Richard Wilkinson, Kate Pickett

La misura dell’anima

Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici
Feltrinelli, Milano 2010

1.

Ci sono nell’«aria» numerosi indizi del fatto che la stagione della disuguaglianza meritocratica, riproposta dal neoliberismo in una versione pragmatica, non ideologizzata, del darwinismo sociale, è giunta a termine. Tra questi indizi, il più grossolano è la crescente ambivalenza sociale nei confronti dei ricchi, a lungo tenacemente invidiati e ora, almeno per quanto concerne affaristi, banchieri, manager, ecc., investiti dal sospetto proudhoniano di essere ladri dal colletto bianco.

La pervicacia con cui essi hanno perseguito obiettivi le cui conseguenze non potevano non essere deleterie ai fini degli equilibri del sistema capitalistico al quale devono le loro fortune, lascia pensare che, se non la responsabilità oggettiva, la volontarietà dei loro comportamenti debba essere posta in dubbio.

Lo squilibrio sociale, la sempre meno equa distribuzione dei redditi, la disuguaglianza non solo economica ma estesa all’intera esistenza sembrano, ormai, dati strutturali e dinamici intrinseci al sistema capitalistico, che trovano la loro massima espressione negli Stati Uniti.

Le conseguenze dello status sociale sul benessere individuale, sulle relazioni interpersonali e sull’equilibrio della società è stato un tema centrale nelle scienze umane e sociali fino all’avvio del neoliberismo. La scuola di Francoforte ha dato importanti contributi a riguardo, giungendo, con Marcuse e con Fromm, a delineare il malessere profondo della popolazione occidentale, occultato sotto la maschera della normalità adattava.

Del 1958 è il celeberrimo “Social Class and Mental Illness” di A. B. Hollinshead e F. C. Redlich che, con il non meno famoso “Asyle” (1973) di Erwin Goffmann ha fornito al movimento antistituzionale un parametro “scientifico”.

Dagli anni ’80, però, il problema della sociologia del benessere (e del malessere) è stato praticamente accantonato in nome della promessa di uno sviluppo economico illimitato che avrebbe prodotto la felicità universale.

Non sono certo mancate, da allora sino ad oggi, pubblicazioni di un certo interesse [P. Hartwich, Sozialpsychiatry (1982), A. Horwitz, The Social Control of Mental Illness (1982), L. Bowers, The Social Nature of Mental Illness (1998), W. Cockerham W., Sociology of Mental Disorder (2000), ecc]. Esse, però, sono venute ad urtare contro l’egemonia psichiatrica, che ha tagliato la testa al toro squalificando sia la psicologia che la sociologia sulla base della presunta organicità (genetica e biochimica) dei disturbi psichici.

L’ideologia neopsichiatrica assegna, insomma, un valore tale all’ambiente interno (alla struttura e al funzionamento del cervello) da rendere ben poco significativo il rapporto del soggetto con l’ambiente esterno. Essa dà per scontato che, se il cervello funziona bene, la plasticità adattiva di cui è dotato comporta il mantenersi di un equilibrio psicosomatico quali che siano le circostanze ambientali (eccezion fatta per gli eventi catastrofici che possono indurre in chiunque, ma particolarmente nei soggetti più “vulnerabili”, un disturbo post-traumatico).

Nell’ottica neopsichiatrica, dunque, il problema del benessere e del malessere psicosomatico si pone in termini strettamente individuali e adattivi. In questa ottica riduzionistica, il rilievo di un crescente disagio psicologico nell’ambito della società occidentale è stato anche di recente negato attribuendolo ad una maggiore propensione dei soggetti a rivolgersi agli specialisti senza la vergogna sociale che in passato inibiva la richiesta di aiuto.

In rapporto a questa riduzione ideologica del disagio psichico ad una somma di occorrenze individuali, La misura dell’anima si pone, forse involontariamente, come un saggio “antipsichiatrico” e innovativo.

Per un verso, infatti, esso estende il discorso sulle influenza delle condizioni sociali a tutti i comportamenti che attestano uno stato di malessere psicologico (dai disturbi mentali in senso proprio all’uso di droghe, all’obesità, al rendimento scolastico, alle gravidanze precoci, alla microcriminalità). In secondo luogo, cerca di sormontare lo stereotipo di una relazione diretta tra quei comportamenti e la povertà, avanzando l’ipotesi che più che al solo reddito, essi siano da ricondurre alla forbice tra i redditi all’interno di una determinata società, vale a dire ad una disuguaglianza sociale percepita, da chi sta più in basso nella scala sociale, come squalificante, vergognosa e destabilizzante per quanto concerne l’identità personale.

La disuguaglianza, però, - ed è questa un’ulteriore prospettiva innovativa - non incide solo sui meno abbienti, ma anche su quelli abbienti, attanagliati dall’aspirazione ad andare sempre più in alto (in termini di ricchezza materiale) e, al tempo stesso, dalla paura di perdere terreno.

Senza alcuna enfasi, penso sia giusto rilevare che, fin dai primi anni Ottanta, nei miei scritti c’è il riferimento al carattere risucchiante verso l’alto di un Ideale dell’Io totalmente incentrato sull’avere, al di sotto del quale ho ipotizzato l’esistenza di una drammatica fobia della “debolezza”, intesa come miseria, inadeguatezza, frustrazione, scarso potere sociale, ecc. Nelle prime pagine di Star Male di Testa ho sottolineato, in riferimento alla nostra società, il paradosso di una straordinaria ricchezza tecnologica associata ad un’inquietante miseria antropologica, posta in luce dalla crescita continua del disagio psichico.

Si trattava di intuizioni e conclusioni tratte dalla pratica psicoterapeutica, oltre che da un’assidua riflessione sullo stato di cose nel mondo, che non sono mai stato in grado di documentare.

Il saggio di Wilkinson e Pickett, invece, offre a riguardo una documentazione impressionante.

Il tema su cui si avvia il saggio è, infatti, proprio il paradosso con cui nel corso degli ultimi venti anni si sono confrontati tutti gli studiosi di fatti umani che non hanno rinunciato a pensare criticamente:

“Nelle società moderne si osserva uno straordinario paradosso: pur avendo raggiunto l'apice del progresso tecnico e materiale dell'umanità, siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all'abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti.

Com'è possibile che abbiamo creato tanta sofferenza mentale ed emotiva, nonostante livelli di ricchezza e di agio che non hanno precedenti nella storia umana?” (p. 17)

Il saggio si propone di dare risposta a questo paradosso, e aggancia la risposta ad una nuova prospettiva politica:

“Il contrasto tra successo materiale e insuccesso sociale in molti paesi ricchi è un segnale importante; esso ci indica che, per innalzare ulteriormente la vera qualità della vita, occorre spostare l'attenzione dal tenore di vita materiale e dalla crescita economica alla maniera di migliorare il benessere psicologico e sociale di intere collettività. Ma non appena si accenna alla psicologia, la discussione tende a concentrarsi quasi esclusivamente sui trattamenti e i rimedi individuali, e il pensiero politico sembra arenarsi.

Oggi possiamo comporre un nuovo quadro organico e coerente dei possibili rimedi per liberare la società dalla morsa di tanti comportamenti disfunzionali. Una chiara comprensione delle dinamiche in atto permetterebbe di trasformare la politica e la qualità della vita di noi tutti; cambierebbe la nostra esperienza del mondo che ci circonda, i temi su cui votiamo e i provvedimenti che pretendiamo dai nostri rappresentanti politici.

Nelle pagine che seguono dimostreremo che la qualità delle relazioni sociali all'interno della collettività poggia su basi materiali. Il grado di sperequazione dei redditi ha un effetto determinante sul modo in cui ci rapportiamo gli uni agli altri. Invece di attribuire la responsabilità di tutto ai genitori, alla religione, ai valori, alla scuola o al sistema penale, mostreremo che agendo sulla diseguaglianza è possibile migliorare il benessere psicologico di tutti noi.” (pp. 18-19)

Anticipo che se l’impostazione analitica del saggio, dunque i primi fin troppo densi 12 capitoli, mi convince senza remore, le conclusioni politiche che gli autori ne ricavano mi lasciano un po’ scettico. Per correttezza nei confronti del lettore, è giusto dar conto prima delle analisi svolte nel saggio, riservando i commenti alla fine.

2.

E’ un dato di fatto: la promessa del benessere illimitato perseguibile attraverso la crescita della ricchezza è finita in un vicolo cieco. Scrivono gli autori:

“I dati […] mostrano come la crescita economica abbia quasi esaurito i suoi effetti benefici per le nostre società. Per migliaia di anni, il modo più efficace per migliorare la qualità della vita umana è stato quello di innalzare il tenore della vita materiale. Quando c'era appena di che sfamarsi, gli anni buoni erano quelli dell'abbondanza. Ma per la maggior parte degli abitanti dei paesi agiati, le difficoltà della vita ormai non consistono più nel procacciarsi il cibo, cercare acqua potabile e mantenersi al caldo. Molti di noi, al giorno d'oggi, vorrebbero poter mangiare di meno anziché di più, e, per la prima volta nella storia, nei paesi dell'Occidente i poveri sono (in media) più grassi dei ricchi. La crescita economica, a lungo il grande motore del progresso, nei paesi benestanti ha terminato in larga parte il suo lavoro. Gli indicatori del benessere e della felicità non crescono più di pari passo con il reddito nazionale; anzi, all'aumentare della ricchezza materiale, le società opulente hanno visto aumentare l'incidenza di ansia, depressione e numerosi altri problemi sociali. Le popolazioni dei paesi sviluppati sono giunte al termine di un lungo percorso storico.” (pp.19-20)

“Man mano che i paesi si fanno più ricchi, ulteriori miglioramenti del tenore di vita medio hanno un'influenza sempre minore sulle condizioni di salute.” (p. 20)

“Per quanto salute e longevità siano importanti, la qualità della vita dipende anche da altri fattori. Ma come già osservato per la salute, anche la relazione tra felicità e crescita economica si affievolisce all'aumentare del reddito. In altre parole, il grado di felicità individuale tende ad aumentare nelle fasi iniziali dello sviluppo economico, per poi stabilizzarsi progressivamente.” (pp. 20-21)

“Quanto più ricco un paese diventa, tanto meno l’ulteriorre arricchimento contribuisce ad accrescere la felicità della popolazione.” (p. 22)

“Che si guardi alla salute, alla felicità o ad altre misure del benessere, si scorge un quadro coerente. Nei paesi poveri, lo sviluppo economico continua a essere molto importante per la prosperità individuale: l'aumento del tenore di vita materiale si traduce in un sensibile miglioramento tanto delle misure oggettive del benessere, come la speranza di vita, quanto di quelle soggettive, come la felicità. Ma appena una nazione viene ammessa nei ranghi dei paesi economicamente sviluppati, ulteriori aumenti di reddito si fanno via via più ininfluenti.

Questo andamento è prevedibile: man mano che si ottiene una quantità sempre maggiore di qualcosa, ciascuna unità addizionale - che si tratti di pagnotte o di automobili - contribuisce sempre meno al benessere individuale. Quando si ha fame, una pagnotta non ha prezzo; ma non appena l'appetito viene placato, molte altre pagnotte non sono di alcun aiuto e possono addirittura essere di intralcio, poiché diventano stantie.

Presto o tardi, nella lunga storia della crescita economica, i paesi raggiungono inevitabilmente un livello di opulenza tale da innescare "rendimenti decrescenti"; superata questa soglia, le nuove unità di reddito acquistano quantità addizionali sempre minori di salute, felicità o benessere. Molti paesi sviluppati hanno visto aumentare il proprio reddito medio quasi ininterrottamente per più di centocinquant'anni, e la ricchezza che si va accumulando non ha più gli effetti benefici di un tempo.” (pp. 23-24)

Dai rendimenti decrescenti si potrebbe pervenire alla conclusione che la società del benessere abbia raggiunto una fase stazionaria. Una crescita ulteriore della ricchezza non potrà tradursi in un aumento del benessere, ma essa dovrebbe concorrere teoricamente a mantenere il benessere già raggiunto.

Le cose invece non stanno così. Le disuguaglianze prodotte dal sistema capitalistico sembrano inibire la capacità degli esseri umani di godere di un tenore di vita mediamente agiato e produrre effetti negativi, “patogeni”:

“È noto da anni che i problemi di salute e la violenza sono più diffusi nelle società caratterizzate da maggiori disparità socioeconomiche. A ben guardare, nel corso della nostra ricerca abbiamo scoperto che quasi tutti i mali che affliggono le fasce sociali più povere si riscontrano più comunemente nelle società meno inclini all'uguaglianza: non soltanto la salute precaria e la violenza, ma anche - come mostreremo nei prossimi capitoli numerosi altri problemi sociali. Per questo motivo, è opinione diffusa che le società moderne, a dispetto della loro opulenza, siano in realtà un insuccesso sul piano sociale.” (p. 30)

I problemi sui quali gli autori hanno puntato la loro ricerca, raccogliendo dati internazionali comparabili sulla salute e su tutte le piaghe sociali di cui vi fossero statistiche attendibili, sono molteplici L'elenco definitivo include:

“ grado di fiducia;

• disagio mentale (inclusa la dipendenza dall'alcol e dalle droghe);

• speranza di vita e mortalità infantile;

• obesità;

• rendimento scolastico dei bambini;

• gravidanze in adolescenza;

• omicidi;

• tassi di incarcerazione;

mobilità sociale (non disponibile per gli stati degli Usa).” (pp. 30-31)

Nel loro complesso, l’analisi dei dati porta ad una conclusione univoca, che postula a sua volta una interpretazione (dato che essa si presta ad un equivoco). La conclusione, che fa riferimento ai seguenti grafici


è questa:

“I problemi sanitari e sociali tendono a verificarsi con minore frequenza nei paesi più inclini all'uguaglianza. All'aumentare della sperequazione dei redditi […], aumenta anche il valore dell'indice aggregato, evidenziando come questi problemi siano senz'altro più frequenti nei paesi con maggiori disparità economiche. Le due variabili sono fortemente correlate tra loro (p. 31-32)

L’interpretazione è la seguente:

“Per spiegare perché le persone nelle fasce sociali più povere sono afflitte da maggiori problemi sanitari e sociali si ricorre generalmente a due ipotesi: o tali problemi sono determinati dalle condizioni in cui queste persone vivono, oppure queste persone sono particolarmente esposte a problemi che le fanno precipitare negli strati sociali più bassi. I dati che abbiamo presentato in questo capitolo gettano nuova luce su questo argomento.

Consideriamo dapprima il punto di vista di quanti sostengono che la società sia un grande sistema di selezione naturale, con gli individui che salgono o scendono la scala sociale a seconda delle proprie caratteristiche e vulnerabilità personali. È vero che le cattive condizioni di salute, il rendimento scolastico insoddisfacente o una gravidanza indesiderata in giovane età riducono le probabilità di farsi strada nella vita; ma la selezione naturale non spiega perché questi problemi tendono a essere più frequenti nelle società contraddistinte da maggiore diseguaglianza. La mobilità sociale spiega in parte perché alcuni problemi si riscontrano principalmente negli strati sociali più bassi, ma non le ragioni per cui le società con una maggiore sperequazione dei redditi presentano anche maggiori problemi sanitari e sociali.

L'idea che i problemi sociali siano direttamente provocati da condizioni materiali precarie, come un'abitazione fatiscente, una dieta inadeguata, scarse opportunità di istruzione e così via, implica che nelle società sviluppate più ricche dovrebbero vigere condizioni migliori che in altre. Ma non c'è nulla di più lontano dal vero: in alcuni dei paesi più opulenti si riscontrano in realtà le condizioni peggiori.

Desta interesse che le misure dei problemi sanitari e sociali nel contesto internazionale e statunitense, e gli indicatori del benessere infantile nei paesi ricchi, puntino tutti essenzialmente nella medesima direzione. I problemi nelle società benestanti non sono causati da un livello di ricchezza troppo basso (o magari troppo alto), bensì da disparità troppo pronunciate dei tenori di vita materiali dei membri della società. Ciò che conta è la posizione relativa dell'individuo rispetto ad altri nella società in cui vive.” (pp. 36-37)

3.

Prima di analizzare “la relazione tra la sperequazione dei redditi e numerose piaghe che affliggono la società - tra cui i problemi sanitari e sociali su cui è basato il nostro indice aggregato” (p.44), Wilkinson e Pickett cercano di “suggerire i motivi per cui gli esseri umani possono essere così sensibili alla diseguaglianza” (p. 44), sulla base di un’impostazione psicosociologica che è difficile non condividere:

“Le disparità economiche non sono che un aspetto della più ampia struttura della società, quindi per spiegare gli effetti di tali disparità bisogna esaminare l'influenza della struttura sociale sulle persone che ne fanno parte. Sono gli individui - e non le società - a soffrire di problemi di salute, a tenere comportamenti violenti o a diventare genitori in giovanissima età. Benché la distribuzione del reddito non sia un attributo del singolo individuo, ciascuna persona ha un reddito, uno status o una posizione di classe che si misurano in relazione a tutti gli altri membri della società…

Per comprendere i motivi per cui siamo vulnerabili alla diseguaglianza occorre analizzare alcune caratteristiche psicologiche comuni a tutti gli individui. Quando affrontiamo questo tema, molto spesso sorgono dei malintesi. Non intendiamo suggerire che i problemi sociali siano ascrivibili alla psicologia del singolo, né che si debba intervenire sulla sensibilità individuale invece che sul grado di sperequazione dei redditi. La soluzione ai problemi causati dalla diseguaglianza non è una psicoterapia di massa che renda tutti meno vulnerabili; la maniera migliore di contrastare i danni provocati da un alto grado di diseguaglianza e quella di attenuare le disparità economiche. Il quadro che presentiamo non implica che si debbano diluire ansiolitici nella rete idrica né che ci dobbiamo stendere tutti sul lettino dell'analista; il dato entusiasmante che emerge dalla nostra analisi è che, riducendo la diseguaglianza, è possibile accrescere il benessere e la qualità della vita di tutti noi. Il senso di deterioramento del benessere sociale e della qualità delle relazioni sociali non è né inevitabile né inarrestabile, semmai è reversibile. Comprendendo gli effetti della diseguaglianza, disporremo all'improvviso di una leva politica su cui agire per migliorare la qualità della vita di intere società.

I potenti meccanismi che rendono gli individui sensibili alle disparità economiche non possono essere ricondotti unicamente alla struttura sociale o, in alternativa, alla psicologia individuale, poiché la prima e la seconda sono collegate tra loro come chiave e serratura. Se in passato gli effetti della diseguaglianza non erano adeguatamente compresi è perché non si era analizzata a fondo la relazione tra psicologia individuale e struttura sociale.” (p. 44-45)

I motivi presi in considerazione sono molteplici, ma si riconducono univocamente, secondo gli autori, allo stress legato ad una perpetua valutazione sociale cui sarebbero esposti i soggetti nelle società dotate di mobilità sociale, che comportano inesorabilmente il riferimento ad uno status più o meno elevato (o più o meno mediocre). Essi scrivono:

“Lo psicoanalista Alfred Adler una volta affermò: "Essere umani significa sentirsi inferiori". Forse avrebbe dovuto dire: "Essere umani significa essere molto sensibili alla possibilità di venire considerati inferiori". Data la nostra propensione a tali sentimenti, è facile comprendere gli effetti contrastanti di uno status sociale alto o basso sulla sicurezza di sé. Il modo in cui veniamo giudicati dagli altri è importante. Naturalmente, è perfettamente possibile che una persona di classe alta si senta del tutto inadeguata, o che un individuo di classe bassa abbia piena fiducia in se stesso; in generale, però, quanto più ci si trova in alto nella scala sociale, tanto più le circostanze esterne aiutano a tenere a bada le insicurezze. Se, come spesso accade, la gerarchia sociale viene equiparata a una classifica degli esseri umani secondo le loro abilità, allora gli indicatori esteriori di successo o insuccesso (lavoro migliore, reddito più alto, istruzione, abitazioni, automobili e abbigliamento) assumono tutti una grande rilevanza.

È difficile ignorare lo status sociale, perché è una misura piuttosto accurata dei meriti personali e del valore attribuito all'individuo dalla società. Prosperare o avere successo è quasi sinonimo di avanzare lungo la scala sociale. Una persona che gode di uno status sociale più alto viene quasi sempre considerata migliore, superiore, più fortunata e più abile. Per non sentirsi insignificanti, incapaci, disprezzati o inferiori non occorre necessariamente conquistare uno status sociale elevato; ma quanto più in alto ci si trova nella scala sociale, tanto più è facile provare un sentimento di orgoglio, dignità e fiducia in se stessi. Che si parli di salute, istruzione, occupazione, luogo di residenza, vacanze o altri indicatori di successo, i confronti sociali mostrano l'individuo di classe alta in una luce positiva...

Thomas Scheff, professore emerito di sociologia alla University of California, Santa Barbara, una volta disse che la vergogna è l'emozione sociale per eccellenza... Per "vergogna" Scheff intendeva quel complesso di emozioni associate al sentirsi sciocchi, stupidi, ridicoli, inadeguati, deficienti, incompetenti, impacciati, esposti, vulnerabili e insicuri. La vergogna e il suo opposto, l'orgoglio, sono radicati nei processi tramite i quali interiorizziamo il modo in cui immaginiamo che gli altri ci vedano. Scheff definì la vergogna l'emozione sociale per eccellenza perché, nel percepire noi stessi come se ci vedessimo attraverso gli occhi degli altri, i sentimenti di orgoglio e vergogna ci danno una misura della nostra valutazione sociale. L'orgoglio è il piacere e la vergogna è il dolore tramite i quali si compie la nostra socializzazione, in virtù della quale, fin dalla più tenera età, impariamo a comportarci in modo socialmente accettabile. Questo processo di socializzazione non si conclude con l'infanzia: la sensibilità alla vergogna costituisce una spinta al conformismo per tutta la vita adulta.” (pp.52-53)

“II bisogno di sentirci esseri umani apprezzati e capaci ci spinge a desiderare ardentemente un feedback positivo e spesso a reagire con rabbia anche alle critiche più velate. Lo status sociale è portatore di forti contenuti di superiorità e inferiorità, e la mobilità sociale viene considerata un processo che classifica gli individui in base alle loro abilità. In effetti, nelle candidature di lavoro e negli avanzamenti di carriera, dove la discriminazione in base al sesso, all'etnia o alla religione è proibita, è compito del personale preposto ai colloqui discriminare gli individui esclusivamente in base all'abilità, senza lasciarsi condizionare dal genere, dal colore della pelle e così via.

Una diseguaglianza pronunciata sembra acuire le ansie da valutazione sociale, accrescendo l'importanza dello status. Anziché accettarci reciprocamente come uguali in quanto accomunati dalla nostra natura di esseri umani, come potrebbe accadere in un ambiente fondato sull'uguaglianza, via via che le differenze di status aumentano diventa sempre più importante misurarsi a vicenda. La posizione sociale finisce per essere considerata una caratteristica molto importante dell'identità di una persona; nei rapporti tra estranei questo può essere persino l'aspetto dominante. Come scrisse Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense vissuto nel Diciannovesimo secolo, "E certissimo che ciascun uomo porta nel suo occhio l'esatta indicazione del suo rango nell'immensa scala degli uomini, e stiamo ognora imparando a leggerla" [19, p. 164]. A riprova di ciò, gli esperimenti suggeriscono che abbiamo la tendenza a formulare giudizi sullo status sociale dei nostri interlocutori appena pochi secondi dopo il primo incontro [20]. Non c'è da stupirsi che le prime impressioni contino, e che la valutazione sociale sia motivo di ansia!

Se le disparità economiche sono molto pronunciate, al punto che alcuni individui sembrano rivestire la massima importanza e altri essere del tutto ìnsìgnificantì, il posto occupato nella scala sociale diventa molto rilevante. Un'alta diseguaglianza tende a essere accompagnata da una più intensa concorrenza per lo status e da maggiori ansie da valutazione sociale.” (pp. 55-56)

4.

I capitoli 4-11 sono dedicati ad analizzare gli effetti della disuguaglianza sulla fiducia sociale, sulla salute mentale, sull’uso delle droghe, sulla salute fisica, sul rendimento scolastico, sulla sessualità e sullo stile di vita giovanile, sulla violenza, sul controllo sociale e sulle opportunità offerte ad ogni individuo nelle diverse società. Tutti i capitoli hanno un grande interesse, tutti comprovano in maniera documentata la relazione causale tra la disuguaglianza e i problemi sociali presi in considerazione.

Nell’ottica di questa recensione, il capitolo sulla salute mentale è indubbiamente il più significativo. Lo riporto pertanto integralmente:

“Salute mentale

Disagio mentale nel Regno Unito e negli Stati Uniti

Oggi la salute mentale dei bambini campeggia sulle prime pagine dei giornali, per esempio il britannico "Daily Mail", che in un titolo a tutta pagina ha parlato de "LA GENERAZIONE DISTURBATA". Si stima che nel Regno Unito un milione di bambini ‑ uno su dieci nel gruppo di età che va dai cinque ai sedici anni ‑ soffra di qualche disturbo mentale. Si pensa che nelle scuole secondarie, su mille studenti, cinquanta siano gravemente depressi, cento siano angosciati, tra dieci e venti soffrano di disturbi ossessivo‑compulsivi e tra cinque e dieci ragazze siano affette da disturbi dell'alimentazione [40]. Questi dati trovano riscontro in una relazione della Good Childhood Inquiry, un'indagine indipendente commissionata dalla Children's Society. Dopo aver intervistato migliaia di bambini, i ricercatori hanno riferito che i minori affetti da problemi di salute mentale sono in continuo aumento e che più di un quarto dei bambini si sente regolarmente depresso, soprattutto in conseguenza della disgregazione della famiglia e delle pressioni dei coetanei.

Negli Stati Uniti, al 6 per cento dei bambini è stata diagnosticata la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, un disturbo del comportamento caratterizzato da gravi forme di distraibilità, impulsività e irrequietezza. In un'indagine nazionale, quasi il 10 per cento dei minori di età compresa fra i tre e i diciassette anni presentava difficoltà gravi o moderate "nell'area delle emozioni, della concentrazione, del comportamento o dei rapporti con gli altri".

E come stanno gli adulti in queste due società? Nel Regno Unito, secondo uno studio nazionale risalente al 2000, il 23 per cento degli adulti soffriva di nevrosi, psicosi, alcolismo o tossicodipendenza, e il 4 per cento era affetto da più di un disturbo. Nel 2005, nella sola Inghilterra, i medici hanno rilasciato oltre 29 milioni di prescrizioni di antidepressivi, per un costo complessivo di oltre 400 milioni di sterline per il servizio sanitario nazionale. Negli Stati Uniti, nell'ultimo anno, un adulto su quattro ha sofferto di disturbi mentali, con episodi gravi in un quarto dei casi; più della metà degli adulti nel corso della propria vita viene colpito da turbe psichiche [46]. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso 100 miliardi di dollari per curare i disturbi mentali.

Benessere mentale

Prima di mettere a confronto l'incidenza delle malattie mentali in altre società, chiediamoci: cos'è una mente sana?

Mind, l'associazione nazionale per la salute mentale del Regno Unito, pubblica un opuscolo intitolato How to Improve Your Mental Well‑being (Come migliorare la propria salute mentale), che inizia con la seguente premessa:

Una buona salute mentale non la si possiede, la si pratica. Per avereuna mente sana, bisogna apprezzare e accettare se stessi.

Nell'opuscolo si afferma che gli individui con una buona salute mentale sono capaci di badare a se stessi, si considerano persone importanti e si giudicano secondo standard ragionevoli anziché irrealistici. Le persone che non hanno un'alta opinione di sé, invece, temono di essere respinte, si tengono a distanza dagli altri e rimangono intrappolate in un circolo vizioso di solitudine.

È importante anche notare che nelle persone affette da disturbi mentali si osserva talvolta un'alterazione dei livelli di certe sostanze chimiche presenti nel cervello; tuttavia, nessuno ha ancora dimostrato che queste alterazioni siano causa di depressione, o cambiamenti provocati dalla depressione stessa. Analogamente, sebbene alcune malattie mentali siano ascrivibili a una vulnerabilità genetica, questo dato in sé non spiega l'aumento spropositato dei disturbi mentali negli ultimi decenni: i nostri geni non possono cambiare così rapidamente.

Mele e arance?

Confrontare i livelli di salute mentale in diversi paesi può essere difficile. Nelle diverse culture i disturbi psichici vengono spesso chiamati in modo differente, gli standard di normalità possono variare notevolmente e il diverso può essere tollerato in misura maggiore o minore; gli individui possono essere più o meno riluttanti ad ammettere di avere problemi emotivi, di far uso di droghe o di soffrire di disturbi considerati infamanti.

Per tutti questi motivi, non sempre è stato facile ottenere misure comparabili dell'incidenza delle malattie mentali in diversi paesi. Il compito si è fatto più agevole negli anni ottanta, quando i ricercatori hanno sviluppato questionari diagnostici, cioè set di domande che possono essere poste da personale non specializzato e permettono agli studiosi di misurare su grande scala il numero di individui che soddisfano i criteri diagnostici di diversi disturbi psichici.

Nel 1998 l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha istituito il World Mental Health Survey Consortium alfine di stimare il numero di individui affetti da disturbi mentali in diversi paesi, di valutare la gravità delle loro condizioni e di individuare i modelli di trattamento. Per quanto i metodi dell'Oms non escludono che individui di diverse culture possano interpretare e rispondere a tali domande in modo differente, per lo meno gli stessi quesiti vengono posti ovunque nello stesso modo. Le indagini dell'Oms sono state condotte in nove paesi presenti nel nostro campione di nazioni economicamente avanzate: Belgio, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Spagna e Stati Uniti . Benché non perfettamente comparabili, alcune inchieste nazionali molto simili forniscono una stima della percentuale della popolazione adulta affetta da turbe psichiche in altri tre paesi: Australia, Canada e Regno Unito.

Sperequazione dei redditi e disturbi mentali

Utilizzando i dati di queste indagini, la figura 5.1 illustra la relazione che, nei paesi ricchi, intercorre tra la diseguaglianza dei redditi e la percentuale della popolazione adulta che ha sofferto di disturbi mentali nei dodici mesi antecedenti l'intervista.

 

Si tratta di una relazione molto forte: nei paesi caratterizzati da una maggiore sperequazione dei redditi, la percentuale della popolazione che convive con malattie mentali è molto alta. Una relazione così netta non può essere dovuta unicamente al caso: infatti, i paesi sono quasi perfettamente allineati lungo la retta di regressione, con l'unica eccezione dell'Italia che ha un'incidenza di disturbi mentali più bassa di quanto ci si aspetterebbe sulla base del grado di diseguaglianza dei redditi.

[…] Le percentuali di individui affetti da turbe psichiche differiscono notevolmente da un paese dall'altro (dall'8 al 26 per cento). In Germania, Italia, Giappone e Spagna meno di una persona su dieci soffriva di disturbi mentali nei dodici mesi precedenti l'indagine; in Australia, Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito l'incidenza dei disturbi mentali è superiore a uno su cinque, e negli Stati Uniti, come abbiamo già detto, a uno su quattro. Nel complesso, pare che i diversi livelli di diseguaglianza diano luogo a differenze più che triple nella percentuale di individui affetti da turbe psichiche nei diversi paesi.

Nel caso dei nove paesi in cui sono state condotte le indagini dell'Oms, possiamo esaminare anche i diversi tipi di malattia mentale, e più precisamente gli stati ansiosi, i disturbi dell'umore, le turbe legate al controllo dell'impulsività e le dipendenze, nonché i casi di malattie mentali molto gravi. Gli stati ansiosi, i disturbi legati al controllo dell'impulsività e le turbe psichiche gravi sono tutti fortemente correlati alla diseguaglianza, mentre i disordini dell'umore lo sono in misura minore. Come descritto nel capitolo 3, negli ultimi decenni i paesi sviluppati hanno visto aumentare progressivamente l'incidenza dell'ansia. Gli stati ansiosi rappresentano la più grande categoria di disturbi mentali in tutti i paesi del nostro campione; a ben guardare, la percentuale degli stati ansiosi sul totale dei disturbi psichici è significativamente più alta nei paesi affetti da maggiori disparità economiche. Sfortunatamente, non vi sono fonti internazionali di dati comparabili sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti...

Aggrappati alla scala

Perché, dunque, nei paesi affetti da maggiori disparità economiche l'incidenza dei disturbi mentali è più alta? Lo psicologo e giornalista Oliver James ha spiegato la relazione tra i due fenomeni con la metafora delle malattie infettive. Secondo James, il virus dell'"affluenza" ‑ un "insieme di valori che accrescono la nostra vulnerabilità ai disturbi emotivi" [54, p. 7] ‑ è molto più diffuso nelle società benestanti, dove si attribuisce una grande importanza all'accumulazione di denaro e beni materiali, al trasmettere una buona immagine di sé agli altri e al diventare famosi. Questi valori, strettamente correlati a quelli che abbiamo discusso nel capitolo 3, ci espongono a un più alto rischio di depressione, ansia, consumo di sostanze tossiche e disturbi della personalità. In un altro libro recente sullo stesso argomento, il filosofo Alain de Botton definisce l’«ansia da status" un "timore talora così assillante da compromettere intere fasi esistenziali". Se non riusciamo a mantenere la nostra posizione nella scala sociale, siamo condannati "da un lato, a considerare con acredine quanti hanno successo, dall'altro, a vergognarci di noi stessi" [55, pp. 5‑6].

Il medesimo fenomeno è stato esaminato dall'economista Robert Frank, che ha parlato di "febbre del lusso" [56]. Al crescere delle disparità dei redditi, i super‑ricchi spendono sempre di più nell'acquisto di beni voluttuari; il desiderio di possedere questi oggetti si trasmette a cascata lungo la scala del reddito, con il risultato che tutti gli altri sono costretti a competere per restare al passo. I pubblicitari fanno leva su queste dinamiche, rendendoci insoddisfatti di ciò che abbiamo e favorendo paragoni basati sull'invidia sociale. Un altro economista, Richard Layard, ha parlato di una vera e propria "dipendenza dal reddito": quanto più possediamo, tanto più pensiamo di aver bisogno di possedere e tanto più tempo dedichiamo al perseguimento della ricchezza e dei possedimenti materiali, a spese della vita familiare, delle relazioni e della qualità della vita.

Data l'importanza delle relazioni sociali per la salute mentale, non stupiamoci se le società con bassi livelli di fiducia e una vita di comunità debole sono anche quelle con una maggiore incidenza di disturbi psichici.” (pp. 75-81)

5.

Tra le numerose tabelle che corredano il saggio, la 2.2 e la 5.1, che ho entrambe riportato, sono le più significative, anche perché in tutte le altre, riferite alla salute fisica, all’obesità, al rendimento scolastico, alla violenza, ecc., la nuvola di punti sembra seguire un andamento analogo.

Ciò giustifica la conclusione con cui si avvia la terza parte del libro, che è identica a quella esposta nel primo capitolo, ma confortata da dati poco o punto oppugnabili:

“Nei paesi ricchi del mondo sviluppato e nei cinquanta stati degli Usa i principali problemi sanitari e sociali delle nazioni benestanti tendono a essere più diffusi nelle società affette da maggiori diseguaglianze. In entrambi i contesti le relazioni sono talmente forti da non poter essere attribuite semplicemente al caso; la loro rilevanza non può essere sottovalutata. In primo luogo, tra i paesi e gli stati degli Usa esaminati esistono differenze molto ampie: nelle realtà caratterizzate da maggiori disparità economiche, l'incidenza dei problemi sanitari e sociali è da tre a dieci volte più alta. In secondo luogo, non si tratta di differenze tra i gruppi ad alto e basso rischio all'interno della popolazione, le quali riguardano perciò soltanto una minoranza della popolazione stessa, oppure soltanto i poveri; si tratta invece di differenze nell'incidenza di problemi sociali che riguardano l'intera popolazione.” (p. 177)

Su questa base, sembra lecito qualificare i diversi paesi in termini di funzionalità o disfunzionalità antropologica. Il bilancio viene operato nei seguenti termini:

“Una tendenza che emerge chiaramente dai capitoli 4-12 è quella che vede alcuni paesi ottenere buoni risultati in quasi tutti i campi, mentre altri si distinguono per gli esiti negativi. E’ possibile prevedere la performance di un paese in un determinato campo conoscendo i risultati ottenuti in tutti gli altri. Per esempio, se un paese presenta un'alta incidenza di malattie, si può prevedere con una certa sicurezza che avrà anche tassi di incarcerazione più alti, un maggior numero di gravidanze adolescenziali, minori livelli di alfabetizzazione, maggiore obesità, una maggiore incidenza di disturbi mentali e così via. La diseguaglianza sembra essere causa di disfunzioni sociali in numerosi ambiti.

A livello internazionale, all'estremo "sano" della distribuzione pare che si trovino sempre i paesi scandinavi e il Giappone. All'estremo opposto, gravati da una forte incidenza dei principali problemi sanitari e sociali, si collocano solitamente gli Stati Uniti, il Portogallo e il Regno Unito. Un andamento simile emerge dall'esame dei cinquanta stati degli Usa: New Hampshire, Minnesota, North Dakota e Vermont tendono a ottenere risultati positivi in tutti i campi, mentre tra gli stati meno virtuosi si annoverano Mississippi, Louisiana e Alabama.

I nostri risultati sono riassunti nella figura 13.1, che è una copia esatta della figura 2.2 e mostra ancora una volta la relazione tra la sperequazione dei redditi e il nostro indice aggregato dei problemi sanitari e sociali. Come si può notare, tale relazione non è dipendente da un particolare gruppo di paesi, per esempio quelli che si trovano a un estremo o all'altro della distribuzione; appare invece piuttosto robusta nell'intervallo dei livelli di diseguaglianza riscontrati nelle democrazie di mercato sviluppate. Dalle analisi relative ai cinquanta stati degli Usa emergono talvolta relazioni meno robuste; tuttavia, nei raffronti internazionali gli Stati Uniti si collocano proprio nel punto in cui dovrebbero trovarsi in conseguenza delle disparità economiche presenti alloro interno.” (pp. 177-178)

Con encomiabile correttezza metodologica, Wilkinson e Pickett si pongono il problema se i dati da essi rilevati possano essere interpretati facendo riferimento ad altri fattori non riconducibili alla disuguaglianza. Essi scrivono::

“È evidente che c'è qualche fattore che rende le società più o meno vulnerabili da una molteplicità di problemi sanitari e sociali; ma come possiamo essere sicuri che si tratti proprio della diseguaglianza? Prima di discutere se siano le disparità economiche a causare tali problemi, esaminiamo eventuali spiegazioni alternative.

Di tanto in tanto qualcuno suggerisce che siano soprattutto i paesi anglofoni a conseguire i peggiori risultati, ma questo non, spiega gran parte dell'evidenza che abbiamo esaminato. Consideriamo, per esempio, i disturbi mentali: tra i paesi per i quali disponiamo di dati comparabili, le statistiche più negative si riscontrano proprio nelle nazioni di lingua inglese. Come già visto; nel capitolo 5, il paese con la maggiore incidenza di turbe psichiche sono gli Stati Uniti, seguiti da Australia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada; ma anche in questo piccolo gruppo si rileva una forte correlazione tra la prevalenza dei disturbi mentali e la diseguaglianza. Ne consegue, allora, che quest'ultima spiega sia i cattivi risultati dei paesi anglofoni nel loro insieme, sia i risultati relativi di ciascun paese all'interno del gruppo.

Inoltre, non sono soltanto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, due paesi che hanno molto in comune, a detenere il record negativo nella maggior parte dei casi esaminati; anche il Portogallo presenta una grave incidenza di molti problemi sanitari e sociali. I suoi risultati negativi sono coerenti con l'alto grado di diseguaglianza presente al suo interno; tuttavia, fatta eccezione per questo aspetto, Portogallo e Stati Uniti non potrebbero essere più diversi fra loro.

All'estremo opposto della distribuzione, è vero che i risultati migliori si riscontrano per lo più nella regione scandinava, ma il paese che brilla su tutti è il Giappone, il quale, per altri aspetti, è quanto di più diverso ci possa essere dalla Svezia, seconda classificata in fatto di performance. Si pensi semplicemente alle strutture familiari e alla posizione della donna nei due paesi: i modelli sociali giapponesi e svedesi, in questo ambito, sono praticamente antitetici. In Svezia un'alta percentuale di bambini nasce fuori dal matrimonio e le donne sono rappresentate in politica in misura quasi uguale agli uomini; in Giappone accade esattamente l'opposto. Anche la percentuale di donne che lavorano è molto diversa nei due paesi, e diversa è inoltre la loro maniera di perseguire l'uguaglianza. La Svezia ha optato per un meccanismo redistributivo di imposte e sussidi e per un grande sistema assistenziale; a differenza di quest'ultima, in Giappone la spesa pubblica sociale è, in proporzione al reddito nazionale, tra le più basse dei principali paesi sviluppati. Il basso grado di diseguaglianza in Giappone è ascrivibile non tanto a una politica redistributiva quanto a una magre uniformità dei redditi di mercato, al lordo di imposte e sussidi. Nonostante tali differenze, entrambi i paesi hanno una bassissima incidenza di problemi sanitari e sociali, come l'esigua disparità dei redditi al loro interno - ma quasi null'altro indurrebbe a credere.

Queste considerazioni ci conducono a un altro punto importante: la diseguaglianza può essere attenuata ricorrendo al sistema fiscale per ridistribuire redditi altrimenti sperequati, oppure con una riduzione del divario dei redditi al lordo di imposte e sussidi, che rende la redistribuzione superflua. Perciò, per godere dei vantaggi di una società votata all'uguaglianza, non sempre è necessaria una forte presenza del governo nell'economia. il medesimo principio si applica ad altre aree della spesa pubblica. Utilizzando dati Ocse sulla spesa pubblica sociale in percentuale al prodotto interno lordo, abbiamo scoperto che nei paesi inclusi nelle nostre indagini internazionali non vi è alcuna correlazione tra questa categoria di spesa e l'indice aggregato dei problemi sanitari e sociali. Ma il dato forse controintuitivo è che la spesa pubblica sociale sembra non influire affatto sulla correlazione tra la diseguaglianza dei redditi e l'indice aggregato; una parte del motivo è che la spesa pubblica può essere diretta a prevenire i problemi sociali oppure, dove la sperequazione dei redditi si è aggravata, a gestirne le conseguenze.

Esempi dei diversi approcci all'uguaglianza già osservati nei dati internazionali si ritrovano anche nei cinquanta stati degli Usa. Benché i migliori risultati si riscontrino tendenzialmente negli stati caratterizzati da sistemi di welfare più generosi, la palma della migliore performance spetta al New Hampsire, che ha uno dei più bassi livelli di spesa pubblica sociale. Al pari del Giappone, il basso grado di sperequazione al suo interno è attribuibile a un'insolita uguaglianza dei redditi di mercato. Alcuni ricercatori, usando dati statali, hanno cercato di stabilire se i risultati più favorevoli registrati negli stati degli Usa affetti da minori disparità economiche siano ascrivibili a servizi assistenziali migliori. La conclusione cui sono giunti è che tali servizi non spiegano perfettamente le migliori performance registrate negli stati caratterizzati da minore diseguaglianza, nonostante il sistema assistenziale abbia una certa rilevanza nel contesto statunitense. L'implicazione importante di questa analisi è che la maniera di perseguire l'uguaglianza è meno importante dei passi compiuti in quella direzione.” (pp. 179-181)

“Per spiegare la correlazione tra sperequazione dei redditi e problemi sanitari e sociali è stato ipotizzato che il fattore rilevante non sia tanto la diseguaglianza in sé, quanto le dinamiche storiche che determinano il maggiore o minore grado di diseguaglianza all'interno di una società, quasi che la sperequazione dei redditi fosse un monumento statistico a memoria di una storia di divisioni. Questa ipotesi viene proposta spesso per gli Stati Uniti, quando si constata che le maggiori disparità economiche si riscontrano solitamente (ma non sempre) negli stati meridionali della Confederazione sudista, la cui economia era basata in passato sulle grandi piantagioni dipendenti dal lavoro degli schiavi. Tuttavia, in ciascun contesto il maggiore o minore grado di diseguaglianza ha una sua storia particolare.

Se osserviamo i passi compiuti dalla Svezia in direzione dell'uguaglianza, o le dinamiche che hanno determinato un aumento della sperequazione dei redditi in Gran Bretagna e in numerosi altri paesi, o ancora se mettiamo a confronto i diversi livelli di diseguaglianza emersi in alcune regioni della Russia e della Cina, scopriamo in ciascun caso una storia differente. Questi diversi background sono certamente importanti: il maggiore o minore grado di diseguaglianza di alcuni paesi, stati o regioni può essere indubbiamente spiegato alla luce di particolari vicende storiche. Tuttavia, l'incidenza dei problemi sanitari e sociali nelle diverse collettività non è il semplice riflesso disordinato di tante storie uniche e irripetibili, bensì è correlata al grado di diseguaglianza prodotto da queste storie così diverse fra loro. Ciò che conta, quindi, non è tanto il modo in cui le società sono pervenute alla loro condizione attuale, quanto semmai l'entità delle disparità economiche che oggi le caratterizzano.

Ciò non implica che le relazioni tra la diseguaglianza e i problemi sanitari e sociali siano fisse e immutabili; molto dipende dallo stadio di sviluppo economico che una data società ha raggiunto. In questo libro ci siamo concentrati esclusivamente sui paesi ricchi del mondo industrializzato; è evidente, però, che numerosi fenomeni, tra cui l'incidenza delle malattie e la violenza, sono correlati alla sperequazione dei redditi anche nei paesi in via di sviluppo. A mano a mano che un paese diventa più ricco, il gradiente sociale di alcuni problemi si inverte, modificando anche la relazione ditali problemi con la diseguaglianza.
183-184)

“Un approccio alternativo è quello di suggerire che la vera causa di molti problemi delle società moderne non sia la distribuzione del reddito, ma una sorta di mutamento ideologico, il passaggio a una filosofia o visione economica più individualistica della società, come quelle che caratterizzano il cosiddetto "pensiero neoliberista". Naturalmente, le diverse ideologie influenzano non soltanto le politiche pubbliche ma anche le decisioni prese dalle istituzioni economiche a tutti i livelli della società; sono dunque uno dei tanti fattori in grado di influenzare la sperequazione dei redditi. Ma dire che un mutamento ideologico può condizionare la distribuzione del reddito non equivale affatto ad affermare che possa anche influenzare tutti i problemi sanitari e sociali che abbiamo discusso, indipendentemente dall'effetto esercitato sulla distribuzione del reddito.

Benché le politiche neoliberiste abbiano chiaramente contribuito ad ampliare la disparità dei redditi, nessun governo ha provveduto deliberatamente a ridurre la coesione sociale o ad aumentare la violenza, le gravidanze adolescenziali, l'obesità, l'abuso di sostanze stupefacenti e così via. Quindi, anche se talvolta i mutamenti dell'ideologia di governo possono provocare un cambiamento della distribuzione del reddito, questo non fa parte di un pacchetto di misure tese ad aggravare la crescita dei problemi sociali. L'aumento di tali problemi è piuttosto una conseguenza involontaria di una diversa distribuzione del reddito. Se anziché dubitare che la diseguaglianza possa aggravare i problemi sanitari e sociali, i responsabili della politica economica capissero veramente le conseguenze dell'ampliamento della disparità dei redditi, sarebbero molto più ansiosi di contrastarlo.” (p. 197)

6.

Confermata e in una certa misura dimostrata (per quanto è possibile nell’ambito delle scienze umane e sociali) la tesi di fondo del saggio, gli autori si chiedono cosa si possa fare per ridurre la disuguaglianza e quindi depotenziare la matrice della crescita dei mali sociali che ad essa consegue. A questo problema sono dedicate le pagine finali del saggio che riporto integralmente:

“Come si possono arginare e democratizzare le forze generatrici di diseguaglianza nel settore privato orientato al profitto? Come piegarle all'esigenza di attenuare la disparità dei redditi nelle nostre società? Cosa possiamo fare per impedire che i cambiamenti vengano annullati da un nuovo governo con interessi contrari ai nostri? Nel rispondere a queste domande dobbiamo tenere a mente che siamo giunti a un punto di svolta davvero cruciale nella storia umana. Come abbiamo spiegato nei capitoli 1 e 2, la crescita economica non è più in grado di garantire ulteriori miglioramenti della qualità della vita: le questioni prioritarie sono oggi il senso di comunità e la maniera di rapportarci gli uni agli altri.

Un approccio per contrastare la crescita esponenziale delle retribuzioni degli alti dirigenti potrebbe essere quello di tappare i buchi del sistema fiscale, limitare le "spese aziendali", aumentare le aliquote di imposta sui redditi più alti, e persino legiferare per porre un tetto alle retribuzioni massime in azienda, stabilendo che non siano superiori a un multiplo prefissato dello stipendio medio o minimo. Tali soluzioni, che possono sembrare le uniche opzioni praticabili nel breve periodo, sono molto vulnerabili ai cambiamenti dell'esecutivo: se anche si riuscisse a modificare efficacemente il sistema fiscale, un nuovo governo di diverso colore politico potrebbe semplicemente annullare tutto con un colpo di spugna. Data l'importanza di tenere a freno la sperequazione dei redditi, bisogna riuscire a far sì che l'uguaglianza sia più profondamente radicata nel tessuto della società e meno esposta ai capricci del governo di turno. In altre parole, occorre affrontare il problema della concentrazione di potere alla base della vita economica.

Un approccio che permetterebbe di risolvere alcuni problemi è quello di conferire la proprietà democratica delle imprese ai dipendenti. In tal modo, si evita di concentrare il potere nelle mani dello stato; inoltre, questo sistema presenta numerosi vantaggi economici e sociali rispetto alle organizzazioni che agiscono nell'interesse degli investitori esterni da cui sono possedute e controllate.

In molti paesi i governi concedono agevolazioni fiscali per incoraggiare i piani di partecipazione azionaria dei dipendenti, poiché ritengono che tali sistemi migliorino i risultati aziendali, riducendo il conflitto di interessi tra datori di lavoro e impiegati. Nel Regno Unito i piani di partecipazione azionaria vedono coinvolti quasi un quarto di tutti i lavoratori dipendenti e il 15-20 per cento delle aziende del paese. Negli Stati Uniti, la legge fiscale del 2001 ha concesso ulteriori agevolazioni ai cosiddetti "Employee stock ownership plans" (Esop), che coprono otto milioni di dipendenti in diecimila aziende, con una quota azionaria media per dipendente del 15‑20 per cento.

Tuttavia, molti piani di partecipazione azionaria sono poco più che meccanismi di incentivo, finalizzati a rendere i dipendenti più acquiescenti alle volontà del management e qualche volta ad assicurare ai lavoratori un gruzzoletto per la pensione; perciò spesso sono considerati concessioni simboliche, piuttosto che una leva per trasformare la struttura occupazionale. Per questo motivo, la ricerca dimostra che la proprietà azionaria dei dipendenti, da sola, non riesce a influire in modo determinante sulle performance aziendali. Patrick Rooney, un economista delle università dell'Indiana e di Perdue, ha esaminato il coinvolgimento dei lavoratori in una vasta gamma di decisioni aziendali in imprese con e senza piani di proprietà azionaria dei dipendenti, scoprendo che la presenza di tali piani non determinava necessariamente una maggiore partecipazione dei dipendenti alla gestione delle aziende in cui lavorano. In generale, il grado di coinvolgimento dei lavoratori era basso; persino nelle imprese con piani di partecipazione azionaria dei dipendenti, spesso questi ultimi non venivano né informati né consultati, e la maggior parte di queste aziende non consentiva al personale di apportare un contributo significativo al processo decisionale.

Affinché possa incidere sulla performance aziendale, la proprietà azionaria deve essere abbinata a metodi di gestione più partecipativi. Numerosi studi ben controllati, spesso condotti su grande scala ‑ tra cui alcuni basati sulle performance di diverse centinaia di coppie abbinate di aziende prima e dopo l'introduzione dei cambiamenti ‑ dimostrano i vantaggi economici di affiancare alla proprietà azionaria la partecipazione alla gestione . Queste indagini hanno più volte evidenziato che i piani di partecipazione azionaria dei dipendenti hanno un effetto tangibile sui risultati aziendali soltanto quando sono accompagnati da metodi di gestione partecipativi. Esaminando un vasto campione di aziende britanniche negli anni ottanta, due ricercatori hanno scoperto che i piani di proprietà azionaria dei dipendenti, la condivisione degli utili e la partecipazione contribuivano ciascuno in modo indipendente alla produttività. Una rassegna della ricerca ha prodotto le seguenti conclusioni:

Si può affermare con certezza che abbinando la proprietà azionaria alla gestione partecipativa si ottengono notevoli benefici. La sola proprietà o la sola partecipazione producono invece, nel migliore dei casi, risultati sporadici o di breve durata. [p. lI]

[...] L’impatto della partecipazione in assenza di proprietà (azionaria) è destinato a durare poco [...]. La proprietà azionaria sembra fornire il collante culturale per mantenere attiva la partecipazione. [p. 3]

Gli studi sugli effetti del lavoro sulla salute puntano nella stessa direzione. Come abbiamo visto nel capitolo 6, le persone sembrano vivere meglio quando esercitano un maggiore controllo sul proprio lavoro. Era questo il fattore che più dì ogni altro spiegava l'enorme differenza fra i tassi di mortalità dei funzionari pubblici britannici di alto e basso livello che lavoravano negli stessi uffici. Probabilmente questo effetto è ascrivibile a un senso di autonomia e di minore subordinazione diretta. Per consentire agli individui di esercitare un maggior controllo sul proprio lavoro, con gli importanti benefici che questo comporta, è necessario promuovere la democrazia nei luoghi di lavoro. Inoltre, vi sono sempre più indicazioni che il senso di ingiustizia sul lavoro è un importante fattore di rischio per la salute.

L’idea di impresa come entità controllata da investitori esterni ha implicazioni che appaiono sempre più anacronistiche. Il valore di un'azienda coincide sempre meno con quello degli edifici, dei macchinari e delle attività negoziabili che possiede, mentre dipende sempre più dal valore del suo capitale umano. Quando si compra o si vende un'azienda, l'oggetto della compravendita è, principalmente, l'insieme dei suoi dipendenti, con il loro complesso di abilità, capacità e conoscenze dei sistemi e dei metodi di produzione aziendali. Soltanto i lavoratori sono in grado di mandare avanti l'azienda. Naturalmente, l'idea che un gruppo di persone sia oggetto di compravendita e possa appartenere a qualcuno che non sia il gruppo stesso è un concetto che non ha nulla di democratico.

È giusto che i dipendenti non abbiano il pieno controllo del proprio lavoro e dei redditi che esso produce? Ed è giusto che, gli azionisti esterni abbiano diritto ad altro reddito oltre agli interessi pattuiti sul capitale? La proprietà azionaria dei dipendenti permetterebbe di massimizzare la partecipazione, la dedizione, il controllo e la condivisione dei profitti. Le imprese potrebbero raccogliere capitale tramite prestiti e mutui senza rinunciare a esercitare il controllo sulle proprie attività. Attuaimente soltanto una percentuale irrisoria del denaro investito in Borsa contribuisce ad aiutare le aziende ad acquistare attività da destinare alla produzione. In effetti, il pagamento dei dividendi agli azionisti esterni si traduce nel tempo in un salasso di utili che le imprese potrebbero impiegare invece per potenziare la tecnologia e i macchinari.

Robert Oakeshott, uno studioso britannico considerato un'autorità in fatto di proprietà dei dipendenti, afferma che questa "comporta un passaggio dall'idea di impresa come oggetto di possesso a quella di impresa come comunità che lavora" [p. 104]. Se i dipendenti possiedono la maggioranza delle azioni e dunque hanno il controllo dell'azienda, questa cessa di essere proprietà e diventa comunità. Ecco allora che il management è chiamato a rispondere non più agli azionisti esterni, interessati quasi esclusivamente al rendimento del capitale investito, ma all'insieme dei dipendenti; in occasione delle assemblee degli azionisti la dirigenza riferirà ai lavoratori sull'andamento degli affari, intavolando un dialogo e un confronto con persone che hanno una profonda conoscenza di eventuali problemi verificatisi nel periodo precedente, nonché dei possibili rimedi. Quando un'azienda viene rilevata dai dipendenti, la transizione dall'abituale mentalità verticistica può richiedere un lungo e lento processo di emancipazione individuale dai soliti pregiudizi sulla classe e l'abilità, che spingono i dipendenti di livello più basso a sentirsi inferiori. Infatti, come abbiamo discusso nel capitolo 8, i risultati di esperimenti basati sull'etnia e la casta dimostrano che l'attribuzione di uno status di inferiorità può condizionare la performance.

Tale processo di aggiustamento ed emancipazione è ben descritto in Local Heroes, in cui David Erdal narra le vicende della Loch Fyne Oysters, un'azienda scozzese rilevata dai suoi dipendenti. È un processo che consiste in parte nel riparare i danni provocati dalle diseguaglianze di classe, e che è reso ancora più difficile dal fatto che i pregiudizi rimangono radicati nelle persone per tutta la vita. Nondimeno, le strutture in cui lavoriamo sono di capitale importanza.

Le cooperative e le aziende rilevate dai dipendenti si affermano spesso in reazione a circostanze disperate nelle quali i sistemi tradizionali di proprietà e gestione si sono rivelati fallimentari. Quando le condizioni del mercato si fanno molto difficili, non è raro che i lavoratori assumano il controllo dell'azienda per cui lavorano per evitare la chiusura e il licenziamento. Anche in questi casi, qualche volta, però, si ottengono successi insperati, come è accaduto con Tower Colliery nel Galles meridionale nel 1995, quando i minatori acquistarono la miniera con i soldi delle liquidazioni e la gestirono con ottimi risultati finché, tredici anni più tardi, il carbone si esaurì. Molte aziende di proprietà dei dipendenti vantano risultati di tutto rispetto. Tra queste ci sono (o c'erano) London Symphony Orchestra, Carl Zeiss, United Airlines, Gore‑tex, Polaroid Corporation e John Lewis Partnership (una delle catene di grandi magazzini di maggiore successo del Regno Unito, con 68.000 soci‑dipendenti e un fatturato annuale di 6,4 miliardi di sterline). Negli Stati Uniti, tra le più grandi aziende di proprietà dei dipendenti si annoverano Publix Supermarkets, Hyvee Supermarkets, Science Applications International Corporation (Saic), l'impresa internazionale di ingegneria e costruzioni CH2M Hill, e Tribune, che pubblica, tra gli altri, il "Los Angeles Times" e il "Chicago Tribune". Queste aziende hanno mediamente 55.000 dipendenti ciascuna.

Uno dei gruppi di cooperative più famoso al mondo è la Mondragón Corporation dei Paesi Baschi. In poco più di cinquant'anni si è sviluppato in una rete di oltre 120 cooperative di proprietà dei dipendenti con 40.000 soci‑lavoratori e un fatturato di 4,8 miliardi di dollari. Le cooperative Mondragón sono due volte più redditizie delle altre aziende spagnole e vantano la più alta produttività del lavoro di tutto il paese. È difficile spiegare alcuni di questi successi se non si ipotizza che il connubio di proprietà e partecipazione permetta di migliorare la produttività riducendo i conflitti di interesse.

Per la maggior parte della forza lavoro, è in ufficio o in azienda che si interagisce a più stretto contatto con persone diverse dai familiari e che c'è la possibilità di sentirsi parte di una comunità. Nel capitolo 3 abbiamo esaminato i dati sul brusco aumento dei livelli di ansia registratosi negli ultimi cinquant'anni circa, a seguito dell'indebolimento della vita di comunità provocato dall'impatto della crescente mobilità geografica e sociale. La spinta all'uguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita nei quartieri residenziali, favorendo una maggiore coesione sociale e più alti livelli di fiducia; tuttavia, è improbabile che in futuro si torni ai benefici delle comunità residenziali fortemente coese del passato. Nel luogo di lavoro, però, si può trovare un gruppo di amici e sentirsi apprezzati; ma queste relazioni sociali sono ostacolate dalla stratificazione gerarchica che separa i dipendenti in vari gradi di comando e obbedienza, spingendoli a comportarsi non come comunità, bensì come proprietà, uniti al solo scopo di produrre un rendimento del capitale altrui. Recentemente uno di noi ha visitato due piccole aziende appena rilevate dai rispettivi dipendenti, e ha chiesto al personale quali fossero stati i principali cambiamenti; la prima risposta ottenuta dagli impiegati è stata: "Adesso, quando andiamo in fabbrica, gli operai ci guardano negli occhi". Sotto il vecchio sistema, gli sguardi non si sarebbero incrociati.

La proprietà azionaria dei dipendenti ha il vantaggio di favorire l'uguaglianza precisamente ampliando la libertà e la democrazia; le decisioni vengono prese dal basso, anziché essere calate dall'alto. Pur non sapendo esattamente qual è il grado di disparità dei redditi che verrebbe considerato equo, probabilmente i dipendenti sono disposti ad accettare che l'amministratore delegato dell'azienda per cui lavorano abbia uno stipendio parecchio più alto del loro, magari tre, o persino dieci volte più elevato; ma difficilmente riterranno giusto uno stipendio centinaia di volte più alto. A ben guardare, forse differenziali salariali così pronunciati possono essere mantenuti unicamente negando ogni minima parvenza di democrazia economica.

Fintanto che le imprese controllate dai dìpendentì costituiscono soltanto una piccola parte dell'intero sistema economico, non possono adottare salari e stipendi diversi da quelli delle altre aziende. Se offrissero agli impiegati e ai dirigenti salari rispettivamente più alti e più bassi rispetto ai concorrenti, i primi non lascerebbero mai l'azienda e i secondi sarebbero più difficili da assumere. Tuttavia, al crescere del numero di aziende di proprietà dei dipendenti, si produrrebbe un cambiamento delle consuetudini e dei valori concernenti i livelli di retribuzione adeguati alle diverse occupazioni e i differenziali retributivi accettabili; sarebbe possibile quantomeno approssimarsi agli standard dei settori pubblico e non profit. E se nel settore privato non vi fosse più una schiera di dirigenti strapagati a sollecitare paragoni sociali e a far pensare che tali stipendi potrebbero essere giustificati, lo stesso settore non profit potrebbe fare importanti passi avanti verso l'uguaglianza. Sarebbe ora di lasciarci alle spalle un mondo in cui la massimizzazione dei guadagni personali è considerata un obiettivo encomiabile nella vita.

David Erdal, ex presidente del Tullis Russell Group e direttore di Baxi Partnership, ha studiato gli effetti dell'occupazione nelle cooperative sulle comunità di appartenenza, mettendo a confronto tre città del Nord Italia: Imola, dove il 25 per cento della forza lavoro è impiegato nelle cooperative, Faenza, dove tale percentuale è del 16 per cento, e Sassuolo, dove non ci sono cooperative. Sulla base di un'indagine piuttosto limitata e con bassi tassi di risposta, Erdal ha stabilito che nelle città con una più alta percentuale di popolazione occupata nelle cooperative, le condizioni di salute, l'istruzione e la partecipazione sociale erano migliori e i tassi di criminalità più bassi.

Come strumento per promuovere l'uguaglianza nella società, la proprietà e il controllo da parte dei dipendenti presentano numerosi vantaggi. Primo, favoriscono un processo di emancipazione sociale, poiché i lavoratori diventano membri di un team. Secondo, sottopongono a controllo democratico l'ampiezza dei differenziali di reddito: se il personale dell'azienda è favorevole ad ampie disparità retributive, può sempre decidere di mantenerle. Terzo, comportano una forte redistribuzione della ricchezza dagli azionisti esterni ai dipendenti, nonché una redistribuzione del reddito che da quella ricchezza scaturisce; ai fini della promozione dell'uguaglianza, questo è un elemento di particolare vantaggio. Quarto, accrescono la produttività e quindi generano un vantaggio comparato. Quinto, aiutano gli individui a sentirsi nuovamente parte di una comunità. E sesto, tendono a rendere i rapporti sociali più affabili e cordiali. Il vero obiettivo, tuttavia, non è quello di avere alcune aziende controllate dai dipendenti in una società ancora dominata da un'ideologia gerarchica e dal perseguimento dello status, ma realizzare una società in cui gli individui siano affrancati da tali divisioni. Questo obiettivo può essere realizzato soltanto con una campagna sostenuta su un arco di diversi decenni.

Un'azienda controllata dai dipendenti è una struttura molto flessibile, che può essere compatibile con molteplici sistemi di gestione e organizzazione del lavoro. Essendo proprietari dell'azienda, i dipendenti sono liberi di sviluppare i sistemi che considerano più efficaci, i quali si evolvono adattandosi alle diverse situazioni. Ciascuna azienda può sperimentare con diversi sistemi di squadre di lavoro, con mandati più o meno lunghi per gli amministratori, con l'elezione di rappresentanti di reparto, con la nomina di fiduciari, con assemblee settimanali o annuali e così via. Il potere può essere delegato o esercitato direttamente dai dipendenti con diritto di voto riuniti in assemblea. Gradualmente si apprenderebbero i vantaggi e gli svantaggi di diverse strutture, si individuerebbero le forme di democrazia più adatte al settore pubblico e al settore privato, e si scoprirebbe come rappresentare gli interessi dei consumatori e delle comunità locali.

Tuttavia, affinché il numero dei luoghi di lavoro controllati dai dipendenti aumenti, è essenziale introdurre alcune salvaguardie ‑ facili ‑ che impediscano ai lavoratori di vendere nuovamente la propria azienda ad azionisti esterni. È vero che la maggior parte delle aziende gode di adeguate tutele, ma vi sono stati numerosi casi di imprese vendute dai dipendenti che ne detenevano la proprietà e il controllo.

Come strumento per trasformare la società, la proprietà azionaria dei dipendenti ha il vantaggio di poter convivere (come spesso succede) con strutture aziendali convenzionali. Le forme di impresa vecchie e nuove possono coesistere: con il sostegno giuridico e gli incentivi fiscali giusti, la trasformazione della società può cominciare immediatamente. I sistemi di proprietà azionaria dei dipendenti consentono di intraprendere una trasformazione radicale della società attraverso una transizione graduale, permettendo alla nuova società di crescere all'interno della vecchia. I governi possono predispone incentivi e forme di assistenza per incoraggiare la partecipazione azionaria dei dipendenti. Si potrebbero obbligare le aziende a trasferire ogni anno ai lavoratori una parte delle azioni; inoltre, andando in pensione, i vecchi proprietari potrebbero essere disposti a lasciare l'azienda nelle mani delle persone che ci lavorano.

Attualmente le aziende controllate dai dipendenti non sono obbligate a coinvolgere i rappresentanti dei consumatori e delle comunità locali negli organismi di governo, ma questa è una mancanza alla quale è facile pone rimedio. Chi si oppone alla proprietà azionaria dei dipendenti potrebbe sostenere che questi sistemi non possono nulla contro l'amoralità intrinseca dei mercati. Il desiderio di guadagnare maggiori profitti spingerebbe comunque le imprese, in qualsiasi modo controllate, a tenere comportamenti antisociali. Oltre a numerose aziende dai sani principi etici che operano nel mercato sostenendo il commercio equo, l'ambiente, le comunità locali e così via, ci sono anche imprese che cercano di ampliare il mercato del tabacco nei paesi in via di sviluppo, ben sapendo di provocare così milioni di altri morti; ci sono aziende che hanno causato un gran numero di decessi evitabili incoraggiando le madri nei paesi poveri a nutrire i neonati con latte in polvere invece che latte materno, sebbene non avessero accesso all'acqua potabile o a condizioni igieniche adeguate. Ce ne sono altre che continuano a distruggere gli ecosistemi, le terre e le falde acquifere, e a sfruttare le risorse del sottosuolo nei paesi dove i governi sono troppo deboli o corrotti per contrastarle, e altre ancora che sfruttano i loro brevetti per impedire che nei paesi poveri si vendano farmaci salvavita a prezzi accessibili.

Abbiamo motivo di credere che le aziende controllate dai dipendenti possano mantenere alti standard di moralità anche quando sono orientate al perseguimento del profitto. Nelle aziende convenzionali i dipendenti sono assunti per lavorare al conseguimento di finalità che non sono le proprie, sono pagati per impiegare le proprie conoscenze per gli scopi stabiliti dal datore di lavoro. Un dipendente potrebbe non essere d'accordo con le finalità cui è destinato il proprio lavoro, potrebbe persino non conoscerle, ma di certo non viene assunto per avere un'opinione su questi temi e meno che mai per esprimerla, perché sono faccende che non lo riguardano. Se il dipendente viene assunto per aiutare l'azienda a espandere i propri mercati, incrementare gli utili, evitare l'attenzione della stampa e così via, difficilmente gli verrà chiesta una valutazione di carattere etico. Insomma, chi lavora in un'azienda convenzionale è assunto per mettere le proprie conoscenze a servizio delle finalità di qualcun altro; non solo tali finalità esulano dalle sue responsabilità, ma è anche probabile che, in quanto lavoratore dipendente, l'individuo non si senta chiamato a risponderne. Ecco perché le persone tendono spesso a negare qualsiasi responsabilità per le proprie azioni, affermando di avere "soltanto eseguito gli ordini".

I famosi esperimenti di Stanley Milgram hanno dimostrato che la nostra propensione a obbedire all'autorità è tale da indurci potenzialmente a commettere azioni deprecabili. In quello che fu presentato come un esperimento di "apprendimento", i soggetti si mostrarono disposti a praticare forme apparentemente molto dolorose e addirittura potenzialmente letali di elettroshock su un partner, tutte le volte che quest'ultimo dava una risposta sbagliata a una domanda. I soggetti obbedivano senza obiettare agli ordini di un uomo in camice bianco, nonostante sentissero quelle che parevano le urla provocate dagli elettroshock somministrati.

Se invece un'azienda è posseduta e gestita dai dipendenti, chi ci lavora ha il pieno controllo delle finalità del proprio lavoro. Se, per esempio, un lavoratore viene a sapere che alcuni aspetti del design o del processo di fabbricazione di un prodotto sono dannosi per la salute dei bambini, può cercare di cambiarli cominciando col chiedere le opinioni dei colleghi al riguardo. Non ci sarebbero pressioni a tenere per sé i propri dubbi, né si potrebbe ignorare il problema, facendo finta che non sono affari propri; né si avrebbe il timore di rischiare il licenziamento per il solo fatto di porre domande scomode. Le aziende di proprietà dei dipendenti non sarebbero, ovviamente, del tutto immuni dai comportamenti antisociali, ma probabilmente riuscirebbero a renderli un po' meno frequenti.

Libertà e uguaglianza

Durante la Guerra fredda parve affermarsi l'idea che libertà e uguaglianza siano tra loro incompatibili. Le economie dell'Europa dell'Est e dell'Unione Sovietica, basate sulla proprietà statale, sembravano dimostrare che l'unico modo di pervenire all'uguaglianza fosse quello di limitare le libertà fondamentali. Un costo ideologico rilevante della Guerra fredda fu che l'America abbandonò la sua tradizionale dedizione all'uguaglianza. Per i primi americani, come Tom Paine, la vera libertà non poteva prescindere dell'uguaglianza; non era possibile che esistesse l'una senza l'altra.

La schiavitù, che negava simultaneamente entrambe, ne era la dimostrazione. Euguaglianza era il bastione contro l'arbitrarietà del potere; era questa l'idea contenuta nelle storiche rivendicazioni di quanti chiedevano "nessuna tassazione senza rappresentanza" e "nessuna legislazione senza rappresentanza". La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America afferma che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati di alcuni diritti inalienabili quali la libertà, proprio come i rivoluzionari francesi chiedevano libertà, uguaglianza e fratellanza. Molti pensatori democratici nei loro scritti hanno affermato la natura complementare di libertà e uguaglianza; tra questi il filosofo sociale L.T. Hobhouse, che credeva che la libertà dipendesse, in tutte le sfere della vita, dall'uguaglianza: uguaglianza davanti alla legge, uguaglianza delle opportunità, uguaglianza delle parti di un contratto. La proprietà azionaria dei dipendenti è un mezzo che favorisce la libertà e l'uguaglianza insieme.

Cavalcare l'onda tecnologica

Nel libro The Weightless World, Diane Coyle spiega che, sebbene il reddito degli abitanti dei paesi più industrializzati sia aumentato di circa venti volte durante il Novecento, alla fine del secolo scorso il peso di tutto ciò che veniva prodotto era sostanzialmente non dissimile rispetto ai livelli di cento anni prima. L'autrice afferma anche che tra il 1990 e il 1996 il peso medio di un dollaro di esportazioni statunitensi (rettificato per l'inflazione) si è dimezzato. La progressiva "perdita di peso" è dovuta in parte alla crescita del settore dei servizi e all'affermarsi di un'economia della "conoscenza", e in parte al progresso tecnologico e alla tendenza alla miniaturizzazione. Il fatto che gran parte del consumo moderno comporti un uso meno intensivo di risorse materiali è presumibilmente una buona notizia per l'ambiente; ma la natura dei cambiamenti che sottendono la perdita di peso potrebbe avere importanti implicazioni per l'uguaglianza.

I corsi introduttivi di economia insegnano a distinguere tra i costi fissi di produzione, da un lato, e i costi marginali, dall'altro. I costi fissi sono gli oneri relativi a impianti e macchinari, mentre i costi marginali sono le spese addizionali sostenute per produrre un'unità aggiuntiva di prodotto. Questi ultimi sono dati generalmente dai costi addizionali del lavoro e delle materie prime necessarie per la produzione, nell'ipotesi che impianti e macchinari siano già operativi. La teoria economica stabilisce che in un mercato concorrenziale i prezzi diminuiscono fino a uguagliare i costi marginali. Se i prezzi fossero superiori ai costi
marginali, producendo e vendendo di più un'impresa potrebbe guadagnare un po' più di profitto; se invece i prezzi fossero inferiori, la produzione di un'unità addizionale farebbe aumentare i costi in misura superiore ai ricavi ottenuti dalla vendita, dando luogo a una perdita.

In ampi settori dell'economia moderna, il progresso tecnologico sta riducendo rapidamente i costi marginali. Per i beni riproducibili con tecnologie digitali ‑ musica, software, videogiochi, film, libri, la parola scritta in ogni sua forma, informazioni e immagini ‑ il costo di produrre una copia e distribuirla su internet è praticamente nullo. Questo cambiamento interessa una grossa porzione di tutto ciò che viene prodotto per l'intrattenimento e il tempo libero, per l'istruzione a tutti i livelli, e naturalmente molte applicazioni informatiche professionali, siano esse destinate al controllo delle giacenze di magazzino, all'analisi statistica o al computer‑aided design (Cad).

I costi marginali dei prodotti digitali sono così bassi che si sta creando un settore sempre più grande di beni "gratuiti". Nel tentativo di contrastare questo fenomeno e permettere alle aziende di continuare a guadagnare profitti, si cerca in ogni modo di far rispettare i brevetti e i diritti di proprietà intellettuale. Ma è difficile resistere alla forza del progresso tecnologico: i codici dei sistemi di protezione dalla copia vengono facilmente craccati e i beni vengono "liberati". Talvolta l'accesso libero è finanziato dalle entrate pubblicitarie e talvolta è genuinamente gratuito, come nel caso dei programmi informatici freeware o shareware. Internet consente già il libero accesso a una quantità di informazioni pressoché illimitata, non soltanto su libri, enciclopedie, dizionari, quotidiani, ma sempre più su diari online. Musica e film vengono scaricati gratis, legalmente e anche illegalmente. Alcuni fornitori di servizi oggi offrono spazi di memoria illimitati. Le telefonate costano molto meno che in passato e, se effettuate con un collegamento via computer, sono sempre più spesso gratuite. Anche e‑mail e messaggi istantanei costituiscono un efficace canale di comunicazione gratuita.

Malgrado sia meno pronunciata che nell'economia digitale, la tendenza alla rapida diminuzione dei costi marginali si riscontra anche in molte altre aree, tra cui la nanotecnologia, la biotecnologia, i componenti elettronici e l'ingegneria genetica. Queste nuove tecnologie schiudono grandi possibilità per un uso più efficiente dell'energia solare, la distribuzione di farmaci a basso costo e la produzione di nuovi materiali più economici.

Molte aziende produttrici di beni digitali vedono in questi cambiamenti non opportunità inedite per migliorare la qualità della vita umana e il benessere, ma soltanto una grave minaccia per i profitti. Invece di massimizzare i benefici delle nuove tecnologie, ci ritroviamo con strutture istituzionali che lottano per limitare questo potenziale. La drastica riduzione dei costi marginali crea un divario sempre più ampio tra la massimizzazione del profitto e la massimizzazione del benessere sociale. In un tale contesto è essenziale che i governi facciano ricorso al loro potere per favorire lo sviluppo di nuove strutture istituzionali e non per sostenere e difendere le restrizioni imposte da quelle esistenti.

Una volta si sosteneva che i beni con costi marginali di produzione prossimi allo zero fossero per loro natura beni pubblici, e che come tali dovessero essere pubblicamente disponibili. Prima dell'era digitale, gli esempi più comunemente citati erano le strade e i ponti. Una volta sostenuto il costo del capitale necessario per costruire una di queste infrastrutture, il massimo beneficio sociale dell'investimento si ottiene rinunciando ad applicare una tariffa d'uso, ovvero consentendo il libero accesso. L'obiettivo di massimizzare il benessere sociale consentendo il libero accesso ai beni pubblici è stato a lungo la giustificazione economica per affidare allo stato la proprietà di strade e ponti, fino a quando i governi non hanno cominciato a recuperare i costi della costruzione delle strade attraverso i pedaggi.

Una volta sostenuto il costo del capitale, è auspicabile che i benefici vengano condivisi da quante più persone possibile. Se le autorità locali finanziano l'accesso a internet, non occorre che tale accesso sia limitato. Nel creare le prime biblioteche pubbliche gratuite, i vittoriani sposarono la stessa logica: un libro può essere letto ripetutamente senza che si generino costi addizionali. Si potrebbe affidare a enti pubblici e associazioni non profit, finanziati con il denaro dei contribuenti, il compito di negoziare il prezzo di acquisto dell'accesso a internet o dei diritti d'autore per l'intera nazione; analogamente, si potrebbe affidare a organismi internazionali il compito di negoziare il libero accesso alle risorse educativo‑didattiche e aziendali in tutto il mondo.

Dal punto di vista della società nel suo insieme, con la tendenza alla diminuzione dei costi marginali prodotta dal progresso tecnologico diventa sempre meno conveniente lasciare il controllo della distribuzione di beni e servizi nelle mani delle aziende orientate alla massimizzazione del profitto, le quali ormai possono contare unicamente sui resti del potere monopolistico assicurato da brevetti e copyright. Si devono trovare nuovi modi di retribuire individui e organizzazioni per la ricerca, la creatività e l'innovazione ‑ la famosa gallina dalle uova d'oro in modo da non dover poi limitare l'accesso ai relativi benefici. Magari le organizzazioni non profit potrebbero finanziare lo sviluppo di software da utilizzarsi gratuitamente in tutto il mondo. Quel che è certo è che occorre una riforma radicale delle leggi sui brevetti e sul copyright, affinché chi produce beni e servizi di valore possa essere retribuito in modo tale da non dover limitare l'accesso ai propri prodotti.

I politici e il pubblico dovrebbero chiedersi se sia possibile trovare il modo di remunerare le aziende per le loro attività di ricerca e sviluppo, senza essere poi costretti a difendere un sistema di prezzi che limita l'accesso ai benefici ditali attività; benefici che potrebbero includere farmaci salvavita, innovazioni agricole in grado di risolvere il problema della fame e la disponibilità di riviste scientifiche e accademiche per le università dei paesi in via di sviluppo. Se è vero che la nuova tecnologia tende ad abbassare progressivamente i costi marginali, questo problema si farà sempre più pressante.

Forse il progresso ci spinge verso una società in cui l'accesso a una gamma sempre più vasta di prodotti non sarà più rigidamente razionato dal reddito e i beni in nostro possesso cesseranno di svolgere un ruolo così importante nella differenziazione sociale. Possiamo addirittura sperare che cominceremo a concepirci come membri di pari grado della stessa società, riuniti nelle combinazioni più diverse a seconda dei nostri interessi condivisi.

Il futuro dell'uguaglianza

Presi come siamo dalla quotidianità, è facile dimenticare che, in una prospettiva di lungo termine, esiste una tendenza storica quasi inarrestabile verso l'uguaglianza. Come un fiume di progresso dell'umanità, sgorga dai primi limiti costituzionali al diritto "divino" (e arbitrario) dei sovrani e scorre attraverso il lento sviluppo della democrazia e l'affermazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge; si gonfia con l'abolizione della schiavitù e si rafforza con l'estensione del diritto di voto ai nullatenenti e alle donne; prende velocità con lo sviluppo dell'istruzione universale e gratuita, dei servizi sanitari e dei sistemi di sostegno al reddito nei periodi di disoccupazione e malattia; continua a fluire grazie alle leggi che tutelano i diritti dei dipendenti e degli inquilini e quelle che combattono la discriminazione razziale, nonché con il progressivo abbandono delle forme di ossequio di classe. Di esso fanno parte l'abolizione delle pene capitali e corporali, nonché il crescente scontento di quanti chiedono uguali opportunità, senza distinzioni di razza, classe, genere, orientamento sessuale e religione. Lo si scorge anche nella crescente attenzione prestata dalle lobby, dalla ricerca sociale e dagli istituti nazionali di statistica alla povertà e alla diseguaglianza negli ultimi cinquant'anni; e in tempi più recenti è emerso anche nei tentativi di creare una cultura di rispetto reciproco.

Tutte queste sono diverse manifestazioni del progresso verso l'uguaglianza. Nonostante le differenze di opinione politica, è difficile che qualcuno, guardando indietro a questi sviluppi storici, non li consideri tutti positivi. Le forze sottostanti questi cambiamenti assicurano che una larga maggioranza vorrà portarli avanti. Il fatto che questo fiume di progresso venga occasionalmente bloccato da una diga, oppure inizi a mulinare vorticosamente, non dovrebbe indurci a ignorarne l'esistenza.

Le relazioni tra la diseguaglianza e l'incidenza dei problemi sanitari e sociali illustrate nei capitoli precedenti suggeriscono che se gli Stati Uniti riducessero la sperequazione dei redditi a un livello pari alla media dei quattro paesi ricchi con le minori disparità economiche (Giappone, Norvegia, Svezia e Finlandia), la percentuale di americani propensi a fidarsi del prossimo potrebbe salire al 75 per cento, innescando verosimilmente un miglioramento della qualità della vita di comunità; i tassi di disagio mentale e di obesità potrebbero parimenti essere ridotti di quasi due terzi, l'incidenza delle gravidanze adolescenziali potrebbe essere dimezzata, la popolazione carceraria potrebbe essere ridotta del 40 per cento, e gli individui potrebbero vivere più a lungo, lavorando l'equivalente di due mesi in meno all'anno.

Analogamente, se la Gran Bretagna conseguisse un grado di diseguaglianza paragonabile a quello degli stessi quattro paesi, i livelli di fiducia potrebbero aumentare ancora una volta di due terzi, i disturbi mentali verrebbero dimezzati, tutti guadagnerebbero un altro anno di vita, i tassi di natalità presso le adolescenti potrebbero diminuire di un terzo, i tassi di omicidio potrebbero ridursi del 75 per cento, tutti potrebbero godere dell'equivalente di quasi sette settimane di ferie in più all'anno e i governi potrebbero chiudere i penitenziari in tutto il paese.

Un passo essenziale per creare una società migliore è dar vita un movimento sostenuto e impegnato alla sua realizzazione. Tutti i cambiamenti politici, per molti decenni, dovranno essere dedicati al perseguimento di questo obiettivo; è necessario dunque che la società conosca la direzione in cui vuole andare. Per favorire lo sviluppo di questo movimento, noi forniamo ‑ e continueremo a fornire ‑ i risultati delle nostre ricerche, grafici e altre informazioni sul sito web di Equality Trust (www.equalitytrust.org.uk).

Il primo compito è far comprendere all'opinione pubblica qual è la posta in gioco. Non vogliamo però che questa divenga l'ennesima idea che si attira brevemente qualche attenzione per poi passare di moda; : dobbiamo creare un movimento sociale dedito alla sua attuazione. L'idea deve essere fatta propria e portata avanti da una rete di gruppi di attivisti dell'uguaglianza, pronti a incontrarsi per condividere idee e azioni un po' ovunque, nelle case e negli uffici, nei sindacati e nei partiti politici, nelle chiese e nelle scuole. Deve essere perseguita anche da lobby, organizzazioni non profit e fornitori di servizi che si occupano dei diversi problemi correlati alla diseguaglianza, dalla salute alle gravidanze adolescenziali, dalla popolazione carceraria alla salute mentale, dalla tossicodipendenza al rendimento scolastico. A questi va aggiunto inoltre l'urgente compito di contrastare il riscaldamento globale. In tutti questi contesti bisognerà parlare forte e chiaro, illustrando i vantaggi di una società fondata sull'uguaglianza.

Inoltre, non dobbiamo lasciarci intimidire dall'idea che l'aumento delle imposte sui ricchi li spinga a emigrare in massa, provocando una catastrofe economica. Sappiamo che nei paesi tendenzialmente egualitari si vive meglio, con tenori di vita più alti e ambienti sociali molto più favorevoli. Sappiamo anche che la crescita economica non è il metro con cui si misura tutto il resto; anzi, oggi è chiaro che lo sviluppo economico non contribuisce più alla vera qualità della vita e che il consumismo è un pericolo per il pianeta. Non dobbiamo neppure lasciarci convincere che i ricchi sono la rara e preziosa espressione di una razza superiore di individui più intelligenti, dai quali dipende la vita di tutti noi. Questa è una semplice illusione creata dalla ricchezza e dal potere.

Piuttosto che assumere un atteggiamento di gratitudine verso i ricchi, dobbiamo riconoscere gli effetti dannosi che essi hanno sul tessuto sociale. Il collasso finanziario di fine 2008 e la recessione che ne è conseguita dimostrano quanto può essere pericoloso pagare stipendi e bonus stratosferici ai vertici delle aziende. La sete di ricchezza ha spinto i responsabili delle istituzioni finanziarie ad adottare politiche che hanno messo a rischio il benessere di intere popolazioni; l'esistenza stessa dei super‑ricchi ha alimentato le pressioni a consumare per restare al passo con loro. La lunga bolla speculativa che ha preceduto il tracollo finanziario è stata sostenuta principalmente dalla crescita della spesa per consumi. L'aumento della diseguaglianza ha spinto gli individui a ridurre i risparmi, ad aumentare gli scoperti bancari e i saldi delle carte di credito e ad accendere un secondo mutuo per finanziare i consumi. Rafforzando l'elemento speculativo nei cicli di espansione e recessione, la diseguaglianza distrae la nostra attenzione dai problemi ambientali e sociali più urgenti, inducendoci invece a preoccuparci della disoccupazione, dell'insicurezza, e di "come rimettere in moto l'economia". Una riduzìone della disparità dei redditi renderebbe il sistema economico più stabile, contribuendo anche a una maggiore sostenibilità sociale e ambientale.

Le società moderne dipenderanno sempre più dalla capacità di essere comunità creative, adattabili, piene di inventiva, ben informate e flessibili, in grado di rispondere generosamente le une alle altre e ai bisogni ovunque essi sorgano. Queste sono le tipiche caratteristiche non di società indebitate verso i ricchi, in cui prevalgono le insicurezze di status, ma di popolazioni abituate alla collaborazione e al rispetto reciproco. Poiché vogliamo che la nuova società cresca e si sviluppi all'interno della vecchia, i nostri valori e il nostro modo di lavorare dovranno essere coerenti con le iniziative tese a dar vita alla nuova società. Ma dobbiamo impegnarci anche per cambiare i valori comuni, di modo che il consumo ostentato non susciti più ammirazione e invidia, ma venga visto piuttosto come parte del problema, un segnale dell'avidità e dell'ingiustizia che danneggiano la società e il pianeta.

Martin Luther King disse: "L'arco morale dell'universo è lungo, ma si flette in direzione della giustizia". Dato che, nella preistoria, i nostri antenati vissero in società straordinariamente egualitarie, mantenendo uno stile di vita di stato stazionario (o sostenibile) che qualcuno ha battezzato "l'originaria società opulenta" (p. 13), forse è giusto pensare alla nostra evoluzione come a un arco che, flettendosi, ritorna verso i principi umani fondamentali di giustizia e uguaglianza, che stanno tuttora alla base delle buone maniere nelle normali interazioni sociali. In ogni momento, però, per creare una società fondata sull'uguaglianza, dovremo esprimere le nostre opinioni, argomentare le nostre ragioni, organizzarci e portare avanti la nostra campagna.

È impossibile per i governi non influenzare la disparità dei redditi. In quasi tutti i paesi la pubblica amministrazione è la principale fonte di occupazione, e quasi tutte le politiche economiche e sociali influenzano la distribuzione del reddito. Lo strumento più naturale per incidere sulla diseguaglianza è una combinazione di imposte e sussidi. Altre aree di intervento rilevanti sono la legislazione sul salario minimo, le politiche sull'istruzione, la gestione dell'economia nazionale, il mantenimento di bassi livelli di disoccupazione, l'applicazione di imposte sul valore aggiunto e sulle vendite in misura differente ai beni di prima necessità e ai beni di lusso, la fornitura di servizi pubblici, le politiche previdenziali, le imposte di successione, le imposte negative sul reddito, le politiche di sostegno al reddito, gli aiuti alle famiglie con figli a carico, l'applicazione di un'imposta progressiva sui consumi, la politica industriale, i programmi di riqualificazione professionale e molte altre ancora. In questo capitolo abbiamo suggerito anche alcuni cambiamenti più basilari volti a far sì che la disparità dei redditi sia soggetta al controllo democratico, e la promozione dell'uguaglianza si radichi più a fondo nel tessuto sociale.

In questa fase, è più importante creare la volontà politica di perseguire l'uguaglianza che schierarsi a favore di questo o quel provvedimento per combattere le diseguaglianze socioeconomiche. La volontà politica, a sua volta, richiede un ideale di società migliore che sia al tempo stesso possibile da realizzare e motivo di ispirazione. Speriamo di aver dimostrato che esiste una migliore società per cui lottare: una società fondata sull'uguaglianza, in cui le persone non siano divise dallo status e dalla gerarchia; una società in cui sia possibile ritrovare un senso di comunità, superare le sfide del riscaldamento globale, possedere e controllare democraticamente il proprio lavoro insieme a comunità di colleghi, e partecipare ai benefici di un crescente settore non monetizzato dell'economia. La nostra non è un'utopia: i dati dimostrano che anche una minuscola diminuzione della diseguaglianza, che è già realtà in alcune democrazie benestanti, può cambiare in meglio la qualità della vita di tutti. Adesso il compito è lavorare per una politica che riconosca il tipo di società che dobbiamo creare e che si impegni a far leva sulle opportunità tecnologiche e istituzionali per realizzarla.

Una società migliore non nascerà in modo spontaneo, indipendentemente dall'impegno profuso per realizzarla. Magari non riusciremo a evitare le conseguenze disastrose del riscaldamento globale, magari permetteremo alle nostre società di diventare sempre più antisociali, senza comprendere i processi sottostanti. Magari non riusciremo a opporci alla piccola minoranza dei ricchi che, sulla scorta di un'idea malsana di interesse personale, si sentono minacciati da un mondo democratico ed egualitario. Magari lungo il cammino sorgeranno problemi e contrasti, come sempre succede nella lotta per il progresso; ma con una concezione ampia della meta verso cui siamo diretti saremo in grado di realizzare i cambiamenti necessari.

Dopo aver vissuto per diversi decenni con la sensazione opprimente che non vi siano alternative all'insuccesso sociale e ambientale delle società moderne, oggi possiamo finalmente ritrovare quel sentimento di ottimismo che nasce dal sapere che i problemi possono essere risolti. Sappiamo che la promozione dell'uguaglianza ci aiuterà a tenere a freno il consumismo e agevolerà l'introduzione di provvedimenti atti a fronteggiare il riscaldamento globale. Lo sviluppo delle nuove tecnologie fa apparire le aziende orientate al profitto come istituzioni sempre più antisociali, minacciate dalla rapida espansione della possibilità di produrre beni pubblici grazie all'applicazione delle tecnologie più avanzate. Siamo sul punto di creare una società qualitativamente migliore e veramente accogliente per tutti.

Per sostenere la necessaria volontà politica, dobbiamo ricordare che sulla nostra generazione incombe la responsabilità di produrre una delle maggiori trasformazioni della storia dell'uomo. Abbiamo visto che nei paesi ricchi la crescita economica non è più in grado di contribuire all'innalzamento della vera qualità della vita, e anche che il nostro futuro sta nel migliorare la qualità dell'ambiente sociale nelle comunità in cui viviamo. Il ruolo di questo libro è sottolineare che l'uguaglianza costituisce le fondamenta materiali su cui costruire migliori relazioni sociali.” (pp. 253-271)

7.

C’è uno scarto evidente tra l’analisi dei mali sociali avanzata da Wilkinson e Pickett e le soluzioni che essi propongono.

Tale scarto è da ricondurre al fatto che la nozione di disuguaglianza, identificata come la matrice principale di quei mali, non viene adeguatamente analizzata. Essa sembra ridursi ad un’eccessiva forbice tra i redditi che attesta o una composizione iniqua dei redditi stessi, dovuta al diverso potere di contrattazione sociale di coloro che lavorano, o ad un regime fiscale inefficiente sotto il profilo della ridistribuzione della ricchezza. Entrambi questi fattori di fatto sono reali e importanti, ma non primari. Essi dipendono dall’organizzazione complessiva di una determinata struttura sociale e dal modello di sviluppo socio-economico su cui essa si fonda.

Non è superfluo rilevare che se nel saggio non mancano riferimenti alla “follia” del neoliberismo, che, avviatosi alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, ha trascinato il mondo verso la catastrofe, il termine capitalismo non viene mai utilizzato. Questa lacuna può essere ricondotta all’intento degli autori di mantenere una sorta di obiettività scientifica e di neutralità ideologica. Si tratta comunque di una lacuna grave.

L’analisi del mondo contemporaneo non può prescindere dal fatto che, a partire dai primi dell‘800, è stato il modello di sviluppo socio-economico capitalistico, la cui espressione più rilevante è l’industrializzazione, a segnare le sorti del mondo. Tale modello ha avuto e ha un impatto diverso in rapporto alle diverse società.

Laddove esso si è originato, in Inghilterra, e laddove esso ha assunto un carattere egemone, negli Stati Uniti, la sua evoluzione è avvenuta con una progressione tale da promuovere, per una logica intrinseca, la globalizzazione e il neoliberismo. Non è un caso che la deregulation, vale a dire l’affrancamento del Capitalismo dai lacci e lacciuoli posti dallo Stato per impedirne una degenerazione (del tutto prevedibile) si sia avviata in Inghilterra (tatcherismo) e negli Stati Uniti (reaganismo).

Sull’esempio dell’Inghilterra, l’Europa ha aderito al modello capitalistico nel corso dell‘800. Tale modello, però, ha dovuto fare i conti non solo con una realtà sociale preesistente ben diversa da quella statunitense, che si è originata praticamente ex-nihilo, ma soprattutto con la pressione operata dal movimento socialista a partire dalla fine dell‘800 e con il “fantasma” del comunismo, incombente dall’epoca della Rivoluzione sovietica fino alla caduta del muro di Berlino.

Tale pressione ha costretto i governi europei ad alleviare le conseguenze sociali del Capitalismo con il ricorso al Welfare State, che, soprattutto nei Paesi scandinavi, ha finito con il configurare un'organizzazione sociale di fatto social-democratica, caratterizzata da un sistema fiscale progressivo estremamente severo funzionale ad una continua ridistribuzione della ricchezza sociale.

Fuori dell’Europa, il modello capitalistico è stato adottato liberamente solo dal Giappone, laddove, però, esso ha attecchito su di una struttura sociale gerarchica ma, al tempo stesso, comunitaristica, quindi in qualche misura protetta dagli eccessi dell’individualismo competitivo.

Se si tiene conto di questi dati storici, il saggio di Wilkinson e Pickett dimostra inconfutabilmente che la disuguaglianza è una conseguenza diretta dell’adozione più o meno integrale del modello di sviluppo socio-economico capitalistico.

Questo aspetto si può ritenere particolarmente importante perché esso aiuta a capire meglio quello che è avvenuto nel corso degli ultimi venticinque anni. Il neo-liberismo può, infatti, essere interpretato come un’autentica dichiarazione di guerra del Capitalismo al modello giapponese che, negli anni 80, sembrava avviato verso una sorta di egemonia mondiale, e a quello europeo, descritto efficacemente da J. Rifkin ne Il sogno europeo (Mondadori 2004), in opposizione a quello statunitense.

La dichiarazione di guerra del neoliberismo, con la complicità delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca mondiale, WTO), dominate dall’influenza statunitense, ha avuto effetti storicamente consistenti. Essa, infatti, per un verso, ha determinato la crisi, che ancora oggi appare profonda, del modello giapponese e la messa in discussione del Welfare State europeo, che è andato incontro ad un progressivo arretramento; e, per un altro, ha imposto alla globalizzazione, e quindi a tutti i paesi emergenti intenzionati a partecipare ad essa, un modello liberista (il Washington Consensus, stigmatizzato ripetutamente da Stiglitz) incentrato sul contenimento delle spese sociali, sui bassi tassi di interesse e sulla lotta contro l’inflazione: misure tutte atte a favorire lo sviluppo illimitato del Capitalismo in un regime di più o meno totale indifferenza nei confronti dei bisogni sociali.

Di questo scenario storico, che ormai sembra entrato in crisi, nulla risulta nel libro di Wilkinson e Pickett. La disuguaglianza sociale, di conseguenza, sembra quasi non già un dato strutturale inerente lo sviluppo del Capitalismo, ma l’effetto di una sorta di distrazione o di inconsapevolezza dei governi e della popolazione in riferimento a ciò che si può ritenere una buona società.

Il problema è che se, sulla carta, appare possibile formulare un progetto a riguardo, sul piano della pratica politica sembra molto ingenuo appellarsi ad una conversione del mondo al verbo dell’uguaglianza. Di mezzo, infatti, si dà un modello di sviluppo socio-economico che, nonostante le crisi che lo hanno caratterizzato e lo caratterizzano, appare ancora pericolosamente vivo e vegeto.

In questa ottica, la proposta degli autori di una lenta e progressiva partecipazione dei dipendenti alla gestione delle aziende in virtù di un’azionariato popolare, che potrebbe portare l’economia sotto il controllo sociale (non pubblico), appare alquanto ingenua. En passant, non è superfluo ricordare che tale proposta rievoca le riflessioni dell’ultimo Marx che, avendo preso atto del tramonto di una presa di potere rivoluzionaria da parte del proletariato, riteneva che la riappropriazione sociale degli strumenti di produzione potesse avvenire proprio sotto forma di azionariato popolare.

Questo, oggi, però si può ritenere impossibile per due motivi. Il primo fa riferimento al fatto che il sistema capitalistico è ormai sovranazionale. Ciò significa che, laddove un governo decidesse di favorire un processo di riappropriazione pubblica, attraverso l’azionariato popolare, delle aziende, ciò darebbe luogo quasi di sicuro alla dislocazione delle stesse dato l’interesse del capitale produttivo e dei manager che lo amministrano ad avere le mani libere. Il secondo motivo è ancora più inquietante. Il capitalismo contemporaneo, com’è attestato inconfutabilmente dalla crisi avviatasi nel 2007, tende ad essere sempre meno incline agli investimenti produttivi e sempre più alla speculazione finanziaria, che comporta il non avere a che fare con i dipendenti, i sindacati e il diritto del lavoro.

Anche la Borsa può essere fatta rientrare, in linea di principio, nell’ambito dell’azionariato popolare, visto che, attraverso le sue quotazioni, anche piccoli investitori assumono quote proprietarie sulle aziende. Ma La Borsa, più ancora del tessuto produttivo, è dominata dal grande Capitale e dai grandi Investitori al punto tale che essa facilita il prodursi di bolle speculative, che postulano l’affluenza di un numero indefinito e sempre più elevato di piccoli e ignari investitori, al fine di fare i suoi giochi: vale a dire di coinvolgerli in una crescita drogata dei valori azionari al fine di ritirarsi giusto in tempo per fare pagare la bolla ad essi.

Se si tiene conto di questo, l’ottimismo sul futuro di Wilkinson e Pickett sembra del tutto infondato o meglio riconducibile ad un’ottica riformistica del sistema che si può ritenere un po’ fuori dei tempi.

Ciò nulla toglie al valore documentario del saggio, che pone inesorabilmente di fronte al fatto che il Capitalismo è un sistema degenerativo, che ormai è giunto a minacciare gli equilibri planetari e la salute mentale degli individui che vivono nei paesi che lo adottano.

Che tale valutazione, retaggio del pensiero marxista, imputata anche di recente di “catastrofismo”, sia fatta propria da studiosi e pensatori liberal è un segno dei tempi, che ripropone un’antitesi considerata prematuramente sterile: quella, cui ho fatto cenno più volte, tra Socialismo e Barbarie.

La misura dell'anima non comporterà presumibilmente nell'immediato nessuna resipiscenza delle popolazioni occidentali e dei Politici, che si trovano ad affrontare i mali sociali in esso denunciati. Esso però potrà essere utilizzato proficuamente per contestare l'ideologia psichiatrica, che rischia di estendere le sue categorie nosografiche ad essi, e per riproporre in termini scientifici il rapporto tra struttura sociale e salute mentale, o meglio tra soggettività individuale e contesto storico-culturale.