1.
Parallelamente alla crescita dei fenomeni di disagio psicologico (ansia, depressione, ecc.), in tutti i paesi occidentali si sta verificando l’aumento di patologie dolorose di vario genere: cefalee, gastralgie, coliti, mialgie, artralgie, ecc. In termini statistici, il parallelismo evoca il sospetto che tra i due ordini di fenomeni esista una relazione: in breve, che le patologie dolorose siano di natura psicosomatica e rappresentino l’equivalente di un disagio psichico.
Il problema sotto il profilo sanitario è che le persone affette da dolore si rivolgono ai medici di base e agli specialisti (neurologi, gastrenterologi, ortopedici, reumatologhi, ecc.) con l’intento di giungere a sapere di che malattia soffrono e qual è la cura adeguata. Entrano, così, senza sapere in un labirinto di accertamenti, diagnosi (spesso spurie), trattamenti farmacologici, fisioterapici, ecc., i cui esiti terapeutici sono complessivamente mediocri, ma che, in compesno, assicurano a medici, laboratori diagnostici, industrie farmaceutiche, lauti guadagni.
Ho già accennato in precedenza, nell’articolo introduttivo di questa sezione (MedicalizzazioneSalute.html), al problema che, trent’anni orsono, Illich impose all’attenzione dell’opinione pubblica. Molta acqua è passato sotto i ponti, ma il suo effetto sembra essere stato quello di rimuovere del tutto gli interrogativi posti da Illich.
La domanda di cura, che affiora ingenuamente a partire da un’organizzazione della coscienza priva di qualunque capacità introspettiva, si rivolge ad una classe medica del tutto sprovveduta di strumenti interpretativi psicosomatici, e ottiene di conseguenza false risposte.
Uno dei fenomeni più sconcertanti della nostra epoca è il mantenersi, a livello di opinione pubblica, di una concezione astratta della medicina e del ruolo dei medici. Nonostanti i numerosi e ricorrenti fenomeni di malasanità, che pongono in luce intrecci complessi tra il mondo medico, le industrie e gli affari (spesso truffaldini), molte persone hanno bisogno di continuare a credere che la medicina sia fondamentalmente orientata a lottare contro tutte le forme di sofferenza fisica che affliggono gli esseri umani e che i medici continuino ad essere missionari pervasi dallo spirito di Ippocrate.
La realtà è che la medicina ormai è il business di maggiore rilevanza economica che esista nei paesi occidentali. Ciò significa che gli interessi economici sono di gran lunga prevalenti su quelli umanitaristici.
Come si realizzano quegli interessi? Semplicemente medicalizzando tutti i problemi che gli uomini incontrano dall’inizio alla fine della vita, i quali si esprimono con una sintomatologia fisica.
Da qualche anno, come accennato, sono le patologie dolorose al centro dell’attenzione medica. Tra queste spiccano le cefalee.
Prendo spunto, per avviare il discorso, da un articolo pubblicato su L’Espresso del 12 gennaio 2006. Una tabellina riporta i dati inquietanti sull’incidenza della cefalea in Italia: un milione e mezzo di soggetti soffrono di mal di testa ogni giorno, sei milioni ne soffrono in maniera ricorrente.
L’articolo però non verte sull’insieme delle cefalee, ma su una forma singolare, e per fortuna rara, quella cosiddetta a grappolo. Forma terribile, con la quale mi sono confrontato professionalmente solo in poche circostanze (precisamente tre), giungendo alla conclusione, supportati dai fatti (la guarigione in due casi, un rilevante miglioramento in un terzo), che si tratta di una condizione di matrice psicosomatica, anche se i meccanismi di attivazione del dolore sono sicuramente biochimici.
L’articolo invece riferisce di una guarigione miracolosa avvenuta per effetto di una nuova tecnica.
Il paziente miracolato è un manager che ha cominciato a soffrire di mal di testa a 16 anni, ed è andato avanti, con crisi atroci, sino a 34. All’inizio le crisi si raggruppavano nell’arco di dieci-quindici giorni due o tre volte l’anno, riconoscendo dunque lunghi intervalli che hanno permesso al paziente di inserirsi nel mondo del lavoro e di fare carriera, assoggettandosi a ritmi stressanti. Nel corso degli anni, però, nonostante tutte le cure allopatiche e alternative scrupolosamente seguite, le crisi sono comparse con intervalli sempre più riavvicinati finché la cefalea è cronicizzata, gettando il paziente nella disperazione totale.
E’ a questo punto che egli, perfettamente conscio dei motivi per cui la cefalea a grappolo in passato veniva denominata cefalea del suicidio, viene a sapere di una nuova tecnica messa a punto presso un Istituto di ricerca milanese. La tecnica in questione è una variante della deep brain stimulation, adottata sin dal 2000 e che comporta l’impianto di un microchip nell’ipotalamo (una zona profonda del cervello) che consente di regolare attraverso impulsi elettrici la sua attività. Posto che tale tecnica comporta un tasso elevato di mortalità (l’1%), la nuova tecnica impianta il chip sotto la cute della nuca.
L’effetto dell’impianto, nel paziente in questione, dopo due settimane è prodigioso. I sintomi scompaiono ed egli torna ad una vita normale.
Auguro al paziente ogni bene. Rimango però sorpreso che, nella sua lunga carriera di cefalalgico, egli non abbia inoltrato nessuno che lo abbia aiutato a prendere coscienza del rapporto tra il mal di testa e il suo stile di vita (sicuramente da manager ultraperfezionista). Tutti gli specialisti consultati si sono evidentemente attenuti al principio, corrente nell’ideologia medica contemporanea, secondo il quale non si dà sintomo sine materia. In questa ottica, la cura si rivolge a guarire la malattia che si presume esistere dietro il sintomo: nel caso in questione, addirittura, ad intervenire sulle strutture cerebrali perché esse si adattino allo stile di vita del soggetto.
Il caso è significativo di una mentalità che si va diffondendo: quella secondo la quale, in quanto padrone di sé, il soggetto ha diritto a stabilire gli obiettivi che intende perseguire nella vita, indipendentemente dal fatto che essi si accordino o meno con le leggi di natura e con i vincoli funzionali del cervello. La medicina, di conseguenza, e non senza interesse, si pone a servizio del soggetto, e lo aiuta a rimuovere gli ostacoli sintomatologici che gli impediscono di perseguire i suoi obiettivi. Alimenta, insomma, il mito contemporaneo per cui è deve essere padrone della sua vita, mentre, in quanto prodotto di una lunga evoluzione biologica e culturale egli ne è tutt’al più l’amministratore e, in quanto tale, può commettere errori molto seri, poco o punto compatibili con le leggi dell’organismo e della mente.
Perché ritengo questo aspetto particolarmente importante? Perché l’epidemia delle cefalea che è una tipica sindrome delle società evolute sta avvenendo in parallelo con l’affermarsi di richieste ambientali e di richieste soggettive che si possono ritenere complessivamente perfezionistiche. Tale nesso, evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso, non è colto né dai pazienti né dalla medicina. I primi o non hanno alcun potere sulle richieste ambientali che vengono loro rivolte o non hanno alcuna consapevolezza del modello di vita catastrofico che si impongono. La medicina, per conto suo, data l’entità della domanda di cura che ad essa si rivolge, ha tutto l’interesse di decifrarla come una domanda medica a cui occorre dare una risposta tecnica.
Il discorso è sempre lo stesso. Cos’altro deve fare la medicina se non portare avanti la sua lotta contro il dolore e la sofferenza umana? Beh, potrebbe per esempio riflettere sulla rozzezza dei presupposti antropologici da cui muove, che sono ancora vincolati ad un ridicolo meccanicismo.
2.
Per capire un po’ più da vicino come stanno le cose, mi permetto di fare riferimento alla mia esperienza di medico. Subito dopo la laurea, avviando la specializzazione in neurologia, e avendo già l’intenzione di diventare psichiatra, mi dedicai alle patologie di confine della neurologia stessa, quelle nelle quali si poteva presumere una componente psicosomatica. All’epoca, sulla scorta di Balint, la medicina psicosomatica si configurava come il nuovo paradigma destinato a sostituire quello in auge, meramente organistico. Per assumere una configurazione scientifica, essa però, ponendo da parte gli eccessi interpretativi della psicoanalisi tradizionale, imponeva di riflettere sull’interazione tra soma e psiche, tra la fisiologia del corpo e l’esperienza vissuta del soggetto, in maniera tale da cogliere, di volta in volta, il peso delle variabili biologiche e psicologiche.
In questa ottica, dedicai non meno di tre anni allo studio delle cefalee, che erano già frequenti, anche se in un numero molto inferiore ad oggi.
In questo ambito di studio, imperava allora una scuola giustamente famosa: quella fiorentina di Sicuteri, che perseguiva l’obiettivo di chiarire i meccanismi fisiopatologici e biochimici intrecciati con le diverse forme di cefalea. I risultati scientifici delle ricerche erano molto suggestivi, e sicuramente utilizzabili in una prospettiva psicosomatica. Purtroppo, la scuola di Sicuteri già era preda di un’ideologia biologista, che comportava la pretesa di giungere a debellare la cefalea con i farmaci.
Partecipando ad alcuni congressi, mi fu rapidamente chiaro che la scuola fiorentina era sponsorizzata da due grandi industrie farmaceutiche, che, avendo intuito il budget potenziale, avevano messo in commercio farmaci che, a dire il vero, sembravano produrre più effetti collaterali che non terapeutici. La sperimentazione clinica, affidata a Sicuteri, diceva il contrario di ciò che verificavo di persona. Capii per questa via che ci si può fidare poco delle ricerche universitarie in ambito medico quando esse sono sponsorizzate dalle industrie.
Nel giro di tre anni, la pratica personale mi aveva posto di fronte a dati poco oppugnabili. Le cefalee per le quali si può ammettere una predisposizione specifica vasomotoria e biochimica non superavano il 10%; in tutte le altre, la componente psicosomatica era più o meno assolutamente prevalente. In rapporto al campione di cui disponevo, tale componente si riconduceva a tre fattori fondamentali. In un numero rilevante di pazienti, la cefalea era la conseguenza di un orientamento di personalità perfezionistico, vale a dire di eccessive richieste "energetiche" che i soggetti rivolgevano a se stessi. In un numero minore, essa rappresentava la conseguenza di una conflittualità interpersonale (spesso a livello di rapporti familiari) che i soggetti rimuovevano più o meno completamente. In alcuni casi, infine, era assolutamente evidente il rapporto con condizioni oggettive di vita pesanti, stressanti, o intollerabili.
Giunto a questa conclusione, abbandonai l’ambito clinico della cefalea per dedicarmi alla psichiatria.
Nel corso degli anni, essendomi confrontato infinite volte con esperienze nelle quali la cefalea rappresentava il sintomo prevalente o uno dei sintomi, non mi sono imbattuto in alcuna situazione che mi inducesse a modificare quella conclusione.
Ciò nonostante, non sono rimasto sorpreso dal fatto che, aumentando di continuo il numero delle persone affette da cefalea, le industrie e i medici si siano massicciamente mobilitati nella direzione della medicalizzazione del fenomeno.
Mutatis mutandis, sta accadendo, in rapporto alla cefalea, la stessa cosa che è accaduta per la depressione. I medici, sulla scorta di ricerche cliniche opinabili, hanno cominciato a far circolare la voce secondo la quale la causalità organica della cefalea sarebbe stata dimostrata, almeno per quanto concerne la predisposizione sulla cui base essa si manifesta. Le industrie farmaceutiche, nella misura in cui hanno sponsorizzato quelle ricerche, hanno prodotto e stanno producendo farmaci ai quali si attribuisce un’efficacia terapeutica di gran lunga superiore a quelli adottati in precedenza.
Certo, sulla carta nessuno nega, come peraltro per la depressione, che alla genesi della cefalea possano concorrere anche fattori psicologici, ambientali, ecc. Il paradigma multidimensionale è ormai imperante in tutto l’ambito di disturbi per il quale una genesi monocausale è semplicemente ridicola. Nella pratica, però, tale modello viene accantonato: l’attenzione dei medici si rivolge al corpo e al sintomo ed è orientato univocamente a debellare quest’ultimo con un ricorso sempre più massiccio di farmaci ad hoc.
In conseguenza degli interessi comuni alla classe medica e all’industria farmaceutica, la cefalea è stata scorporata dall’ambito della medicina generale che, in precedenza, se ne interessava. E’ divenuta univocamente una malattia biologica che, per essere diagnosticata e curata, richiede elevate competenze specialistiche.
Stanno fiorendo ovunque, a livello di cliniche universitarie e di ospedali pubblici, centri per le cefalee che, con la loro pretesa iperspecialistica, attirano un numero sempre maggiore di pazienti che non hanno ricavato vantaggio dalle cure effettuate.
L’iter all’interno di questi centri è organizzato sulla base di una protocollo univoco. Si parte dal presupposto che le diagnosi fornite dai medici di base, che spesso fanno riferimento all’emicrania comunque, siano comunque da verificare in virtù di indagini (ovviamente dispendiose), che impegnano il paziente per due-tre mesi, dato che, oltre a vari screening biochimici, occorre fare anche la Risonanza Magnetica.
Si tratta, infatti, di escludere patologie gravi, per quanto rare, come il tumore, l’aneurisma, l’angioma, ecc.
Escluse tali patologie, si giunge alla diagnosi di emicrania o di cefalea nelle sue diverse forme, che viene comunicata al paziente facendogli presente che si tratta di una malattia cronica, su base costituzionale, che dovrà essere tenuta sotto controllo vita natural durante, quale che sia l’esito dei trattamenti. Questi vengono prescritti adottando gli ultimi farmaci prodotti dall’industria, che, comportando effetti collaterali piuttosto rilevanti, richiedono nei primi mesi numerosi controlli chimici e laboratoristici.
Riguardo ai farmaci comunemente utilizzati, occorre fare una riflessione. Gli antalgici e i derivati dell’ergotamina, che in passato andavano per la maggiore, ormai sono utlizzati solo dai pazienti che si autocurano. Gli antidolorifici di pronto intervento sono gli antinfiammatori. Il focus del trattamento però si è spostato dall’ambito della cura a quello della prevenzione. Non è una novità assoluta. Già la scuola di Sicuteri aveva insistito sulla necessità di modificare il "terreno" emicranico, riuscendo ad imporre l’uso di un farmaco (il Deserril), a tal punto pericoloso per suoi effetti collaterali che, dopo una larga diffusione, è stato ritirato dal commercio.
L’obiettivo di Sicuteri è stato ripreso dagli specialisti contemporanei che fanno ampio ricorso a farmaci a base di triptano: farmaci che vengono prodotti a ritmo crescente dalle industrie, e che costano sempre di più.
Lo spostamento dal terreno della cura a quello della prevenzione porta non pochi vantaggi. Se il farmaco funziona (in un numero ridotto di casi per i quali non si può escludere l’effetto placebo), i medici cantano vittoria. Se non funziona, si può sempre sostenere che la cura ha evitato un peggioramento.
A scanso di equivoci, ai triptani vengono spesso associati gli antidepressivi (in dosi modiche) e gli stabilizzatori dell’umore. Questo significa che i medici riconoscono una componente psicosomatica? Macché. Gli psicofarmaci sono utilizzati in quanto la ricerca ha dimostrato essere efficaci in rapporto al terreno emicranico.
Imboccato il tunnel della medicalizzazione, è difficile uscirne. Non diversamente da quanto accade nella cura della depressione, gli esiti terapeutici sono di solito abbastanza deludenti. Ciò nondimeno gli "specialisti", oltre a cambiare le cure, consigliano di continuarle, perché, se esse non inducono un miglioramento, evitano un peggioramento.
Il messaggio incide, ma, nel tempo, la fiducia nella medicina viene meno e gran parte delle persone abbandonano i centri, rivolgendosi alla medicina alternativa o arrendendosi all’automedicazione. Ciò avviene, però, all’insegna della convinzione di essere affetti da una malattia cronica, con la quale occorrerà fare i conti per sempre.
Naturalmente, su questa base, è facile che la messa in commercio di un altro farmaco "miracoloso", induca i pazienti a riprovare.
3.
Per portare avanti il discorso, occorre partire da alcuni presupposti scientifici.
Il primo dissolve la contrapposizione, che fa parte del senso comune, tra dolori reali e dolori immaginari. Tutte le esperienze dolorose che un soggetto sperimenta sono reali, perché esse implicano un’attivazione dei centri del dolore presenti a livello cerebrale. E’ comprovato, però, che questi centri possono essere attivati sia da cause periferiche, organiche (per esempio, da una spina che entra nel piede) che da cause psicologiche (per esempio, da una spina nel cuore). Se si dà una differenza tra questi due ordini di cause è presumibilmente da ricondurre al fatto che le prime sormontano la soglia del dolore, mentre le seconde non solo la sormontano, ma hanno il potere di abbassarla. Per ciò parlare di una soglia costituzionale al dolore non è illecito, ma assolutizzare questo dato è errato. Una soglia normale può criticamente crollare per effetto di conflitti psicodinamici.
In un’ottica psicosomatica, dunque, tutti i dolori hanno la stessa dignità.
Se si dà un’ovvia differenza tra dolori organici e dolori psicosomatici è che i primi sono segnali di una malattia o di una disfunzione, mentre i secondi sono segni: essi esprimono attraverso il corpo uno stato di sofferenza psicologica che, spesso, non è riconosciuto a livello cosciente.
Il secondo presupposto è che anche i dolori psicosomatici devono necessariamente riconoscere meccanismi ultimi di ordine neurofisiologico o biochimico. La dimostrazione, pertanto, di sostanze chimiche in difetto o in eccesso nel caso delle cefalee, non diversamente da quanto accade nell’ambito della depressione, non dice nulla sulla loro genesi.
Il terzo presupposto concerne un’ulteriore differenza tra dolori organici e dolori psicosomatici che, sotto il profilo diagnostico, vale più di tanti esami laboratoristici e strumentali. I primi infatti sono, in genere, molto più sensibili agli antalgici dei secondi. Il motivo di questa differenza è da ricondurre a quanto è stato detto in precedenza. Essendo i dolori psicosomatici segni e non segnali, vale a dire funzionando essi come messaggi che l’inconscio invia alla coscienza per indurla a prendere atto di uno stato di squilibrio psicologico che essa, spesso, stenta a riconoscere o rimuove, è evidente che essi non si lasciano facilmente reprimere dai farmaci.
Anche se la coscienza infatti dà ad essi un significato univocamente negativo, i dolori psicosomatici, in quanto segni, ne hanno uno potenzialmente positivo: quello di promuovere una consapevolezza che potrebbe risolvere il problema in questione alla radice.
Mi si consentirà a questo punto di fare un esempio semplice, ma di una certa importanza.
Un numero rilevante di soggetti che hanno un orientamento di vita coscientemente o inconsciamente perfezionistico, e che quindi operano nei propri confronti delle richieste energetiche eccessive, soffrono di mal di testa periodici. In questo ambito, il caso più frequente è quello delle casalinghe che hanno la "mania" dell’ordine e della pulizia. Per quanto esse sostengano di avere scelto di vivere come vivono e di essere contente, si tratta in realtà di un regime di sregolatezza che viene mascherato dal suo realizzarsi sotto forma di pratica virtuosa. Dato questo difetto di autoregolazione, che mantiene costantemente un regime di stress, solo il mal di testa, spesso con ricorrenza settimanale, le costringe a darsi un po’ di respiro, a riposare e a stare a letto.
In questo caso, il carattere di segno della cefalea è poco dubitabile, ed è comprovato dalla scarsa efficacia delle cure contro l’emicrania. La cefalea, infatti, è l’unica "cura" che può sommnistrare l’inconscio se non viene ascoltato. I trattamenti farmacologici che restituirebbero il soggetto alla sua sregolatezza riescono pertanto inefficaci, perché, in termini psicodinamici, essi sono "dannosi".
Il perfezionismo, di fatto, è il tratto di personalità più frequentemente presente nelle persone che soffrono di cefalea. Riconosciuto da sempre, questo dato viene rimosso dagli studiosi e dai medici che, abusando di Ippocrate, si sono lanciati da alcuni anni sulla via della lotta contro il terribile male.
Un’altra circostanza frequentemente rilevabile è legata ad uno scarto tra un assetto cosciente piuttosto controllato e una reattività emozionale molto intensa, specie sul registro delle emozioni negative. In questi casi, la cefalea serve al tempo stesso ad esprimere le quote emozionali che il soggetto reprime o rimuove e, in conseguenza della colpevolizzazione di esse, a far pagare al soggetto i prezzo della sua "cattiveria".
Si tratta di dinamiche molto semplici che, per essere valutate, non richiedono neppure profonde conoscenze psicodinaliche.
La scienza delle cefalee (ma quante specializzazioni si producono nel nostro mondo?) ha deciso di mettere da parte questi aspetti come non pertinenti. Di fatto, essi non giustificherebbero né i centri specialistici né quelli di ricerca né, infine, la somministrazione di farmaci sempre nuovi e a costo crescente.
Certo, la domanda di cura che muove dai pazienti che soffrono di mal di testa è quella che è, e si pone essa stessa sul piano medico. Non si può richiedere alle persone di capire da sole che il corpo, oltre ad avere una sua fisiologia e le sue patologie, è anche una cinghia di trasmissione e uno strumento espressivo della vita interiore. Farsi carico di quella domanda acriticamente e rispondere ad essa su di un piano strettamente biologico non è degno però di una medicina all’altezza dei suoi compiti.