1.
Il prestigio crescente che la medicina sta assumendo nel mondo contemporaneo è dovuto a tre diversi fattori: primo, allo sviluppo di tecniche diagnostiche e terapeutiche notevolmente più incisive rispetto al passato; secondo, ad un cambiamento di mentalità culturale, legato alla secolarizzazione, che fa convergere su essa il bisogno degli esseri umani di sentirsi protetti dal dolore, dalla malattia e dalla morte; terzo, alla sua capacità di minimizzare, occultare o rimuovere i danni prodotti dalle pratiche mediche e dalla medicalizzazione dell'intera esistenza umana, dalla nascita alla tomba.
I tre fattori sono strettamente correlati: l'equilibrio tra un'offerta e una domanda crescente di cura, che sono conseguenze dei primi due, generano inesorabilmente il terzo, che rappresenta la faccia oscura della medicina. Il problema non è certo nuovo. L'Enciclopedia Medica Italiana, nella sua seconda edizione, avviatasi nel 1979 e tutt'ora in corso di aggiornamento (USES Edizioni scientifiche, Firenze) dedica, nel volume 7, un ampio ed esauriente capitolo alla iatropatologia. Nell'ambito degli "eventi dannosi causati dall'intervento medico" l'articolo riporta quelli causati da: tecniche diagnostiche invasive (angiografie, cateterismi cardiaci, endoscopie e biopsie, ecc.); tecniche diagnostiche non invasive ("sedia del dentista", radiodiagnostica, esami radiologici con mezzi di contrasto, ecc.); trattamenti chirurgici (anestesia, asportazioni, talora poco giustificate, di colecisti, appendici, ovaie, utero, ecc.); errate prescrizioni dietetiche; errori diagnostici (tra cui l'iperattivismo diagnostico), e, infine, somministrazione di farmaci.
Quest'ultima rappresenta di certo il capitolo più corposo della iatropatologia, che è arduo quantificare, dato che le stime statistiche sono estremamente eterogenee, oscillando, per i pazienti ospedalizzati, addirittura tra l'uno e il 35%! Spiegare percentuali così eterogenee non è difficile. In parte l'eterogeneità può essere ricondotta all'orientamento ideologico, più che metodologico, dei ricercatori, che possono partire da presupposti impliciti più o meno positivi sull'uso dei farmaci (cfr. L'obiettività nelle scienze sociali).
E' fuor di dubbio, però, che la valutazione della iatropatologia da farmaci è fortemente interferita dalle industrie farmaceutiche, che sponsorizzano di continuo ricerche orientate a minimizzare gli effetti nocivi dei farmaci o a contestare gli esiti di ricerche che comprovano tali effetti.
Due indizi indiretti attestano però la concretezza del problema. Il primo si può ricavare semplicemente leggendo gli effetti collaterali citati nei foglietti illustrativi che la legge impone di annettere ad ogni confezione commerciale. Certo, gli effetti gravi sono in genere rari, ma, sia pure con diversa incidenza, essi riguardano pressoché tutti i farmaci. Questo significa che la loro prescrizione dovrebbe essere sempre molto attenta, mentre, nella realtà, la ricetta "facile" è ormai una routine. Un altro indizio indiretto è il ritiro dal commercio che, spesso, corrisponde semplicemente all'obsolescenza del farmaco, che viene sostituito. Non di rado, però, esso corrisponde alla segnalazione di effetti collaterali più o meno seri.
A riguardo, occorre considerare che l'iter che presiede alla commercializzazione dei farmaci prevede la sperimentazione preventiva su esseri umani volontari. L'attendibilità di questa sperimentazione è però sempre precaria per tre motivi. Il primo è che le ricerche cliniche, sia universitarie sia ospedaliere, sono sponsorizzate dalle industrie farmaceutiche. Il secondo è che il campione di pazienti su cui si realizza la sperimentazione è sempre limitato (nell'ordine delle centinaia), per cui l'assunzione del farmaco da parte di migliaia o centinaia di migliaia di pazienti pone di fronte a effetti non registrati in fase di sperimentazione. Il terzo è che, almeno da una ventina d'anni a questa parte, la resistenza crescente dei pazienti "normali" a fare da cavie, ha fatto nascere, particolarmente negli Stati Uniti, un nuovo "lavoro": quello di cavie volontarie che, essendo remunerate, tendono a fare bene questo singolare mestiere, cioè a rispondere positivamente alle aspettative dei ricercatori e delle industrie.
Al di là di questo, occorre considerare che la globalizzazione mondiale del mercato dei farmaci comporta che, tra la messa in commercio, la raccolta dei dati sospetti sugli effetti nocivi e la valutazione ufficiale da parte delle istituzioni sanitarie, che può portare alla messa al bando, intercorrono di solito anni. In questa fase, la resistenza opposta dalle industrie farmaceutiche è direttamente proporzionale al fatturato assicurato dal farmaco in questione. Last but not least, non si può ignorare che la guerra commerciale tra le industrie comporta anche, ogni tanto, ricerche sponsorizzate da un'azienda farmaceutica al fine di dimostrare la nocività di un farmaco di un'azienda rivale per lanciare il proprio.
In breve, la valutazione dei benefici e dei danni legati alla pratica medica è un argomento controverso controversa. C'è chi tende ad esaltare gli uni e minimizzare gli altri, e chi, viceversa, tende ad una valutazione di segno opposto.
La iatropatologia è, in ogni caso, un grosso problema se già nel lontano 1972 "il sottosegretario alla Sanità degli Stati Uniti d'America poteva affermare che quattro quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente intervento medico" (Illich, La convivialità, Mondadori, Milano 1974, p. 17).
A distanza di trent'anni ciò che sorprende è la carenza di dati disponibili. Un problema di grossa portata sembra essere stato rimosso dall'orizzonte della ricerca e dell'opinione pubblica. Forse non è un caso che, nell'Enciclopedia medica citata, non c'è alcun aggiornamento in merito alla iatropatologia. I danni vanno ricavati dalla lettura delle "voci" inerenti i farmaci , le tecniche diagnostiche e gli interventi chirurgici.
In difetto di statistiche, qualcosa si può affermare con certezza.
La iatropatologia da farmaci è in continuo aumento per due motivi. Il primo è che la pratica medica, avendo fatto proprio il verbo della prevenzione, si traduce sempre più spesso in prescrizioni che non curano una malattia in atto, bensì mirano a scongiurarne l'eventuale sviluppo. Questo significa che sono regolarmente assoggettati a trattamento medico indizi biochimici di scarso significato (lieve ipercolesterolemia, glicemia ai limiti superiori della norma, modiche anemie, iposideremie, ecc.) o condizioni parafisiologiche o psicosomatiche (ipertensioni labili, cefalee, gastriti, ecc.).
Il secondo motivo è riconducibile all'aumento della specializzazione, per cui medici diversi prescrivono allo stesso paziente farmaci le cui interazioni negative sono imprevedibili. Particolarmente penalizzati, da questo punto di vista, sono due categorie. La prima è rappresentata dagli ipocondriaci farmacofilici i quali, avendo molteplici sintomi casomai migranti, non tollerando l'idea che essi non possano essere debellati da una medicina, e sottoponendosi a numerose visite specialistiche (l'otorinolaringoaiatra per le vertigini, il neurologo per la cefalea, il reumatologo per i dolori cervicali e ossei, il cardiologo per la tachicardia, lo pneumologo per la fame d'aria, ecc.), si ritrovano talora ad ingurgitare un numero impressionante di compresse. Spesso la loro patetica "compliance" è premiata: prima o poi, una malattia reale prodotta dai farmaci viene fuori.
La seconda categoria è costituita dagli anziani, che, avendo molteplici "acciacchi", non si contentano del medico di base, consultano gli specialisti per essere sicuri che la cura sia più mirata, e spesso finiscono con l'intossicarsi.
Oltre ai danni prodotti direttamente dai farmaci che colpiscono chi li assume, occorre considerare anche quelli indiretti. Il problema, per quest'aspetto, è da ricondurre all'uso degli antibiotici che, praticato su larga scala e spesso irrazionalmente, ha già prodotto la selezione di batteri particolarmente aggressivi. Sempre più di frequente c'è chi muore in ospedale contraendo infezioni contro le quali non ci sono cure. I ceppi di batteri resistenti sono un prodotto della pratica medica. Occorre fare rientrare anche queste evenienze nell'ambito della iatropatologia. Tra l'altro, la spirale tra selezione dei batteri e nuovi antibiotici, sempre più costosi, che sostituiscono quelli ormai inefficaci, è un incubo per la medicina contemporanea, perché la prospettiva di una catastrofe epidemica si sta implacabilmente delineando.
In nome del verbo della prevenzione, è cresciuto a livelli parossistici anche l'iperattivismo diagnostico. Per evitare la possibilità di un errore diagnostico, oggi i medici sono inclini a prescrivere per i disturbi più banali una quantità infinita d'analisi di laboratorio e strumentali. Ciò avviene indubbiamente anche sotto la spinta di una domanda da parte dei clienti di una sicurezza assoluta inerente il loro stato di salute. Per questa via, però, s'istaura un circolo vizioso. Aumentando il numero delle analisi, infatti, aumenta proporzionalmente la possibilità che almeno un dato possa risultare anormale o ai limiti della norma. Mettendo tra parentesi la possibilità, tutt'altro che remota, di una taratura degli strumenti di laboratorio scorretta, vale a dire tale da richiedere un controllo a distanza di tempo, c'è da considerare che la salute di un organismo, essendo questo un sistema complesso, comporta fluttuazioni di tutti gli indici e di tutte le funzioni intorno ad una norma. Alcune fluttuazioni fuori della norma possono essere occasionali o insignificanti quando esse sono isolate e non hanno alcuna corrispondenza clinica.
L'inseguire una normalità astratta avvia spesso i soggetti in spirali d'interminabili esami e controlli il cui unico risultato è di mantenere vivo un allarme infondato. Spesso il mito della normalità astratta induce anche i medici a prescrivere e i pazienti a sottoporsi ad esami e cure del tutto inutili, quando non pericolose.
La iatropatologia è dunque in aumento. Il problema è che non solo i cittadini (ad eccezione di coloro che hanno un orientamento iatro- e farmacofobico) non sono consapevoli di questo. Essi non valutano neppure altri effetti della pratica medica, tra cui quelli economici. Uno dei fattori che rischia di affossare lo stato sociale è la spesa sanitaria. Tutte le regioni, data la gestione irrazionale della medicina, sono costrette ad investire in media la metà delle loro risorse per far fronte ad essa! Analizzando un qualunque bilancio regionale, viene da pensare ad una popolazione d'esseri perennemente cagionevoli e invalidi. E' questo dato che impone di allargare il discorso.
2.
La iatropatologia è solo un aspetto del problema dell'incidenza della pratica medica sulla salute e sulla vita dei pazienti. Sulla scia di Illich, i sociologi preferiscono il termine iatrogenesi per raccogliere in una stessa categoria danni causati dalla medicina che vanno al di là della pratica medica strettamente intesa.
Oltre a una iatropatologia in senso proprio o iatrogenesi clinica, caratterizzata dal fatto che "il danno i medici lo infliggono nellintento di guarire o di sfruttare il paziente, o i danni discendono dalla preoccupazione del medico di tutelarsi da una eventuale denuncia per malpratica", Illich distingue infatti:
- una iatrogenesi sociale, in seguito alla quale "la gente viene spinta a diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, ecc., menomati che sopravvivono al limite del sistema e grazie allassistenza; false attestazioni di invalidità che privano del diritto di lavorare."
- una iatrogenesi culturale, la quale "distrugge la capacità potenziale dellindividuo di far fronte in modo personale e autonomo, alla propria umana debolezza, vulnerabilità, unicità. "
La medicina ufficiale, ovviamente, riconosce solo la iatropatologia, che peraltro mira costantemente a minimizzare. In realtà, il danno arrecato dalla iatrogenesi sociale e culturale al benessere psicofisico individuale e collettivo sembra avere sulla carta un peso addirittura maggiore della iatropatologia.
La iatrogenesi sociale è il prodotto di due fattori convergenti. Da una parte, è fuori di dubbio la responsabilità dei medici e delle case farmaceutiche che perseguono, in comune accordo, un intento speculativo. Non è vero che tutte le malattie possono essere prevenute e curate. Convincere però le persone che questo è possibile, significa, per la medicina, assicurarsi il controllo sull'intero ciclo di vita della popolazione e, al limite, medicalizzare la salute, ritenendola una variabile costantemente minacciata dalla malattia.
A questo occorre aggiungere la connivenza della popolazione, che non va ricondotta solo alla paura crescente riferita alla malattia e alla morte. La produzione di sintomi psicosomatici è uno dei modi in cui, nella nostra società si esprime, il disagio pervasivo contro un regime di vita stressante soprattutto lavorativo. Assentarsi dal lavoro sta diventando una necessità a tutela della salute fisica e psichica. Spesso questa necessità si esprime però non attraverso la simulazione, bensì sintomi psicosomatici che postulano visite, accertamenti diagnostici e cure.
Nel contesto della iatrogenesi sociale, un rilievo del tutto particolare assume la gestione della salute femminile. Non c'è nessuna prova che l'organismo femminile sia più vulnerabile di quello maschile. Considerando i tassi di sopravvivenza, verrebbe piuttosto da affermare il contrario. Cionondimeno, le donne sono più esposte al rischio di cadere nella spirale della medicalizzazione. Ciò dipende da due fatti. Il primo è che esse, più degli uomini, sviluppano, dall'adolescenza in poi, disturbi psicosomatici che, quando non sono affrontati adeguatamente, le portano sul terreno dell'ipocondria e di una dipendenza interminabile dai medici. Il secondo è legato alla fisiologia del loro organismo. Ho riportato in un articolo precedente lo scandalo della Terapia Ormonale Sostitutiva, che è stata prescritta massicciamente a partire dalla fine degli anni '80 alle donne in menopausa, la quale ha prodotto un numero rilevante di cancri al seno e di incidenti vascolari. Questa iatropatologia è ben poca cosa in rapporto alla iatrogenesi culturale che ha ormai trasformato un evento fisiologico come la gravidanza in una condizione di malattia potenziale per la madre e per il feto.
Dal momento in cui rimane incinta, la donna deve rivolgersi al ginecologo, farsi visitare in media una volta ogni due settimane, fare un enorme quantità di analisi: vivere, insomma, come se la gravidanza comportasse rischi di ogni genere. La strategia medica è giustificata in termini di prevenzione. Su quest'aspetto ritornerò. Rimane il fatto che alcune donne arrivano al parto letteralmente estenuate dalla paura con cui hanno vissuto l'esperienza della gravidanza, come se, anziché un feto, il loro ventre albergasse un potenziale pericolo. Nessuna donna muore di stress. Il problema è che la fatica maggiore non è legata alla gravidanza ma ai primi mesi di allevamento. La conseguenza del "terrorismo" preventivo è che non poche donne si trovano ad affrontare l'allevamento senza più energie fisiche e psichiche. Questo non è il solo, ma di sicuro è uno dei motivi che spiegano l'aumento esponenziale delle depressioni post-partum.
Un discorso analogo va fatto per l'allevamento dei bambini che, pur essendo condiviso con il partner (e, sempre più raramente, con i parenti), ricade in gran parte sulle spalle della madre. La crescita di un bambino è un fatto fisiologico che, occasionalmente e raramente, s'imbatte in malattie che vanno curate. Questa circostanza è invece andata incontro ad un processo di medicalizzazione radicale. La crescita non può avvenire che sotto stretto controllo medico. Il pediatra va consultato in media una volta al mese. Se non c'è di mezzo alcun sintomo, egli deve controllare l'altezza, il peso, la dentizione, lo stato complessivo dell'organismo sulla base di tabelle astratte, tali per cui la normalità è un miraggio. C'è sempre qualche minimo scarto che, per carità, non significa nulla di preoccupante, ma che va tenuto sotto controllo. Il pediatra assume anche il ruolo, gradito alle madri, ma del tutto improprio, di pedagogo, vale a dire di guida illuminata per una sana crescita fisica e psicologica. In conseguenza di questo, definisce spesso regole, per esempio concernenti l'alimentazione, il sonno, ecc., che sono difficili da rispettare perché non tengono conto della variabilità individuale.
Per quanto riguarda questo ruolo di esperto a tutto campo sul terreno dell'allevamento e dell'educazione, il discorso da fare è semplice. Come accade per gran parte dei medici, che nulla sanno di psicologia, perché l'ordinamento degli studi non ne comporta lo studio, anche i pediatri si specializzano in medicina degli organi. Tranne rari casi, dovuti alla sensibilità personale o ad un approfondimento personale delle tematiche evolutive, essi sono ben poco competenti in ambito psicologico. L'affidamento fiducioso delle madri al pediatra come psicologo e pedagogista comporta l'adozione di strategie nei confronti del figlio che in genere sono inutili e talora nocive.
Se dovessi fare l'elenco delle "bestialità" che ho registrato nel corso degli anni, con effetti seri sull'evoluzione della personalità, dovrei scrivere un libro. Ne riporto solo una, la più clamorosa. Ai genitori di un bambino affetto da una grave forma di fimosi, nell'attesa di eseguire l'intervento, un pediatra ha consigliato di mantenere l'elasticità del prepuzio "scappellando" il glande per alcuni minuti ogni giorno. E' inutile dire che la manipolazione genitale da parte della madre e del padre, durata tre anni, ha prodotto una forma piuttosto grave di nevrosi sessuale.
Il capitolo dei danni psicologici dovuti all'assunzione da parte dei pediatri del ruolo di esperti nell'educazione è tutto da esplorare. C'è da augurarsi che qualcuno lo faccia.
Sarebbe ingenuo, peraltro, minimizzare le responsabilità dei genitori. Perpetuamente in ansia per la salute del figlio, molte madri, in nome dei sacrifici economici cui si sottopongono per pagare gli onorari degli specialisti, si rivolgono a loro per un nonnulla, li perseguitano con i quesiti più astrusi, ecc.
3.
La medicalizzazione della gravidanza e dell'allevamento dei bambini è solo un indizio, per quanto importante, dell'entità della iatrogenesi culturale, vale a dire di un condizionamento collettivo in conseguenza del quale le persone perdono ogni autonomia nella cura del corpo e della mente, vivono sul registro di una perpetua vulnerabilità, hanno bisogno, anche senza accusare alcun sintomo, di sottoporsi frequentemente a controlli, visite ed analisi di laboratorio, sviluppano una tolleranza sempre minore nei confronti dei dolori e delle malattie, accettano sempre meno il decadimento fisico, rifiutano l'idea della morte come se fosse un attentato alla loro dignità.
La iatrogenesi culturale ha trasformato la medicina in una nuova religione alla quale si rivolgono schiere sempre maggiori di credenti che attribuiscono ad essa un potere onnipotente. Non diversamente dalla religione, la medicina specula sulle debolezze umane, sulla difficoltà di accettare i limiti propri dell'esistenza. Essa però lo fa ammantandosi del prestigio della scienza.
Due conseguenze della iatrogenesi culturale mi sembrano rilevanti.
La prima riguarda l'aumento della popolazione di "ipocondriaci", "patofobi", "salutisti" che, asintomatici o assillati da sintomi psicosomatici che riconoscono la loro causa nel regime di vita psicologico e sociale, si rivolgono alla medicina con la pretesa di una risposta diagnostica e di una cura che porti alla guarigione. Questa popolazione rappresenta il 60% dei pazienti che si rivolgono ai medici di base e agli specialisti. I primi sono estenuati dalle lamentele, dalle richieste di analisi e dalla necessità di prescrivere cure che sanno poco utili. Essi però solo raramente dicono ai pazienti la verità, perché il rischio di perderli è elevatissimo. Gli specialisti, viceversa, sono ben contenti di aumentare i loro guadagni dedicandosi a pazienti che "rendono" bene e che, nella peggiore delle ipotesi, non hanno vantaggio dalle cure.
Sia nel primo che nel secondo caso, le spese per le ricerche di laboratorio e strumentali sono enormi. Se si fa il conto di quante TAC o RM, gastroscopie, endoscopie sono state effettuate negli ultimi anni per disturbi, come la cefalea, la gastrite, la stipsi, che, durando da molti anni, potevano essere considerate sicuramente di natura psicosomatica, se si aggiungono a questo le infinite analisi di laboratorio eseguite senza alcun sospetto clinico, la spesa sanitaria, di risorse sottratte ad altri, più importanti bisogni sociali, appare come spaventosa.
Il circolo vizioso anticipato da Illich, per cui, superata una soglia critica, la "tecnologia" medica diventa controproducente e, anziché produrre maggior salute, produce malessere, è quanto mai attivo.
Esso si mantiene sulla base dell'imperativo supremo della prevenzione, che va affrontato criticamente. Il diritto alla vita e alla cura sono fuori discussione. Se tale diritto però, come sta accadendo, viene enfatizzato fino al punto che salvare poche vite diventa un obbiettivo assolutamente prioritario, in nome del quale ogni sacrificio è giusto, si entra inesorabilmente in un tunnel che determina il conflitto tra bene individuale e bene comune. La prevenzione, adottata a largo raggio, comporta, infatti, un investimento di spesa che erode il denaro disponibile per altre non meno importanti forme di assistenza sociale, rivolte agli studenti, ai disoccupati, agli inabili, agli anziani, ecc.
C'è un trade-off, all'interno dell'assistenza sociale, tra la spesa sanitaria e le altre spese. Il problema, che pone in gioco la persistenza stessa dello Stato sociale, non può essere affrontato sulla base di soluzioni radicale. Se è immorale pensare che salvare una vita debba essere pagato in termini di peggioramento della qualità di altre vite, è crudele ritenere tout-court che il bene comune vada in assoluto privilegiato rispetto alla tutela del diritto alla vita e alla salute del singolo individuo. Occorre indubbiamente trovare un punto di mediazione tra diversi bisogni sociali. A tal fine, però, è preliminarmente necessario arginare l'"accanimento" terapeutico e preventivo in atto: in breve, ridimensionare drasticamente l'incidenza della medicina nella cultura contemporanea.
La seconda conseguenza è strettamente correlata alla prima. La medicalizzazione della salute e della vita in atto ha indotto, come ho accennato, un cambiamento della mentalità collettiva identificato da due parametri: la difficoltà crescente di accettare il dolore e la malattia come dimensioni dell'esistenza che non potranno mai essere del tutto estirpate, e il rifiuto crescente di considerare l'esistenza come una parabola che comporta inesorabilmente il decadimento e la morte. In conseguenza di questo la popolazione occidentale è divenuta, di fatto, più fragile, paurosa, neghittosa e attaccata visceralmente all'esistenza.
Occorre riabilitare il coraggio di vivere e di accettare che l'esperienza umana è a rischio, potenziare il riferimento alla qualità della vita piuttosto che alla semplice sopravvivenza, riattivare forme sociali di solidarietà che, in rapporto alla sofferenza, possono essere infinitamente più utili dei ricoveri e delle cure, avviare un'educazione sanitaria su larga scala che restituisca alle persone un minimo d'autonomia nella cura della salute e nella valutazione delle proposte e delle prescrizioni mediche. Occorre avere il coraggio di dichiarare la verità sulla faccia oscura della medicina. Non già per togliere alle persone un sostegno di cui hanno bisogno, bensì per permettere loro di utilizzarlo con maggiore potere critico.
Marzo 2004