Il Pensatore del Millennio (1)

1.

Alcuni anni fa, J. Derrida, che non è mai stato marxista, scrisse un libro appassionato (Spettri di Marx) nel quale sosteneva, contro il liberismo che intendeva seppellire il filosofo di Treviri sotto le macerie del muro di Berlino, che proprio la fine del comunismo sovietico liberava Marx dal pesante fardello di esserne stato l'ispiratore e lo restituiva alla cultura come un pensatore geniale e straordinariamente attuale. Derrida giungeva addirittura a sollecitare lo studio di Marx come unico antidoto contro la marea montante di un liberismo che rischiava di portare il mondo alla catastrofe, concludendo la sua difesa con un'affermazione singolare: "Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l'eredità di Marx."

Ridicolizzata all'epoca in cui venne scritta, l'affermazione va riabilitata come una profezia. Alcuni segnali degli ultimi anni indicano inequivocabilmente che l'interesse per Marx si va rianimando e - cosa ancora più importante - da parte di studiosi che non sono ex-marxisti.

Altrove ho già riferito che, da alcuni anni, presso alcune Università statunitensi i testi di Marx vengono attentamente analizzati per capire su quali basi egli è riuscito a fornire una descrizione e un'analisi del processo di globalizzazione in atto. Alcuni studiosi sostengono addirittura che l'errore principale attribuito a Marx, quello di aver previsto un immiserimento progressivo della classe operaia, è un errore sui generis. Lo è di fatto in rapporto alle società occidentali, laddove le condizioni di vita della classe operaia sono lentamente migliorate. Se però, sganciata dal contesto in cui quella previsione è stata operata, essa viene ricondotta ad una distribuzione progressivamente sempre più iniqua della ricchezza, che sembra aspirata verso l'alto e drenata dal basso, è difficile, tenendo conto di quello che è accaduto negli ultimi quindici anni sia all'interno dei paesi occidentali che nel rapporto tra il Nord e il sud del mondo, contestarla.

Nel mese di settembre, Giorgio Ruffolo, economista di dichiarata fede socialista, riproponeva con un articolo su di un settimanale un tema a lui caro da anni: il pericolo incombente sugli equilibri economici e sociali mondiali del capitalismo speculativo finanziario, che opera come un gigantesco predatore sull'intero pianeta senza poter essere controllato dagli Stati nazionali e dalle istituzioni economiche internazionali. Presumo che il titolo dell'articolo non sia stato dettato da Ruffolo. Esso però recitava sic et simpliciter: "Marx aveva ragione".

Alla fine di settembre risale la pubblicazione di un saggio di Guido Carandini, socialista riformista, intitolato "Un altro Marx". L'autore sostiene, con qualche forzatura, che, mettendo da parte il Marx ideologo del comunismo e considerando solo lo scienziato, vale a dire l'economista critico del capitalismo, ci si ritrova di fronte ad un pensatore di una statura eccezionale, che ha illuminato aspetti del sistema che nessun altro è riuscito a cogliere con altrettanto acume, e la cui lezione può essere accolta quasi integralmente in un'ottica riformista.

L'indizio più significativo del rivitalizzarsi dell'interesse per Marx è però forse il più banale o effimero. La BBC inglese ha posto in palio il titolo di pensatore del millennio invitando gli ascoltatori a votare online il filosofo preferito. Ancora una volta (era accaduto già nel 1999) la vittoria è arrisa a Karl Marx che ha staccato di gran lunga Wittgenstein, Hume, Platone, Kant, Nietzsche, Popper, Mill, Sartre.

La presenza nella classifica di Hume, Popper e Mill è significativa del contesto sociale all'interno del quale si è svolta l'inchiesta. E' probabile però che, per quanto riguarda la vittoria, ad un analogo risultato perverrebbe qualunque inchiesta svolta in un paese europeo.

Sarebbe ingenuo enfatizzare la notizia prefigurando una rinascita di Marx e una rivalutazione del suo pensiero. Essa, infatti, può essere interpretata tenendo conto di due circostanze. La prima è da ricondurre al fatto che coloro che hanno votato sono chiaramente persone impegnate intellettualmente se non politicamente, ed è noto che tale impegno coincide più spesso con un'ideologia di sinistra. Il pensiero socialista riconosce molte figure di valore (tra cui, in Inghilterra, Owen), ma nessuna che abbia la statura di Marx.

La seconda circostanza è che, eccezion fatta per i filosofi di professione, gli intellettuali impegnati, per quanto curiosi, non hanno una conoscenza profonda dei testi filosofici, ma quasi tutti hanno avuto occasione di leggere almeno il Manifesto (e forse anche i Manoscritti economico-filosofici) di Marx. Anche Nietzsche è molto noto, ma, a torto o a ragione, il suo fascino è arginato dall'essere annoverato, più a torto che a ragione, tra i precursori del nazismo.

Tenendo conto di questi indizi e di una realtà storica che, nel giro di pochi anni, ha trasformato il trionfo del liberismo in una minaccia per il futuro del mondo, ritengo che solo gli sciocchi possono ritenere Marx morto ed esaurito il suo pensiero. Come quello di costoro, che rappresentano ancora una fitta schiera, anche il mio è un giudizio di parte. La differenza sta nel fatto che esso può essere argomentato. E' quanto mi propongo di fare in queste riflessioni, che si protrarranno ad libitum, rappresentando una sorta di diario intellettuale parallelo alla riscrittura del saggio su Marx, che apparirà - penso - tra non meno di due anni in una versione che, nella seconda parte, sarà una rivisitazione del pensiero marxista fino ad oggi, corredata da numerosi testi..

La grandezza intellettuale di Marx è difficile da partecipare perché essa può essere apprezzata solo attraverso una lettura assidua di opere che - dai Manoscritti economico-filosofici al Manifesto, dai "Grundrisse" a Il Capitale - non sono certo agevoli. Il limite maggiore di Marx, come ho rilevato più volte, è stato quello di aver piegato la sua genialità, aperta in tutte le direzioni, all'analisi critica di una disciplina - l'economia - coartante. Infiniti lettori de Il Capitale e dei Grundrisse si sono arenati di fronte alle aride formule dei prezzi, fornite utilizzando peraltro unità di misure (come la libbra) del tutto estranee a chi non è inglese. I testi giovanili non sono di certo più semplici perché in essi chiaramente Marx risente dell'influenza linguistica di Hegel.

Lenin aveva ragione nel sostenere che, per capire in profondità Marx, è necessario aver studiato Hegel. Il problema è che i testi hegeliani sono ancora più ostici di quelli marxiani.

Per restituire a Marx quello che è di Marx, occorre adottare un metodo diverso rispetto all'usuale sollecitazione a leggerlo.

Per inaugurare questa serie di articoli, scelgo quello di estrapolare da un libro una tematica e di illuminare la profondità con cui Marx l'affronta.

Il libro in questione - La questione ebraica - del 1843 non è certo considerato tra i maggiori. L'argomento - l'emancipazione politica degli Ebrei in un paese come la Germania dominata da una religione di stato, quella cristiana - appare datato e attualmente privo di interesse. Per di più, come capita spesso al giovane Marx, esso è scritto sotto forma polemica, di contestazione, per quanto rispettosa, del punto di vista espresso da Bruno Bauer. Si tratta però di uno spunto dal quale Marx parte per affrontare in generale il problema dell'emancipazione umana in generale: problema che, in riferimento all'alienazione economica, politica, religiosa e culturale, si può ritenere il nodo centrale del suo pensiero.

2.

Emancipazione è un termine carico di significati storici e filosofici. L'etimologia stessa lo attesta: in latino emancipare è composto di ex-, che indica allontanamento, e emancipare che sta per "alienare", "vendere". Nel diritto romano, esso designa l'affrancamento di uno schiavo o di un figlio soggetto all'autorità paterna. Nel contesto della società romana, infatti, lo schiavo è, nel corpo e nell'anima, proprietà del padrone, e il figlio subordinato giuridicamente per tutta la vita all'onnipotente patria potestà. Venire fuori dall'alienazione significa dunque sciogliere un vincolo di soggezione reale, giuridicamente sancito.

Successivamente, il termine ha assunto un significato più estensivo. Non solo infatti il verbo emancipare è giunto a connotare l'affrancamento da qualuqnue condizione di soggezione materiale o morale. Esso ha assunto anche una forma riflessiva. L'affrancamento, la libertà, l'indipendenza che un tempo designavano uno stato raggiunto per effetto di una concessione da parte di chi deteneva il potere sull'individuo, sono giunte a configurarsi come una conquista del soggetto, una rivendicazione di diritti affermata e agita attivamente.

E' a questo nuovo significato che fa riferimento Marx scrivendo: "Noi dobbiamo emancipare noi stessi prima di poter emancipare altri."

La frase non può essere intesa ovviamente come rivendicazione di una illimitata capacità soggettiva di emancipazione. Nulla è più estraneo a Marx dell'attribuire all'uomo un potere "spirituale" capace di trascendere le condizioni oggettive, ambientali.

Emancipare se stessi, nell'ottica marxiana, significa anzitutto affrancarsi dai luoghi comuni, giungere a vedere con chiarezza un problema che appare già risolto, in ordine al principio per cui "il modo di formulare un problema contiene già la sua soluzione."

Il problema in questione, quello dell'emancipazione, all'epoca di Marx si pone in termini eminentemente politici. Le correnti liberali, che porteranno alla rivoluzione del 1848, insistono sul fatto che l'emancipazione umana coincide con l'avvento dello Stato liberal-democratico che riconosce l'uguaglianza in termini di diritti a tutti i cittadini, indipendentemente dalla nascita, dal censo e dalla religione.

A questa soluzione del problema Marx oppone una critica apodittica: "l'emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell'emancipazione umana."

E' evidente che, con ciò, egli mette radicalmente in discussione il caposaldo del liberalismo democratico: quello secondo il quale, posto che lo Stato abbia un ordinamento costituzionale che riconosce la pari dignità dei cittadini attribuendo a ciascuno di essi gli stessi inalienabili diritti (uguaglianza, libertà, giustizia, sicurezza, proprietà), l'emancipazione si può ritenere compiuta.

Secondo Marx, viceversa, l'emancipazione umana va al di là di quella politica, anche se essa non potrebbe realizzarsi senza questa: "L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è però la forma ultima dell'emancipazione umana in generale, ma è l'ultima forma dell'emancipazione umana entro l'ordine mondiale attuale. S'intende: noi parliamo qui di reale, di pratica emancipazione."

Il problema è posto in termini esemplari nelle seguenti citazioni:

"Il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l'uomo sia un uomo libero."

"Lo Stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita, condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi."

C'è dunque, nello Stato liberaldemocratico, uno scarto tra il cielo astratto dei diritti umani universali, sui quali si fonda l'attribuzione a tutti gli uomini di una pari dignità, e una realtà sociale, quella della vita quotidiana, a livello della quale quei diritti vengono misconosciuti o ignorati o violati. Di fatto: "Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee."

E' agevole capire che questa dissociazione tra l'astrazione dell'uguaglianza e la realtà della disuguaglianza è un aspetto strutturale della società borghese ancora oggi del tutto attuale. Sul piano elettorale, per esempio, non si dà alcuna differenza tra il voto dell'uomo più ricco e del più povero. Nella realtà della vita civile, però, il potere del primo è enormemente superiore, non solo economicamente ma anche politicamente, a quello dell'altro.

La causa di tale dissociazione Marx la fornisce attraverso un'analisi critica dei diritti dell'uomo e del cittadino così come essi sono stati definiti in seguito alla rivoluzione americana e a quella francese. L'attualità dell'analisi si può ricavare dal fatto che essa potrebbe essere applicata, negli stessi termini formulati da Marx, alla Dichiarazione dei diritti dell'Uomo sancita dall'ONU nel 1948 e alla bozza di Costituzione europea elaborata l'anno scorso.

La citazione per esteso è la seguente:

"Consideriamo, per un istante, i cosiddetti diritti umani, e cioè i diritti umani nella loro figura autentica, nella figura che possiedono presso i loro scopritori, i nordamericani e i francesi! In parte questi diritti umani sono diritti politici, diritti che vengono esercitati solo in comunione con gli altri. La partecipazione alla comunità, e cioè alla comunità politica, all'essenza dello Stato, costituisce il loro contenuto. Essi cadono sotto la categoria della libertà politica, sotto la categoria dei diritti del cittadino... Rimane da considerare l'altra parte dei diritti dell'uomo, i droits de l'homme in quanto essi sono distinti dai droits du citoyen...

I droits de l'homme, i diritti dell'uomo, vengono in quanto tali distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l'homme distinto dal citoyen? Nient'altro che il membro della società civile. Perché il membro della società civile viene chiamato "uomo", uomo senz'altro, perché i suoi diritti vengono chiamati "diritti dell'uomo"? Donde spieghiamo questo fatto? Dal rapporto dello Stato politico con la società civile, dall'essenza dell'emancipazione politica.

Innanzi tutto costatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell'uomo, i droits de l'homme, come distinti dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la costituzione del 1793 può dire:

"Déclar. des droits de l'homme et du citoyen":

Art. 2.: "Ces droits, etc. (les droits naturels et imprescriptibles) sont: l'égalÌté, la lÌberté, la sòreté, la propriété".

In che consiste la lÌberté?

Art. 6.: "La liberté est le pouvoir qui appartient à l'homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d'autrui", secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1791: "La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui".

La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. Perché l'ebreo, secondo Bauer, è incapace di ricevere i diritti dell'uomo? "Fino a che egli è ebreo, bisogna che, sulla natura umana, che dovrebbe legarlo in quanto uomo agli uomini, l'essenza limitata che lo fa ebreo riporti la vittoria e lo isoli dai non ebrei". Ma il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sull'isolamento dell'uomo dall'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell'individuo limitato, limitato a se stesso.

L'utilizzazione pratica del diritto dell'uomo alla libertà è il diritto dell'uomo alla proprietà privata?

In che consiste il diritto dell'uomo alla proprietà privata?

Art. 16, (Const. de 1793): "Le droÌt de proprieté est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travaìl et de son industrie" .

Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré), senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama innanzi tutto il diritto dell'uomo "de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie".

Restano ancora gli altri diritti dell'uomo, la égalité e la sureté.

L'égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro che l'uguaglianza della libertà sopra descritta, e cioè: che ogni uomo viene ugualmente considerato come una siffatta monade che riposa su se stessa. La Costituzione del 1795 stabilisce così il concetto di tale uguaglianza, conforme al suo significato:

Art. 5 (Const. de 1795): "L'egalité consiste en ce que la loi est la mÍme pour tous, soit qu'elle protège, soit qu'elle punisse".

E la sureté?

Art. 8 (Const. de 1795): "La sureté consiste dans la Protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et des ses propriétés".

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, che l'intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà. In tal senso Hegel chiama la società civile: "Lo Stato del bisogno e dell'intelletto".

Per il concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è piuttosto l'assicurazione del suo egoismo.

Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in esso come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica."

In conclusione: "non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene preso per l'uomo vero e proprio." Da ciò discende che: "La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua base naturale. Infine l'uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomo vero e proprio, come l'homme distinto dal citoyen, poiché egli è l'uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l'uomo politico è soltanto l'uomo astratto, artificiale, l'uomo come persona allegorica, morale. L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista, l'uomo vero solo nella figura del citoyen astratto"; "L'emancipazione politica è la riduzione dell'uomo, da un lato, a membro della società civile, all'individuo egoista indipendente, dall'altro, al cittadino, alla persona morale."

Se questo è vero, ne segue che l'emancipazione umana deve necessariamente risolvere la schizofrenia implicita nella emancipazione politica avvenuta con la rivoluzione liberale: "Solo quando l'uomo reale, individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto membro della specie umana, soltanto quando l'uomo ha riconosciuto e organizzato le sue "forces propres" come forze sociali, e perciò non separa più da sè la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l'emancipazione umana è compiuta."

3.

Si sia o meno d'accordo con l'analisi di Marx, non si può riconoscere che essa ha una portata ancora attuale. Il tema dei diritti umani, dei diritti inalienabili dell'uomo si pone ancora oggi come un obiettivo di emancipazione politica importante a livello mondiale, dato che non c'è dubbio che, a distanza di due secoli dalla Rivoluzione francese e di più di mezzo secolo dalla Dichiarazione dell'ONU, si danno molti paesi sulla faccia della terra laddove quei diritti non sono ancora formalmente, costituzionalmente e politicamente, riconosciuti. Se si riflette su questa situazione, prescindendo dal contrapporre all'elevato grado di civiltà dell'Occidente l'arretratezza culturale e politica di una parte cospicua del resto del mondo, ci si può chiedere se il problema dell'universalizzazione dei diritti umani non sia da ricondurre alla contraddizione posta in luce da Marx.

Dall'interno, l'Occidente esalta il quadro giuridico e costituzionale sul quale si fonda la democrazia liberale, che uguaglia i cittadini e dà ad essi una pari dignità. Dall'esterno, però, ciò che viene colto non è presumibilmente tale quadro ma la realtà sociale da esso prodotto o con cui esso convive, caratterizzata dall'egoismo privato, dal culto dell'interesse individuale, dalla competitività, dall'iniqua distribuzione della ricchezza, dal progressivo cedimento dello Stato (evidente soprattutto negli Stati Uniti) nei confronti di interessi particolari che esso tutela.

Si può naturalmente sostenere che la democrazia liberale non è perfetta e, trattandosi di un prodotto umano, richiede tempi molto lunghi perché la realtà sociale si adegui ai suoi elevati principi. Questo però equivale ad ipotizzare che l'emancipazione politica preceda di necessità e non possa essere che seguita dall'emancipazione umana.

L'analisi di Marx sottolinea però che tra l'una e l'altra si dà uno scarto qualitativo. L'emancipazione umana potrà avvenire solo se tra i diritti umani universali e inviolabili non si inserirà il diritto di proprietà: diritto mutuato dalla realtà sociale borghese e universalizzato, senza considerare il fatto che esso mantiene, a livello civile, le condizioni di disparità per cui non è possibile che l'umanità proceda verso l'emancipazione umana.

A riguardo occorre essere chiari. Marx lo è stato, anche se il suo messaggio è andato incontro ad equivoci. Quando egli sottolinea che il diritto di proprietà è assurdo nella misura in cui concede al proprietario di disporre à son gré dei suoi beni, come se egli non sia comunque membro di una comunità, non fa altro che anticipare ciò che dirà con maggiore icasticità nel Manifesto del Partito Comunista: "Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione" (MPC, pag. 84).

Certo, si può sostenere che Marx, acutissimo nell'analisi critica dei diritti umani, abbia dato per scontato che l'egoismo borghese sia un prodotto storico-culturale e non un dato intrinseco alla natura umana. In questo secondo caso, l'umanità dovrebbe adattarsi a barcamenarsi tra il cielo astratto dei principi e dei valori sublimi che essa è in grado di concepire e la realtà di una natura umana che non arriverà mai ad incarnarli.

Si può anche sostenere che il pensiero di Marx è intimamente contraddittorio nel sostenere che l'abolizione dell'egoismo privato, vale a dire del diritto di appropriarsi delle ricchezze e di convertirli in capitale per sfruttare il lavoro altrui, rappresenta la conditio sine qua non si può realizzare l'emancipazione umana, ma, allo stesso tempo, ritiene che questa non possa avvenire se non in virtù di un cambiamento culturale collettivo e individuale.

Ciò nondimeno, è difficile misconoscere che in un'opera giovanile e ritenuta minore, egli riesce a porre in termini chiari un problema che ancora oggi è inquietante: il problema, da ultimo, dell'uomo autenticamente libero, disalienato, e-mancipato.