Fanatismo religioso, Terrorismo e Follia

1.

Due eventi, l'uno remoto, l'altro recente, offrono lo spunto per questo articolo. L'evento remoto è l'uccisione, avvenuta in Pakistan nel gennaio del 2002, poco dopo l'intervento degli stati Uniti in Afghanistan, di Daniel Pearl, giornalista del Wall Street Journal, ad opera di un integralista islamico, Omar Sheikc. L'evento recente è l'attentato avvenuto a Tel Aviv il 29 aprile, in seguito al quale tre cittadini sono rimasti uccisi e sessanta feriti, alcuni dei quali gravi. Gli autori dell'attentato, Hanif Hasif Mohammed e Sharif Omar Khan, venivano entrambi dall'Inghilterra, e sono riusciti a superare i controlli in nome del loro ruolo di turisti insospettabili. Il primo ha eseguito materialmente l'attentato. L'altro, all'ultimo istante, ha desistito sbarazzandosi del corpetto con l'esplosivo, forse per un guasto del meccanismo di innesco.

Cosa accomuna i due eventi e i tre terroristi è presto detto. Tutti e tre, di origine pakistana, sono vissuti in Inghilterra e apparivano integrati nella società inglese. Omar Sheikc, nato nel '73 da una famiglia benestante, ha frequentato un prestigioso istituto universitario londinese e sembrava avviato verso una carriera di quadro della City. Hanif Hasif Mohammed, di ventuno anni, risiedeva a Londra con la famiglia di origine, era cittadino britannico e studiava economia. Sharif Omar Khan, di ventisette anni, figlio di un imprenditore, era impiegato e sposato con due bambini.

Tutti e tre erano ferventi musulmani, ma, prima della scelta terroristica, nulla faceva pensare ad un viraggio del genere.

Sia pure distanziati nel tempo, i due eventi pongono di fronte ad un fenomeno inquietante: l'adesione al terrorismo islamico di persone acculturate e benestanti, educate in occidente e orientate ad integrarsi in esso. Tale fenomeno, che in realtà non è del tutto nuovo se si pensa alla carriera di vita di Bin Laden, ha mobilitato l'attenzione degli opinionisti e degli intellettuali.

Sulla vicenda di Pearl, un intellettuale francese piuttosto noto, Bernard Henri Lévy ha scritto un libro di 500 pagine per ricostruire i fatti, la biografia della vittima e la trasformazione dell'omicida. Quest'ultima sta al centro del libro. Lévy rileva che "questo nemico dell'Occidente è un prodotto dell'Occidente… e della migliore educazione inglese. Questo fervente jahadista si è formato alla scuola dei lumi e del progresso". Com'è possibile che, date queste premesse, un soggetto possa giungere a pensare che "tutto sia permesso non più perché Dio non esiste, ma proprio perché esiste"? La risposta - un topolino rispetto alla montagna del libro - è che "questa esistenza lo rende pazzo".

Nessuno ha ancora scritto un libro sui più recenti attentatori. Il tono dei commenti pubblicati sui giornali non è molto diverso. Magdi Allam su La Repubblica ha scritto: "La tragica vicenda di Hanif fa riflettere sul passaggio dalle catacombe islamiche d'Europa alla Jahad globale, sulla metamorfodi dall'integralismo religioso alla fede nel martirio. Emerge sempre più che questi processi sofferti eviolenti sono segnati da una profonda e irrisolta crisi di identità. Hanif non era né un emarginato né un disadattato. Ma era un ribelle. Non si riconosceva nel sistema di valori vigente nella società britannica tra cui è cresciuto dall'età di due anni. Aveva deciso di sbarazzarsi dell'identità britannica. Ha rincorso il sogno il sogno di abbracciare un'identità islamica concepita in una dimensione idilliaca, decontestualizzata sul piano geografico e perfino temporale. Alla fine ha optato per l'abbraccio diretto a Dio, al culmine della folle esplosione di se stesso e di coloro che percepiva come nemici di Dio."

Il termine follia, insomma, adottato originariamente in riferimento a Bin Laden, investe ormai tutti coloro che ne seguono l'esempio e ne condividono la strategia terroristica.

E sia. Dato però che anche nella follia, c'è una logica, forse non è inutile interrogarsi intorno a questa.

2.

Una prima considerazione concerne i processi di acculturazione, vale a dire quei processi caratterizzati dal fatto che un gruppo o un individuo singolo, già dotati di un'attrezzatura culturale, di un sistema di valori, vengono a contatto con un'altra cultura alla quale devono adattarsi. Tali processi, che attualmente sono in corso in tutto il mondo per via dei flussi migratori, sono stati ampiamente studiati dagli antropologi. La conclusione cui si è pervenuti portano a fare discendere l'esito dell'acculturazione dai sistemi di valore in questione, cioè in parte dalla loro coerenza intrinseca che definisce un grado più o meno rilevante di permeabilità, in parte dalla più o meno rilevante compatibilità (o incompatibilità) reciproca.

Come ho scritto in un altro articolo, la cultura Occidentale e quella islamica sono venute a contatto fin dall'epoca dell'espansione musulmana. Nel corso dei secoli, il loro rapporto ha conosciuto vicissitudini diverse, più spesso conflittuali che cooperative. Quello che, alla luce dei fatti storici, sembra di poter dire con certezza è che la cultura islamica non è in assoluto impermeabile a quella occidentale, tranne per quanto concerne il suo nocciolo duro, la religione. Da questo punto di vista, l'impermeabilità sinora è risultata assoluta. Il problema è che, nel quadro della cultura islamica, a differenza di ciò che è accaduto e accade in Occidente, la religione non è un fatto formale, non si esaurisce nel riferimento a qualcosa che esiste al di là del mondo, non è un'opzione individuale: essa è uno stile di vita che investe sia il pubblico che il privato, una pratica che comporta, fin dall'infanzia, determinati comportamenti quotidiani. Per questo aspetto, una volta interiorizzata, la religione islamica giunge a permeare l'intera sfera psichica del soggetto, inconscio compreso. L'islamizzazione, da questo punto di vista, si può ritenere un fatto definitivo. Può accadere che un singolo soggetto perda la fede e si laicizzi: è oltremodo difficile però che egli riesca a rimuovere dall'inconscio i valori religiosi, soprattutto per quanto concerne l'uguaglianza tra i fratelli, il senso della comunità e la giustizia sociale.

Se si coglie in questi aspetti il nucleo culturale più profondo dell'Islam, non si stenta a capire la sua impermeabilità alla cultura occidentale. Questa tra l'altro non è omogenea: contiene due sistemi di valori, quello cristiano e quello liberale. Il primo propone all'Islam valori che esso già contempla, per cui viene rifiutato come superfluo. Maometto, in fondo, riconosce in Gesù il massimo profeta prima di lui. Il sistema di valori liberale risulta invece inaccettabile perché esso propone una concezione dell'individuo dotato di diritti primari suoi propri che è incompatibile con il comunitariamo islamico.

Ciò permette di comprendere il fatto che l'acculturazione occidentale di soggetti islamici è e non può essere che formale e superficiale, vale a dire fragile. Per questo aspetto, Magdi Allam ha ragione: il contatto dei musulmani con la cultura occidentale, quand'anche esso è animato dalla volontà di integrarsi, determina un disturbo dell'identità: al limite un falso sé la cui apparenza occidentalizzata cela un io più profondo che rimane impregnato dei valori islamici.

Questa evidentemente non è una ragione sufficiente per aderire al terrorismo: ne rappresenta solo la premessa. Perché essa dia luogo all'adesione al radicalismo islamico devono darsi altre circostanze. La biografia dei tre terroristi, per quanto non nota in tutti i particolari, è comunque significativa. Tutti e tre, ad un certo punto della loro vita, hanno sentito il richiamo della loro terra, della loro patria e della loro comunità, e si sono posti in viaggio. Che cosa mai hanno potuto scoprire che non sapessero prima? Lo stato precario, sotto il profilo economico e sociale, in cui vive la comunità dei fratelli musulmani. Presumibilmente ciò li ha indotti a vivere il loro soggiorno all'estero come un tradiemnto e a sentire l'esigenza di partecipare alla rinascita islamica. Perché mai sotto la bandiera del terrorismo e non del riformismo, che propone l'integrazione nell'Islam di alcuni valori occidentali?

Probabilmente qui c'entra l'influenza di Bin Laden, che, negli ultimi anni, ha offerto una lettura della realtà socioeconomica e culturale islamica totalmente orientata a riconoscere nella "colonizzazione" occidentale la causa di una decadenza che, in virtù di una guerra contro l'Occidente, potrebbe essere sormontata. Non si tratta di una lettura del tutto nuova. Essa risale alla nascita nel 1929 del movimento dei Fratelli Musulmani e, con diversi accenti, è stata ripresa da tutti gli integralisti islamici successivi. Bin Laden non ha fatto altro che aggiornarla.

Ridicolizzato in Occidente come delirante, il messaggio di Bin Laden ha evidentemente una sua forza d'urto. Sottolineando l'oppressione subita dall'Islam da ottant'anni a questa parte in conseguenza delle pretese egemoniche dell'Occidente, e stigmatizzando il tentativo occidentale di adulterare la purezza del messaggio coranico con i suoi valori, ritenuti mediocri e immorali, quel messaggio evidentemente, come attestano gli episodi in questione, può produrre la repentina presa di coscienza di un'acculturazione alienante, e questa presa di coscienza può tradursi nel bisogno di recuperare quella purezza in termini radicali fino al sacrificio di sé.

Il "martirio", che, quando viene realizzato da esseri disperati come i ragazzi palestinesi, può facilmente fare pensare al desiderio di accedere il più presto possibile al paradiso musulmano rifuggendo l'inferno mondano, non può di certo essere interpretato allo stesso modo quando lo pongono in atto persone benestanti, che hanno davanti a sé una prospettiva di vita tutt'altro che disperata, e la cui cultura, se non esclude di certo il premio paradisiaco, ha indubbiamente il significato primario di una scelta etica. Ma cosa significa questa scelta se non azzerare repentinamente i privilegi della sorte, vissuti come una colpa che contrasta con l'ugualitarismo intrinseco alla religione musulmana, e omlogarsi, con il sacrificio, ai dannati della terra?

Nonostante le vicissitudini degli Stati arabi e musulmani, nei quali (ad eccezione forse dell'Iran) vigono differenze sociali ancora più rilevanti di quanto accade in Occidente, la religione islamica è di fatto, nel suo nocciolo duro, comunitaristica e ugualitaristica. Questo nocciolo spiega il fatto che l'acculturazione occidentale non fa mai presa in profondità, e che essa, venendo repentinamente meno, dà luogo ad una "riconversione" in virtù della quale l'individuo giunge a sentirsi parte di un tutto indifferenziato e a sentire il dovere di sacrificare la sua esistenza individuale per il bene della comunità.

Maggio 2003


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