La trilogia prodotta da Damasio nel volgere di pochi anni (L'errore di Cartesio, Emozioni e coscienza, Alla ricerca di Spinoza) è un'esposizione compiuta del suo pensiero sul rapporto tra emozioni, sentimenti e coscienza, maturato al seguito di lunghe riflessioni sulle patologie neurologiche.
Nello scrivere questo nuovo saggio, Damasio stesso deve essersi chiesto cosa avesse da aggiungere a quanto già pubblicato. Nel primo capitolo scrive:
"I libri dovrebbero essere scritti per una ragione, e questo è stato scritto per ricominciare da capo. Ormai sono più di trent'anni che studio la mente e il cervello dell'uomo e sulla coscienza ho già scritto libri e articoli scientifici. La mia descrizione del problema, tuttavia, non mi soddisfa più e la riflessione sui risultati, vecchi e nuovi, di ricerche rilevanti ha finito per modificare le mie idee su due questioni in particolare: l'origine e la natura del sentire e i meccanismi alla base della costruzione del sé."
La seconda questione, più della prima, è l'ispiratrice del saggio. Ancora nel primo capitolo, Damasio scrive:
"In questo libro intendo affrontare due interrogativi. In primo luogo: come fa il cervello a costruire una mente? E in secondo luogo: come fa il cervello a dotare quella mente di coscienza?"
Questi interrogativi lasciano pensare che l'autore non abbia colto il limite dei suoi precedenti lavori. Il cervello è un organo individuato, biologicamente separato da tutti gli altri cervelli, ma voler ricavare dal suo studio la costruzione della mente e del Sé significa ignorare che, se esso possiede potenzialità atte a dar luogo allo sviluppo della mente e del Sé, questo di fatto non si realizza che in virtù della sua immersione in un contesto intersoggettivo, affettivo e sociale.
E' l'interazione tra cervelli umani, insomma, che consente alle loro potenzialità, indubbiamente presenti nel loro corredo genetico, di giungere a regime. Per comprendere la nascita della coscienza e del Sé occorre in breve partire dall'intersoggettività.
Damasio, anziché dall'alto, vale a dire dal sociale, parte dal basso, dal corpo e vede nella coscienza l'ultimo dei meccanismi di regolazione omeostatica, funzionale a favorire l'adattamento tra l'ambiente esterno e quello interno. E' senz'altro vero, ma l'ambiente esterno per l'uomo non è solo quello fisico, ma soprattutto quello sociale, e l'adattamento al primo non può avvenire che sulla base di una trasformazione che lo adatti ai bisogni umani. E' inutile dire che tale trasformazione si realizza solo in virtù del concorso di un gruppo.
E' assolutamente sorprendente che Dmasio, come gran parte dei neuroscienziati, non si rendano conto che partire dall'individuo e assumerlo come una sorta di Robinson Crusoe il cui cervello fa tutto da solo è una cornice ideologica che finisce con il ridicolizzare i loro sforzi di penetrare il mistero della coscienza.
Ma le cose per ora stanno così.
Riporto del libro l'Introduzione e il capitolo 11. Sono più che sufficienti a permettere di capire l'impegno di Damasio e il vicolo cieco che egli percorre, peraltro con grande finezza intellettuale.
<Quando mi sono svegliato, stavamo scendendo. Avevo dormito a lungo: abbastanza da perdermi gli annunci su atterraggio e condizioni meteo, inconsapevole di me stesso e dell'ambiente circostante. Incosciente.
Poche cose della nostra biologia sono in apparenza tanto banali come questo oggetto di uso quotidiano che chiamiamo coscienza, la fenomenale abilità che consiste nel disporre di una mente dotata di un proprietario: il protagonista della nostra vita, un sé che ispeziona al tempo stesso il mondo dentro di noi e fuori di noi, un agente apparentemente pronto all'azione.
La coscienza non è un mero stato di veglia. Quando mi sono svegliato, appena due paragrafi fa, non mi sono guardato intorno con aria assente, assorbendo immagini e suoni quasi che la mia mente, ora ridestata, non appartenesse a nessuno. Al contrario, io sapevo me ne sono reso conto senza alcuno sforzo e quasi istantaneamente, con un'esitazione minima (o forse senza esitare nemmeno un po') che quello lì seduto su un aeroplano ero io, la mia identità, che me ne tornavo in volo a Los Angeles, a casa, con una lunga lista di cose da fare prima che finisse la giornata, consapevole di una strana combinazione di affaticamento per il viaggio e di entusiasmo per quello che mi aspettava, curioso di vedere su quale pista saremmo atterrati, e attento alle regolazioni di potenza dei motori che ci stavano riportando a terra. Essere sveglio era senza dubbio indispensabile per trovarsi in quello stato, il cui aspetto principale, tuttavia, di certo non era lo stato di veglia. Ma allora che cosa? Il fatto che la miriade di contenuti presenti nella mia mente, a prescindere dal loro ordine o dalla loro intensità, fossero connessi a me, il proprietario della mente, attraverso lacci invisibili che li univano in quella festa mobile, proiettata in avanti, che chiamiamo «sé» ; e, non meno importante, il fatto che quella connessione fosse sentita. Vi era, nell'esperienza del mio sé connesso, la qualità di ciò che è sentito.
Il risveglio ha implicato che la mia mente, dopo la sua temporanea assenza, tornasse a presentarsi, con me dentro, e che entrambi, la proprietà (la mente) e il proprietario (me), venissero rintracciati. Il risveglio mi ha consentito di riemergere e di esaminare i miei possedimenti mentali, la proiezione a tutto cielo di un film magico, in parte documentario e in parte fiction, altrimenti noto come «mente umana cosciente».
Tutti noi abbiamo libero accesso alla coscienza, la quale affiora nella nostra mente con una tale generosa facilità che senza esitazione o apprensione noi la lasciamo spegnere ogni sera quando andiamo a letto, permettendole di tornare tutte le mattine quando suona la sveglia, per almeno 365 volte all'anno (senza contare i sonnellini). Eppure, poche cose del nostro essere sono straordinarie, fondamentali e apparentemente misteriose al pari della coscienza. Senza di essa in altre parole, senza una mente dotata di soggettività non avremmo alcun modo di sapere che esistiamo, e meno che mai di sapere chi siamo e che cosa pensiamo. Con ogni probabilità, se la soggettività non fosse mai affiorata sebbene inizialmente in forme molto modeste, e in creature molto più semplici di noi , la memoria e il ragionamento non avrebbero conosciuto lo sviluppo prodigioso cui andarono invece incontro; quanto alla via evolutiva che ha portato al linguaggio e alla raffinata versione umana della coscienza oggi in nostro possesso, non sarebbe mai stata tracciata. La creatività non sarebbe fiorita: niente musica, niente pittura, niente letteratura. L'amore non sarebbe mai stato amore, ma soltanto sesso. L'amicizia non sarebbe stata altro che mera, interessata cooperazione. Il dolore non sarebbe mai diventato sofferenza non una cosa negativa, se ci si pensa bene , ma sarebbe rimasto un vantaggio equivoco (considerando che anche il piacere non sarebbe mai diventato beatitudine). Se la soggettività non avesse fatto la sua rivoluzionaria comparsa in scena, non ci sarebbe stata conoscenza alcuna, né qualcuno a prenderne nota; di conseguenza, non vi sarebbe una storia delle gesta dei viventi nel corso delle ere, e nemmeno una cultura.
Sebbene io non abbia ancora fornito una definizione operativa di coscienza, spero che non sussista alcun dubbio su che cosa significa non averne una: in assenza di coscienza, la prospettiva personale è sospesa; l'individuo non sa della propria esistenza né è al corrente dell'esistenza di qualsiasi altra cosa. Se, nel corso dell'evoluzione, la coscienza non si fosse sviluppata ed espansa fino a giungere alla sua attuale versione umana, anche l'umanità, così come la conosciamo con tutta la sua forza e la sua fragilità , non si sarebbe mai sviluppata. C'è da rabbrividire al pensiero che, se l'evoluzione non avesse imboccato quella svolta, non ci sarebbero state le alternative biologiche che ci rendono autenticamente umani. In tal caso, però, come avremmo fatto ad accorgerci che mancava qualcosa?
Noi diamo la coscienza per scontata perché è largamente disponibile, molto facile da usare e decisamente legante con quel suo quotidiano apparire e scomparire; eppure, quando pensiamo a essa scienziati e profani allo stesso modo restiamo sconcertati. Di che cosa è fatta la coscienza? Una mente... che si morde la coda: questo a me sembra; infatti non possiamo essere coscienti senza una mente di cui esserlo. Ma allora, di che cosa è fatta la mente? Proviene dall'aria o dal corpo? I più perspicaci sostengono che proviene dal cervello, anzi: credono che essa sia il cervello; tuttavia anche questa non è una risposta soddisfacente. Come fa il cervello a costruire la mente?
Il fatto che nessuno veda la mente altrui, cosciente o no che essa sia, è particolarmente misterioso. Possiamo osservare il corpo e le azioni degli altri, e anche ciò che essi fanno, dicono o scrivono; possiamo fare perfino ipotesi ragionevoli su quello che pensano. Ma non possiamo osservare la loro mente, e soltanto a noi è dato di osservare la nostra: dall'interno, e attraverso una finestra alquanto stretta. Le proprietà della mente e a maggior ragione quelle della mente cosciente sembrano diverse in modo così radicale da quelle della materia vivente visibile che le persone di indole riflessiva si domandano come faccia un processo (il funzionamento della mente cosciente) ad armonizzarsi con l'altro (il fatto che cellule dotate di realtà fìsica convivano in aggregati denominati «tessuti»).
D'altra parte, ammettere che la mente cosciente sia un' entità misteriosa e a un primo sguardo essa lo è davvero è cosa ben diversa dal sostenere che il mistero sia insolubile: è diverso dal dire che non riusciremo mai a capire come un organismo vivente, dotato di cervello, possa sviluppare una mente cosciente.1
OBIETTIVI E RAGIONI
In questo libro intendo affrontare due interrogativi. In primo luogo: come fa il cervello a costruire una mente? E in secondo luogo: come fa il cervello a dotare quella mente di coscienza? Sono ben consapevole che affrontare un interrogativo non significa trovare una risposta, e che sulla questione della mente cosciente sarebbe sciocco presumere l'esistenza di risposte definitive. Mi rendo anche conto del fatto che lo studio della coscienza si è espanso a tal punto che ormai non è più possibile far menzione di tutti i contributi. Il che, insieme ai problemi di terminologia e prospettiva, rende l'attuale ricerca sull'argomento qualcosa di simile a una passeggiata in un campo minato. Nondimeno, procedendo a proprio rischio e pericolo, è ragionevole riflettere sugli interrogativi e servirsi delle informazioni attualmente disponibili (sebbene incomplete e provvisorie) per formulare congetture verificabili e sognare il futuro. Obiettivo di questo libro è riflettere sulle congetture e discutere un quadro costituito da alcune ipotesi; esso si concentrerà sui requisiti strutturali e funzionali che un cervello deve possedere affinché possa emergere una mente cosciente.
I libri dovrebbero essere scritti per una ragione, e questo è stato scritto per ricominciare da capo. Ormai sono più di trent'anni che studio la mente e il cervello dell'uomo e sulla coscienza ho già scritto libri e articoli scientifici.2 La mia descrizione del problema, tuttavia, non mi soddisfa più e la riflessione sui risultati, vecchi e nuovi, di ricerche rilevanti ha finito per modificare le mie idee su due questioni in particolare: l'origine e la natura del sentire e i meccanismi alla base della costruzione del sé. Questo libro è un tentativo di discutere le mie posizioni attuali. In una misura certo non indifferente, il libro riguarda anche ciò che ancora non sappiamo ma vorremmo tanto conoscere.
La parte restante di questo capitolo contestualizza il problema, spiega il quadro concettuale in cui si è scelto di affrontarlo e anticipa le principali idee che emergeranno nei capitoli successivi. Alcuni lettori probabilmente troveranno che questa lunga introduzione rallenti la lettura, ma garantisco che renderà il resto del libro molto più accessibile.
ACCOSTARSI AL PROBLEMA
Prima di muovere qualche timido passo in avanti per comprendere in che modo il cervello umano costruisce una mente cosciente, dobbiamo riconoscere due importanti eredità. Una consiste nei tentativi risalenti alla metà del secolo scorso di scoprire la base neurale della coscienza. In una serie di studi pionieristici condotti nel Nord America e in Italia, un piccolo gruppo di ricercatori ha puntato con sbalorditiva sicurezza a una parte del cervello il tronco encefalico, che oggi sappiamo essere inequivocabilmente legato alla creazione della coscienza , identificandola come responsabile di un fondamentale contributo. Alla luce di quello che sappiamo oggi, non sorprende che la descrizione fornita da questi pionieri Wilder Penfield, Herbert Jasper, Giuseppe Moruzzi e Horace Magoun fosse incompleta e non del tutto corretta. D'altra parte dovremmo nutrire solo stima e ammirazione per gli scienziati che intuirono il bersaglio, puntando a esso con tanta precisione. Questi furono gli eroici esordi dell'impresa alla quale molti di noi desiderano oggi dare il proprio contributo.3
Fanno parte di questa eredità anche studi eseguiti più recentemente su pazienti la cui coscienza era stata compromessa da un danno cerebrale localizzato. A inaugurare l'impresa sono stati gli studi di Fred Plum e Jerome Posner.4 Nel corso degli anni queste ricerche, andando a completare quelle dei pionieri già citati, hanno prodotto un robusto corpus di dati riguardanti le strutture cerebrali che sono (o non sono) implicate nel rendere cosciente la mente umana. Noi ora possiamo costruire su quelle fondamenta.
La seconda eredità che deve essere riconosciuta consiste in una lunga tradizione nel corso della quale sono state formulate varie concezioni della mente e della coscienza. Tale tradizione ha una storia ricca, lunga e varia come quella della filosofia. Fra tutto quello che essa generosamente ci offre, ho scelto quale punto d'ancoraggio per il mio pensiero gli scritti di William James, sebbene ciò non implichi che io sottoscriva pienamente le sue posizioni sulla coscienza e, soprattutto, su sensazioni e sentimenti.5
Fin dalle prime pagine, questo libro non lascia alcun dubbio sul fatto che, nell'accostarmi alla mente cosciente, io privilegi il sé. Io credo che la mente cosciente emerga quando a un processo mentale elementare va ad aggiungersi un processo del sé. A rigor di termini, se in una mente manca il sé, vuol dire che quella mente non è cosciente. Questa è la situazione in cui si trovano gli esseri umani il cui processo del sé sia sospeso da un sonno senza sogni, dall'anestesia o da una patologia cerebrale. Definire il processo del sé, che io considero così indispensabile per la coscienza, è tuttavia cosa più facile a dirsi che a farsi. Ecco perché William James ci è tanto utile in questa premessa. James scrisse pagine assai convincenti sull'importanza del sé, ma osservò anche come in molte occasioni la sua presenza sia talmente impercettibile che la coscienza finisce per essere dominata dal flusso continuo dei contenuti della mente. Prima di muovere oltre, dobbiamo affrontare questa natura elusiva del sé e decidere in merito alle sue conseguenze. Esiste davvero un sé, o non esiste? E in caso affermativo, è presente ogniqualvolta noi siamo coscienti, oppure no?
Le risposte sono inequivocabili. Un sé esiste davvero, tuttavia si tratta di un processo, non di una cosa; e il processo è sempre presente quando si presume che noi siamo coscienti. Il processo del sé può essere considerato da due punti di vista. Uno è quello di un osservatore che coglie un oggetto dinamico costituito da particolari meccanismi della mente, particolari aspetti del comportamento e una particolare storia di vita. L'altro punto di osservazione è quello del sé conoscitore (ovvero soggetto della conoscenza) : il processo che dà un centro alle nostre esperienze e ci permette infine di riflettere su di esse La combinazione dei due punti di vista genera la duplice nozione del sé che sarà utilizzata in tutto questo libro. Come vedremo, le due nozioni corrispondono a due diversi stadi dello sviluppo evolutivo del sé, giacché il sésoggetto ha tratto origine dal séoggetto. Nella vita quotidiana, ciascuna nozione corrisponde a un livello diverso di operazione della mente cosciente: il séoggetto ha una portata più limitata del sésoggetto.
Quale che sia il punto di osservazione, la portata, l'intensità e le manifestazioni del processo variano a seconda delle circostanze. Il sé può operare su un registro appena percettibile, come «un accenno appena intuito» della presenza di un organismo vivente,6 oppure su un registro ben più vistoso che include la personalità e l'identità del proprietario della mente. Il mio modo di riassumere tutto questo è che a volte se ne è consapevoli e a volte no, ma lo si sente sempre.
James pensava che il séoggetto, il mio sé materiale, fosse la somma totale di tutto ciò che un uomo può chiamare suo: «non solo il corpo e le facoltà psichiche, ma anche i vestiti, la moglie e i figli, gli antenati e gli amici, la reputazione e le opere, le terre e i cavalli, lo yacht e il conto in banca».7 A parte le violazioni della politicai correctness, sono d'accordo; James però pensava anche qualcos'altro qualcosa su cui mi trovo ancora più d'accordo. Se la mente può sapere che tali domini il corpo, la mente, il passato, il presente e tutto il resto esistono e appartengono al suo stesso proprietario è perché la percezione di ciascuna di queste cose genera emozioni e sentimenti e, a loro volta, i sentimenti realizzano la separazione fra i contenuti che appartengono al sé e quelli che non gli appartengono. Dalla mia prospettiva, questi sentimenti operano come marcatori: sono i segnali, basati sulle emozioni, che ho designato come «marcatori somatici».8 Quando i contenuti pertinenti al sé si presentano nel flusso mentale, provocano la comparsa di un marcatore, che si unisce a quel flusso come immagine giustapposta a quella che l'ha stimolata. Questi sentimenti realizzano una distinzione fra sé e non sé. Essi sono, in breve, sentimenti di conoscenza. Come vedremo, la costruzione di una mente cosciente dipende, a diversi stadi, dalla generazione di tali sentimenti. La mia definizione operativa del sé materiale, del séoggetto, è la seguente: un insieme dinamico di processi neurali integrati, centrati sulla rappresentazione del corpo in quanto organismo vivente, che trova espressione in un insieme dinamico di processi mentali integrati.
Il sésoggetto in particolare come soggetto della conoscenza, come «io» è una presenza più elusiva, di gran lunga meno coesa in termini mentali o biologici dell'iooggetto, più dispersa, spesso dissolta nel flusso della coscienza, a volte così fastidiosamente impercettibile da esserci... ma quasi no. Il sé come soggetto e conoscitore è indiscutibilmente più difficile da cogliere del semplice séoggetto. Questo però non ne diminuisce l'importanza per la coscienza. Il sé come soggetto e conoscitore non è soltanto una presenza molto reale; esso rappresenta un punto di svolta nell'evoluzione biologica. Possiamo immaginarlo sovrapposto, per così dire, al séoggetto, come un nuovo strato di processi neurali che dà origine a un ulteriore strato di elaborazione mentale. Non vi è alcuna dicotomia fra il séoggetto e il sésoggettodellaconoscenza: piuttosto, vi è continuità e progressione. Il sésoggetto si fonda sul séoggetto.
La coscienza non riguarda soltanto le immagini presenti nella mente. Come minimo, essa riguarda un'organizzazione dei contenuti della mente che hanno il loro centro nello stesso organismo che li produce e dà loro motivazione. La coscienza, d'altra parte, intesa nell'accezione di cui il lettore e l'autore possono fare esperienza ogni volta che lo desiderano, è più di una mente organizzata sotto l'influenza di un organismo che vive e agisce. È anche una mente in grado di sapere che un tale organismo vivente e agente esiste. Di certo, il fatto che il cervello riesca a creare configurazioni neurali che mappano gli oggetti sperimentati come immagini è una parte importante del processo della coscienza. Anche l'orientamento delle immagini nella prospettiva dell'organismo fa parte del processo. Questo, tuttavia, non equivale a sapere, in modo automatico ed esplicito, che le immagini esistono dentro di me, sono mie e per usare il gergo attuale sono agibili. La semplice presenza di immagini organizzate che scorrono in un flusso mentale basta a produrre una mente; se però non viene aggiunto un qualche processo supplementare, quella mente rimane incosciente. Ciò che le manca è un sé. Per diventare cosciente, il cervello deve acquisire una nuova proprietà, la soggettività; e un tratto definitorio della soggettività è proprio il sentimento che pervade le immagini sperimentate in modo soggettivo. Il lettore troverà in The Mystery ofConsciousness di John Searle,9 una trattazione moderna dell'importanza della soggettività, vista dalla prospettiva della filosofia.
In linea con quest'idea, il passo decisivo nella creazione della coscienza non è la formazione di immagini né la creazione delle basi di una mente. Il passo decisivo sta nel fare nostre le immagini, nel farle appartenere ai loro legittimi proprietari, ossia ai singoli organismi, perfettamente delimitati, nei quali esse emergono. Tanto nella prospettiva dell'evoluzione quanto in quella autobiografica, il sé soggetto della conoscenza affiora per gradi: dapprima il protosé con i suoi sentimenti primordiali; poi il sé nucleare, guidato dall'azione; e infine il sé autobiografico, che incorpora dimensioni sociali e spirituali. D'altra parte questi sono tutti processi dinamici, non entità rigide, e ogni giorno il loro livello fluttua (passando da semplice a complesso a intermedio) e può essere prontamente regolato come impongono le circostanze. Affinché la mente diventi cosciente, il cervello deve generare un soggetto di conoscenza, comunque lo si voglia chiamare: sé, soggetto dell'esperienza, protagonista. Nel momento in cui il cervello riesce a introdurlo nella mente, ecco che emerge la soggettività.
Al lettore che si interrogasse sulla necessità di questa difesa del sé, risponderò che è assolutamente giustificata. In questo preciso istante, i neuroscienziati il cui lavoro mira a delucidare la coscienza hanno nei confronti del sé posizioni molto diverse, che spaziano dal considerarlo come un argomento indispensabile della ricerca, al pensare che i tempi non siano ancora maturi per affrontarlo.10 Considerando che la ricerca associata a entrambe le posizioni continua a fornire idee utili, per adesso non vi è alcun bisogno di decidere quale approccio si rivelerà più soddisfacente. Dobbiamo tuttavia ammettere che essi producono descrizioni diverse.
Nel frattempo, vale la pena di notare che questi due atteggiamenti perpetuano la stessa differenza di interpretazione che separava William James da David Hume: una differenza che peraltro, in genere, viene trascurata in queste discussioni. James desiderava assicurarsi che le proprie idee sul sé avessero una solida base biologica: il suo «sé» non doveva essere scambiato per un agente di conoscenza metafisico. Questo tuttavia non gli impedì di riconoscere al sé una funzione conoscitiva, anche quando essa, lungi dall'essere troppo prominente, era invece impercettibile. David Hume, d'altro canto, polverizzava il sé al punto da farne a meno. I seguenti passaggi illustrano le sue posizioni: «Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione». E più avanti: «... oso affermare che per il resto dell'umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento».n
Commentando il modo in cui Hume liquidava il sé, James fu spinto a formulare un memorabile rimprovero in cui riaffermò l'esistenza del sé enfatizzando la curiosa miscela di «unità e diversità» presente al suo interno e richiamando l'attenzione sul «nucleo di identità» che ne pervade le componenti.12
Filosofi e neuroscienziati hanno modificato ed espanso le fondamenta qui discusse fino a includere diversi Spetti del sé.13 L'importanza di quest'ultimo ai fini della costruzione della mente cosciente, però, non ne è uscita ridotta. Dubito che sia possibile delucidare in modo completo la base neurale della mente cosciente senza prima descrivere il séoggetto l'io materiale e il sé conoscitore, il sésoggetto della conoscenza.
La moderna ricerca nei campi della filosofia della mente e della psicologia ha ampliato l'eredità concettuale, mentre lo straordinario sviluppo della biologia generale, della biologia evoluzionista e delle neuroscienze ha capitalizzato l'eredità sul versante neurale, producendo una gran varietà di tecniche per studiare il cervello e raccogliendo una massa colossale di dati. Le informazioni, le congetture e le ipotesi presentate all'interno del libro si fondano su tutti questi sviluppi.
IL SE' COME TESTIMONE
Per milioni di anni infinite creature hanno posseduto una mente attiva, ma l'esistenza della mente è stata riconosciuta solo in quelle che svilupparono un sé in grado di operare da testimone; e solo dopo che le menti svilupparono un linguaggio e sopravvissero per raccontarlo l'esistenza della mente divenne un fatto ampiamente noto. Il sé testimone è un qualcosa di extra che rivela, in ciascuno di noi, eventi che chiamiamo «mentali». Dobbiamo capire come venga creato quel qualcosa di extra.
I concetti di «testimone» e «protagonista» non vanno intesi come mere metafore letterarie; spero piuttosto che aiutino a illustrare la gamma di ruoli che il sé assume nella mente. Tanto per cominciare, le metafore possono aiutarci a visualizzare la situazione che abbiamo di fronte quando cerchiamo di comprendere i processi mentali. Una mente è pur sempre una mente, anche senza la testimonianza di un sé protagonista; tuttavia, poiché esso è il nostro unico mezzo naturale per conoscere la mente, noi dipendiamo in tutto e per tutto dalla sua presenza, dalle sue capacità e dai suoi limiti. Considerando questa sistematica dipendenza, immaginare la natura dei processi mentali a prescindere dal sé è dunque difficilissimo, anche se da una prospettiva evolutiva è evidente che i processi del sé sono stati preceduti da processi mentali più semplici. Il sé permette di visualizzare la mente, seppure in modo nebuloso. Gli aspetti del sé che ci consentono di formulare interpretazioni sulla nostra esistenza e sul mondo stanno tuttora evolvendo: di sicuro a livello culturale e, con ogni probabilità, anche a livello biologico. Le prestazioni superiori del sé, per esempio, si stanno ancora modificando attraverso ogni genere di interazione sociale e culturale, e anche grazie all'accumulo di conoscenze scientifiche sul funzionamento di mente e cervello. Di sicuro un intero secolo di cinema ha avuto un impatto sul sé degli esseri umani, così come lo sta avendo lo spettacolo delle società globalizzate oggi trasmesso dai media elettronici in tempo reale. L'impatto della rivoluzione digitale è qualcosa che sdamo cominciando ad apprezzare soltanto ora. In breve, la nostra unica possibilità di contemplare in modo diretto la mente dipende da qualcosa che fa parte di quella stessa mente: da un processo del sé che come abbiamo buone ragioni di ritenere non può fornire una descrizione esaustiva e attendibile degli eventi in corso. D'acchito, dopo aver riconosciuto che il sé è il nostro punto di ingresso nella conoscenza, può sembrare paradossale, per non dire spiacevole, metterne in dubbio l'attendibilità. E d'altra parte, la situazione è questa. A eccezione della finestra che il sé apre direttamente sui nostri dolori e i nostri piaceri, le informazioni che esso fornisce devono essere poste in discussione, a maggior ragione quando riguardano la sua natura. In tutto questo, però, vi è anche un aspetto positivo: il sé ha infatti reso possibili la ragione e l'osservazione scientifica, le quali a loro volta hanno gradualmente corretto tutte le intuizioni fuorviami incoraggiate dal sé abbandonato alle sue sole risorse.
SUPERARE UN'INTUIZIONE FUORVIANTE
Si può affermare che le culture e le civiltà non sarebbero mai comparse in assenza di coscienza, il che fa di essa un importante sviluppo nell'evoluzione biologica. La natura stessa della coscienza pone tuttavia seri problemi a chi cerca di chiarirne la biologia. Considerare la coscienza dal punto d'osservazione in cui ci troviamo oggi noi, creature dotate di mente e armate di un sé, costituisce un approccio a cui si può imputare la presenza, negli studi sulla storia della mente e della coscienza, di una distorsione preoccupante anche se comprensibile. Contemplata dall'alto, la mente acquista uno status speciale, discontinuo rispetto al resto dell'organismo cui appartiene. Vista da quella prospettiva, essa sembra non soltanto molto complessa cosa che certamente è , ma anche qualitativamente diversa dalle strutture e dalle funzioni biologiche dell'organismo che la possiede. In pratica, quando osserviamo noi stessi, adottiamo due ottiche diverse: vediamo la mente con occhi rivolti verso l'interno; e vediamo i tessuti biologici con occhi rivolti verso l'esterno (e come se non bastasse, ci serviamo di microscopi per estendere la nostra visione). In tali circostanze, non c'è da sorprendersi se la mente sembra possedere una natura non fìsica e i suoi fenomeni paiono appartenere a un'altra categoria.
Il fatto di considerare la mente come un fenomeno non fisico e discontinuo rispetto alla biologia che la crea e la sostiene è responsabile del nostro averla collocata al di fuori delle leggi della fisica: una discriminazione, questa, alla quale gli altri fenomeni cerebrali di solito non sono soggetti. La manifestazione più impressionante di questa singolarità è il tentativo di connettere la mente cosciente a proprietà della materia non ancora descritte, come quando si cerca di spiegare la coscienza in termini di fenomeni quantici. Sembra che la base razionale di questa idea sia la seguente: poiché la mente cosciente pare misteriosa e poiché la fisica quantistica rimane anch'essa misteriosa, forse i due misteri sono connessi.14
Considerando quanto siano incomplete le nostre conoscenze della biologia e della fisica, occorre procedere con cautela prima di liquidare spiegazioni alternative. In fondo, pur con tutti i notevoli successi della neurobiologia, la nostra comprensione del cervello umano è decisamente lacunosa. Nondimeno, la possibilità di spiegare la mente e la coscienza adottando il principio di parsimonia, mantenendosi cioè all'interno dei confini della neurobiologia così come essa è attualmente concepita, resta aperta e non dovrebbe essere abbandonata, a meno che le risorse tecnologiche e teoriche di questa disciplina non finiscano per esaurirsi: prospettiva al momento remota.
Secondo la nostra intuizione, l'attività erratica e fugace della mente mancherebbe di un'estensione fisica. Io credo che questa intuizione sia falsa e debba essere attribuita alle limitazioni del sé abbandonato alle sue sole risorse. Non vedo ragione alcuna per darle maggior credito di altre intuizioni, un tempo potenti e persuasive, come la visione precopernicana del comportamento del Sole nei confronti della Terra, o per avvicinarci a temi che ci interessano l'idea che la mente risiedesse nel cuore. Le cose non sono sempre come sembrano. La luce bianca è composta dai colori dell'arcobaleno anche se, a occhio nudo, la cosa non è affatto evidente.15
UNA PROSPETTIVA INTEGRATA
Gran parte dei progressi compiuti finora nel campo della neurobiologia della mente dotata di coscienza sono basati sulla combinazione di tre prospettive: 1) la prospettiva del testimone diretto della singola mente cosciente, la quale è personale, privata e unica per ciascuno di noi; 2) la prospettiva comportamentale, che ci consente di osservare le azioni rivelatrici di altri individui che, come abbiamo ragione di credere, sono anch'essi dotati di una mente cosciente; e 3) la prospettiva del cervello, che ci permette di studiare alcuni aspetti della funzione cerebrale in individui nei quali si presume l'assenza o la presenza di stati mentali coscienti. Di solito, anche se allineate con intelligenza, le informazioni raccolte avvalendosi di queste tre prospettive l'esame introspettivo, in prima persona; i comportamenti osservabili dall'esterno; gli eventi cerebrali non bastano a produrre una transizione senza scosse fra i tre tipi di fenomeni. In particolare, sembra esistere uno iato fondamentale fra i dati derivanti dall'introspezione in prima persona e quelli riconducibili agli eventi cerebrali. Come possiamo colmare questi abissi?
Occorre una quarta prospettiva, che impone di mutare radicalmente il modo di considerare e raccontare la storia della mente cosciente. In alcuni miei lavori precedenti, ho proposto di considerare la regolazione dei processi vitali quale supporto e giustificazione del sé e della coscienza, e quest'idea ha indicato una via verso una nuova prospettiva: la ricerca dei precursori del sé e della coscienza nel passato evolutivo.16 La quarta prospettiva si fonda quindi su dati attinti dalla biologia evolutiva e dalla neurobiologia. Essa ci impone di considerare dapprima gli organismi più antichi, e poi di percorrere gradualmente la storia evolutiva fino ad arrivare a quelli attuali. Richiede anche di prendere nota delle piccole modificazioni progressive che interessano il sistema nervoso, e di metterle in relazione con l'emergere pure progressivo del comportamento, della mente e del sé. Infine, richiede anche un'ipotesi di lavoro interna: e cioè che gli eventi mentali siano equivalenti a certi tipi di eventi cerebrali. Certo, l'attività mentale è causata da eventi cerebrali che la precedono, ma in ultima analisi gli eventi mentali corrispondono a particolari stati dei circuiti cerebrali. In altre parole, alcune configurazioni neurali sono simultaneamente immagini mentali. Quando poi alcune altre configurazioni neurali generano un soggetto del processo del sé sufficientemente ricco, ecco che le immagini possono essere conosciute. Ma quand'anche non venisse generato alcun sé, le immagini ci sarebbero ancora, sebbene nessuno all'interno o all'esterno dell'organismo saprebbe della loro esistenza. Non occorre la soggettività affinché gli stati mentali possano esistere, ma solo affinché se ne possa avere una conoscenza privata.
In breve, la quarta prospettiva ci chiede di costruire, in modo simultaneo e con l'aiuto dei dati disponibili, una visione dal passato e dall'interno: letteralmente, la visione immaginata di un cervello còlto mentre contiene una mente cosciente. Di certo si tratta di una prospettiva ipotetica che ha il carattere della congettura. Vi sono fatti che corroborano in parte questa immaginazione; peraltro, il fatto di dover convivere a lungo con approssimazioni teoriche invece che con spiegazioni complete è nella natura stessa del «problema mentesécorpocervello».
Si potrebbe cedere alla tentazione di considerare l'equivalenza ipotizzata fra gli eventi mentali e alcuni eventi cerebrali come espressione di un rozzo riduzionismo che porta a semplificare ciò che è complesso. Sarebbe tuttavia una falsa impressione; infatti basta considerare che i fenomeni neurobiologici sono immensamente complessi: tutto fuorché semplici. Le riduzioni esplicative implicate qui non vanno dal complesso al semplice, ma piuttosto dall'estremamente complesso al leggermente meno complesso. Questo libro non verte sulla biologia degli organismi semplici; i dati a cui accennerò nel capitolo 2, tuttavia, chiariscono che la vita delle cellule ha luogo in universi estremamente complessi, i quali per molti aspetti ricordano esteriormente il nostro elaborato universo umano. Il comportamento di un organismo unicellulare come un paramecio e il mondo in cui esso vive sono spettacoli meravigliosi da contemplare, e molto più vicini alla nostra essenza di quanto possa sembrare.
C'è anche la tentazione di interpretare l'equivalenza mentecervello qui proposta come un atteggiamento che porta a trascurare il ruolo della cultura nella genesi della mente, o a sminuire l'importanza dello sforzo individuale nel dar forma alla mente. Come chiarirò nel seguito, nulla potrebbe essere più lontano dal mio approccio.
Avvalendomi della quarta prospettiva, posso ora riformulare alcune delle mie precedenti affermazioni, tenendo conto dei dati ricavati dalla biologia dell'evoluzione e includendo il cervello: per milioni di anni, infinite creature hanno avuto nel proprio cervello una mente attiva; la coscienza in senso stretto, però, emerse solo dopo che quei cervelli ebbero sviluppato un protagonista in grado di fare da testimone, e fu solo dopo che quei cervelli svilupparono il linguaggio che l'esistenza della mente divenne generalmente nota. Il testimone è quel qualcosa di extra che rivela la presenza di eventi cerebrali impliciti che noi chiamiamo «mentali». Comprendere in che modo il cervello produca quel qualcosa di extra come generi il protagonista che ci portiamo appresso e chiamiamo sé (o me, o io) è un obiettivo fondamentale della neurobiologia della coscienza.
IL QUADRO CONCETTUALE
Prima di tratteggiare il quadro concettuale che ispira questo libro, devo introdurre alcuni fatti fondamentali. Gli organismi generano la mente grazie all'attività di cellule speciali i neuroni che condividono moltissime caratteristiche con le altre cellule del nostro corpo; il loro funzionamento, tuttavia, è unico. Esse sono sensibili ai cambiamenti nell'ambiente circostante; inoltre, sono eccitabili (un'interessante proprietà che hanno in comune con le cellule muscolari). Grazie a un prolungamento fibroso (l'assone) e alla regione terminale di quest'ultimo (la sinapsi), i neuroni possono inviare, spesso a notevole distanza, i loro segnali ad altre cellule: sia ad altri neuroni, sia alle cellule muscolari. I neuroni sono in larga misura concentrati nel sistema nervoso centrale (per essere sintetici, diremo nel cervello); inviano però segnali sia al corpo dell'organismo sia al mondo esterno, e ricevono segnali da entrambi.
Il numero di neuroni in un cervello umano è nell'ordine dei miliardi, e i loro reciproci contatti sinaptici ammontano a milioni di miliardi. I neuroni sono organizzati in piccoli circuiti microscopici i quali, combinandosi, costituiscono circuiti progressivamente più estesi, che a loro volta formano reti o sistemi. Per ulteriori approfondimenti sui neuroni e sull'organizzazione cerebrale, si vedano il capitolo 2 e l'Appendice.
La mente emerge quando l'attività dei piccoli circuiti viene organizzata in grandi reti dando luogo a configurazioni temporanee, le quali rappresentano oggetti ed eventi che si trovano fuori dal cervello, nel corpo o nel mondo esterno; alcune configurazioni, però, rappresentano anche l'elaborazione, da parte del cervello, di altre configurazioni. Il termine mappa si applica a tutte queste rappresentazioni, alcune delle quali sono grossolane, mentre altre sono molto fini, alcune concrete, altre astratte. In breve, il cervello traccia delle mappe sia del mondo circostante, sia dei propri stessi processi. Nella nostra mente, quelle mappe vengono esperite come immagini, e qui il termine immagine si riferisce non solo alla modalità visiva, ma a qualsiasi canale sensoriale: uditivo, viscerale, tattile, eccetera.
Consideriamo ora il vero e proprio quadro generale. Usare il termine teoria per descrivere altrettante proposte circa il modo in cui il cervello produce questo o quel fenomeno è un po' fuori luogo. A meno che la scala non sia sufficientemente ampia, nella maggior parte dei casi le teorie sono in realtà semplici ipotesi. Quanto viene proposto in questo libro, invece, è qualcosa di più, poiché connette diverse componenti ipotetiche riferite all'uno o all'altro aspetto dei fenomeni di cui mi occuperò. Quello che speriamo di spiegare è troppo complesso per essere affrontato con una singola ipotesi e per essere giustificato da un unico meccanismo. Per questo motivo ho deciso di utilizzare l'espressione «quadro concettuale».
Per poter rientrare in questa categoria superiore le idee presentate nei prossimi capitoli devono centrare alcuni obiettivi. Poiché noi desideriamo comprendere in che modo il cervello doti la mente di una coscienza, ed essendo palese l'impossibilità di costruire una spiegazione affrontando tutti i livelli della funzione cerebrale, il quadro generale deve specificare a quale livello si applica la spiegazione. Questo è il livello dei sistemi su grande scala, il livello in corrispondenza del quale le regioni cerebrali macroscopiche, costituite da circuiti neuronali, interagiscono con regioni simili per formare dei sistemi. Quei sistemi sono necessariamente macroscopici, tuttavia l'anatomia microscopica alla base di essi è in parte conosciuta, come pure sono in parte note le regole operative generali dei neuroni che li costituiscono. Il livello dei sistemi su grande scala può essere oggetto di ricerche condotte con numerose tecniche, vecchie e nuove. Esse comprendono, in primo luogo, la moderna versione del metodo delle lesioni (basato sullo studio di pazienti neurologici con danni cerebrali localizzati, indagati sia con tecniche di neuroimmagine strutturale, sia con tecniche cognitive neuropsicologiche sperimentali); in secondo luogo, tecniche di neuroimmagine funzionale (basate su scansioni eseguite con risonanza magnetica, tomografia a emissione di positroni, magnetoencefalografia e varie tecniche elettrofisiologiche); in terzo luogo, la registrazione neurofisiologica diretta dell'attività neuronale nel contesto delle terapie neurochirurgiche; infine, la stimolazione magnetica transcranica.
Il quadro concettuale deve stabilire un nesso fra il comportamento, la mente e gli eventi cerebrali. Nel realizzare questo secondo obiettivo, esso allinea comportamento, mente e cervello, e poiché si appoggia alla biologia evolutiva, colloca la coscienza in un contesto storico: una collocazione appropriata, considerando che gli organismi vanno incontro a trasformazioni evolutive per selezione naturale. In ciascun cervello, poi, la maturazione dei circuiti neuronali viene considerata soggetta a pressioni selettive risultanti dall'attività stessa degli organismi e dai processi di apprendimento: i repertori dei circuiti neuronali inizialmente messi a disposizione dal genoma sono quindi modificati di conseguenza.17
Il quadro concettuale indica sulla scala del cervello in foto la localizzazione delle regioni implicate nella creazione della mente e ipotizza in che modo alcune regioni cerebrali possano operare di concerto per generare il sé. Esso suggerisce come un'architettura cerebrale con circuiti neuronali convergenti e divergenti abbia un ruolo nel coordinamento di ordine superiore delle immagini e sia essenziale per la costruzione del sé e di altri aspetti della funzione mentale: in particolare la memoria, l'immaginazione, il linguaggio e la creatività.
Il nostro quadro deve scindere il fenomeno della coscienza in componenti tali da poter essere ricondotte alla ricerca neuroscientifica. Ne risultano due domini passibili di ricerca, e precisamente quello dei processi della mente e quello dei processi del sé (questi ultimi scomposti in sottotipi). Tale scomposizione comporta due vantaggi: la possibilità di presumere e studiare la coscienza m specie che probabilmente hanno processi del sé, per quanto meno complessi; e la possibilità di creare un ponte fra i livelli elevati del sé, da una parte, e lo spazio socioculturale in cui operano gli esseri umani, dall'altra.
Un ulteriore obiettivo è quello di capire come i macroeventi del sistema siano generati a partire dai microeventi Qui il quadro concettuale ipotizza che gli stati mentali siano equivalenti a certi stati di attività cerebrale regionale. Quando la scarica neuronale ha luogo all'interno di determinati range di intensità e frequenza in piccoli circuiti neuronali; quando alcuni di tali circuiti sono attivati simultaneamente; e quando sono soddisfatte particolari condizioni di connettività di rete, si assume che il risultato sia una «mente con sensazioni e sentimenti». In altre parole, come conseguenza delle dimensioni crescenti e dell'aumento di complessità delle reti neurali, si ha un aumento proporzionale della «cognizione» e del «sentire», passando dal microlivello al macrolivello di un contesto gerarchico. Il modello di questo passaggio alla mente con sentimenti è rintracciabile nella fisiologia del movimento: la contrazione di una singola cellula muscolare microscopica è un fenomeno trascurabile, mentre la contrazione simultanea di un gran numero di cellule muscolari può produrre un movimento visibile.
ANTEPRIMA DELLE IDEE PRINCIPALI
I
Fra le idee proposte nel libro, nessuna è più importante di questo concetto: il corpo è un fondamento della mente dotata di coscienza. Sappiamo che gli aspetti più stabili delle funzioni corporee sono rappresentati nel cervello sotto forma di mappe, offrendo in tal modo alla mente delle immagini. Questa è la base dell'ipotesi secondo la quale le speciali immagini mentali del corpo, prodotte nelle strutture deputate alla sua mappatura, costituiscono il protosé, che prefigura il sé a venire. E importante notare come le strutture fondamentali che creano le mappe del corpo e le immagini siano localizzate a un livello subcorticale, precisamente in una regione nota come tronco encefalico superiore. Si tratta di una parte antica del cervello, che condividiamo con molte altre specie.
II
Un'altra idea fondamentale è basata sul fatto, costantemente trascurato, che le strutture cerebrali alla base del protosé non si limitano a riguardare il corpo: sono letteralmente e inestricabilmente connesse a. esso. Nello specifico, sono legate alle parti del corpo che, con i loro segnali, bombardano di continuo il cervello, dal quale ricevono un altrettanto continuo bombardamento di ritorno; si crea così un circuito risonante e perpetuo, interrotto soltanto da una patologia cerebrale o dalla morte. Corpo e cervello sono legati. Per questo motivo, le strutture del protosé hanno una relazione diretta e privilegiata con il corpo: le immagini che esse generano e che riguardano il corpo sono concepite in circostanze diverse rispetto ad altre immagini cerebrali, per esempio quelle visive o uditive. Alla luce di tutto ciò, il corpo può essere considerato come la roccia su cui è costruito l'edificio del protosé, mentre quest'ultimo è il perno intorno al quale ruota la mente dotata di coscienza.
III
Io ipotizzo che il primo e il più elementare prodotto del protosé sia rappresentato dai sentimenti primordiali che, quando siamo svegli, hanno sempre luogo, spontaneamente e continuamente. Essi ci forniscono un'esperienza diretta del nostro corpo un corpo che vive senza bisogno di parole, senza abbellimenti e senza legami se non quello con la pura e semplice esistenza. Questi sentimenti primordiali riflettono lo stato corrente del corpo rispetto a varie dimensioni per esempio lungo la scala che va dal piacere al dolore e originano nel tronco encefalico e non a livello corticale. Tutti i sentimenti delle emozioni sono variazioni musicali complesse sul tema dei sentimenti primordiali.18
Nell'organizzazione funzionale qui tratteggiata, il dolore e il piacere sono eventi riguardanti il corpo. Essi sono anche mappati in un cervello che non è mai, in nessun istante, separato dal suo corpo. I sentimenti primordiali sono perciò un tipo speciale di immagine generato grazie all'interazione obbligata fra corpo e cervello, alle caratteristiche dei circuiti che realizzano quella connessione, e forse anche a certe proprietà dei neuroni. Non basta dire che i sentimenti sono sentiti perché mappano il corpo. Io ipotizzo che oltre a intrattenere una relazione esclusiva con il corpo l'apparato del tronco encefalico responsabile della produzione di quel particolare tipo di immagini che chiamiamo sentimenti sia in grado di miscelare i segnali provenienti dal corpo, creando in tal modo non mere, pedisseque mappe del corpo, ma stati complessi dotati delle proprietà, nuove e speciali, dei sentimenti. La ragione per la quale sono sentite anche immagini diverse dai sentimenti è che comunque, di norma, questi ultimi le accompagnano.
Tutto ciò implica la problematicità dell'idea di un netto confine di separazione fra corpo e cervello; suggerisce inoltre un approccio potenzialmente proficuo alla vexata quaestio riguardo al come e al perché gli stati mentali normali siano immancabilmente impregnati di una qualche forma di sentimento.
IV
Il cervello non comincia a costruire una mente cosciente a livello corticale, bensì nel tronco encefalico. I sentimenti primordiali non sono soltanto le prime immagini generate dal cervello, ma anche manifestazioni immediate della capacità di sentire. Essi sono le fondamenta del protosé, in preparazione dei livelli più complessi. Tutto questo è in contrasto con posizioni ampiamente accettate, sebbene idee simili siano state difese da Jaak Panksepp (si veda più avanti) e anche da Rodolfo Llinàs. La mente cosciente, così come la conosciamo, è tuttavia qualcosa di assai diverso da quella che emerge nel tronco encefalico, e con ogni probabilità su questo punto vi è un accordo universale. La corteccia cerebrale arricchisce la genesi della mente con una profusione di immagini che come direbbe Amleto va ben oltre qualsiasi cosa il povero Orazio possa sognare, in cielo o in terra.
La coscienza ha inizio quando il sé affiora alla mente, ossia quando il cervello aggiunge alla miscela della mente un processo del sé, dapprima modesto, poi molto più robusto. Il sé viene costruito in passaggi distinti, sulle fondamenta del protosé. Il primo passo è la genesi dei sentimenti primordiali: gli elementari sentimenti di esistenza che scaturiscono spontaneamente dal protosé. Successivamente affiora il sé nucleare, che riguarda l'azione: in particolare, una relazione fra l'organismo e l'oggetto. Il sé nucleare si dispiega in una sequenza di immagini che descrivono un oggetto mentre esso impegna e modifica il protosé (compresi i suoi sentimenti primordiali) . Infine, vi è il sé autobiografico, definito in termini di conoscenza biografica attinente sia al passato sia all'anticipazione del futuro. Le molteplici immagini che nel loro complesso definiscono una biografia generano pulsazioni del sé nucleare che, nell'insieme, costituiscono un sé autobiografico.
Il protosé con i suoi sentimenti primordiali rappresenta insieme al sé nucleare un «io materiale». Il sé autobiografico, le cui vette più alte abbracciano tutti gli aspetti della persona sociale, costituisce un «io sociale» e un «io spirituale». Possiamo osservare questi aspetti del sé nella nostra mente, oppure studiarne gli effetti nel comportamento altrui. Il sé nucleare e il sé autobiografico, poi, costruiscono all'interno della mente un conoscitore, un soggetto di conoscenza; in altre parole, essi dotano la nostra mente di un altro tipo di soggettività.
Ai fini pratici, la coscienza umana normale corrisponde a un processo della mente in cui operano tutti questi diversi livelli del sé, offrendo a un numero limitato di contenuti mentali una temporanea connessione con una pulsazione del sé nucleare.
V
Il sé e la coscienza a prescindere dal loro livello, solido o modesto che sia non hanno luogo in un'unica area, regione o centro del cervello. La mente cosciente risulta dal funzionamento articolato e senza soluzione di continuità di alcuni siti cerebrali: più di uno, spesso molti. Le strutture cerebrali fondamentali deputate alla realizzazione dei necessari passaggi funzionali comprendono settori specifici del tronco encefalico superiore, un gruppo di nuclei del talamo e alcune regioni della corteccia cerebrale, specifiche ma diffuse.
Il prodotto ultimo della coscienza scaturisce allo stesso tempo da tutti quei numerosi siti cerebrali, e non da uno in particolare: proprio come l'esecuzione di un brano di musica sinfonica non scaturisce dall'impegno di un unico musicista né da quello di una sezione dell'orchestra. L'aspetto più singolare riguardo alle alte vette delle prestazioni della coscienza è la vistosa assenza, primache l'esecuzione abbia inizio, di un direttore, il quale viene tuttavia in essere non appena l'esecuzione comincia: ora, a tutti i fini, l'orchestra è guidata da un direttore il sé anche se è la performance ad averlo creato, e non viceversa. Il direttore viene costruito dai sentimenti e da un dispositivo cerebrale preposto alla narrazione, benché questo non lo renda assolutamente meno reale. È innegabile che nella nostra mente il direttore esista, e non vi è nulla da guadagnare nel liquidarlo come un'illusione.
Il coordinamento da cui dipende la mente dotata di coscienza è ottenuto grazie a una molteplicità di mezzi. Al livello nucleare, più modesto, esso comincia in sordina, come uno spontaneo assemblaggio di immagini che emergono una dopo l'altra in stretta prossimità temporale: da un lato l'immagine di un oggetto, e dall'altro l'immagine del protosé modificato da quell'oggetto. Per l'emergere del sé nucleare, a questo livello così semplice, non occorrono ulteriori strutture cerebrali. Il coordinamento avviene in modo spontaneo: a volte ricorda un semplice duo musicale eseguito dall'organismo e dall'oggetto, altre volte un ensemble cameristico in entrambi i casi, comunque, funziona benissimo senza bisogno di un direttore d'orchestra. Ma quando i contenuti elaborati nella mente sono più numerosi, il coordinamento necessita di altri dispositivi. In quel caso, numerose regioni cerebrali subcorticali e corticali assumono un ruolo d'importanza primaria.
Costruire una mente capace da un lato di abbracciare il proprio passato vissuto e il proprio futuro anticipato, e dall'altro in grado anche di riflettere e di aggiungere alla trama del tessuto le vite degli altri, è un'impresa che, nelle proporzioni, ricorda l'esecuzione di una sinfonia mahleriana. L'autentica meraviglia, però, è che la partitura e il direttore come ho accennato prima diventano realtà solo nel momento in cui prende vita la musica. Il coordinamento non dipende da omuncoli mitici, creature sapienti incaricate di interpretare qualcosa. Eppure, i coordinatori contribuiscono effettivamente ad assemblare uno straordinario universo e a collocare al centro di esso un protagonista.
Quel grandioso brano sinfonico che è la coscienza comprende i contributi fondamentali del tronco encefalico, sempre legato al corpo, e il repertorio di immagini più vasto del cielo 19 creato in cooperazione con la corteccia cerebrale e le strutture subcorticali, tutte armoniosamente unite e impegnate in un flusso incessante, interrotto soltanto dal sonno, dall'anestesia, dalla disfunzione cerebrale o dalla morte.
Non vi è un singolo meccanismo che spieghi l'emergere della coscienza nel cervello: nessun singolo disposo, nessuna singola regione, o caratteristica, nessun
espediente non più di quanto una sinfonia possa essere suonata da un unico musicista o da un piccolo gruppo. Occorrono molti orchestrali, invece: è importante il contributo di ciascuno di essi ma solo l'ensemble produce il risultato che stiamo cercando di spiegare.
VI
Fra i risultati riconoscibili della coscienza vi è la capacità di gestire e salvaguardare in modo efficiente la vita e i suoi processi: i pazienti neurologici la cui coscienza è compromessa non sono in grado di gestire la propria vita in modo indipendente neanche quando le loro funzioni vitali fondamentali sono normali. E tuttavia i meccanismi per la gestione e il mantenimento dei processi vitali non sono elementi nuovi nell'evoluzione biologica, e non dipendono necessariamente dalla coscienza. Essi infatti esistono già nelle singole cellule, e sono codificati nel loro genoma; sono anche replicati all'interno di antichi, semplici circuiti neuronali non dotati di mente, non dotati di coscienza e sono generosamente rappresentati nel cervello umano. Vedremo che la gestione e la salvaguardia della vita è la fondamentale premessa del valore biologico, il quale ha influenzato l'evoluzione delle strutture cerebrali e influenza quasi ogni livello delle operazioni del singolo cervello. Il valore biologico si esprime in modo semplice, per esempio nella liberazione di molecole associate a ricompense e punizioni, oppure in modo più elaborato, per esempio nel caso delle nostre emozioni sociali e nel ragionamento sofisticato. Il valore biologico, per così dire, guida e caratterizza in modo naturale quasi tutto ciò che accade nel nostro cervello, dotato in modo tanto vistoso di mente e coscienza. Il valore biologico ha lo status di un principio.
In breve, la mente cosciente emerge nella storia della regolazione della vita un processo dinamico sinteticamente indicato con il termine di omeostasi , la quale ha inizio in creature unicellulari come i batteri o le semplici amebe, che pur non avendo un cervello sono capaci di comportamenti adattativi. Prosegue poi in individui il cui comportamento è controllato da un cervello semplice (per esempio i vermi) e continua la sua marcia negli individui il cui cervello genera sia il comportamento, sia i processi della mente (gli insetti e i pesci sono un esempio di questo livello). Sono pronto a credere che ogniqualvolta un cervello comincia a generare sentimenti primordiali il che potrebbe aver luogo molto presto nella storia evolutiva gli organismi acquisiscano una primordiale capacità di sentire. Da quel momento in poi può svilupparsi, ed essere aggiunto alla mente, un processo organizzato del sé e ciò fornisce il germe di una mente cosciente complessa. I rettili, per esempio, sono buoni candidati per questo privilegio e gli uccelli sono candidati ancor più convincenti; quanto ai mammiferi, si aggiudicano il premio spingendosi anche oltre.
Nella maggior parte dei casi, le specie il cui cervello genera un sé si fermano al livello del sé nucleare. Gli esseri umani hanno tanto il sé nucleare, quanto il sé autobiografico. È probabile che li abbiano entrambi anche alcuni altri mammiferi, per esempio i lupi, le scimmie antropomorfe nostre cugine, i mammiferi marini, gli elefanti, i felini e naturalmente una specie che fa storia a sé: il cane domestico.
VII
La marcia del progresso della mente non si arresta con la comparsa dei livelli più modesti del sé. Per tutta l'evoluzione dei mammiferi, in particolare dei primati, la mente diventa sempre più complessa: memoria e ragionamento si espandono notevolmente, e la portata dei processi del sé va aumentando. Sebbene persista, il se nucleare viene a poco a poco inglobato da un sé autobiografico la cui natura neurale e mentale è molto diversa. Noi acquisiamo la capacità di usare una parte dei meccanismi della nostra mente per monitorare il funzionamento delle altre sue parti. La mente cosciente degli esseri umani armata di sé tanto complessi e sostenuta da capacità di memoria, ragionamento e linguaggio ancora più robuste genera gli strumenti della cultura e apre la strada a nuovi mezzi di omeostasi sociale e culturale. Compiendo un salto straordinario, l'omeostasi si guadagna così un'estensione nello spazio socioculturale. I sistemi giuridici, le organizzazioni politiche ed economiche, le arti, la medicina e la tecnologia sono altrettanti esempi dei nuovi strumenti di regolazione.
Senza l'omeostasi socioculturale non avremmo assistito alla drastica riduzione della violenza e al simultaneo aumento della tolleranza, tanto evidenti negli ultimi secoli. Né vi sarebbe stata la graduale transizione dal potere coercitivo al potere della persuasione che contraddistingue a prescindere dai loro fallimenti i sistemi sociali e politici avanzati. L'indagine sull'omeostasi socioculturale può attingere informazioni dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma le radici dei suoi fenomeni affondano in uno spazio culturale. Chi studia le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, le decisioni del Congresso o i meccanismi delle istituzioni finanziarie può ragionevolmente essere considerato, indirettamente, alle prese con lo studio delle stravaganze dell'omeostasi socioculturale. Sia l'omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti), sia l'omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) operano come amministratori del valore biologico. Le varietà dell'omeostasi a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti, perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell'omeostasi socioculturale, quell'obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell'omeostasi è un'eredità prefissata fornita dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L'interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell'arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni del genoma.
VIII
Considerare la mente cosciente in un'ottica evolutiva, passando da semplici forme di vita a organismi ipercomplessi come noi, aiuta a collocarla in un contesto naturale e dimostra che essa deriva da un graduale aumento di complessità nell'idioma della biologia.
Noi possiamo considerare la coscienza umana e le funzioni che essa ha reso possibili (il linguaggio, la memoria espansa, il ragionamento, la creatività, l'intero edificio della cultura) come gli amministratori del valore insito nel nostro essere creature moderne, generosamente dotate di funzioni mentali e fortemente sociali. Possiamo anche immaginare un lungo cordone ombelicale che leghi la mente cosciente, a malapena svezzata, perennemente dipendente, agli strati profondi dei regolatori del principio di valore, i quali si trovano a un livello molto elementare, senz'altro non cosciente.
La storia della coscienza non può essere raccontata nel modo convenzionale. La coscienza è venuta in essere grazie al valore biologico, come un'aggiunta in grado di contribuire a una sua più efficace gestione. Non fu la coscienza, tuttavia, a inventare il valore biologico o il processo di valutazione. Alla fine, nella mente umana, la coscienza rivelò il valore biologico e consentì lo sviluppo di nuovi modi e mezzi di gestirlo.
LA VITA E LA MENTE COSCIENTE
È ragionevole dedicare un libro alle modalità con cui il cervello crea una mente cosciente? Chiedersi se la comprensione del lavoro cerebrale alla base della mente e del sé abbia una qualsiasi rilevanza pratica, oltre a soddisfare la nostra curiosità sulla natura umana, è cosa ragionevole. Ma nella vita quotidiana tutto questo comporta una qualche differenza? Per molte ragioni, grandi e piccole, io credo di sì. La scienza che studia il cervello e le spiegazioni che essa fornisce non offrono a tutti la soddisfazione che molti ricavano dall'esperienza dell'arte o dall'esercizio della spiritualità. Vi sono tuttavia di sicuro altre gratificazioni.
Forse comprendere le circostanze in cui, nella storia della vita, è emersa la mente cosciente, e in particolare il modo in cui essa si è sviluppata nella storia umana, ci permette di giudicare in modo più saggio la qualità della conoscenza e dei consigli che quella mente ci offre. Si tratta di una conoscenza attendibile? I suoi consigli sono ragionevoli? Quando comprendiamo i meccanismi che sono alla base della mente quella stessa mente che ci offre i suoi consigli , guadagniamo qualcosa?
La delucidazione dei meccanismi neurali alla base della mente cosciente rivela che il nostro sé non è sempre ragionevole e non ha sempre il controllo di ogni decisione. D'altra parte, i dati di cui disponiamo ci autorizzano anche a respingere la falsa impressione che la nostra capacità di deliberare coscientemente sia un mito. Chiarire i processi mentali, consci e inconsci che siano, aumenta la possibilità di rendere più robuste le nostre capacità di pensiero. Il sé apre la strada alla speculazione e all'avventura della scienza, due strumenti specifici grazie ai quali è possibile contrastare la guida fuorviarne del sé abbandonato alle sue sole risorse.
Arriverà il momento in cui la questione della responsabilità umana sia in termini morali generali, sia sui temi della giustizia e delle sue applicazioni prenderà in considerazione la disciplina, in evoluzione, che si occupa dello studio scientifico della coscienza. Forse quel momento è arrivato. Armata del pensiero riflessivo e degli strumenti scientifici, una comprensione della costruzione neurale della mente cosciente aggiunge una opportuna dimensione all'indagine sullo sviluppo e sulla formazione delle culture, prodotto ultimo delle collettività di menti coscienti. Mentre gli esseri umani dibattono circa i benefici o i rischi delle tendenze culturali, e su sviluppi quali la rivoluzione digitale, essere informati sul modo in cui il nostro cervello tanto flessibile crea la coscienza può essere d'aiuto. La progressiva globalizzazione della coscienza umana causata dalla rivoluzione digitale, per esempio, conserverà gli obiettivi e i princìpi dell'omeostasi fondamentale come li conserva l'attuale omeostasi socioculturale? Oppure, nel bene e nel male, essa si staccherà dal suo cordone ombelicale evolutivo?20 Ricondurre la mente cosciente alla natura radicandola saldamente nel cervello non sminuisce il ruolo della cultura nella formazione degli esseri umani, né riduce la dignità umana, e non segna nemmeno la fine del mistero e dello sconcerto. Le culture nascono ed evolvono dallo sforzo collettivo dei cervelli umani nell'arco di molte generazioni, e accade anche che, nel processo, alcune periscano. Esse richiedono cervelli già plasmati da precedenti effetti culturali. Qui non è in discussione il significato delle culture per il farsi della mente umana moderna; né la dignità di quella mente umana è sminuita dal fatto che si stabilisca una connessione fra di essa e la complessità sbalorditiva, unita alla stupefacente bellezza, delle cellule e dei tessuti viventi. Al contrario, connettere la personalità alla biologia è un'inesauribile fonte di ammirazione e rispetto per tutto ciò che è umano. Da ultimo, ricondurre a mente alla sua matrice naturale può certo risolvere un estero, ma solo per alzare il sipario su altri enigmi che atendono silenziosamente il proprio turno. Collocare la costruzione della mente cosciente nella °na della biologia e della cultura apre la strada alla riconciliazione fra l'umanesimo tradizionale e la scienza moderna: quando le neuroscienze esplorano l'esperienza umana addentrandosi negli strani mondi della fisiologia cerebrale e della genetica, la dignità umana non solo è conservata, ma viene anzi riaffermata.
F. Scott Fitzgerald scrisse e sono parole memorabili: «Chi per primo inventò la coscienza commise un gran peccato».21 Posso capire perché lo disse, ma quella condanna è solo una mezza verità, appropriata nei momenti di scoraggiamento di fronte alle imperfezioni della natura messe a nudo dalla mente cosciente. L'altra faccia della verità dovrebbe invece lasciare spazio all'orgoglio per un'innovazione che consente tutte quelle invenzioni e quelle scoperte capaci di mutare perdita e dolore in gioia e tripudio. L'emergere della coscienza aprì la strada a una vita che valeva la pena d'esser vissuta. Comprendere come sia emersa non può che rafforzare quel valore.
Sapere in che modo funziona il cervello conta qualcosa ai fini del modo in cui viviamo la nostra vita? Io credo di sì: conta, e molto; a maggior ragione se ci interessa sapere non solo chi siamo adesso, ma anche ciò che possiamo diventare.
[...]
11
VIVERE CON LA COSCIENZA
PERCHE LA COSCIENZA SI AFFERMO'
Nella storia della vita, l'ascesa e la caduta di tratti e funzioni dipende da quanto essi contribuiscono al successo degli esseri viventi. Il modo più diretto per spiegare come mai la coscienza si sia affermata nell'evoluzione consiste nel dire che essa ha contribuito significativamente alla sopravvivenza delle specie che ne erano dotate. La coscienza venne, vide e vinse. Poi fiorì rigogliosa e adesso sembra sia qui per restare.
Quale fu, in realtà, il suo contributo? La risposta sta in una grande varietà di vantaggi, più o meno palesi, nella gestione dei processi vitali. Anche ai livelli più semplici, la coscienza aiuta a ottimizzare, negli organismi che la possiedono, le risposte alle condizioni ambientali. Le immagini elaborate nella mente cosciente forniscono dettagli riguardanti l'ambiente, e quei dettagli possono essere usati per aumentare la precisione di una risposta quanto mai necessaria: per esempio, il movimento preciso che neutralizzerà una minaccia o garantirà la cattura di una preda. D'altra parte, la precisione delle immagini non è che una parte del vantaggio conferito da una mente cosciente. Ho il sospetto che in massima parte quel vantaggio derivi dal fatto che in una mente cosciente l'elaborazione delle immagini riferite all'ambiente è orientata da un particolare insieme di immagini interne: quelle dell'organismo del soggetto, così come esso viene rappresentato nel sé. Il sé mette a fuoco il processo della mente, impregna di motivazione l'avventura costituita dall'incontro con altri oggetti e altri eventi, e infonde nell'esplorazione del mondo esterno al cervello un particolare interesse per quello che è al tempo stesso il primo e il principale problema che l'organismo si trova ad affrontare: la regolazione efficace dei processi vitali. Quell'interesse è spontaneamente generato dal processo del sé, il cui fondamento risiede nei sentimenti corporei, primordiali e modificati. Il sé che sente spontaneamente e intrinsecamente segnala in modo diretto, come risultato della valenza e dell'intensità dei suoi stati affettivi, il grado di interesse e di necessità presenti in ogni istante.
Quando il processo della coscienza si fece più complesso e quando furono messe in campo le funzioni della memoria, del ragionamento e del linguaggio, evolute insieme a essa, vennero introdotti ulteriori vantaggi: associati alla coscienza, essi hanno in larga misura a che fare con la pianificazione e la deliberazione. In questi ambiti, i benefici garantiti dalla coscienza non si contano. Divenne possibile esaminare il futuro e ritardare o inibire le risposte automatiche. Un esempio di questa capacità evolutivamente nuova è la gratificazione ritardata: lo scambio calcolato di qualcosa di buono disponibile nel presente con qualcosa di meglio da riscuotere in seguito oppure la rinuncia a qualcosa di buono adesso, se l'esame del futuro indica che avrà conseguenze negative. Questa tendenza della mente cosciente ci ha consentito una gestione più raffinata dell'omoeostasi fondamentale, e alla fine ha dato inizio all'omeostasi socioculturale (sulla quale tornerò in seguito in questo capitolo).
In molte specie non umane dotate di un cervello sufficientemente complesso, sono presenti numerosi comportamenti coscienti ed efficacissimi: gli esempi sono evidenti intorno a noi, in modo particolarmente spettacolare nei mammiferi. Negli esseri umani, però, grazie all'espansione della memoria, del ragionamento e del linguaggio, la coscienza ha raggiunto il suo attuale massimo sviluppo. Io ipotizzo che il suo picco derivò dal rafforzamento del sé conoscitore, con la sua capacità di svelare le difficoltà e le opportunità insite nella condizione umana. Alcuni forse diranno che in quella rivelazione risiede una tragica perdita niente di meno che dell'innocenza, se solo si considera tutto quello che essa ci insegna sui difetti della natura e sul dramma della condizione umana, tutte le tentazioni che mette davanti ai nostri occhi, e tutto il male che smaschera. Sia come sia, non ci è dato di scegliere. Di sicuro la coscienza ha consentito lo sviluppo della conoscenza e il progresso della scienza e della tecnologia: due modi con i quali possiamo tentare di gestire le difficoltà e le opportunità che essa stessa ha messo a nudo.
IL SE' E LA QUESTIONE DEL CONTROLLO
Qualsiasi discussione sui vantaggi della coscienza deve tener conto delle evidenze sempre più numerose di questo fatto: vi sono molte occasioni in cui l'esecuzione delle nostre azioni è controllata da processi non coscienti. Questo si verifica abbastanza spesso, in ogni genere di contesto, e merita attenzione. E evidente nell'esecuzione di azioni che richiedono addestramento dal guidare un'automobile al suonare uno strumento musicale ed è costantemente presente nelle nostre interazioni sociali.
Solide o meno che siano, le prove a sostegno di una partecipazione non cosciente alle nostre azioni possono essere facilmente oggetto di interpretazioni erronee. È facile minimizzare il valore del controllo cosciente diretto dal sé, nel momento in cui numerosi esperimenti a partire da quelli di Benjamin Libet e includendo quelli di Dan Wegner e Patrick Haggard hanno dimostrato che l'impressione soggettiva di quando e perché sia stata iniziata un'azione può dimostrarsi sbagliata.1 E altrettanto facile usare questi fatti, insieme alle evidenze derivanti dalla psicologia sociale, per sostenere la necessità di rivedere il tradizionale concetto di responsabilità umana. Siamo davvero responsabili delle nostre azioni, se esse sono influenzate da fattori sconosciuti alla nostra ragione cosciente?
La situazione, tuttavia, è di gran lunga meno problematica di quanto potrebbe sembrare da queste reazioni superficiali e ingiustificate verso risultati la cui interpretazione è ancora in discussione. In primo luogo, la realtà di un'elaborazione non cosciente e il fatto che essa possa esercitare un controllo sul comportamento sono fuori di dubbio. Non solo: questo controllo non cosciente è una realtà desiderabile dalla quale come vedremo ricaviamo vantaggi tangibili. In secondo luogo, i processi non coscienti sono, in una misura sostanziale e per molti versi, sotto la guida della coscienza. In altre parole, vi sono due tipi di controllo delle azioni cosciente e non cosciente , ma il secondo può essere in parte plasmato dal primo. L'infanzia e l'adolescenza della specie umana sono di una lunghezza esorbitante, perché l'educazione dei processi non coscienti del nostro cervello e la creazione, all'interno dello spazio cerebrale non cosciente, di una forma di controllo che possa operare più o meno fedelmente secondo le intenzioni e gli obiettivi della coscienza richiedono un tempo molto, molto lungo. Possiamo descrivere questa lenta educazione come un processo di parziale trasferimento del controllo cosciente a un server non cosciente: non come una resa del controllo cosciente a forze che coscienti non sono e che, di certo, possono creare scompiglio nel comportamento umano. Patricia Churchland ha sostenuto in modo convincente questa posizione.2
Il valore della coscienza non è sminuito dalla presenza di processi non coscienti: anzi, la sua portata ne risulta amplificata, senza contare che, supponendo di essere in presenza di un cervello funzionante in modo normale, l'entità della responsabilità personale nei confronti di un'azione non risulta necessariamente ridotta dal fatto che alcune azioni sono eseguite da una sana e robusta componente non cosciente.
In fondo, la relazione fra processi coscienti e non è un ulteriore esempio dello strano sodalizio funzionale emergente dalla coevoluzione. La coscienza e il controllo cosciente diretto delle azioni emersero solo dopo che le menti non dotate di coscienza si erano affermate e gestivano la situazione ottenendo assai spesso, anche se non sempre, buoni risultati né poteva essere altrimenti. Le prestazioni potevano essere migliorate. La coscienza maturò dapprima riducendo parte dei controlli non coscienti e poi esaminandoli spietatamente per eseguire azioni già programmate e decise. I processi non coscienti divennero un modo comodo e appropriato per eseguire il comportamento, offrendo così alla coscienza più tempo per ulteriori analisi e pianificazioni.
Quando torniamo a casa a piedi, senza pensare al tragitto ma alla soluzione di un problema, e arriviamo comunque a destinazione sani e salvi, abbiamo accettato i vantaggi assicurati da una capacità non cosciente, acquisita seguendo una curva di apprendimento, grazie a molti esercizi svolti in precedenza sotto il controllo della coscienza. Adesso tutto quello che essa deve monitorare, mentre camminiamo verso casa, è l'obiettivo generale del nostro movimento. Tutti gli altri processi coscienti restano disponibili, e possiamo farne un uso creativo.
In gran parte, lo stesso vale per le performance di musicisti e atleti. In questi casi, l'elaborazione cosciente è concentrata sul raggiungimento di particolari obiettivi: sull'arrivare a certe mete in certi momenti, evitando alcuni rischi insiti nell'esecuzione, e rilevando circostanze impreviste. Tutto il resto è esercizio, esercizio ed esercizio la seconda natura che può guidarci sul palco della Carnegie Hall.
Infine, l'interazione cooperativa fra processi consci e inconsci si applica anche, e in pieno, ai comportamenti morali. Essi costituiscono un insieme di capacità che richiedono addestramento e sono acquisite nel corso di molte sedute e in un lungo lasso di tempo; traggono forma da princìpi e ragioni articolati nella modalità cosciente, ma che hanno pure una «seconda natura» nell'inconscio cognitivo.
In conclusione, quello che si intende per deliberazione cosciente ha ben poco a che fare con la capacità di controllare le azioni nel momento in cui si svolgono, mentre riguarda quella di pianificare in anticipo e di decidere quali azioni vogliamo o non vogliamo eseguire. La deliberazione cosciente riguarda in larga misura decisioni prese nell'arco di tempi estesi, in alcuni casi nell'ordine di giorni o settimane, e comunque solo raramente inferiori ai minuti o ai secondi. Non riguarda, invece, decisioni prese in frazioni di secondo; le decisioni fulminee, infatti, sono generalmente considerate « irriflessive» e «automatiche».3 La deliberazione cosciente riguarda una riflessione sulla conoscenza. Noi ricorriamo a riflessione e conoscenza quando decidiamo in merito a questioni importanti della nostra vita. Usiamo la deliberazione cosciente per gestire questioni riguardanti gli amori e le amicizie, l'istruzione, le attività professionali e le relazioni con gli altri. Anche le decisioni attinenti, in senso più o meno stretto, al comportamento morale richiedono una deliberazione cosciente e hanno luogo nell'arco di tempi estesi. Non solo: queste decisioni sono elaborate in uno spazio mentale privato offline, che ha il sopravvento sulla percezione esterna. Il soggetto immerso nella deliberazione cosciente, il sé responsabile della prospezione del futuro, viene spesso distolto dalla percezione esterna e non presta attenzione ai suoi mutevoli elementi. Vi è un'ottima ragione per questa distrazione in termini di fisiologia cerebrale: come abbiamo visto, lo spazio cerebrale che elabora le immagini è la somma totale delle cortecce sensoriali di ordine inferiore; questo stesso spazio deve essere condiviso dai processi di riflessione cosciente e dalla percezione diretta; difficilmente riesce a gestire entrambi senza favorire uno dei due.
La deliberazione cosciente, sotto la guida di un solido sé costruito su una autobiografia ben organizzata e un'identità definita, è una conseguenza fondamentale della coscienza: esattamente il tipo di risultato che smentisce chi vede nella coscienza un epifenomeno inutile, un abbellimento senza il quale il cervello eseguirebbe le operazioni di gestione dei processi vitali senza problemi e con la stessa efficienza. Noi non possiamo condurre il nostro tipo di vita, negli ambienti fisici e sociali che sono diventati l'habitat della specie umana, senza la deliberazione cosciente riflessiva. È anche vero, però, che i prodotti della deliberazione cosciente sono significativamente limitati da una gran quantità di pregiudizi esercitati nella modalità non cosciente alcuni fissati dalla biologia, altri acquisiti attraverso la cultura e che il controllo non cosciente delle nostre azioni è anch'esso una questione con cui confrontarsi.
Nondimeno, decisioni importantissime sono prese molto tempo prima della loro esecuzione, quando possono essere simulate e verificate nella mente dotata di coscienza, là dove l'effetto dei pregiudizi inconsci può essere potenzialmente minimizzato dal controllo cosciente. Alla fine, l'esercizio delle decisioni può essere perfezionato con l'aiuto dell'elaborazione non cosciente, ovvero grazie alle operazioni sommerse effettuate dalla nostra mente su questioni di conoscenza e di ragionamento generali, alle quali spesso ci riferiamo con il termine di «inconscio cognitivo». Le decisioni coscienti cominciano con la riflessione, la simulazione e la verifica all'interno deliamente cosciente; quel processo può poi essere completato e ripercorso nella mente non cosciente, da dove possono essere eseguite le azioni appena selezionate. Le componenti coscienti e non coscienti di questo dispositivo fragile e complesso di decisione ed esecuzione possono essere sviate dall'apparato degli appetiti e dei desideri; in questo caso, è probabile che un ricorso in extremis al veto si riveli inefficace. L'idea di un veto fulmineo ricorda una nota raccomandazione sulla questione della dipendenza da sostanze: « Basta dire no ». Questa strategia può essere adeguata per evitare l'innocuo movimento di un dito, ma non quando occorre bloccare un'azione resa urgente da un desiderio intenso o da un forte appetito: in altre parole, non nella situazione che si presenta nel caso di qualsiasi dipendenza da droghe, alcol, cibi particolarmente appetibili, o sesso. Riuscire a dire « no » richiede una lunga preparazione cosciente.
UNA DIVAGAZIONE SULL'INCONSCIO
Grazie al fatto che il nostro cervello ha felicemente combinato la nuova forma di controllo resa possibile dalla coscienza con quella che consisteva nella regolazione automatica inconscia, tali processi cerebrali più antichi, non coscienti, sono all'altezza dei compiti che devono eseguire per conto delle attività decisionali coscienti. Alcune evidenze utili possono essere ricavate da uno studio interessante condotto dallo psicologo olandese Ap Dijksterhuis.4 Per apprezzare l'importanza dei suoi risultati, dobbiamo descriverne il contesto. Dijksterhuis ha chiesto ai partecipanti al suo esperimento, che erano soggetti normali, di effettuare decisioni di acquisto in due condizioni diverse. In un caso dovevano applicare perlopiù la deliberazione cosciente; nell'altro, a seguito di una distrazione manipolata, erano invece messi in condizione di non poterlo fare.
Vi erano due tipi di oggetti da acquistare. Uno consisteva di oggetti casalinghi banali, come tostapane o asciugamani; l'altro di beni importanti, come case o automobili. Nell'uno e nell'altro caso, il soggetto riceveva un'ampia informazione sui pro e i contro di ciascun oggetto, una sorta di rapporto del consumatore completo di cartellino del prezzo. Questa informazione sarebbe risultata utile quando i partecipanti sarebbero stati esortati a scegliere l'oggetto « migliore » da acquistare. Al momento di decidere, però, Dijksterhuis consentiva ad alcuni soggetti di riflettere per tre minuti sulle informazioni prima di compiere la scelta, mentre agli altri negava quel privilegio, provvedendo a distrarli durante quello stesso intervallo di tempo. Per entrambi i tipi di oggetti, banali e non, i soggetti furono esaminati in entrambe le situazioni, con tre minuti di studio attento o di distrazione.
Che cosa possiamo prevedere sulla qualità delle decisioni? Sarebbe perfettamente ragionevole pensare che, nel caso degli oggetti casalinghi banali considerata la scarsa rilevanza e la ridotta complessità del problema , i soggetti avranno compiuto una buona scelta in entrambe le modalità, cosciente e non cosciente. Scegliere fra due tostapane, per quanto uno possa essere pignolo, certo non richiede una laurea in ingegneria. Per quanto riguarda l'acquisto degli oggetti più importanti, però, per esempio una berlina a quattro porte, ci aspetteremmo che i soggetti ai quali era consentito di studiare l'informazione avessero compiuto le scelte più felici.
I risultati furono sorprendentemente diversi da queste previsioni. Le decisioni prese senza una precedente riflessione cosciente si rivelarono migliori per entrambi i tipi di acquisto, ma soprattutto nel caso di oggetti importanti. La conclusione superficiale è la seguente: se stai comprando un'automobile o una casa, informati, ma poi non tormentarti e non preoccuparti troppo facendo confronti minuti e considerando tutti i possibili vantaggi e svantaggi. Compra e basta. Con buona pace della scelta cosciente e dei suoi fasti.
Naturalmente questi interessanti risultati non dovrebbero distogliere nessuno dall'esercizio della scelta consapevole. Quello che essi effettivamente indicano è che i processi non coscienti sono capaci di una qualche sorta di ragionamento, molto più di quanto in genere si riconosca loro, e che questo tipo di ragionamento, una volta che sia stato adeguatamente addestrato dall'esperienza passata e nei casi in cui il tempo stringe, può portare a decisioni positive. Nelle circostanze dell'esperimento, soprattutto nel caso di acquisti importanti, la riflessione attenta e cosciente protratta nel tempo non produce i risultati migliori. L'elevato numero di variabili da considerare e lo spazio esiguo a disposizione del ragionamento cosciente esiguo per il limitato numero di oggetti a cui si può fare simultaneamente attenzione in un dato momento riducono la probabilità di compiere la scelta ottimale, considerando anche la finestra temporale limitata. Lo spazio inconscio, al contrario, ha una capacità di gran lunga più ampia: può considerare e manipolare numerose variabili, producendo la scelta potenzialmente migliore in una finestra temporale ristretta.
Lo studio di Dijksterhuis, oltre a quanto ci insegna circa l'elaborazione non cosciente in generale, mette in rilievo altre importanti questioni. Una riguarda il tempo necessario per una decisione. Forse saremmo anche in grado di scegliere il migliore ristorante in assoluto per la cena di stasera, se avessimo a disposizione tutto il pomeriggio per esaminare le ultime recensioni, il costo dei vari piatti sul menù e la qualità dei locali, e poi per confrontare tutto questo con le nostre preferenze, il nostro umore e il saldo del nostro conto in banca. Ma non abbiamo tutto il pomeriggio. Il tempo conta, e dobbiamo dedicarne alla decisione una quantità «ragionevole». La ragionevolezza dipende, naturalmente, dall'importanza della questione che si sta decidendo. Visto che non abbiamo tutto il tempo di questo mondo, invece di fare un ingente investimento in grandi calcoli, conviene ricorrere a qualche scorciatoia. Di positivo c'è che le registrazioni di emozioni passate ci aiuteranno in queste scorciatoie, e che il nostro inconscio cognitivo è una buona fonte di tali registrazioni.
Tutto questo per dire che mi piace moltissimo l'idea che il nostro inconscio cognitivo sia capace di ragionamento e disponga di uno « spazio » di operazione più ampio della sua controparte cosciente. Tuttavia, un elemento critico per spiegare questi risultati riguarda l'esperienza emozionale che il soggetto ha avuto in precedenza con oggetti « importanti » simili a quelli contemplati nell'esperimento. Lo spazio non cosciente è aperto e adatto a questa manipolazione implicita, ma in larga misura funziona in modo vantaggioso perché certe opzioni sono inconsciamente marcate da un pregiudizio connesso a fattori appresi in precedenza, legati a emozioni e sentimenti. Io credo che le conclusioni sul valore della elaborazione non cosciente siano corrette, ma la nostra idea di quello che accade sotto la fredda superficie della coscienza si arricchisce molto quando consideriamo, fra i processi non coscienti, anche l'emozione e il sentimento.
L'esperimento di Dijksterhuis illustra la cooperazione di facoltà consce e inconsce. Da sola, l'elaborazione inconscia non potrebbe svolgere il lavoro: negli esperimenti descritti, i processi inconsci fanno moltissimo, ma ciò avviene perché i soggetti hanno beneficiato di anni di deliberazione cosciente durante i quali i loro processi non coscienti sono stati ripetutamente addestrati. Va detto anche che, mentre i processi non coscienti eseguono tutte le loro analisi, i soggetti rimangono perfettamente coscienti. I pazienti incoscienti anestetizzati o in coma non prendono decisioni riguardanti il mondo reale, non più di quanto possano godersi il sesso. Ancora una volta, a rivelarsi vincente è la felice sinergia dei livelli impliciti ed espliciti. Noi ci appoggiamo regolarmente all'inconscio cognitivo, durante tutta la giornata, e deleghiamo alla sua esperienza, con discrezione, un certo numero di compiti, compresa l'esecuzione di risposte.
Demandare una prestazione esperta allo spazio non cosciente: è proprio questo che facciamo quando perfezioniamo un'abilità in modo tanto raffinato da non essere più consapevoli dei passaggi tecnici necessari per eseguirla in modo competitivo. Noi sviluppiamo le nostre abilità alla chiara luce della coscienza, ma poi lasciamo che esse sprofondino nell'ampio sotterraneo della nostra mente, dove non ingombrano più lo spazio esiguo a disposizione della riflessione cosciente.
Gli esperimenti di Dijksterhuis rappresentano un arricchimento che va ad aggiungersi a uno sforzo di ricerca tuttora in corso sul ruolo delle influenze non coscienti nei compiti che implicano un'attività decisionale. Agli inizi di quelle ricerche, il nostro gruppo aveva presentato evidenze decisive a tale proposito.5 Per esempio, dimostrammo che quando soggetti normali sono impegnati in un gioco di carte che comporta sia guadagni, sia perdite, in condizioni di rischio e di incertezza i giocatori cominciano ad adottare una strategia vincente un po' prima di essere in grado di spiegare perché lo stiano facendo. Per alcuni minuti, prima dell'adozione della strategia vantaggiosa, il cervello dei soggetti produce risposte psicofisiologiche differenziali ogniqualvolta essi pensano di prendere una carta da uno dei mazzi « cattivi», quelli cioè che promuovono le perdite, mentre la prospettiva di prendere una carta da un mazzo « buono » non genera tali risposte. La bellezza di questo risultato sta nel fatto che le risposte psicofisiologiche nello studio originale misurate mediante conduttanza cutanea non sono percepibili né dal soggetto, né da un osservatore a occhio nudo. Esse hanno luogo al di sotto del radar della coscienza del soggetto: furtive proprio come lo spostamento comportamentale verso la strategia vincente.6
Che cosa accada esattamente non è ancora del tutto chiaro, ma di qualsiasi cosa si tratti non richiede lo stato di coscienza nell'istante presente. Può darsi che l'equivalente inconscio di una sensazione viscerale cosciente «scuota», per così dire, il processo decisorio, influenzando la computazione non cosciente e impedendo la selezione dell'oggetto sbagliato. Con ogni probabilità è in corso, a livello non cosciente, nei sotterranei della mente, un importante processo di ragionamento che produce risultati senza che i passaggi intermedi siano mai conosciuti. Quale che sia, il processo dà luogo all'equivalente di un'intuizione senza il riconoscimento consapevole del fatto che si è pervenuti alla soluzione, la quale viene offerta semplicemente, senza clamore.
Le prove di un'elaborazione non cosciente sono andate costantemente accumulandosi. Le nostre decisioni economiche non sono guidate dalla pura razionalità e sono significativamente influenzate da potenti pregiudizi, per esempio l'antipatia per le perdite e il piacere che traiamo dai guadagni.7 Il modo in cui interagiamo con gli altri è influenzato da moltissimi pregiudizi che hanno a che fare con il genere, la razza, i modi, gli accenti e l'abbigliamento. Il contesto in cui ha luogo l'interazione introduce i propri pregiudizi, legati a questioni di familiarità e struttura. Gli interessi e le emozioni che stavamo sperimentando prima dell'interazione hanno anch'essi un ruolo importante, come lo ha l'ora del giorno: abbiamo fame? siamo sazi? Noi esprimiamo in modo esplicito, oppure segnaliamo indirettamente, le nostre preferenze per i volti umani, e lo facciamo a una velocità fulminea, senza aver avuto il tempo per un'elaborazione consapevole dei dati che avrebbero sostenuto una corrispondente inferenza ragionata: a maggior ragione, questo è un motivo per stare particolarmente attenti quando si tratta di decisioni importanti nella nostra vita pubblica, come in quella privata.8 Va benissimo lasciare che l'influenza inconscia delle emozioni passate ci guidi nella scelta di una casa purché, prima di firmare il contratto, ci fermiamo a riflettere attentamente sull'opzione offerta dall'inconscio. Rianalizzando i dati, a prescindere dal modo in cui abbiamo giudicato intuitivamente la situazione, potremmo concludere che la scelta non è valida, per esempio perché le nostre esperienze passate in questo campo sono atipiche, viziate dal pregiudizio, o insufficienti. Questo è importante soprattutto se stiamo esprimendo un voto in qualità di elettori o di giurati.
Uno dei principali problemi che affronta chi vota nelle elezioni politiche e nelle aule di tribunale è rappresentato dall'intensità dei fattori emozionali/non coscienti. A tal punto la forza di tali fattori è riconosciuta, che negli ultimi decenni è stato sviluppato come fosse un'industria un apparato assolutamente mostruoso per influenzare l'elettorato, insieme a metodi meno pubblicizzati, ma ugualmente sofisticati, per orientare la scelta dei giurati.
La riflessione e la rivalutazione, il controllo dei dati e la riconsiderazione del problema sono essenziali. Qui vi è una grande occasione di investire altro tempo nella decisione: preferibilmente prima di entrare nella cabina elettorale o di mettere il proprio voto nelle mani del primo giurato.
Tutti questi risultati esemplificano situazioni in cui le influenze non coscienti emozionali o no e i passaggi non consapevoli del ragionamento hanno una relazione con l'esito di un compito. I soggetti tuttavia sono perfettamente coscienti sia quando vengono loro fornite le premesse del compito, sia quando ha luogo la decisione, e vengono informati dei risultati delle loro azioni. È chiaro che questi sono esempi di componenti non coscienti di decisioni altrimenti coscienti. Essi ci lasciano intravedere la complessità e la varietà dei meccanismi che stanno dietro alla facciata del controllo cosciente (che si suppone perfetto), senza tuttavia negare le nostre facoltà di scelta e senza sollevarci dalla responsabilità delle nostre azioni.
UNA NOTA SULL'INCONSCIO GENOMICO
Occorre, qui, una breve nota riguardante l'inconscio genomico, una delle forze nascoste con le quali la deliberazione cosciente deve venire a patti. Che cosa intendo con l'espressione «inconscio genomico»? Molto semplicemente, la colossale quantità di istruzioni, contenute nel nostro genoma, che guidano la costruzione dell'organismo conferendogli i caratteri distintivi del nostro fenotipo sia nel corpo in senso stretto, sia nel cervello e che contribuiscono ulteriormente al suo funzionamento. Le istruzioni per lo schema fondamentale dei nostri circuiti cerebrali sono contenute nel genoma, e quello schema contiene a sua volta il primissimo repertorio di knowhow non cosciente grazie al quale il nostro organismo può essere governato. Il knowhow ha a che fare in primo luogo, e soprattutto, con la regolazione dei processi vitali questioni di vita e di morte e con la riproduzione; ma proprio a causa della centralità di quei problemi, lo schema promuove diversi comportamenti che possono sembrare decisi dalla cognizione cosciente, ma che in realtà sono guidati dalle disposizioni non coscienti. Le preferenze spontanee che manifestiamo precocemente nell'arco della nostra vita preferenze riguardanti quello che mangiamo e beviamo, i compagni e l'habitat che scegliamo sono in parte guidate dall'inconscio genomico, sebbene nel corso di tutto lo sviluppo possano essere modulate e modificate dall'esperienza individuale.
La psicologia riconosce da tempo l'esistenza dei fondamenti inconsci del comportamento e li ha studiati a proposito dell'istinto, dei comportamenti automatici, delle pulsioni e delle motivazioni. A essere cambiata, in tempi recenti, è la comprensione del fatto che l'installazione precoce di queste disposizioni nel cervello umano è sotto una considerevole influenza genetica e che, nonostante tutto il plasmare e rimodellare che intraprendiamo come individui dotati di coscienza, la portata di queste disposizioni che sono di una pervasività sbalorditiva è tale da toccare un'ampia gamma di temi. Questo è notevole soprattutto per quanto riguarda alcune delle disposizioni sulle quali sono state costruite le strutture culturali. L'inconscio genetico ha avuto qualcosa da dire sul primo formarsi delle arti, dalla musica alla pittura e alla poesia. Ha avuto qualcosa a che fare con la prima strutturazione dello spazio sociale, compresa l'istituzione di convenzioni e regole. Come Freud eJung sicuramente percepirono, ha avuto qualcosa a che fare anche con molti aspetti della sessualità umana. Ha contribuito moltissimo alle fondamentali narrazioni della religione e ai tradizionali intrecci delle opere di teatro e dei romanzi che ruotano in misura non trascurabile intorno alla forza dei programmi emozionali ispirati dal genoma. È una gelosia cieca impermeabile al buonsenso, alle prove stringenti e alla ragione quella che spinge Otello a uccidere una Desdemona assolutamente innocente, e Karenin a punire l'adultera Anna con tanta durezza. Il catastrofico rancore di Iago probabilmente non avrebbe avuto effetto se non fosse stato per la naturale vulnerabilità di Otello alla gelosia. L'asimmetria cognitiva della sessualità maschile e femminile, molti parametri della quale sono scolpiti nel nostro genoma, ispira il comportamento di questi personaggi e li manterrà per sempre attuali. L'intensa aggressività maschile di Achille, Ettore e Ulisse ha, allo stesso modo, radici profonde nell'inconscio genetico. Lo stesso si potrebbe dire di due personaggi, Edipo e Amleto, annientati per aver infranto il tabù dell'incesto o per l'inclinazione non dichiarata a infrangerlo. L'interpretazione freudiana di questi personaggi senza tempo si fonde con le loro origini evolutive, sottolineando alcuni aspetti frequentissimi della natura umana. Il teatro e il romanzo come pure il cinema, loro erede del Novecento hanno grandemente beneficiato dell'inconscio genomico.
L'inconscio genomico è in parte responsabile della grande somiglianza che contraddistingue il repertorio del comportamento umano. È davvero straordinario, allora, che noi costantemente ci discostiamo dagli universali monotoni creando invece, grazie all'arte o alla semplice magia di un incontro umano, un insieme infinito, che incanta e stupisce, di variazioni sul tema della vita.
IL SENTIMENTO DELLA VOLONTÀ COSCIENTE
Quanto spesso siamo guidati da un inconscio cognitivo ben esercitato, addestrato sotto la supervisione della riflessione cosciente a osservare ideali, desideri e progetti coscientemente concepiti? E quanto spesso siamo guidati da pregiudizi, appetiti e desideri biologicamente antichi, inconsci, profondamente radicati? Ho il sospetto che la maggior parte di noi, deboli peccatori dalle buone intenzioni, operi su entrambi i registri: più sull'uno o più sull'altro, a seconda della situazione e dell'ora della giornata.
Quale che sia il registro al livello del quale stiamo operando, virtuoso o meno, nell'attimo del suo svolgimento l'azione è inevitabilmente accompagnata dall'impressione a volte falsa, a volte no di aver agito, in quel luogo e in quell'istante, sotto il pieno controllo del nostro sé, completamente impegnato in quello che stavamo facendo. Quell'impressione è un sentimento: un sentimento che affiora quando il nostro organismo si impegna in una nuova percezione o inizia una nuova azione, null'altro che il sentimento di conoscenza che ho già discusso come parte integrante del sé. Questa prospettiva è condivisa da Dan Wegner, il quale descrive la volontà cosciente come «il marcatore somatico della identità autoriale, un'emozione che autentica il sé quale proprietario dell'azione. Con il sentimento di compiere un'azione, noi abbiamo una sensazione cosciente di volontà associata all'azione».9 In altre parole, non siamo meri «automi coscienti», come ci considerava T.H. Huxley un secolo fa, incapaci di controllare la nostra esistenza.10 Quando la mente è informata delle azioni intraprese dall'organismo, il sentimento associato all'informazione indica che quelle azioni sono state generate dal sé. Sia l'informazione, sia l'autenticazione delle azioni in corso sono essenziali per motivare la deliberazione delle azioni future. Senza quel tipo di informazione, sentita e validata, noi non saremmo in grado di assumerci la responsabilità morale delle azioni intraprese dal nostro organismo.
EDUCARE L'INCONSCIO COGNITIVO
Un maggiore controllo sulle stravaganze del comportamento umano può derivare soltanto dall'accumulo di conoscenza e dalla considerazione dei fatti così scoperti. Prendersi il tempo necessario per analizzare i fatti, valutare l'esito delle decisioni e ponderare i loro risultati emozionali: questa è la via per costruire quella sorta di guida pratica altrimenti nota come saggezza. Grazie a essa, possiamo riflettere e sperare di orientare il nostro comportamento nel contesto delle convenzioni culturali e delle norme etiche che hanno ispirato la nostra biografia e il mondo in cui viviamo. Possiamo anche reagire a quelle convenzioni e a quelle norme, affrontare il conflitto che segue quando ci opponiamo a esse, e addirittura tentare di modificarle. Il conflitto affrontato dagli obiettori di coscienza è un buon esempio in tal senso.
Non meno importante, dobbiamo essere consapevoli del peculiare ostacolo affrontato dalle decisioni ponderate coscientemente: esse devono farsi strada nell'inconscio cognitivo in modo da permeare l'apparato che porta all'azione, e noi dobbiamo facilitare quell'influenza. Un modo per rimuovere l'ostacolo sarebbe un intenso esercizio cosciente delle procedure e delle azioni che vorremmo veder realizzate in modo inconscio: un processo di pratica ripetuta che porta a padroneggiare una abilità di prestazione, un programma d'azione psicologico che viene composto coscientemente per poi essere spostato sotto la superficie della coscienza.
Qui non sto inventando niente di nuovo: sto semplicemente descrivendo un meccanismo pratico dedotto da quelle che presumo debbano essere le operazioni neurali della decisione e dell'azione. Per millenni, i leader capaci sono pervenuti a soluzioni simili quando chiedevano ai propri seguaci di osservare rituali controllati, i cui effetti collaterali devono essere stati la graduale imposizione di decisioni prese coscientemente sui processi d'azione inconsci. Il fatto che quei rituali spesso comportassero la creazione di emozioni amplificate, dolore compreso, non sorprende: si tratta di un mezzo, scoperto empiricamente, per imprimere il meccanismo desiderato nella mente umana. Quello che sto immaginando, però, va ben oltre i rituali civili e religiosi, e si spinge ad abbracciare questioni di vita quotidiana riconducibili a molti campi diversi. In particolare, sto pensando a questioni attinenti alla salute e al comportamento sociale. Il fatto che noi educhiamo in modo insufficiente i nostri processi inconsci probabilmente spiega, per esempio, perché tanti falliscano miseramente quando si tratta di comportarsi correttamente in merito alla dieta e all'esercizio fisico. Noi crediamo di avere il controllo della situazione, ma spesso non l'abbiamo affatto, come dimostrano le epidemie di obesità, ipertensione e cardiopatie. La nostra costituzione biologica ci rende inclini a consumare quello che non dovremmo; d'altra parte, le tradizioni culturali ispirate e plasmate da quella costituzione biologica, come pure l'industria pubblicitaria che fa leva su di essa, fanno altrettanto. Non vi è alcun complotto, qui: è solo natura. Forse in questo contesto la costruzione di abilità ritualizzate sarebbe opportuna, se servisse.
Lo stesso vale per l'epidemia di dipendenza da sostanze. Una ragione per la quale così tanti individui sviluppano una dipendenza a ogni sorta di droghe, per non parlare dell'alcol, ha a che fare con le pressioni esercitate dall'omeostasi. Nel corso di una giornata normale, noi affrontiamo inevitabilmente frustrazioni, ansie e difficoltà che alterano l'equilibrio omeostatico e di conseguenza possono farci sentire male: forse angosciati, scoraggiati o tristi. Un effetto delle cosiddette sostanze d'abuso è quello di ripristinare rapidamente e transitoriamente l'equilibrio perduto. In che modo? Io credo che esse modifichino l'immagine «sentita» che il cervello si forma del proprio corpo. Lo stato di squilibrio omeostatico viene rappresentato, a livello neurale, come un paesaggio corporeo intralciato e problematico. Dopo l'assunzione di certe sostanze, a certi dosaggi, il cervello rappresenta a se stesso un organismo che funziona in modo più fluido. La sofferenza corrispondente all'immagine sentita in precedenza si trasforma in un temporaneo piacere. Il sistema cerebrale degli appetiti è stato sequestrato, e il risultato finale non è certo l'agognato riequilibrio dell'omeostasi, almeno non per molto. Nondimeno, respingere la possibilità di una rapida correzione della sofferenza richiede uno sforzo enorme, anche a chi già sa che la correzione sarà di breve durata e che le conseguenze di quella scelta possono essere terribili. Nel quadro generale che ho tracciato, vi è un'ovvia ragione per questo stato di cose. In condizioni naturali, l'esigenza omeostatica non cosciente detiene il controllo e può essere contrastata solo da una forza contraria potente e bene addestrata. Sembra che Spinoza avesse visto giusto quando diceva che un'emozione dalle conseguenze negative poteva essere contrastata solo da un'altra emozione, più intensa. Questo forse significa che addestrare il processo inconscio a declinare educatamente di per sé non rappresenta una soluzione: il dispositivo inconscio deve essere addestrato dalla mente cosciente a rispondere a suon di emozioni.
CERVELLO E GIUSTIZIA
I concetti di controllo conscio e inconscio ispirati alla biologia sono rilevanti sia ai fini del modo in cui viviamo, sia, soprattutto, del modo in cui dovremmo vivere. Forse, però, in nessun caso la rilevanza è maggiore che nelle questioni riguardanti il comportamento sociale, in particolare quel settore noto come comportamento morale, e l'infrazione dei patti sociali codificati nelle leggi.
La civiltà, e in special modo il suo aspetto attinente alla giustizia, ruota intorno al concetto che gli esseri umani sono coscienti in una maniera che è preclusa agli animali. In linea di massima, le culture hanno evoluto sistemi giudiziari che adottano un approccio di buonsenso alle complessità del processo decisorio e mirano a proteggere le società da coloro che violano le leggi stabilite. Comprensibilmente, e con rare eccezioni, il peso dato alle informazioni offerte dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive è stato trascurabile.
Ora vi è un timore crescente che le informazioni sulla funzione cerebrale, conosciuta sempre meglio, possano mettere in discussione l'applicazione delle leggi: un problema che i sistemi giuridici hanno in linea di massima schivato evitando di prendere in considerazione quelle informazioni. La risposta, però, dev'essere sfumata. Il fatto che qualunque individuo capace di conoscenza sia responsabile delle proprie azioni non implica che la neurobiologia della coscienza sia irrilevante tanto ai fini giudiziari, quanto ai fini dell'educazione che deve preparare i futuri adulti a un'esistenza sociale adattativa. Al contrario, avvocati, giudici, legislatori, politici ed educatori devono tutti conoscere la neurobiologia della coscienza e del processo decisorio: tale conoscenza è importante per promuovere leggi realistiche e preparare le future generazioni al controllo responsabile delle proprie azioni.
In certi casi di disfunzione cerebrale, anche una capacità riflessiva esercitata al meglio può non riuscire a controllare certe forze, a prescindere dal fatto che esse siano o meno coscienti. Stiamo appena cominciando a comprendere il profilo di questi casi, tuttavia sappiamo, per esempio, che i pazienti con certi tipi di lesione prefrontale possono non essere in grado di controllare gli impulsi. Questi individui non esercitano un controllo normale sulle proprie azioni. Come dovranno essere giudicati se finiranno nelle maglie della giustizia? Come criminali o come pazienti neurologici? Secondo me, forse, come entrambe le cose. La loro malattia neurologica non dovrebbe in alcun modo giustificare le loro azioni, anche se può spiegare alcuni aspetti di un crimine. D'altra parte, se costoro sono neurologicamente malati, di fatto sono dei pazienti, e la società deve trattarli di conseguenza. A tal proposito, la tragedia è che stiamo appena cominciando a comprendere questi aspetti della malattia neurologica: una volta formulata la diagnosi, abbiamo ben poco da offrire in termini di terapia. Questo però non limita in alcun modo la responsabilità della società sia per quanto riguarda la comprensione e il dibattito pubblico sulle conoscenzedisponibili, sia relativamente alla necessità di ulteriori ricerche su queste materie.11
Alcuni altri pazienti, nei quali il danno prefrontale è concentrato a livello ventromediale, giudicano ipotetici dilemmi morali in modo molto pragmatico e utilitaristico: ai fini di quanto vi è di più nobile nello spirito umano, si tratta di un approccio di valore scarso o nullo. Per esempio, se si sottopone a questi pazienti un ipotetico caso di tentato omicidio che, nonostante l'intenzione, non ha dato luogo a una morte, essi non giudicano la situazione significativamente diversa da quella di un'uccisione accidentale e involontaria. In effetti, potrebbero addirittura trovare la prima situazione più accettabile.12 La maniera in cui tali individui interpretano le motivazioni, gli intenti e le conseguenze è a dir poco non convenzionale, anche se probabilmente nella loro vita quotidiana non farebbero male a una mosca. Abbiamo ancora molto da imparare sul modo nel quale il cervello umano elabora i giudizi riguardanti il comportamento e controlla le azioni.
NATURA E CULTURA
La storia della vita ha la forma di un albero con molti rami, ciascuno dei quali porta a diverse specie; anche quelle che non si trovano all'apice dei rami più alti possono rivelare una superba intelligenza nel loro contesto zoologico, ed è rispetto a quel contesto che dovremmo giudicare le loro prestazioni. Quando osserviamo l'albero della vita in prospettiva, però, non possiamo non riconoscere che effettivamente gli organismi procedono dal più semplice al più complesso: è dunque ragionevole chiedersi quando, nella storia della vita, sia emersa la coscienza e che cosa abbia comportato. Che cosa implicò per la vita la sua comparsa? Se esaminiamo l'evoluzione biologica come un'ascesa non premeditata, la risposta ragionevole è che essa apparve piuttosto tardi, in corrispondenza dei rami più alti dell'albero della vita. Non vi è alcun segno di coscienza nel brodo primordiale o nei batteri, e neppure negli organismi unicellulari o in quelli pluricellulari più semplici, e tanto meno nei funghi o nelle piante: tutte forme di vita interessanti che presentano complicati dispositivi per la regolazione dei processi vitali, gli stessi dei quali successivamente la coscienza avrebbe migliorato le prestazioni. Nessuno di questi organismi ha un cervello, e meno che mai una mente: in assenza di neuroni, il comportamento è limitato e la mente non è possibile; e se non vi è mente, non vi è nemmeno la coscienza come tale, ma solo i suoi precursori.
Quando comparvero i neuroni, come variazione sul tema rappresentato dalle altre cellule del corpo, la vita cambiò in modo straordinario. Costituiti dalle stesse componenti presenti nelle altre cellule, essi sbrigano le loro funzioni generali esattamente allo stesso modo; eppure, sono speciali. Diventano portatori di segnali, dispositivi di elaborazione capaci di trasmettere e ricevere messaggi. In virtù di quelle capacità di segnalazione, i neuroni si organizzano in circuiti e reti complesse. A loro volta, questi ultimi rappresentano eventi che hanno luogo in altre cellule e, direttamente o indirettamente, influenzano sia le funzioni di altri elementi cellulari, sia le proprie. I neuroni riguardano da vicino le altre cellule del corpo, tuttavia non perdono essi stessi quello status solo perché hanno acquisito la capacità di trasmettere segnali elettrochimici, di inviare quei segnali a moltissimi siti dell'organismo e di costituire circuiti e sistemi di enorme complessità. I neuroni sono cellule del corpo, e come tutte le cellule del corpo (dalle quali differiscono principalmente per la capacità di mettere a segno virtuosismi loro esclusivi) dipendono essenzialmente dai nutrienti e sono fermamente determinati a vivere a lungo, se possibile quanto l'organismo loro proprietario. La separazione corpocervello è stata in qualche modo esagerata, giacché i neuroni che costituiscono il cervello sono cellule del corpo, e questo ha effettivamente attinenza con il problema mentecorpo.
Una volta che i neuroni trovano posto all'interno di organismi capaci di movimento, la vita cambia in un modo che la natura non ha concesso alle piante. Ha così inizio, nella complessità funzionale, un inarrestabile progresso che porta da comportamenti sempre più elaborati ai processi mentali e infine alla coscienza. Un segreto alla base di questo aumento di complessità è stato ormai chiarito: ha a che fare sia con il numero di neuroni disponibili in un dato organismo, sia, cosa non meno importante, con le loro modalità di organizzazione in circuiti su scala sempre più ampia, fino ad arrivare a regioni cerebrali macroscopiche che formano sistemi caratterizzati da intricati rapporti funzionali. La ragione per cui non è possibile accostarsi ai problemi del comportamento e della mente affidandosi in modo esclusivo all'indagine riguardante i singoli neuroni, o le molecole che agiscono su di essi, o i geni implicati nel controllo del loro ciclo vitale sta proprio nel numero delle cellule nervose e nell'importanza delle loro modalità di organizzazione. Lo studio di singole cellule, di microcircuiti, di molecole e di geni è indispensabile per comprendere il problema in modo esaustivo. Tuttavia, se la mente e il comportamento delle scimmie antropomorfe e degli esseri umani sono tanto differenti, è proprio a causa del numero degli elementi cerebrali in gioco e delle loro modalità di organizzazione.
I sistemi nervosi si svilupparono per gestire i processi vitali e amministrare il valore biologico; inizialmente assistiti nel loro compito da disposizioni per le quali non occorreva un cervello, alla fine furono coadiuvati dalle immagini, e cioè dalla mente. L'emergere di quest'ultima produsse miglioramenti spettacolari nella regolazione dei processi vitali di numerose specie, anche quando le immagini erano prive di dettagli fini e duravano solo l'istante della percezione, svanendo completamente subito dopo. Il cervello degli insetti sociali è un esempio di queste prestazioni, sorprendentemente sofisticate ma in un certo senso prive di flessibilità, vulnerabili all'interruzione delle sequenze comportamentali e non ancora in grado di conservare le rappresentazioni in uno spazio temporaneo della memoria di lavoro. In numerose specie diverse dalla nostra, il comportamento basato sulla presenza della mente divenne molto complesso, ma è plausibile ritenere che la flessibilità e la creatività tipiche delle prestazioni umane non siano potute emergere soltanto grazie alla presenza di una mente generica. Occorreva, invece, che essa diventasse protagonista, che fosse arricchita da un processo del sé affiorante al suo interno. Una volta che il sé affiora nella mente, il gioco della vita cambia, non senza qualche incertezza iniziale. Le immagini del mondo interno e di quello esterno possono essere organizzate in modo coesivo intorno al protosé ed essere orientate dalle esigenze omeostatiche dell'organismo. I dispositivi di ricompensa e punizione, come pure gli impulsi e le motivazioni, che hanno plasmato i processi della vita negli stadi precedenti dell'evoluzione, contribuiscono poi con lo sviluppo di emozioni complesse. È a questo punto che l'intelligenza sociale comincia a essere flessibile. Infine, la presenza del sé nucleare è seguita da un'espansione dello spazio di elaborazione mentale, della memoria e della rievocazione convenzionali, della memoria di lavoro e del ragionamento. La regolazione dei processi vitali si concentra su un individuo che a poco a poco va definendosi meglio. Da ultimo emerge il sé autobiografico, e con la sua entrata in scena la regolazione della vita cambia radicalmente.
Se la natura può essere considerata indifferente, incurante e senza scrupoli, ecco che negli esseri umani la coscienza crea la possibilità di mettere in discussione quel suo modo di essere. L'emergere della coscienza umana è associato a sviluppi evolutivi che hanno interessato il cervello, il comportamento e la mente, e che hanno infine condotto alla creazione della cultura, una novità radicale nella storia naturale. La comparsa dei neuroni, accompagnata dalla diversificazione del comportamento e dalla preparazione all'emergere della mente, costituisce un evento epocale nella grandiosa traiettoria della vita. L'evento epocale successivo, però, è la comparsa di un cervello cosciente divenuto infine capace di riflettere su se stesso dando prova di flessibilità. È qui che si apre la strada che porterà a ribattere alle imposizioni di una natura incurante con una risposta ribelle, per quanto imperfetta.
Come si sviluppò la mente indipendente e ribelle? Qui si può soltanto fare qualche speculazione, e le pagine che seguono non sono che l'abbozzo di un quadro di immensa complessità la cui descrizione non può trovare spazio in un unico libro, meno che mai in un singolo capitolo. Possiamo tuttavia essere certi che il ribelle non si sviluppò all'improvviso. Le menti costituite da mappe di diverse modalità sensoriali si rivelarono utili per migliorare la regolazione dei processi vitali; anche quando divennero immagini mentali propriamente sentite, però, le mappe non erano indipendenti, e certo nemmeno ribelli. Le immagini «sentite» dell'interno dell'organismo contribuirono ad aumentare le probabilità di sopravvivenza e crearono uno spettacolo potenzialmente bello, sebbene non vi fosse nessuno a guardarlo. Quando le menti per la prima volta aggiunsero alla propria dotazione un sé nucleare, ovvero nel momento in cui effettivamente ebbe inizio la coscienza, ci stavamo avvicinando alla meta, senza però averla ancora raggiunta. La presenza di un semplice protagonista fu un chiaro vantaggio, perché generava una connessione stabile fra le esigenze legate alla regolazione dei processi vitali da un lato e, dall'altro, la profusione di immagini mentali formate dal cervello e riferite al mondo circostante. La guida del comportamento fu ottimizzata. Ma l'indipendenza di cui sto parlando potè affiorare solo una volta che il sé ebbe raggiunto una complessità sufficiente a svelare un quadro più completo della condizione umana: quando gli organismi viventi furono in condizioni di capire che erano sì in gioco il dolore e la perdita, ma anche il piacere, la prosperità e la follia; quando vi furono domande da porre sul passato e sul futuro dell'umanità; quando l'immaginazione fu in grado di mostrare il modo in cui era forse possibile ridurre la sofferenza, minimizzare la perdita e rendere più probabili felicità e fantasie. E qui che il ribelle cominciò a guidare l'esistenza umana in nuove direzioni, alcune insubordinate, altre accomodanti, ma tutte basate sulla riflessione attraverso la conoscenza: all'inizio mitica, in seguito scientifica ma pur sempre conoscenza.
IL SE' VIENE ALLA MENTE
Che meraviglia sarebbe scoprire dove e quando un robusto sé affiorò nella mente e cominciò a generare quella rivoluzione biologica che chiamiamo cultura! Nonostante l'impegno continuamente profuso nella ricerca da parte di coloro che interpretano e datano le testimonianze umane sopravvissute nel tempo fino a noi, non siamo in grado di soddisfare queste curiosità. Di certo la maturazione del sé avvenne in modo lento e graduale, ma non uniforme, e il processo ebbe luogo in diverse parti del mondo, ma non necessariamente nella stessa epoca. Sappiamo, tuttavia, che i nostri antenati umani più diretti erano su questa Terra circa duecentomila anni fa e che circa trentamila anni or sono gli esseri umani producevano pitture rupestri, sculture e incisioni sulla roccia, fondevano i metalli e fabbricavano gioielli e forse facevano anche musica. Si ritiene che le pitture della grotta Chauvet nell'Ardèche risalgano a trentaduemila anni fa, mentre le grotte di Lascaux con centinaia di pitture complesse e migliaia di incisioni, in una complicata miscela di figure e segni astratti erano già una sorta di Cappella Sistina diciassettemila anni fa. In quei luoghi, era chiaramente già all'opera una mente capace di rappresentazione simbolica. L'esatta relazione fra l'emergere del linguaggio e l'esplosione dell'espressione artistica e della fabbricazione di strumenti sofisticati che contraddistingue Homo sapiens non è nota. Sappiamo però che da decine di migliaia di anni gli esseri umani eseguivano rituali funebri abbastanza elaborati da richiedere una preparazione speciale del morto e l'equivalente delle lapidi. È difficile immaginare che comportamenti del genere potessero essersi affermati in assenza di un esplicito interesse per la vita, di un primo tentativo di interpretare l'esistenza e assegnarle un valore, di certo emozionale, ma anche intellettuale. Ed è inconcepibile che quell'interesse o quell'interpretazione potessero sorgere in assenza di un robusto sé.
Lo sviluppo della scrittura, circa cinquemila anni fa, fornisce diverse solide evidenze: quando appaiono i poemi omerici, che probabilmente risalgono a meno di tremila anni fa, il sé autobiografico era indubbiamente già affiorato nella mente umana. Io comunque simpatizzo con Julian Jaynes, quando ritiene probabile che, nell'intervallo relativamente breve intercorso fra gli eventi narrati nell'Iliade e quelli dell' Odissea, nella mente umana sia accaduto qualcosa di fondamentale.13 Mentre andava accumulandosi la conoscenza sugli esseri umani e sull'universo, può darsi benissimo che la continua riflessione abbia alterato la struttura del sé autobiografico, portando a una stretta unione di aspetti relativamente disparati dell'elaborazione mentale; il coordinamento dell'attività cerebrale, dapprima guidato dal valore e poi dalla ragione, stava lavorando a nostro vantaggio. Comunque siano andate le cose, il sé che io immagino capace di ribellione è uno sviluppo recente, la cui distanza da noi è nell'ordine delle migliaia di anni: un mero istante, nel tempo evolutivo. Quel sé attinge a caratteristiche del cervello umano che con ogni probabilità furono acquisite durante il lungo periodo del Pleistocene: esso dipende dalla capacità del cervello di trattenere ampie registrazioni mnemoniche non solo relative alle capacità motorie, ma anche a fatti ed eventi: in particolare a fatti ed eventi personali, che costituiscono l'impalcatura della biografia, della personalità e dell'identità individuale. Dipende dall'abilità di ricostruire e manipolare le registrazioni mnemoniche in uno spazio di lavoro cerebrale parallelo allo spazio percettivo: un'area offline dove il tempo può essere momentaneamente sospeso e le decisioni possono quindi essere liberate dalla tirannia della risposta immediata. Dipende dalla capacità del cervello di produrre non solo rappresentazioni mentali che imitino pedissequamente e mimeticamente la realtà, ma anche rappresentazioni simboliche di azioni, oggetti e individui. Il sé ribelle dipende dalla capacità del cervello di comunicare gli stati mentali, soprattutto gli stati del sentire, attraverso gesti del corpo e delle mani, come pure attraverso la voce, nella forma di tonalità musicali e linguaggio verbale. Da ultimo, esso dipende dall'invenzione di sistemi di memoria esterna, paralleli a quelli presenti in ciascun cervello e qui intendo le rappresentazioni offerte dai primi dipinti, incisioni e sculture, come pure gli strumenti, i gioielli, l'architettura funeraria e, molto tempo dopo l'emergere del linguaggio, le testimonianze scritte, che di certo sono state fino a tempi recentissimi la varietà più importante di memoria esterna.
Una volta che il sé autobiografico può operare sulla base della conoscenza impressa nei circuiti cerebrali e nelle registrazioni esterne fissate sulla pietra, sull'argilla o sulla carta, gli esseri umani diventano capaci di agganciare le proprie esigenze biologiche individuali all'insieme delle conoscenze collettive. Comincia così un lungo processo di indagine, riflessione e risposta, che nel corso di tutta la storia umana registrata si esprime nei miti, nelle religioni, nelle arti e nelle varie strutture escogitate per governare il comportamento sociale: i princìpi etici, i sistemi giudiziari, l'economia, la politica, la scienza e la tecnologia. Le conseguenze ultime della coscienza si realizzano grazie alla memoria, acquisita attraverso un filtro costituito dal valore biologico e animata dalla ragione.
LE CONSEGUENZE DI UN SE' CAPACE DI RIFLESSIONE
Immaginiamo i primi esseri umani, quando il linguaggio verbale si era ormai affermato da qualche tempo come mezzo di comunicazione. Immaginiamo individui coscienti il cui cervello era dotato di molte delle capacità che riscontriamo negli esseri umani odierni e che cercavano in larga misura le stesse cose che cerchiamo noi oggi: cibo, sesso, riparo, sicurezza, comodità, dignità, forse trascendenza. In quell'ambiente, la competizione per le risorse era uri problema dominante, le occasioni di conflitto saranno state numerose e la cooperazione era essenziale. Il comportamento era orientato dalle ricompense, dalle punizioni e dall'apprendimento. Supponiamo che quegli esseri umani possedessero una gamma di emozioni simili alle nostre: senza dubbio erano presenti attaccamento, disgusto, paura, gioia, tristezza e rabbia accanto a emozioni che governavano la socialità, per esempio la fiducia, la vergogna, il senso di colpa, la compassione, il disprezzo, l'orgoglio, la soggezione e l'ammirazione. Supponiamo anche che quei primi esseri umani fossero già animati da un'intensa curiosità riguardante sia il loro ambiente fisico, sia gli altri esseri viventi, a prescindere dal fatto che appartenessero o meno alla loro stessa specie. Se gli studi condotti nel secolo scorso su tribù relativamente isolate possono farci in qualche modo da guida, essi erano anche curiosi nei confronti di se stessi e raccontavano storie sulle proprie origini e il proprio destino. È relativamente facile immaginare quale fosse il motore alla base di quella curiosità. Questi esseri umani primitivi avranno provato affetto e attaccamento per altri individui ai quali erano legati soprattutto i partner sessuali e la prole, e avranno vissuto il dolore derivante dalla rottura di quei legami, dall'assistere alla sofferenza degli altri, o dal vivere la sofferenza in prima persona. Avranno anche vissuto, da protagonisti e da testimoni, momenti di gioia e di soddisfazione, riscuotendo successi in attività diverse: la caccia, il corteggiamento, la ricerca di un riparo, la guerra, l'allevamento dei bambini.
Presumibilmente questa sistematica scoperta del dramma insito nell'esistenza umana e delle sue possibili compensazioni avvenne solo dopo il completo sviluppo della coscienza: una mente munita di un sé autobiografico capace di guidare il pensiero riflessivo e l'accumulo di conoscenza. Alla fine, date le loro probabili capacità intellettuali, i primi esseri umani si saranno interrogati circa il proprio stato nell'universo: qualcosa di simile alle domande che a distanza di migliaia di anni tormentano anche noi oggi: da dove veniamo ? dove andiamo ? Ed è a quel punto che matura il sé ribelle. È a quel punto che vengono sviluppati i miti per spiegare la condizione umana e i suoi meccanismi; ed è sempre a quel punto che vengono elaborate convenzioni e norme sociali che portano alla nascita di una autentica moralità, la quale si colloca al di sopra di comportamenti premorali come l'altruismo di parentela e l'altruismo reciproco, comportamenti che la natura aveva esibito molto prima che emergesse il sé riflessivo; è a quel punto, infine, che a partire dai miti, e intorno a essi, vengono create narrazioni religiose mirate sia a spiegare le ragioni alla base
del dramma umano, sia a imporre le nuove leggi designate a mitigarlo. In breve, la coscienza riflessiva non solo amplificò la rivelazione sull'esistenza, ma consentì agli individui che ne erano dotati di cominciare a interpretare la propria condizione e ad agire.
Io ipotizzo che il motore alla base di questi sviluppi culturali sia V impulso omeostatico. Le spiegazioni che si fondano esclusivamente sulla significativa espansione cognitiva prodotta da cervelli più grandi e più intelligenti non riescono a giustificare gli straordinari sviluppi della cultura. In una forma o nell'altra, tali sviluppi manifestano lo stesso obiettivo di quell'omeostasi automatica alla quale ho alluso in tutto il libro: rispondono al rilevamento di uno squilibrio nei processi vitali, e cercano di correggerlo rispettando i vincoli della biologia umana e dell'ambiente fisico e sociale. L'elaborazione di norme morali e di leggi, insieme allo sviluppo di sistemi giudiziari, rispose al rilevamento di squilibri causati da comportamenti sociali che mettevano in pericolo gli individui e il gruppo. I dispositivi culturali creati per reagire alle deviazioni dall'equilibrio miravano a ripristinarlo tanto negli individui quanto nel gruppo. Il contributo dei sistemi politici ed economici come pure, per esempio, lo sviluppo della medicina costituì una risposta ai problemi funzionali che si presentavano nello spazio sociale e che richiedevano di essere corretti all'interno di quello spazio, affinché non compromettessero la regolazione dei processi vitali negli individui costituenti il gruppo. Gli squilibri a cui mi sto riferendo sono definiti da parametri sociali e culturali, e pertanto il loro rilevamento ha luogo al livello più alto della mente cosciente, nella stratosfera del cervello, e non a livello sottocorticale. Io chiamo questo processo generale «omeostasi socioculturale ». In termini neurali, l'omeostasi socioculturale comincia a livello corticale sebbene le reazioni emozionali suscitate dallo squilibrio impegnino immediatamente anche i processi dell'omeostasi fondamentale, a testimonianza, ancora una volta, della regolazione ibrida dei processi vitali esercitata dal cervello umano. Essa ha luogo a livello alto, poi basso, poi nuovamente alto, con un andamento oscillatorio che spesso flirta con il caos evitandolo d'un soffio. La riflessione cosciente e la pianificazione dell'azione introducono nel controllo dei processi vitali nuove possibilità, al di sopra dell'omeostasi automatica, in quella che è una straordinaria novità della fisiologia. La riflessione cosciente può anche mettere in discussione e modulare l'omeostasi automatica; può anche decidere di fissare un intervallo omeostatico ottimale a un livello superiore rispetto a quello necessario per la sopravvivenza, e più costantemente favorevole a uno stato di benessere: il benessere immaginato, sognato, anticipato può ora motivare attivamente le azioni umane. L'omeostasi socioculturale fu aggiunta come un nuovo strato funzionale della gestione dei processi vitali; l'omeostasi biologica, comunque, rimase.
Armati di riflessione cosciente, organismi evoluti secondo un modello centrato sulla regolazione dei processi vitali e sulla tendenza verso l'equilibrio omeostatico escogitarono forme di conforto per chi soffriva, ricompense per chi aiutava i sofferenti, imposizioni per coloro che causavano danni, norme di comportamento mirate a impedire il male e a promuovere il bene, e un insieme composito di azioni punitive e preventive, di penalizzazioni ed elogi. Fu allora affrontato il problema di come rendere tutta questa saggezza comprensibile, trasmissibile, persuasiva, realizzabile in una parola, di come farla attecchire , e venne trovata una soluzione nel racconto di storie, qualcosa cui il cervello ricorre in modo spontaneo e implicito. La narrazione implicita ha creato il nostro sé, e non dovrebbe sorprendere che pervada l'intero tessuto delle società e delle culture umane. Né dovrebbe sorprendere che le narrazioni socioculturali abbiano preso a prestito la loro autorità da esseri mitici che si presumeva avessero più potere e conoscenza degli umani: esseri la cui esistenza spiegava ogni genere di spiacevole situazione e che erano in grado di offrire aiuto e modificare il futuro. Nei cieli della Mezzaluna Fertile o nel Valhalla del mito, quegli esseri hanno esercitato una grande fascinazione sulla mente umana.
Individui e gruppi, che grazie al loro cervello erano capaci di inventare queste narrazioni o di usarle per migliorare se stessi e le società in cui vivevano, ebbero abbastanza successo perché le caratteristiche di quel cervello fossero favorite dalla selezione sia a livello individuale, sia di gruppo, e perché la loro frequenza aumentasse a ogni generazione.14
L'idea che esistano due ampie categorie di omeostasi, quella fondamentale e quella socioculturale, non deve essere interpretata come se la seconda fosse una costruzione puramente «culturale» e la prima puramente «biologica»: biologia e cultura sono profondamente interattive. L'omeostasi socioculturale è plasmata dalle operazioni di molte menti i cui cervelli sono stati costruiti in un certo modo sotto la guida di genomi specifici. Abbiamo prove sempre più numerose del fatto che gli sviluppi culturali possono portare profonde modificazioni nel genoma umano. Si tratta di una prospettiva affascinante: per esempio, l'allevamento di animali da latte e la presenza di latte e derivati nella dieta ha portato alla modificazione della costituzione genetica relativamente alla tolleranza al lattosio.15
Io sospetto che alla base dell'emergere delle arti vi sia esattamente lo stesso impulso omeostatico che ha plasmato i miti e le religioni, coadiuvato dalla stessa curiosità intellettuale e dallo stesso impulso a cercare spiegazioni. Se si pensa che Freud considerava le arti come un antidoto per le nevrosi indotte dalla religione, tutto questo può sembrare ironico, ma io non ho nessuna intenzione di fare dell'ironia. Questi due sviluppi poterono effettivamente avere origine dalle stesse premesse. Se l'esigenza di gestire i processi vitali fu inizialmente una delle ragioni per l'emergere della musica, della danza, della pittura e della scultura, in seguito la capacità di migliorare la comunicazione e di organizzare la vita sociale costituirono altre due importanti ragioni, conferendo alle arti ulteriore resistenza.
Chiudiamo gli occhi per un istante, e immaginiamo gli esseri umani di molto, moltissimo tempo fa, forse addirittura prima della comparsa del linguaggio, ma comunque già dotati di mente e coscienza, già armati di emozioni e sentimenti, già consapevoli di che cosa significhi essere tristi o gioiosi, trovarsi in pericolo o comodi e al sicuro, godere per un guadagno o subire una perdita, provare piacere o dolore. E adesso immaginiamo come avranno espresso quegli stati dei quali la loro mente era consapevole. Forse avranno intonato richiami: per segnalare il pericolo o per salutarsi, per radunarsi, per esprimere gioia o il dolore del lutto. Forse avranno mormorato a bocca chiusa, o addirittura cantato, giacché l'apparato di fonazione umano è uno strumento musicale normalmente in dotazione al corpo umano. Oppure, giacché la cassa toracica è un tamburo naturale, immaginiamo un tambureggiamento, come dispositivo per concentrare la mente, o anche come strumento di organizzazione sociale un rullo di tamburo per organizzarsi, un rullo di tamburo per chiamare alle armi. Oppure immaginiamo di soffiare in un flauto primitivo ricavato da un osso: ecco uno strumento di incantesimo, seduzione, consolazione, gioiosa allegria. Non era ancora Mozart, e certo non era Tristano e Isotta, ma la via era stata tracciata. Sogniamo un altro po'.
Quando arti come la musica, la danza e la pittura erano agli esordi, probabilmente gli esseri umani intendevano servirsene per comunicare ad altri informazioni su minacce e opportunità, sulla propria tristezza o la propria gioia e sulla forma da dare al comportamento sociale. Parallelamente alla comunicazione, tuttavia, le arti avranno anche prodotto una compensazione omeostatica. Se non l'avessero fatto, si sarebbero mai affermate? Tutto questo accadeva anche prima di una meravigliosa scoperta: e cioè che quando gli esseri umani riuscivano a pronunciare parole e le univano formando frasi, non tutti i suoni erano uguali. Essi avevano accenti naturali, e gli accenti potevano avere rapporti particolari nel tempo: creare dei ritmi, e certi ritmi avranno generato piacere. A quel punto potè nascere la poesia, e la tecnica potè infine alimentare la prassi della musica e della danza.
L'emergere delle arti fu possibile solo dopo che il cervello ebbe acquisito certe caratteristiche mentali che con ogni probabilità si erano affermate nell'arco di un lungo periodo evolutivo, ancora una volta durante il Pleistocene. Vi sono molti esempi di tali aspetti: fra gli altri, la reazione emotiva di piacere nei confronti di certe forme e di certi pigmenti, presenti in oggetti naturali ma applicabili anche a oggetti fabbricati dall'uomo e utilizzabili per decorare il corpo; la reazione piacevole a certe caratteristiche del suono e a certi tipi di organizzazione dei suoni in rapporto al timbro, al ritmo, come pure alle diverse tonalità e alle loro relazioni; ancora, la reazione emotiva a certi tipi di organizzazione spaziale e ai paesaggi che comprendono panorami aperti e sono in prossimità di acqua e vegetazione.16
Può darsi che l'arte sia iniziata come dispositivo omeostatico a beneficio dell'artista e del ricevente, e anche come mezzo di comunicazione. Alla fine sia da parte dell'artista, sia da parte del pubblico gli usi si fecero alquanto vari. L'arte divenne un mezzo privilegiato per trattare informazione fattuale ed emozionale ritenuta importante per gli individui e la società, una funzione consolidata nelle prime forme di poesia epica, teatro e scultura. L'arte divenne anche un mezzo per indurre emozioni e sentimenti in grado di arricchire chi ne fruiva: qualcosa in cui, nel tempo, la musica ha dimostrato di eccellere. Fatto non meno importante, l'arte divenne un modo per esplorare la propria mente e quella degli altri, un mezzo per provare e riprovare specifici aspetti della vita, e per esercitare il giudizio e l'azione morali. Da ultimo, le arti poiché hanno radici profonde nella biologia e nel corpo degli esseri umani, ma possono anche elevarli alle più alte vette del pensiero e del sentimento divennero un modo per ottenere il perfezionamento omeostatico, perfezionamento che gli esseri umani finirono per idealizzare e che desideravano raggiungere: la controparte biologica di una dimensione spirituale nelle questioni umane.
In breve, le arti si affermarono nell'evoluzione perché avevano un valore in termini di sopravvivenza e contribuivano allo sviluppo del concetto di benessere. Erano utili per cementare i gruppi e per promuovere l'organizzazione sociale; contribuivano alla comunicazione; compensavano gli squilibri causati da emozioni quali la paura, la rabbia, il desiderio e il dolore; e probabilmente, come indicano Chauvet e Lascaux, inaugurarono il lungo processo di affermazione delle registrazioni esterne della vita culturale.
E stato ipotizzato che l'arte sia sopravvissuta perché rendeva gli artisti più attraenti come partner sessuali, assicurando loro un maggior successo; basta pensare a Picasso per sorridere e convenirne. Probabilmente però le arti si sarebbero affermate anche solo sulla base del loro valore terapeutico.
Di fronte alla sofferenza umana, alla felicità mai raggiunta e all'innocenza perduta, le arti erano una compensazione inadeguata; nondimeno, erano e restano una compensazione, un modo per controbilanciare le calamità naturali e il male compiuto dagli esseri umani: esse sono uno dei doni straordinari offertoci dalla coscienza.
E qual è il più grande di quei doni? Forse la capacità di navigare nel futuro, solcando i mari della nostra immaginazione, guidando il vascello del sé in un porto vantaggioso e sicuro. Questo dono più grande di tutti gli altri dipende ancora una volta dall'intersezione tra il se e la memoria. La memoria, temperata dai sentimenti personali, è ciò che consente agli esseri umani non solo di immaginare il benessere sia quello individuale, sia quello collettivo di un'intera società , ma anche di inventare il modo e i mezzi per ottenerlo e amplificarlo. E la memoria che, senza sosta, colloca il sé in un fugace qui e ora, fra un passato vissuto fino in fondo e un futuro anticipato, costantemente schiacciato tra i molti ieri già vissuti e i domani che sono ancora soltanto una mera possibilità. Il futuro, da un orizzonte lontano ed evanescente, ci trascina in avanti, e ci dà la volontà di continuare il nostro viaggio nel presente. Forse era questo che intendeva T.S. Eliot quando scrisse: «Il tempo passato e il tempo futuro / ciò che poteva essere e ciò che è stato / tendono a un solo fine, che è sempre presente ».x