Darwin e Marx: ideologia e pensiero scientifico

1.

Darwin (1809-1882) e Marx (1818-1883) sono contemporanei. La loro attività intellettuale, estesa sull’arco vastissimo della ricostruzione rispettivamente dell’evoluzione della vita e dell’evoluzione della storia umana, pur essendo stata intensa (e turbolenta) fin dalla giovinezza, giunge ad esiti consistenti solo in età matura. Darwin pubblica L’origine delle specie nel 1859, Marx il Primo libro de Il Capitale nel 1867: hanno entrambi, dunque, all’epoca della pubblicazione circa cinquanta anni.

Darwin quasi di sicuro non ha letto nulla di Marx. Questi, invece, ha colto immediatamente il significato rivoluzionario dell’evoluzionismo. Come noto, egli chiese a Darwin l’autorizzazione a dedicargli Il Capitale, ma questi cortesemente rifiutò adducendo la sua scarsa competenza in materie estranee alla biologia.

La motivazione del rifiuto, come oggi sappiamo, non era fondata. E’ probabile che la complessità terminologica e lo stile de Il Capitale abbia scoraggiato Darwin dal portarne a termine la lettura. La sua incompetenza, però, era di sicuro relativa, avendo egli all’epoca già letto Malthus e conoscendo il pensiero di A. Smith, economisti dai quali la sua teoria è stata profondamente influenzata.

Nessuno sa quante pagine de Il Capitale Darwin abbia letto prima di deporre le armi: presumibilmente poche. Non è neppure noto se egli abbia tentato di acquisire informazioni su Marx. Dato il suo conservatorismo e la sua adesione al liberalismo smithiano, se le avesse acquisite avrebbe avuto ulteriori motivi di rifiutare la dedica.

L’entusiasmo di Marx per l’evoluzionismo deve essere stato peraltro il frutto di una lettura de L’origine delle specie se non superficiale, ideologicamente orientata. Avendo acquisito da Hegel l’idea dell’evoluzione culturale e avendola applicata alla ricostruzione della storia sociale, piuttosto che a quella dello Spirito, egli deve essere rimasto suggestionato dal pensiero darwiniano, che estendeva quell’evoluzione alla vita stessa e, apparentemente, sanciva il progredire della materia verso forme sempre più complesse di organizzazione come una legge.

La suggestione deve essere stata alimentata anche dal ruolo assegnato da Darwin all’ambiente, che, agli occhi di Marx, confermava, in rapporto all’uomo stesso, l’importanza dell’oggettività sulla soggettività.

In realtà, la teoria di Darwin comportava almeno tre assunti incompatibili con il marxismo. Per un verso, infatti, essa è radicalmente gradualista, vale a dire postula che la seleziona naturale agisca sulla base di variazioni continue che si succedono nell’interazione tra individui e ambienti. La selezione naturale, in questa ottica, agisce in tempi straordinariamente lunghi ed esclude qualsivoglia salto repentino e critico. L’evoluzione darwiniana, insomma, è inequivocabilmente l’opposto della rivoluzione assunta da Marx come levatrice della storia.

Per un altro verso, nell’ottica di Darwin, il progresso, inteso in senso proprio, come passaggio da una forma inferiore ad una forma superiore di vita, semplicemente non esiste. Egli ha scritto a chiare lettere che lo studio delle forme viventi deve prescindere dal riferimento a termini come inferiore e superiore. Ogni organismo biologico che raggiunge l’adattamento alle condizioni ambientali in cui vive e si perpetua è “perfetto”. Da questo punto di vista, tra un organismo unicellulare e l’uomo non si dà alcuna differenza.

Il terzo aspetto è che la teoria darwiniana è incentrata sulla fitness individuale, non sulla specie. E’ l’individuo nel quale si realizzano mutazioni vantaggiose che, adattandosi meglio ad un determinato ambiente, incrementa la sua capacità riproduttiva e assicura ai figli un vantaggio destinato a consentire loro di avere la meglio nell’inesauribile lotta per la sopravvivenza. Il bene generale, il bene della specie è del tutto estraneo all’ottica della selezione naturale, che fa riferimento solo all’individuo più adatto.

Di questi tre aspetti, il primo e l’ultimo si possono ritenere almeno in parte ideologici: non è un caso che essi sono stati messi in discussione ulteriormente dagli stessi biologi evoluzionisti. Marx deve esserne stato perfettamente consapevole, se in un lettera ad Engels scrive:

“«E notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l'apertura di nuovi mercati, le "invenzioni" e la malthusiana "lotta per l'esistenza". E il bellum omnium contra omnes di Hobbes».

Ciò non di meno, Marx fu un grande ammiratore di Darwin.

Qualche riflessione sui limiti ideologici di entrambi può avere un qualche interesse.

2.

La teoria di Darwin riconosce il suo asse portante nella selezione naturale, come meccanismo unico atto a spiegare l’evoluzione della vita. Nell’ottica darwininana, la selezione naturale postula il gradualismo, vale a dire il principio per cui quando una specie si trasforma in un’altra, i cambiamenti si accumulano lentamente e la popolazione passa attraverso tutti gli stadi intermedi. I grandi cambiamenti, dunque, sono il risultato dell’accumulo impercettibile di modificazioni molto piccole.

Se questo fosse del tutto vero, la paleontologia, pur considerando i limiti della fossilizzazione, dovrebbe fornire prove adeguate degli stadi intermedi. A distanza di un secolo e mezzo dalla pubblicazione dell’opera di Darwin, le prove sono lacunose: abbondantissime per alcuni periodi evolutivi, carenti o addirittura assenti per altri.

A queste lacune fanno riferimento i “creazionisti” quando sostengono che la teoria darwiniana non è scientificamente provata, dunque sarebbe per ora solo un’ipotesi alternativa ma non sostitutiva della creazione divina.

Agli attacchi, i biologi evoluzionisti hanno risposto formulando quella che va sotto il nome di teoria sintetica dell’evoluzione (o neodarwinismo), la quale ammette che la selezione naturale sia il più importante, ma non l’unico dei meccanismi dell’evoluzione. Purtroppo, però, quasi tutti i neodarwinisti accettano implicitamente o esplicitamente il gradualismo, difeso tenacemente da Darwin. E’ un fatto che, anche considerando il ruolo degli altri meccanismi scoperti in virtù della genetica (sui quali non mi soffermo), il problema degli stadi intermedi non appare risolto.

Occorreva una persona di genio come S. J. Gould per proporre un’alternativa. Gould è un evoluzionista che non ha mai rinnegato Darwin, dimostrando che questi, perfettamente cosciente delle lacune implicite nella sua teoria, pur privilegiando la selezione naturale, ammetteva l’azione di diversi meccanismi: era, insomma, pluralista. Sulla base di questo, Gould ha rimproverato ai neodarwinisti di essere, per così dire, più realisti del Re, insistendo sul gradualismo e ha sottolineato che tale principio sembra essere stato adottato da Darwin più per motivi ideologici che non scientifici.

In un affascinante trattato di biologia, egli scrive

“«Natura non facit saltum». Questo aforisma, attribuito usualmente a Linneo, afferma che la natura non procede mediante balzi improvvisi. L'idea che, in natura, il cambiamento tenda ad essere lento, costante e graduale, passando attraverso tutti intermedie, è un pregiudizio diffuso in molti scienziati. Non è affatto accertato che sia così. Molti cambiamenti biologici sono lenti e graduali ma se la si considera una legge questa affermazione è certamente sbagliata. Molti aspetti della storia della vita sembrano essere caratterizzati da cambiamenti improvvisi. Abbiamo visto che l'evoluzione non è la storia di un cambiamento lento e costante che ha portato ad un sempre maggior mumero ad una sempre maggior complessità dei tipi organici. Viceversa la storia della vita è formata da lunghe fasi di stasi costellate da grandi estinzioni e proliferazioni; questi eventi sono stati assunti quali punti di demarcazione fra le diverse fasi del calendario geologico. Le grandi innovazioni strutturali dell'evoluzione ... possono essere rapide perché piccoli cambiamenti genetici possono avere grandi effetti alterando la velocità delle fasi precoci dello sviluppo. Le trasformazioni rapide fanno parte di questo mondo così come le transizioni impercettibili.” (S. E. Luria, S. J. Gould, S. Singer Una visione della vita Zanichelli, Bologna 1993)

Con la teoria degli equilibri punteggiati prodotta da Gould, e ancora non accettata da tutti i biologi, l’evoluzionismo sembra avere raggiunto uno statuto paradigmatico del tutto inattacabile. Alla luce di essa, infatti, gli stadi intermedi non sono paleologicamente documentabili semplicemente perché non sono esistiti. L’evoluzione sarebbe dunque avvenuta con due velocità: una lenta e una rapida o critica.

Spiegare nei particolari la teoria degli equilibri punteggiati non è facile e, per fortuna, ai fini del discorso, non essenziale.

Nella misura in cui, però, essa scioglie l’associazione rigida ipotizzata da Darwin tra selezione naturale e gradualismo, pone il problema di capire perché questi l’abbia così pervicacemente difesa, pur prevedendo o sapendo che essa forniva il fianco all’attacco dei creazionisti.

Gould ha dato di questo problema una spiegazione affascinante. Darwin sarebbe caduto, infatti, in due trappole ideologiche.

La prima è riferita al fatto di aver voluto interpretare naturalisticamente la perfezione degli esseri viventi addotta dai creazionisti come prova del progetto divino (aspetto su cui insistono ancora oggi, stoltamente, i sostenitori del Disegno intelligente). In conseguenza di questo, egli è stato costretto a pensare che tutte le strutture e le funzioni biologiche siano state selezionate in quanto adattive e che siano perfette in quanto hanno superato la prova della selezione naturale.

Il problema, acutamente rilevato da Gould, è che sono le imperfezioni (come il pollice del Panda, che dà titolo ad uno dei suoi saggi) a fornire le prove inconfutabili dell’evoluzione naturale: imperfezioni che pongono di fronte al fatto che la natura utilizza ciò che ha sottomano, comprese strutture finalizzate ad uno scopo originariamente adattivo che vengono poi adibite ad un altro: non è, insomma, “un divino architetto ma un eccellente bricoleur”.

La seconda trappola è per l’appunto il conservatorismo culturale di Darwin, dovuto per un verso alla sua appartenenza sociale (che gli permise di vivere di rendita) e alla sua personalità fin troppo riflessiva, e , per un altro, alla lettura di Malthus e all’adesione alla teoria economica di A. Smith, conosciuta, presumibilmente, di seconda mano. Nel primo, Darwin ha trovato conferma della lotta per sopravvivere come indesorabile approdo demografico della società umana. Dal secondo egli ha mutuato il riferimento alla mano invisibile che giunge a definire un ordine sociale benefico per tutti quelli che vi partecipano sulla base dell’egoismo individuale.

Si danno forti analogie tra la mano invisibile di Smith e la selezione naturale. Entrambe fanno capo, però, ad un fluire degli eventi, naturali e sociali, graduale. Il liberalesimo smithiano, di fatto, comporta lenti cambiamenti (il riformismo) ma esclude la rivoluzione se non come esplosione che interferisce sullo sviluppo della società.

Ad onore del vero, occorre aggiungere che il conservatorismo di Darwin è del tutto diverso da quello di Freud, nato nel 1856, tre anni prima della pubblicazione de L’origine della specie. Darwin, infatti, ha una concezione sostanzialmente ottimistica della natura umana, alla quale attribuisce un bisogno di socialità primario ereditato dai predecessori: concezione che trova anch’essa riscontro nell’opera di A. Smith, che, prima di dedicarsi all’economia, era un filosofo morale che riconosceva nella pietas il fattore primario del legame sociale.

Freud, invece, ha una concezione radicalmente pessimistica della natura umana, influenzata dalla lettura di Hobbes, che ha promosso, più dell’esperienza clinica, la formulazione della teoria delle pulsioni.

Come Darwin ha difeso ad oltranza il gradualismo evolutivo, così Freud, negli ultimi anni della sua vita, ha respinto ogni critica che mettesse in discussione l’istinto di morte.

3.

Marx ha della natura umana la concezione più ottimistica che sia mai stata delineata nell’ambito filosofico. Egli non solo attribuisce all’uomo un istinto sociale, ma addirittura un bisogno di autorealizzazione individuale il cui pieno dispiegamento coincide con il riconoscimento della sua appartenenza alla totalità della storia della specie e della società. In Marx individuazione e socializzazione sono due aspetti dialetticamente correlati.

Tale concezione egli l’ha ricavata anzitutto dalla sue personale esperienza: dotato di un bisogno di individuazione fuori dell’ordinario, egli ha sempre intuito (come scrive a 18 anni) che la sua realizzazione si sarebbe dovuta esprimere nel riuscire a far qualcosa di vantaggioso per gli altri e per la società.

Questa vocazione gli ha consentito di fare proprio il grido di dolore che si levava all’epoca dal proletariato sfruttato e di elaborarlo attraverso una ricostruzione dello sviluppo storico atta a confermare la necessità di una rivoluzione radicale e a promuoverla.

E’ fuori di dubbio che il pensiero di Marx è stato potentemente influenzato dalla lettura di Hegel e dall’acquisizione della dialettica come legge inerente l’evoluzione culturale. La sua opera, in gran parte, consiste nell’agganciare all’orizzonte mondano il movimento progressivo che Hegel attribuiva allo spirito.

Purtroppo, su questa base egli è giunto ad avallare un determinismo storicistico che segue le stesse orme del sistema hegeliano. Nella cornice di questo, la storia gravita verso l’autoriconoscimento dello Spirito come Assoluto; in Marx, il fine della storia è l’autoconsapevolezza umana sul diritto universale alla libertà e alla giustizia, coincidente con l’avvento del comunismo.

L’entusiasmo che coglie Marx nel momento in cui legge L’origine della specie ha due diversi aspetti. Il primo è da ricondurre all’intuizione del materialismo implicito nella teoria dell’evoluzione naturale, che affranca l’Uomo da ogni suggestione trascendente riportandolo con i piedi sulla terra: a sentirsi, in breve, parte della Natura. Naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura: questa formula, cara a Marx, si iscrive pienamente nell’ambito dell’evoluzionismo.

Il secondo aspetto va identificato, invece, nel non avere capito del tutto che il gradualismo darwiniano implicava un’adesione di Darwin ad un’ideologia che comportan la sopravvalutazione dell’individuo rispetto alla specie (e al gruppo) e un’evoluzione a piccoli passi che esclude brusche transizioni o rivoluzioni.

Se si ammette, in rapporto a quest’ultimo aspetto, che Marx lo abbia capito, rimane il fatto che è stato indotto aminimizzarlo in nome dell’attribuzione all’uomo di una libera volontà. Se la materia, nell’ottica darwiniana, evolve sulla base del caso e della necessità, quindi in conseguenza di forze e meccanismi che non danno spazio alcuno alla libertà individuale, non è detto che tali meccanismi debbano valere anche laddove interviene l’uomo con la sua capacità di indirizzare il corso della storia.

Il problema è che Marx, non diversamente da Darwin, cade in una trappola ideologica, per quanto di segno opposto. Al gradualismo darwiniano, che assegna all’ambiente la funzione di giudice selettivo della varietà comportamentale prodotta dalle mutazioni, Marx infatti oppone la rivoluzione come riappropriazione da parte dell’uomo del suo potere di controllo sulla realtà storica: in breve, come necessità intrinseca alla sua stessa natura, sottesa da un’aspirazione incoercibile alla libertà e alla giustizia.

E’ noto in quale misura il determinismo storico abbia pesato nell’evoluzione del marxismo, producendo, per un verso (con Bernstein), una sorta di fatalistica attesa del crollo del capitalismo e, per un altro (con Lenin), una volontaristica accelerazione delle doglie del parto.

Se Marx si fosse depurato delle scorie dell’idealismo, le sue analisi sarebbero risultate più fedeli alla realtà della storia, i cui esiti non sono scritti da nessuna parte e i cui fini si definiscono in conseguenza delle scelte che gli uomini operano, rimanendo aperti a varie possibilità di sviluppo, positive non meno che negative.

Per questa via, il marxismo si sarebbe posto come uno strumento di autoconsapevolezza umana, che, cooptando lentamente masse sempre più numerose di esseri umani, sarebbe potuto arrivare alla decisione collettiva (o largamente maggioritaria) di un viraggio verso il socialismo.

In ultima analisi, laddove Darwin, reificando il caso, ha escluso qualunque “creatività” nell’evoluzione naturale, Marx, reificando la necessità, ha escluso qualunque digressione rispetto ad un’evoluzione storica determinata dalla natura umana e dai suoi bisogni.

4.

Questo discorso avrebbe un interesse (forse) meramente erudito se non implicasse delle conseguenze teorico-pratiche di grande portata.

La teoria degli equilibri punteggiati di Gould significa, né più né meno, che l’evoluzione naturale produce strutture adattive ma in un duplice senso. Talora le strutture si producono per realizzare uno scopo adattivo immediato, che tale può rimanere finché le condizioni ambientali non lo rendono disfunzionale. Talaltra, però, si producono anche strutture le cui potenzialità adattive immediate sono ben maggiori di quelle che si realizzano, e che solo successivamente verranno utilizzate per un uso che non era implicito nella selezione. In questo senso, l’evoluzione naturale ha degli aspetti che si possono definire “creativi”. Essa, infatti, non produce solo strutture adattive ma anche strutture le cui potenzialità possono essere utilizzate ulteriormente per promuovere salti di qualità funzionali.

Se riferiamo questo discorso all’uomo, darwinismo e marxismo possono giungere ad integrarsi in un quadro unitario. Il cervello umano è di sicuro un prodotto dell’evoluzione naturale, che ha contribuito potentemente a dare luogo ad un adattamento singolare attraverso la cultura. Esso, però, comporta potenzialità che, a posteriori, appaiono del tutto sorprendenti.

E’ evidente che i cacciatori-raccoglitori che hanno realizzato, per un lunghissimo periodo di tempo, la prima forma di adattamento culturale della specie umana all’ambiente, non sapevano che farsene di potenzialità che, successivamente, hanno prodotto la scrittura, la letteratura, la matematica, la filosofia, l’arte, la scienza, ecc. Ciò significa che tali potenzialità sono affiorate dalla storia dell’evoluzione con uno scopo adattivo che si è realizzato attraverso la produzione della cultura, ma contenendo anche la possibilità di usi ulteriori. Tali usi sono riconoscibili nella grande Cultura.

Su questa base, si può ipotizzare che, nel momento in cui esse venissero utilizzate nella loro pienezza da tutti gli esseri umani (com’era nel “sogno” prematuro di Marx dell’uomo universale), la conseguenza potrebbe essere una rivoluzione culturale, sociale e politica di vastissima portata: un salto critico nella storia dell’umanità.

Non ci credo né ci spero per non sentirmi pateticamente aggrappato ad un “sogno”. Rilevo solo che l’evoluzionismo, affrancato dal gradualismo (che è un aspetto importante, ma non l’unico che promuove l’evoluzione del vivente) e il marxismo, affrancato dal determinismo storico (che proietta le più profonde aspirazioni della natura umana in un futuro che va comunque creato) portano ad una conclusione del genere.