri pensano di lui, poiché l'immagine sociale può essere parziale. Il Sé è oggettivato dall'insieme dei comportamenti agiti da un soggetto che, nel loro insieme, esprimono la struttura della personalità. Posto che nessun soggetto è trasparente a sé e agli altri, l'insieme dei comportamenti pone sempre di fronte ad una quota di contraddizioni che pongono in luce il fatto che la personalità è un assemblaggio di parti diverse. L'entità e il significato delle contraddizioni portano a ricostruire uno spettro ad un estremo del quale si dà un Sé vero, caratterizzato da un grado notevole di integrazione tra conscio e inconscio, mentre all'estremo opposto si dà un falso Sé, che comporta una notevole dissociazione tra questi due livelli.
Tale dissociazione non è mai percepita dal soggetto, che inganna anzitutto se stesso. La mistificazione non ha nulla a che vedere con la simulazione o la falsificazione cosciente. Il soggetto mistificato ha di solito un'immagine idealizzata di sé che vive e ritiene autentica. E' insomma in buona fede nel pensare di essere quello che crede di essere, e questa buona fede può facilmente contagiare e cooptare alcuni di coloro con cui interagisce. Il problema è che i comportamenti agiti dal falso Sé, essendo influenzati dalla coscienza non meno che dall'inconscio, sono contraddittori: in breve, rivelano anche aspetti inconsci della personalità che il soggetto nega o rimuove. Colti dall'esterno, questi aspetti, di solito molto contrastanti con ciò che il soggetto pensa di essere, possono facilmente promuovere un giudizio sociale molto negativo.
In altri termini, il falso Sé non ha nulla a che vedere con una doppia personalità in senso proprio. Esso comporta lo sforzo costante di apparire in maniera conforme all'immagine idealizzata di sé, che viene però smentita, in misura più o meno rilevante, da comportamenti che significano tutt'altro.
In quale misura questa tipologia di personalità può essere applicata a Silvio Berlusconi?
3.
Per procedere ad una verifica dell'ipotesi, occorre adottare un metodo indiziario. Tutte le personalità che sviluppano un falso Sé sono caratterizzate da un'intelligenza fuori del comune che determina una straordinaria capacità di ingannare, inconsapevolmente, se stessi e gli altri. Per quanto però l'intelligenza possa portare il soggetto a coltivare con cura la sua immagine idealizzata e quella sociale, alcuni indizi della dissociazione tra coscienza e inconscio affiorano sempre.
L'indizio principale, per quanto riguarda Berlusconi, è paradossale. Egli ha una tale fiducia nella propria intelligenza e una tale convinzione nell'assoluta corrispondenza al vero di ciò che pensa da cadere ricorrentemente in alcuni infortuni comunicativi.
Il primo, che discende dalla consapevolezza di essere dotato di straordinarie capacità comunicative e retoriche, è di abbandonarsi a discorsi a braccio che rivelano ciò che di fatto inconsciamente egli pensa, ma non è ciò che intende dire.
Un esempio tipico, uno tra i tanti, è il discorso fatto dopo l'attentato negli Stati Uniti sulle civiltà. Coscientemente, egli - immagino - intendeva dire che, per quanto ogni civiltà vada riconosciuta e rispettata in sé e per sé, in quanto espressione di scelte culturali diverse operate dagli esseri umani, non si può stabilire tra di esse un'uguaglianza qualitativa. In linea teorica, un concetto del genere non è privo di fondamento. Ogni civiltà, ogni cultura ha i suoi pregi e i suoi limiti, e qualunque antropologo ammetterebbe che non ha senso pensare che essi siano sempre gli stessi per tutte le culture. Sulla base di questo concetto, non è illecito teoricamente fornire un giudizio sulle culture che potrebbe promuovere, per così dire, una classifica delle stesse. Nessuno si straccia le vesti quando i sociologi, utilizzando l'indice della qualità della vita, sostengono che in una città si vive molto meglio che in un'altra.
Il problema è che applicare questo concetto alle culture e alle civiltà richiede un'enorme prudenza perché colui che giudica appartiene inesorabilmente ad una di esse, e, per emettere un giudizio, deve essere certo di non sopravvalutare i pregi della propria, minimizzandone i difetti, e, viceversa, di non essere spinto a sottovalutare i pregi di un'altra e a massimizzarne i difetti.
Perfettamente calato e adattato alla civiltà occidentale borghese, Berlusconi, abbndonandosi ad un discorso a braccio, non ha fatto altro che tesserne un elogio privo di qualunque sfumatura critica, sottolineando i livelli di sviluppo economico, scientifico, tecnologico e culturale cui essa è pervenuta. Adottando questo metro di misura, ogni altra civiltà, compresa quella musulmana, che non ha raggiunto gli stessi livelli, è di fatto inferiore.
Un discorso razzista? No di certo nelle intenzioni dell'autore, che, imputato dai mass-media e da parte dell'opinione pubblica di razzismo, ha reagito dicendo di essere stato frainteso. Si è trattato, in effetti, semplicemente di un discorso etnocentrico, approssimativo e fuori luogo data la contingenza storica. Il problema è che l'etnocentrismo, vale a dire il ritenere la propria cultura o civiltà superiore alle altre, è un male universale di cui sono affette tutte le culture, che facilmente genera il razzismo. E insistere, come ha fatto Berlusconi, nel classificare le culture in termini di superiorità e inferiorità, come se si trattasse di aziende o di squadre di calcio, induce il sospetto che, a livello inconscio, un metro di misura ci sia.
Un sospetto non è una prova. Altre circostanze, purtroppo, depongono a favore di esso.
Mettendo tra parentesi il problema delle civiltà, in più occasioni Berlusconi indulge a stilare una classifica degli esseri umani. L'indice più ricorrente che egli adotta è il reddito e lo status. In conseguenza di questo, egli si è ritrovato più volte a far presente all'interlocurore critico ciò che egli ha realizzato nella vita, quasi a sottolineare una differenza di capacità pratiche che vanificava il confronto.
Ciò induce a pensare che egli creda veramente che esiste un'unica scala di valore: quella appunto fondata sullo status. Ma se ciò è vero, come tutto porta a pensare, significa che egli misconosce la scala del valore antropologico: la scala, per fare due soli esempi, che porta a ritenere di una grandezza incommensurabile due personaggi storici come Socrate e Gesù che, nella vita, oltre a parlare, non hanno fatto assolutamente nulla, e sono entrambi morti poveri.
L'adozione univoca della scala dello status implica, anche se Berlusconi non se ne rende conto, un disprezzo profondo per i poveri, ritenuti inetti o colpevoli, e per tutti coloro - artisti, filosofi, scienziati, ecc. - che non hanno grandi capacità pratiche né l'ossessione del denaro. Democratico e liberale coscientemente, egli inconsciamente fa riferimento ad un'organizzazione sociale fondata sul censo. Non lo dice mai esplicitamente, perché rifiuta di riconoscerlo, ma è chiaro che, pur negandolo, questo pensa.
L'altro indice che egli adotta, senza esserne pienamente consapevole, nel classificare gli esseri umani è la normalità. Normalità borghese, di certo, ma con una sfumatura inquietante che coglie in qualunque difetto del comportamento un indizio squalificante.
Un esempio di questa ossessione normativa si è realizzato alcuni mesi fa. Nel corso di un incontro con giornalisti in maggioranza stranieri che, non nutrendo nei suoi confronti alcun timore riverenziale, lo bersagliavano di domande poco diplomatiche, messo alle corde sul conflitto d'interessi, Berlusconi cominciò ad apparire manifestamente irritato. Uno dei partecipanti gli rivolse infine una domanda particolarmente secca, chiedendogli quando avrebbe venduto le reti televisive. La domanda dava per scontato che non esiste altra soluzione possibile in rapporto ad una situazione che all'estero ritengono scandalosa. Il giornalista in questione, nel rivolgere la domanda, balbettò, fornendo a Berlusconi l'occasione di perdere il controllo. Apparentemente, egli non lo perse, anzi, rinfrancato dalla risposta che aveva in mente, si rasserenò e sorrise. La risposta fu che egli avrebbe fornito al giornalista l'indirizzo di un valido specialista che avrebbe potuto risolvere il suo problema - la balbuzie -, dopo di che si sarebbe riparlato della questione.
Ritengo che questa circostanza, apparentemente minimale e riportata senza adeguati commenti dalla stampa (eccezion fatta per l'Unità), rappresenti una prova clamorosa e inconfutabile di un falso Sé e di una visione del mondo inconscia nella quale il metro di misura di tutte le cose è l'uomo borghese. Il problema è che, per quanti meriti si possano attribuire alla civiltà borghese, l'uomo che essa produce, scisso tra l'idealismo dei valori di libertà, uguaglianza e di giustizia e il culto degli interessi privati, e costretto a indossare socialmente una maschera di controllo che tenga a freno le pulsioni di una natura umana in sé e per sé ciecamente egoista, è un falso Sé, anche se egli ritiene coscientemente di essere autentico e di rappresentare il modello di una nuova umanità.
4.
Di indizi se ne danno altri.
Le contraddizioni che sottendono il falso Sé producono spesso lapsus verbali e comportamentali clamorosi. Tutt'altro che rari, quelli in cui incorre Berlusconi sono estremamente significativi.
Un lapsus verbale devo ricostruirlo a memoria, ma penso che possa essere facilmente verificato se qualcuno avrà la pazienza di consultare l'archivio della RAI. Risale a qualche anno fa e avvenne nel corso di una trasmissione televisiva (su RAI 1 mi sembra). Interrogato dal conduttore sull'impegno di FI nella lotta contro la corruzione, avviata dalla procura di Milano e da lui originariamente sostenuta con entusiasmo, Berlusconi intendeva confermare che tale impegno era pieno e assoluto, e che il governo da lui presieduto avrebbe perseguito con estrema determinazione la lotta contro ogni forma di crimine. Gli scappò, però, un non di troppo che significava letteralmente il contrario. Si corresse immediatamente, non manifestando alcun imbarazzo. A posteriori, l'impegno posto da Berlusconi per insabbiare Tangentopoli e impedire la conclusione dei processi che riguardano lui e i suoi amici chiarisce il significato del lapsus.
Un altro svarione verbale, non meno significativo, l'ho accuratamente registrato. Giovedì 10 luglio 2002, al Maurizio Costanzo show, tra un fiume di parole accattivanti, rassicuranti, dense di promesse, ad un certo punto Berlusconi esclama:"Abbiamo preso l'impegno, a partire da gennaio, di abbattere i redditi più bassi". Non si accorge dell'errore e non si corregge. I provvedimenti dell'attuale governo, che incidono in vari modi ma soprattutto attraverso un'inflazione galoppante (e non rilevata), su quei redditi attestano la fondatezza dell'affermazione.
Un lapsus singolare risale al 12 settembre. Commentando al TG1 il discorso di Bush sull'Iraq, Berlusconi ha detto:"Adesso la decisione spetta al Consiglio superiore". Voleva dire "Consiglio di sicurezza". Il Consiglio superiore fuoriuscito inconsapevolmente dalla bocca è, senza dubbio, quello della Magistratura, il terzo potere (dopo quello del presidente della repubblica, che ne è il capo, e quello del Presidente del Consiglio) con il quale Berlusconi ha in atto, da tempo, un conflitto istituzionale dirompente. Dato che il Consiglio di sicurezza dell'ONU dovrà decidere della liceità o meno dell'intervento punitivo contro Saddam Hussein, al quale Berlusconi si è dichiarato già favorevole, considerandolo un criminale, il lapsus è estremamente significativo. Appellandosi al Consiglio superiore della Magistratura, e prevedendo una decisione punitiva, l'inconscio di Berlusconi ha "confessato" la fondatezza delle imputazioni mosse a suo carico che la coscienza pervicacemente nega.
Lesat but not last, l'ultimo lapsus richiede un'analisi più sottile. Esso risale al 23 gennaio. Giornata un po' nera per la politica estera italiana. In seguito alla presa di posizione congiunta di Francia e Germania, che si sono dichiarate contrarie alla guerra preventiva contro l'Iraq senza l'autorizzazione dell'ONU, giunge la risposta degli Stati Uniti che è provocatoria. I dirigenti statunitensi sostengono che Francia e Germania rappresentano la vecchia Europa (quella neghittosa nei confronti di Hitler, per intendersi), mentra la nuova Europa è quella dei paesi dell'Est, che, ad eccezione della Russia, si sono accodati alla decisione americana (per motivi meramente economici: dipendono tutti dagli umori del FMI). Al drappello degli alleati fedeli, viene associata anche l'Italia che avrebbe già confermato la sua volontà di collaborare alla guerra.
Le proteste in Italia sono repentine. Sia Berlusconi, che è stato Ministro della Difesa sino a qualche settimana prima, che il neoministro Franco Frattini, hanno dichiarato più volte nei giorni scorsi che la decisione ultima dovrà prenderla il Parlamento italiano. E' evidente che, al di là o al di qua dell'Atlantico, qualcuno mente. Il sospetto, pesante, si appunta su Silvio Berlusconi, che alla fine è costretto ad intevenire. Egli afferma: "La nostra posizione è chiara, è cristallina. Non è cambiato nulla. L'Italia fa parte da tempo di una coalizione di Paesi che si è formata per la lotta al terrorismo. Siamo convinti che l'Iraq vada disarmato sulla base delle risoluzioni degli Stati Uniti..., no, delle Nazioni Unite". Accortosi dell'errore, puntualizza che se di lapsus si è trattato "non è certo freudiano". L'autodiagnosi è necessaria data la premessa del discorso.
Il significato del lapsus è immediatamente evidente a tutti, e i commentatori (eccezion fatta per i fans del presidente del Consiglio) lo rilevano e lo sottolineano. Berlusconi pensa, nel suo intimo, che la guerra decisa dagli Stati Uniti s'ha da fare e assegna ad essi il potere di decidere come e quando. In pubblico non può dirlo, poiché ciò significherebbe scavalcare il Parlamento. Pensandolo, però, Berlusconi finisce per dirlo ugualmente. Freud - pace all'anima sua - può essere ben contento di avere inciso così profondamente nella cultura contemporanea che ciò che all'epoca suscitava incredulità e sdegno - l'essere l'uomo dotato di due menti che non sempre vanno d'accordo - oggi fa parte del senso comune.
Con i suoi lapsus, Berlusconi rischia di riabilitare Marx e Freud. Il primo sosteneva che non si può dare credito a ciò che gli uomini pensano e credono di essere perché la loro coscienza è influenzata dal loro status sociale. Il secondo riteneva che la coscienza si organizza sulla base della censura, respingendo e tenendo sotto controllo un mondo di pensieri inconfessabili. Nel caso di Berlusconi sembrano vere entrambe le cose.
Tra i lapsus comportamentali, ne ricordo almeno tre abbastanza recenti e famosi.
Il primo riguarda le corna esibite a danno di un'inconsapevole uomo politico spagnolo nel corso della rituale foto-ricordo conclusiva di un vertice europeo. La spontaneità del gesto è stata rivendicata da Berlusconi come uno scherzo, al solito frainteso dalla stampa di sinistra. Uno scherzo di pessimo gusto, ovviamente, ma il cui significato non può essere minimizzato. E' come se l'inconscio di Berlusconi avesse inteso dire: sia chiaro che io non rispetto le regole e i formalismi, anzi rivendico il diritto di fare quello che mi passa per la testa, costi quel che costi. Una rivendicazione, insomma, di anarchia sorprendente per un soggetto che, per tanti altri aspetti, a partire dall'abbigliamento, sembra tenere al conformismo. Ma, come si è detto, l'uomo borghese in genere e un falso Sé in particolare alberga un fondo di anarchia che cerca vanamente di tenere sotto controllo.
Un altro lapsus comportamentale si è realizzato nel corso di un incontro ufficiale allorché Berlusconi si è rivolto al Presidente della Repubblica confidenzialmente, dandogli del tu. Nessun amico sia pure intimo di Ciampi oserebbe una cosa del genere in un contesto ufficiale laddove quegli rappresenta la massima autorità dello Stato. L'etichetta impone il lei in nome del riconoscimento di questa autorità suprema. Che significa il lapsus? Che Berlusconi quell'autorità la riconosce ma ci tiene, inconsciamente, a sottolineare di non sentirsi inferiore ad essa. Nulla di soprendente se si tiene conto che egli si vede già come presidente della repubblica, e di una repubblica presidenziale, in pectore. Ma farlo capire così chiaramente è l'indizio che l'uomo di controllo su di sé, vale a dire sull'inconscio, ne ha ben poco, nonostante ostenti solitamente un self-control da manuale.
Anche questo però è venuto meno in un'altra occasione recentissima. Nell'aula parlamentare si sta commentando il discorso di Berlusconi sulla "guerra preventiva" contro l'Iraq, nella quale egli vuole lanciarsi in onore dell'amico Bush e della libertà. Quando prende la parola l'ex-Presidente della Repubblica Scalfaro, Berlusconi, che ha con lui un conrto in sospeso per via dei bastoni (costituzionali) tra le ruote che questi ha opposto alla sua prima scalata al potere, dà evidenti segni di fastidio. Si agita sullo scranno e si distrae clamorosamente parlando ora con un senatore ora con un altro che, secondo una sceneggiata evidentemente preparata a tavolino, si seggono accanto a lui. Con estrema misura, Scalfaro rileva il comportamento inusuale e irrispettoso. La reazione di Berlusconi, furibonda e del tutto fuori misura, si traduce in gesti triviali. I fotogrammi riportati sui giornali fermano tre di questi gesti, che, sul piano prossemico, significano in successione: ma va a fare in culo! guarda chi parla, stronzo! ma che cazzo vuoi? Quando salta il self-control, viene fuori l'io vero. Un io triviale? Non solo, piuttosto un io assolutamente intollerante nei confronti del "nemico" che, se potesse, destinerebbe, se non al plotone d'esecuzione, alla gogna.
5.
A questo proposito, è difficile non fare riferimento ad una serie di indizi più sfumati, ma ugualmente significativi. Si tratta di indizi mimici. Tranne rare circostanze, come i fatti di Genova, la tragedia di New York, l'uccisione di Marco Biagi, che lo inducono ad assumere un'aria grave e consapevole della drammaticità del momento, che sembra a dire il vero sempre un po' ostentata e tetra, la facies di Berlusconi è solitamente distesa, sicura e sorridente. Non si tratta di una posa, come dicono i nemici politici. L'uomo, che ha una immagine idealizzata di sé, nutre una straordinaria fiducia ed un'invidiabile sicurezza in se stesso e nelle sue idee. Il problema, come attestano numerose fotografie pubblicate sui giornali, viene fuori quando egli è investito da attacchi e da critiche e non può avvalersi del sostegno di una platea adorante. Il sorriso scompare e, al suo posto, compare una sorta di ghigno che esprime indignazione, rabbia e un odio vendicativo.
Data l'immagine idealizzata che ha di sé, Berlusconi attribuisce costantemente le critiche e gli attacchi o a fraintendimento del suo pensiero e delle sue azioni o, persecutoriamente, a intenzioni malevoli nei suoi confronti. Il falso Sé, di fatto, comporta un'assoluta incapacità autocritica. Attribuire quest'incapacità al narcisismo non è sbagliato, a patto che il termine venga interpretato correttamente. Il narcisismo associato al falso sé significa che, per quanto la mistificazione concorra a mantenere un livello di elevata sicurezza, il soggetto intuisce, senza mai rendersene pienamente conto, che "qualcosa" dentro non va. In altri termini, intuisce una qualche precarietà degli assetti interni e vive, paradossalmente, nella paura di poter crollare da un momento all'altro. In rapporto a questa paura inconscia, le critiche rappresentano univocamente delle frecciate velenosissime che possono indurre la catastrofe. Distorcendole persecutoriamente, il soggetto ricava da esse forza perché la necessità di difendersene (e si tratta di questione di vita o di morte) mobilita tutte le sue energie.
Questo aspetto, di una vulnerabilità persecutoria mascherata dalla sicurezza e dall'assoluta padronanza di sé, spiega tanti altri tratti della personalità di Berlusconi.
Il primo è la necessità ossessiva di darsi perpetuamente da fare, d'impegnarsi e di prefiggersi degli obbiettivi sempre più ambiziosi. L'iperimpegno e la capacità di tenere testa da esso sono la prova costante che il soggetto deve fornire a se stesso della sua efficienza e della sua forza. Quella che gli avversari chiamano megalomania non è altro che la conseguenza di questa dinamica.
Un secondo tratto è il bisogno di certezze assolute, che si traduce in una visione manichea, senza sfumature del mondo. Il discorso sulle civiltà, incentrato sull'esaltazione acritica dell'Occidente, la cui storia è densa di progressi e di valori culturali, politici, scientifici, ma è anche caratterizzata da tragedie di ogni genere (dal colonialismo allo sfruttamento operaio, dalle guerre alla devastazione dell'ambiente), diventa più comprensibile se viene ricondotto a quel bisogno. Altrettanto manichea e dogmatica è l'ideologia politica di Berlusconi che vede nel liberalimo capitalistico il Bene e nel social-comunismo il Male, ignorando i difetti strutturali del capitalismo, divenuti più evidenti in virtù della globalizzazione selvaggia (l'unica che finora si è realizzata) e misconoscendo il contributo, diretto e indiretto, che il socialismo e il comunismo hanno dato nella correzione, almeno parziale, di quei difetti, e che ha permesso al sistema capitalistico di perpetuarsi.
Un ultimo tratto, paradossale, è legato al fatto che se i nemici sono vissuti persecutoriamente, e la loro pericolosità anima a livello inconscio la fantasia di farli fuori, Berlusconi ne ha un bisogno assoluto perché è la lotta contro di essi che lo rafforza e lo mantiene coeso. La paranoica tendenza a tacciare tutti coloro che lo criticano (i giornalisti), lo attaccano (gli avversari politici) o gli imputano qualcosa (i giudici) come "comunisti" riconosce la sua matrice dinamica in questa ambivalenza.
Nel mondo interiore di Berlusconi non esistono che amici e nemici: dei primi ha bisogno per confermare l'immagine idealizzata di sé; dei secondi ha un bisogno ancora maggiore per sentirsi forte e capace di lottare.
6.
Quest'analisi della personalità di Berlusconi difetta, per essere minimamente completa, di una prospettiva biografica, che potrebbe permettere di ricostruirne la genesi. Non posso in alcun modo colmare questa lacuna. Lo confesso: non ho letto alcuna biografia a riguardo né l'autobiografia romanzata spedita a milioni di italiani prima delle elezioni. L'unico particolare che conosco, in quanto è affiorato nel corso di un'intervista, riguarda il rapporto con la madre, che lo avrebbe investito sin dalla più tenera età di una fiducia illimitata nelle sue potenzialità inducendolo a prenderne coscienza e ad utilizzarle. Particolare toccante, che, dato il successo conseguito, confermerebbe quello che molti analisti tradizionali sostengono: la fondamentale importanza nella strutturazione della personalità del rapporto con la madre e il vantaggio che il figlio ricava, in termini di sicurezza, dalla fiducia primaria che quella esprime nei suoi confronti. Non sono mai stato totalmente d'accordo con questo dogma psicoanalitico, e non già perché ritenga insignificante che un figlio si senta o meno amato, accettato e stimato, trattandosi di un bisogno primario o, se si vuole, di un diritto dell'infante. Il problema è che non sempre i genitori che stimano i figli o stravedono per loro ricordano che, oltre ad essere investiti dalla fiducia, essi hanno bisogno anche di assumere una consapevolezza critica del proprio essere, con i suoi pregi e i suoi limiti. La fiducia cieca di un genitore può anche indurre il figlio a sentirsi unico, eccezionale e superiore a tutti gli altri, o addirittura imporgli di doverlo essere (o almeno di provarci).
Non ho elementi per ritenere che qualcosa del genere sia accaduto a Silvio Berlusconi, nonostante alcune sue affermazioni inducono qualche sospetto in tale senso. Di fatto, è un imprenditore portentoso, un genio del marketing, un uomo che dal nulla ha creato un partito, ha vinto le elezioni ed è divenuto, senza avere fatto la gavetta politica, presidente del Consiglio. Ha conseguito insomma successi eccezionali. Il problema, come ho accennato, è che, adottando una scala di valori che identifica il successo con il valore assoluto della persona, egli ritiene che un self-made-man possa eccellere in tutto, e che l'eccellere s'identifichi con la conquista del potere. Non la pensava così, per esempio, Marco Aurelio, imperatore di Roma, che, al ritorno da una fortunata campagna militare, gettava giù un pensiero che, tradotto in termini semplici, significava che la conquista del potere è nulla in rapporto alla conquista di una qualche verità su se stessi e sulla vita dovuta alla riflessione filosofica.
Mi fermerei qui, soddisfatto di non avere dato troppo spazio agli umori viscerali, ai pregiudizi ideologici e, naturalmente, ad un'invidia divorante (dato che è un luogo comune di Emilio Fede che tutti i critici del padrone sono invidiosi), se non sentissi l'obbligo di affrontare un problema che mi ha posto una persona amica, dopo avere letto la bozza di questo pamphlet. D'accordo - ha detto - si tratta di un falso Sé. Ma come la mettiamo con la cura scrupolosa dei suoi interessi, con una legislazione tagliata su misura per tulerasi e con la vocazione a sottrarsi ai processi? Che c'entra tutto questo con il falso Sé? Possibile che Berlusconi inganni a tal punto se stesso da ritenersi al di là del bene e del male e che sia totalmente in buona fede nell'agire come agisce, nel protestare d'essere entrato in politica solo per difendere l'Italia dalla minaccia del comunismo e nel ritenersi assolutamente innocente di tutto ciò che gli è stato imputato?
Sinceramente non lo so. Di certo, la difesa dei suoi interessi e delle sue proprietà e la tendenza a sottrarsi ai tribunali non sono comportamenti agiti inconsciamente. Però non rimarrei sorpreso se egli pensasse che il diritto di proprietà, e tanto più di una proprietà costruita lavorando accanitamente, sia sacro e intangibile e che, pur riconoscendo nel suo intimo, di avere fatto qualche manovra finanziaria ai limiti o fuori della legge, consideri comunque ingiusto un ordinamento giuridico che limita i movimenti e l'uso dei capitali, e ritenga, in termini sia economici che politici, di aver dato tanto all'Italia da meritarsi un occhio di riguardo o, meglio, l'immunità e l'impunità.
Molti italiani - pare - sono d'accordo con lui. Questo forse è il mistero da spiegare.
Gennaio 2003