La medicalizzazione della salute


1.

Anni fa, in un libro che suscitò scalpore (Nemesi medica), Ivan Illich anticipava la possibilità che la medicalizzazione della salute, vale a dire l'assunzione totale della vita sotto l'egida della medicina, potesse contribuire a prevenire qualche male, producendone uno di portata epocale: una percezione di precarietà fisica, che avrebbe infine determinato un'esperienza individuale e collettiva di terrore. All'epoca, le tesi di Illich furono criticate e respinte con un certo sdegno dalla classe medica. Qualche eccesso di fatto si dava in esse: Illich contestava che fosse stata la medicina a produrre la diminuzione della mortalità e l'allungamento della vita, riconducendo entrambe al miglioramento delle condizioni oggettive di esistenza. E' probabile che i due fattori abbiano agito sommandosi e potenziando l'effetto. Egli contestava anche il verbo, che iniziava a diffondersi, della prevenzione, in nome del fatto che esso intanto attribuiva alla medicina un potere immenso, laddove, in realtà, è limitato, e, in secondo luogo, creava a livello collettivo un'aspettativa d'immortalità priva di fondamento.

Nonostante questi eccessi, il pericolo denunciato da Illich di una medicalizzzione della salute, che avrebbe finito con il fragilizzare la capacità umana di confrontarsi con la vita in ciò che essa ha di casuale e incontrollabile, era del tutto reale. Quel pericolo, infatti, si è pienamente realizzato. Le prove sono molteplici, e penso che, per analizzarle compiutamente, un solo articolo non basti. Il tema dunque verrà sicuramente ripreso. Per ora, il problema è impostarlo, partendo da una considerazione che può apparire bizzarra.

Una presa in carico totale della vita umana dalla nascita alla tomba, con un intento salvifico, è stato storicamente l'ombrello che in passato la religione ha offerto (e offre ancora oggi) ai credenti. La nascita viene contrassegnata dal battesimo, che libera l'uomo dal peccato originale; la morte viene assecondata dall'estrema unzione, che prepara l'uomo a presentarsi di fronte al Giudice divino in uno stato di non colpevolezza. La comunione permette all'infante, che ha raggiunto una capacità d'intendere e di volere, di realizzare un unione più intima con Dio a salvaguardia della sua anima. La prima comunione è un rito che può essere ripetuto infinite volte nel corso della vita, sempre con lo stesso fine. La confessione riabilita il rapporto con Dio, compromesso dalle debolezze umane, e consente di scongiurare un destino di dolore infinito, che tocca a coloro che muoiono in stato di peccato. La cresima conferma la fede, l'aspirazione alla salvezza e pone al riparo dai turbamenti adolescenziali, che il Maligno tende a sfruttare. Il matrimonio, giusto l'insegnamento di S. Paolo, soddisfa gli appetiti della carne e serve ad impedire che essi precipitino il credente nel peccato mortale.

La presa in carico totale della vita da parte della religione riguarda in primis l'anima. Ma, dato che la vita oltremondana comporterà la resurrezione dei corpi, che questi, con l'anima, siano destinati al piacere o alla punizione infernale non è privo di significato.

Se si considera il ruolo svolto storicamente dalla religione, si arriva facilmente a capire che la medicina ha tentato e tenta di accaparrarselo. Certo, la sua attenzione elettiva è per il corpo, ma star bene in salute (come attesta il ben noto proverbio che fa discendere la salute mentale da quella fisica) è ritenuto un viatico per la felicità e per l'equilibrio psicofisico.

2.

Il primo dato che conferma inconfutabilmente la fondatezza dell'ipotesi di Illich è il numero delle persone che, nelle società avanzate nelle quali si è realizzato il massimo sviluppo della medicina, vivono un perpetuo malessere incentrato su preoccupazioni inerenti la salute. La punta di quest'iceberg sono ovviamente gli ipocondriaci in senso proprio, quelli cioè che temono costantemente di essere affetti da una qualche malattia e si rivolgono ai medici per essere visitati, fare analisi e stare tranquilli. Il problema è che, data la natura ansiosa di questa preoccupazione, la rassicurazione lascia il tempo che trova. Talora l'effetto rassicurante dura alcuni giorni, talaltra si esaurisce un istante dopo che il soggetto ha abbandonato lo studio medico.

E' chiaro che questo fenomeno non è stato prodotto direttamente dalla medicina. Esso riconosce complesse ragioni individuali e sociali.Ma è pur vero che la medicina, ponendosi come una scienza che può stabilire con certezza lo stato di salute o di malattia di un organismo, ha concorso ad alimentare la speranza di una rassicurazione totale. Quale fondamento ha quella certezza? Un fondamento precario, come ben sanno gli ipocondriaci che rivolgono ai medici la domanda fatale (per loro) concernente la possibilità di escludere in maniera assoluta che il loro organismo alberghi, in uno dei tanti (troppi) organi qualche cellula in via di trasformazione tumorale. Se è onesta, la risposta non può essere positiva, e questo basta a precipitare nell'angoscia l'interessato.Il quale, di solito, sotto la spinta dell'ansia, giunge alla conclusione che l'unico modo per non soffrire le pene dell'inferno è di sottoporsi il più frequentemente possibile a visite e controlli. I medici stanno al gioco, perché gli ipocondriaci sono clienti che pur di stare tranquilli sono disposti a vendersi la camicia. La cosa va avanti finché essi non cedono sotto il peso dell'ansia dei pazienti e della loro delusione di non riuscire a trovare la malattia che da qualche parte deve pur esserci, dato i sintomi che hanno. Il cedimento avviene sotto forma di ingiuria, secondo la classica formula che elegge i pesci a singolari campioni biologici immuni dalle malattie, e implica che i mali accusati sono immaginari.

La medicina sbaglia dunque due volte: la prima, accampando il potere di promettere certezze al di là del possibile; una seconda, nel definire sani come pesci soggetti che soffrono, di fatto, di una situazione di disagio psicosomatico, anche se non di ordine strettamente biologico.

Gli ipocondriaci, come ho detto, sono solo la punta di un iceberg. Il corpo è costituito da un enorme numero di persone affetti da depressioni fruste, ansie somatizzate, sintomi psicosomatici che, senza arrivare a nutrire una preoccupazione "ossessiva" riferita da una malattia mortale, si rivolgono comunque ai medici per avere una diagnosi o una cura. Basta una buona preparazione medica e un po' d'attenzione per riconoscere, nell'insieme dei sintomi accusati dal paziente, quelli che comportano il sospetto di una malattia e quelli che sono di origine psicosomatica. Il margine di errore esiste, come in tutte le valutazioni umane, ma, data quella preparazione, è piuttosto ristretto.Per non correre rischi, però, talora in buona fede talaltra con intenti speculativi, anche quando hanno il sospetto che non si diano problemi organici, i medici prescrivono il solito check-up, qualche radiografia e qualche visita specialistica. L'esito di solito è che viene fuori qualcosa: un indice ematico superiore alla media, la gastrite, la colite, l'artrosi, ecc. Si tratta di situazioni insignificanti sotto il profilo medico, tanto più se esse hanno un'origine psicosomatica, ma tanto basta a dare luogo a false diagnosi e alla conseguente prescrizione di medicinali.

I pazienti sono contenti di curare un male che non c'é. Sono contenti al punto che è, per loro, un bel guaio se incontrano un medico onesto che gli dice la verità e rifiuta di accedere alle loro richieste di controlli periodici e di medicine. Nella migliore delle ipotesi, vanno alla ASL e lo cambiano, ritenendolo incompetente.

3.

Accade anche di peggio, vale a dire che, in nome della prevenzione, vengono affrontate come malattie situazioni del tutto fisiologiche.

Questo avviene, nel nostro mondo, costantemente in rapporto alle gravidanze, all'allevamento dei bambini e alla menopausa. Si tratta in sé e per sé di processi fisiologici, ciascuno dei quali può comportare, sia pure raramente, lo sviluppo di una malattia intercorrente.Questa possibilità, che dovrebbe essere affrontata nel momento in cui si realizza, viene invece interpretata dai medici e fatta vivere ai soggetti, se già non sono predisposti dalla loro ansia, come una minaccia immanente da scongiurare attraverso controlli assidui o cure.

Capita così che le donne incinte che non hanno alcun problema si rechino dal ginecologo una volta il mese, che i bambini assolutamente sani vengano portati dal pediatra anche più spesso, che le donne in menopausa vengano trattate con terapie ormonali sostitutive.

Sui primi due problemi tornerò di sicuro. Qui vorrei soffermarmi sul terzo, e riferire gli esiti di una modesta ricerca che ho fatto.

L'Enciclopedia Medica Italiana, un'opera apprezzata in campo internazionale per la sua completezza, ha avuto sinora due edizioni.La seconda edizione risale agli anni '80; il secondo aggiornamento alla fine degli anni '90. La voce menopausa è illustrata nel 9 volume del 1982 e nel secondo volume del secondo aggiornamento del 1999. L'autore è lo stesso.Nel primo volume egli scrive: "L'assunto per cui un evento fisiologico, come la m., necessiti sempre di provvedimenti terapeutici, appare viziato da una serie di equivoci che ne costituiscono la premessa e da una sopravvalutazione dei risultati ottenuti con la terapia estrogenica.La perdita di ogni potenzialità riproduttiva, palesemente documentata dalla scomparsa dei flussi mestruali costituisce un punto di riferimento così importante per la donna da essere considerata come causa di una serie di disturbi propri della cosiddetta "età critica".Ciò fa trascurare altri fattori eziologici forse meno evidenti, ma di uguale se non di maggiore importanza, quali l'età più avanzata, i possibili squilibri affettivi che si producono nel contesto familiare, le abitudini alimentari improprie, l'esagerata riduzione dell'attività fisica, talora le ridotte gratificazioni nei sentimenti e nel lavoro. A questa erronea e automatica identificazione fra m. e "malanni della terza età", si è aggiunta la mistificazione dello slogan "donna per sempre", quasi un'eterna giovinezza, proposto negli anni '60, per tutte le donne che assumevano estrogeni dopo la m. Sicchè, mentre veniva avvalorata la dipendenza dalla m. di tutti i malanni dell'età evolutiva, dall'altro gli estrogeni venivano propagandati come una sorta di panacea a portata di mano.A venti anni di distanza molti degli effetti, reclamizzati, degli estrogeni sono stati ridimensionati, evidenziando spessissimo la natura placebo di tali farmaci… E' molto più facile che una buona attività fisica, un buon livello di vita, regolari e appropriati regimi dietetici, ottimali condizioni climatiche e moderazione nel fumo, assieme a riuscite attività lavorative e ricreative, possano modificare alcuni dei sintomi indesiderati, agendo in maniera più efficace e salutare" (p. 911).In conclusione: "Sembra doversi riconoscere che la terapia con estrogeni rappresenta comunque un rimedio palliativo e costoso, in termini di salute della donna, i cui disturbi, pur essendo sociali e culturali in origine, diventano, una volta portati all'interno di uno studio medico, materia di discutibili trattamenti farmacologici. Ai medici in genere sarà richiesto sempre più di frequente di effettuare questi trattamenti ormonali. Tuttavia, almeno fino a quando i problemi più importanti non saranno risolti… sarebbe bene considerare ogni trattamento come potenzialmente pericoloso" (918).

Nell'aggiornamento del 1999, invece, a firma, come detto, dello stesso autore, si legge: "Gli obbiettivi terapeutici, allo stato dell'arte, sono quelli di ridurre i disturbi vasomotori ed ogni conseguenza a breve termine della cessata funzione ovarica, di conseguire le conseguenze a medio termine, come le turbe del trofismo urogenitale, e quelle a lungo termine, l'osteoporosi e le malattie cardiovascolari. Gli estrogeni si sono rivelati capaci di perseguire tutti questi obbiettivi" (p. 3638). Questo significa che per raggiungere tali obbiettivi, la terapia sostitutiva va mantenuta per un periodo di almeno 7 - 8 anni.Essa va prescritta "alle pazienti che lamentano i classici sintomi vasomotori e a quelle a rischio di osteoporosi e/o per malattia cardiovascolare" (p. 3646), ma "non andrebbe negata a chi ne facesse richiesta esplicita, pur non avendo sintomi né rischi particolari" (p. 3647).Conscio della contraddizione rispetto a quanto scritto vent'anni prima, l'autore non rinuncia a giustificarla: "A fronte dell'aumentata aspettativa di vita, che per la donna è di circa ottant'anni, e dei cambiamenti all'interno della nostra società emerge sempre di più la necessità di una diversa cultura medica: non più orientata solo a individuare la malattia, per poi curarla, ma a prevenirla o a posticiparla per comprimere la morbidità ad un periodo il più breve possibile e il più vicino possibile alla morte, affinchè ad una maggiore longevità si associ anche una migliore qualità della vita. In quest'ottica vanno conosciute le patologie che una donna può sviluppare dopo la m., i loro fattori di rischio, e tutte le misure utili, fra cui la terapia ormonale sostitutiva, a ridurre la loro incidenza o i loro effetti negativi" (p. 3634).

Il cambiamento radicale d'impostazione comporta il fatto che, laddove le donne che hanno disturbi medici da menopausa, sono all'incirca il 20%, il numero delle donne che oggi usano gli ormoni dopo la menopausa è intorno al 70%. Non essendo intervenuti, nel giro di pochi anni, né rilevanti modificazioni sociali né scoperte scientifiche atte ad avallare un cambiamento così radicale, è evidente che qui è in gioco il potere delle case farmaceutiche, che minimizzano gli effetti cancerogeni delle terapie ormonali.

Non si potrebbe esemplificare in maniera più appropriata l'ideologia della medicalizzazione della salute.

Maggio 2003