L'"invenzione" delle malattie


1.

Ormai il dato è ufficiale. Le strategie di marketing delle industrie farmaceutiche sono consapevolmente orientate a inventare malattie per convincere persone sane a consumare farmaci. Le previsioni di Ivan Illich si stanno realizzando al di là di quanto l’autore pensava. A far scattare la trappola del consumismo farmacologico concorrono infatti non solo il terrore della malattia, del dolore, del declino fisico, della morte, ma anche – circostanza che Illich non aveva previsto – l’ossessione del benessere totale, dell’iperefficienza, dell’estetica.

Il problema della medicalizzazione della vita può essere affrontato da vari punti di vista: economico, culturale, filosofico, psicologico, scientifico. Quest’ultimo punto di vista è il più trascurato dai critici della pratica medica contemporanea. Appare opportuno pertanto partire da esso.

L’organismo umano è un sistema complesso. Indagato sotto questo profilo, anche tenendo solo conto dell’aspetto biologico, gli studiosi sono giunti alla conclusione che uno stato assoluto di salute, vale a dire di perfetta funzionalità di tutti gli organi e di corrispondenza di tutti gli indici biochimici al range di normalità definito dalla medicina, non esiste.

Il motivo è semplice. Dato il numero indefinito delle variabili che concorrono alla dinamica di un sistema complesso, l’equilibrio di cui esso può godere è oscillatorio. Questo significa che tutte le funzioni e i meccanismi biochimici che ad esse si associano fluttuano intorno ad un valore ottimale che però non può essere assolutamente stabile.

Il concetto dell’equilibrio oscillatorio è recepito dalla medicina. Quando si fa un banale checkup, ogni risultato riconosce un parametro di riferimento che comporta un range: la glicemia, per esempio, è normale se essa risulta superiore a 80 e inferiore a 120.

Il problema è che un sistema complesso, per definizione, è qualcosa di più della somma delle parti. L’equilibrio complessivo del sistema non solo è compatibile, ma talora richiede, per oscure ragioni dinamiche, che una funzione o un indice si mantengano al di fuori del range della normalità.

Un esempio estremamente significativo di questa “legge” risale a ricerche, effettuate anni or sono nell’ottica della teoria dei sistemi complessi, sul ritmo cardiaco. Il senso comune (quello, per intenderci, che spinge gli ipocondriaci a tastarsi il polso) implica che la regolarità del ritmo cardiaco sia un indice essenziale del buon funzionamento dell’organo. Le ricerche in questione hanno messo in luce, invece, con tecniche sofisticate, che la normalità cardiaca è assicurata da lievi asincronie tra le varie pulsazioni, e che, nei casi in cui queste tendono a venir meno, il cuore è vicino ad una catastrofe!

La stabilità di un sistema complesso, che ne assicura la persistenza, non è dunque dovuta al perfetto funzionamento tra e sue parti, bensì all’equilibrio dinamico che si dà tra esse. Ciò significa che lo scostamento da una norma ideale di un parametro funzionale o biochimico non ha in sé e per sé un significato univocamente patologico, perché esso può coincidere con la stabilità dinamica del sistema.

E’ agevole capire che, mettendo tra parentesi la concezione sistemica dell’organismo e considerandolo solo come una somma del funzionamento dei singoli organi o apparati, la medicina ha buon gioco nel trasformare in malattia un qualunque scarto dalla norma. In senso proprio e tradizionale, la malattia è un insieme di sintomi che, nel loro complesso, definiscono una sindrome, vale a dire uno stato patologico riferito ad uno o più organi e funzioni dell’organismo.

Se ogni scostamento dalla norma anche di un solo indice obbiettivo in quanto rilevato dal medico (per esempio un rialzo pressorio) o biochimico (come una glicemia appena superiore al valore massimo o un’ipercolesterolemia) o strumentale (per esempio qualche inerte calcolo renale o qualche spina artrosica) viene assunta come come espressiva di una malattia o premonitrice rispetto alla possibilità che il soggetto ammali, si entra già nel campo della medicalizzazione della salute. Ci si entra, certo, per la porta della prevenzione: una porta sempre aperta per quanto concerne i soggetti (eccezion fatta per i pochi che hanno la fobia dei medici e delle medicine), i quali, non essendo in grado di confutare la previsione medica, cadono tutti nella trappola di Pascal (quella per cui credere è più conveniente e, al limite, meno rischioso di non credere).

Dato però che la medicalizzazione della salute, che comporta un assiduo controllo medico e l’uso di svariate medicine, è indubbiamente vantaggiosa  per il reddito dei medici e per i profitti delle industrie, era facile prevedere che il potere congiunto della classe medica e del capitale investito nella produzione dei farmaci avrebbe perseguito qualche altra via rispetto a quella della prevenzione per estendere il suo controllo sulla popolazione.

2.

L’altra via è, né più né meno, costringere i sani a diventare consumatori, oltre che di consulti, di esami di laboratorio e di tecniche diagnostiche, di farmaci di ogni genere.

Tale via, che comincia ad essere battuta, riconosce un precursore a cui rendere merito di notevole lungimiranza. Una trentina d’anni fa, già vicino alla pensione, il dinamicissimo direttore della Merck, Henry Gadsden, confidò alla rivista Fortune la sua desolazione nel vedere il mercato potenziale della sua società confinato ai soli malati. Spiegando che avrebbe preferito che Merck diventasse una sorta di Wrigley – produttore e distributore di gomma da masticare -, egli dichiarò che da tempo sognava di produrre medicinali destinati ai sani, perché allora si sarebbe data la possibilità di trasformare l’intera società in un mercato di consumatori.

All’epoca, il sogno di Gadsden poteva apparire pura utopia, legata alla singolare concezione dei farmaci come beni di consumo di massa. Oggi non ci sono più dubbi riguardo al fatto che le strategie di marketing delle più grandi ditte farmaceutiche puntano ormai ai sani in maniera aggressiva.

Nel momento in cui la maggior parte degli abitanti dei paesi sviluppati gode di una vita più lunga e più sana di quella degli avi (per quanto non necessariamente più felice), il rullo compressore delle campagne pubblicitarie o di sensibilizzazione, condotte dalle industrie farmaceutiche senza alcuna remora, trasforma gente sana, preoccupata per la propria salute, in gente malaticcia, che ha bisogno di una cura. Come accennavo prima, basta un sintomo a indurre la definizione di una malattia: la timidezza diventa pertanto un disturbo di ansia sociale, la tensione premestruale un disturbo disforico. Anche il semplice fatto di essere un soggetto “a rischio”, potenzialmente in condizione di sviluppare una malattia, diventa di per sé una patologia.

Questo fenomeno, come tutti quelli che contrassegnano un sistema sociale dominato dall’interesse capitalistico, è già ampiamente diffuso negli Stati Uniti: colà il 5% della popolazione assorbe quasi il 50% della produzione farmaceutica, le spese sanitarie (nonostante il difetto di un sistema pubblico) continuano a salire più che in ogni altra parte del mondo, mostrando un aumento del 100% in sei anni, dovuto sia ai drastici aumenti dei prezzi dei medicinali sia all’aumento esponenziale delle prescrizioni.

Naturalmente questo dato, che nostra già qualche tende a riprodursi negli altri paesi avanzati, potrebbe essere interpretato anche come espressione di una libera scelta dei cittadini e di un loro diritto a tutelare la loro salute. Occorre però, intanto, dimostrare che l’uso di massa di sostanze chimiche (alcune delle quali per fortuna inerti, che puntano cioè sull’effetto placebo) a lungo andare tuteli veramente la salute piuttosto che comprometterla.

Al di là di questo, occorre considerare che, se di una libera scelta si tratta, essa non sembra un po’ troppo fedelmente corrispondente alle strategie industriali, coordinate peraltro dal guru del marketing mondiale, Vince Perry, che si è assunto il compito, di concerto con le aziende farmaceutiche, di creare nuove malattie. Perry è orgoglioso di questo ruolo, al punto che in uno sconcertante articolo dal titolo “L’arte di catalogare uno stato di salute”, egli ha rivelato le tecniche adottate per “favorire la creazione” di disturbi clinici. Sia che si valorizzino sintomi isolati, sia che si ridefinisca una malattia conosciuta da tempo dandole un altro nome, sia, infine, si parla di una disfunzione creata ex-novo, lo scopo è fare in modo che i “clienti” recepiscano le cose in modo nuovo, che stabiliscano, cioè, in qualunque modo, un legame tra stato di salute e farmaco, in maniera tale da ottimizzare le vendite. Essi, in breve, devono convincersi che “i problemi accettati sinora al massimo come un fastidio” sono “degni di un intervento medico”.

E’ evidente che siffatta strategia ha un solo scopo – il lucro -, dato che “creare mercati per nuove malattie” si traduce in vendite che ammontano a miliardi di dollari.

Visto il successo conseguito sinora, il futuro sembra roseo in relazione al futuro finanziario dell’industria farmaceutica. Un rapporto di Business Insights si conclude con un’affermazione che fa rabbrividire: “Gli anni futuri saranno i testimoni privilegiati della creazione di malattie patrocinate dalle imprese.”

L’industria, insomma, si propone di venire incontro alla Natura, che tradizionalmente produce le malattie, ma, evidentemente, è stata meno matrigna di quanto il capitale si aspettasse. Nonostante tutto, infatti, ancora oggi la malattia è l’eccezione, e la salute la regola

3.

Nell’ottica della strategia di inventare malattie, un ruolo importante è svolto dai medici per un verso e dai pazienti (veri o presunti) per un altro.

La Medicina, in quanto scienza ufficiale, è delegata a tracciare la linea di confine tra salute e malattia. D’acchito si potrebbe pensare che tale linea è definita da leggi biologiche. In una certa misura questo è, ovviamente, vero, ma non lo è di meno, com’è attestato dall’antropologia medica, che quel confine ha una certa elasticità sulla quale incide la cultura. Ora, la Medicina, come sta accadendo, può estendere la definizione di una patologia, coinvolgendo malati potenziali.

Tale estensione si traduce poi in protocolli che, prodotti da specialisti solitamente e lautamente sponsorizzati dalle industrie, vengono adottati universalmente dai medici di base.

Sulla base di questi protocolli, per esempio, il 90% degli americani soffrirebbe di ipertensione arteriosa, metà delle donne di una disfunzione battezzata Fsd (disfunzione sessuale femminile) e più di 40 milioni di americani di ipercolesterolemia.

Non appena un protocollo, diffuso con un battage pubblicitario asfissiante, ha prodotto un risultato di mercato, se ne lancia un altro. Con l’aiuto di media sempre alla ricerca di titoli ad effetto, l’ultimissima malattia è regolarmente annunciata come ampiamente presente nella popolazione (che dunque deve semplicemente “scoprirla”), grave (di fatto o in previsione di ulteriori sviluppi), ma soprattutto curabile grazie ai medicinali.

E’ evidente che la tempestività con cui le industrie mettono in commercio farmaci ad hoc per quella malattia induce non pochi sospetti sui legami tra esse e il Potere medico. Il sospetto è definitivamente confermato, oltre che dalla sponsorizzazione delle ricerche universitarie, dal fatto che numerosissimi Professori universitari di Medicina investono in azioni di industrie farmaceutiche.

Si tratta, dunque, né più né meno, di un fenomeno di corruzione diffusa: a vantaggio della salute dei cittadini, dicono i corruttori e i corrotti.

La risposta dei pazienti o di coloro che sono indotti ad assumere questo ruolo è tale, almeno negli Stati Uniti, che il punto di vista delle industrie e dei medici sembra inattaccabile.

Di fatto, il consenso dei pazienti si ottiene facilmente alimentando le loro paure. Per vendere alle donne l’ormone sostitutivo al momento della menopausa si è drammatizzata fino all’inverosimile l’osteoporosi. Per imporre gli anticolesterolo (anche laddove l’ipercolesterolemia è di origine alimentare ed è l’unico indice fuori della norma), si è creata l’associazione certa tra ipercolesterolemia e infarto precoce (vale a dire fatale). Per sollecitare i genitori a riconoscere e curare la depressione di figli adolescenti, vale a dire a identificare come malattia qualunque oscillazione dell’umore che renda tristi i figli, si è giocato sulla paura del suicidio.

Queste strategie terroristiche si sono dimostrate paradossali e fallimentari. Imposta per un decennio come obbligatoria per tutte le donne in menopausa, la Terapia Ormonale Sostitutiva (come ho documentato in un articolo precedente) ha causato numerosi decessi per tumori ai seni da essa indotti. Un anticolesterolo di successo è stato ritirato dal mercato per avere provocato il decesso di alcuni pazienti La somministrazione su larga scala di antidepressivi agli adolescenti ha incrementato, secondo dati ormai ufficiali, i suicidi, al punto tale che tutte le industrie rilevano nei loro “bugiardini” tale pericolo, facendone ricadere la responsabilità sulle spalle del medico.

Dati i profitti che ricavano dall’invenzione delle malattie, le industrie non hanno remore nel mettere in conto la possibilità, dopo una diffusione di massa, di dover risarcire alcuni pazienti danneggiati. Si tratta, comunque, sempre e solo di una minoranza, che viene sacrificata sull’altare del benessere collettivo.

Lo Stato, che attraverso i suoi organi di controllo, dovrebbe intervenire se ne guarda bene, data la potenza economica e politica della lobby farmaceutica, che ha sponsorizzato con cifre elevatissime il Presidente Bush e il Partito Repubblicano nelle ultime due elezioni, ricevendo in cambio un “dono” più che gradito. Alla fine degli anni ‘90 infatti la regolazione della pubblicità dei farmaci è stata notevolmente flessibilizzata, sicché oggi il pubblico è sottoposto ogni giorno a una decina almeno di spot pubblicitari.

E’ superfluo dire che le industrie farmaceutiche “sognano” (cioè programmano) di estendere a tutti i paesi sviluppati l’invenzione della malattie che sta avendo tanto successo negli Stati Uniti.

4.

Non penso che occorrano molti commenti per definire la situazione descritta come la realizzazione della profezia di Illich che, già trent’anni fa, vedeva all’orizzonte l’espropriazione della salute dei cittadini da parte della Medicina.

Se ha una qualche utilità sotto il profilo delle scienze umane e sociali, la strategia adottata dalle industrie farmaceutiche dovrebbe porre fine al dibattito che verte sulla capacità razionale del sistema capitalistico di rispondere ad autentici bisogni umani, valorizzandone l’infinita ricchezza, o piuttosto sull’insidiosa abilità di produrne di falsi.

Purtroppo, nonostante l’eloquenza dei fatti, si tratta di un’illusione. Come porre in discussione, infatti, la radicale naturalezza del bisogno di vivere bene e il più a lungo possibile? Certo, si potrebbe obbiettare che si tratta di due cose diverse. La durata della vita negli Stati Uniti (eccezion fatta per i negri) è di sicuro rilevante. Che gli statunitensi, però, vivano bene è smentito dal tasso del disagio psichico, che, enorme in rapporto alla popolazione, si va estendendo a macchia d’olio a livello adolescenziale e infantile.

Il problema dell’invenzione delle malattie e dell’induzione dell’uso di farmaci, sulla carta, dovrebbe porre fine ad un altro dibattito più recente: quello inerente il ruolo condizionante che i mass-media operano sulle scelte dei cittadini. Numerosi studiosi nell’ambito della sociologia e della psicologia hanno contestato l’enfatizzazione di tale ruolo avvenuta negli anni ’70, sottolineando che nessun soggetto è passivo nei confronti delle informazioni che riceve, tal che l’uso che egli ne fa inerisce, in ultima analisi, la sua libertà.

E’ doloroso riconoscere che anche studiosi i cui interessi immediati non sembrano avere rapporto con il mercato e con i profitti si stiano così clamorosamente assoggettando alla logica del sistema entro cui vivono.

E’ evidente, per stare alla circostanza di cui si è parlato, che, quale sia la pubblicità delle industrie farmaceutiche e le prescrizioni mediche, è da ultimo il paziente che va in farmacia e decide di fare le cure prescritte. E’ insomma libero nel senso che potrebbe non farlo. Il problema è che la sua attrezzatura cognitiva non comporta alcun sospetto nei confronti di industrie il cui fatturato cresce di continuo e di medici il cui reddito e il cui prestigio definiscono, ai suoi occhi, uno status immune dalla disonestà.

L’interesse di questo articolo verte, ovviamente, sulla possibilità che il modello statunitense investa anche la nostra società, come in parte sta già accadendo. Per arginare questo pericolo, la cosa migliore sarebbe demitizzare la medicina, vale a dire avviare nelle scuole un’educazione sanitaria critica che fornisca gli strumenti di base per affrontare i problemi della salute e della malattia e per confrontarsi con il Potere medico rispettandone le competenze, ma riconoscendone anche i limiti.

Il presupposto di base dell’educazione sanitaria dovrebbe essere quello cui ho fatto già cenno. Nonostante l’enorme credito di cui gode, la pratica medica, a livello mondiale, ponendo su di un piatto della bilancia i successi e sull’altro i danni che produce (attraverso diagnosi errate, tecniche diagnostiche invasive, effetti collaterali farmacologici), ha un bilancio in rosso che tende ad aumentare piuttosto che a diminuire.

Per quanto possa apparire sorprendente, questo dato è inconfutabile in quanto ufficiale. Una nuova cultura sulla salute e sulla malattia dovrebbe partire da esso, prendendolo sul serio.