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1.
Il 22. 10 è stato bocciato alla Camera il disegno di legge che prevedeva la possibilità, per coniugi separati consensualmente e senza figli in età minorile, di divorziare dopo un anno dalla separazione legale, senza dover aspettare i tre anni attualmente previsti. Alla bocciatura ha contribuito un partito trasversale nelle cui file non è difficile identificare un buon numero di laici della CDL e di AN, intenzionati a sancire il loro rispetto nei confronti della Chiesa, e i cattolici che, pur divisi tra centro-destra e centro-sinistra, si ritrovano alleati quando si tratta di difendere i valori comuni e, per essi, irrinunciabili.
Si è concluso così un braccio di ferro che si era espresso già nel corso dei lavori della Commissione parlamentare. Il progetto originario di legge era esteso a tutte le coppie separate: la sua limitazione a coppie senza figli minori è stato il frutto di un laborioso compromesso. Le forze laiche hanno accettato il principio, proposto dai cattolici, di tutelare i figli in età evolutiva dai traumi legati ad una repentina dissoluzione della famiglia originaria e al rapido ricostituirsi di nuovi nuclei familiari. Il compromesso è risultato inutile. In aula è prevalso un orientamento che, a seconda dei punti di vista, si può ritenere responsabilizzante o punitivo. Che significa impedire a due coniugi senza figli minori, quindi o ancora senza figli o con figli grandi, di divorziare in tempi brevi se non che il contratto matrimoniale è una faccenda seria in sé e per sé, un contratto sociale e non un fatto meramente privato, tale che il suo scioglimento vincola la libertà individuale al consenso statuale?
La bocciatura ha, dunque, inequivocabilmente un significato moralistico o moralizzatore. Che a questo significato abbiano aderito anche forze laiche e liberali non sorprende, dato il prestigio e il peso elettorale che la Chiesa ha in Italia. Non c'è motivo di gridare allo scandalo. Il gioco politico comporta anche mediazioni e compromessi al limite dell'incoerenza. Inoltre, posto che alcune di quelle forze hanno agito di sicuro opportunisticamente, non si può escludere che alcuni dei loro rappresentanti abbiano votato in buona fede, preoccupati del fatto che i matrimoni tra giovani esitano sempre più spesso in separazioni che sopravvengono precocemente. In assenza di figli qual è il problema? Evidentemente quello di accordare le leggi dello Stato con la dottrina cattolica. Gran parte delle separazioni riguardano ancora matrimoni contratti in Chiesa, evidentemente in nome di una tradizione indipendente dalla credenza degli sposi. E' un fatto che, nella cultura italiana, soprattutto a livello di gruppi parentali, il matrimonio religioso è considerato come l'unico valido, mentre quello civile viene ritenuto un matrimonio "difettoso".
Se questo è vero, anziché una legge ibrida, che recepisce almeno in parte il criterio cattolico della sacralità del matrimonio, sarebbe stato più opportuno denunciare la farsa in conseguenza della quale molti giovani non credenti si sposano in Chiesa per soddisfare le aspettative formalistiche dei parenti. Un'autentica responsabilizzazione culturale sarebbe consistita non già nell'invitare i giovani ad una maggiore serietà, bensì nell'invitare la Chiesa a filtrare meglio l'accesso al sacramento matrimoniale, a verificare la fede dei coniugi. Non ci si può aspettare dalla Chiesa un atteggiamento del genere, perché per essa significherebbe rinunciare a non meno della metà dei matrimoni religiosi, e accettare definitivamente che la popolazione italiana, in particolare a livello giovanile, si va secolarizzando.
Per questo aspetto, ciò che è accaduto nell'aula parlamentare si può ritenere un'ipocrisia. Ma non è questo il mito cui fa riferimento il titolo. Esso è a monte, vale a dire nell'accanimento con cui in Commissione, per restringere la legge ai coniugi senza figli minori, si è insistito sulla tutela dei minori.
A riguardo occorre dire esplicitamente che il can-can sollevato da anni dalla Chiesa, con il concorso di alcuni psicologi, sulle conseguenze deleterie delle separazioni e di divorzi, sembra ben poco fondato. Quelle conseguenze in tanto si danno in quanto, nella tradizione culturale italiana, non si concepisce la separazione come una decisione serena e ragionevole, per quanto dolorosa, che deriva spesso da un'incompatibilità sopraggiunta tra i coniugi, bensì come un fatto che accade solo per colpa di uno dei due. Su questa base, la separazione viene agita come un momento di una guerra che deve continuare perché il colpevole va punito. Dato che l'attribuzione di colpa è, solitamente, reciproca, la guerra si traduce in un interminabile scambio di colpi, più o meno bassi, alcuni dei quali si realizzano sulla testa dei figli.
Non è dunque la separazione in sé e per sé ad agire traumaticamente sui figli, ma il modo in cui essa viene vissuta e agita. Da questo punto di vista, per evitare i traumi, basterebbe un cambiamento culturale che portasse, almeno alcuni coniugi, a riconoscere che il rapporto si è esaurito per una serie di fattori che non implicano necessariamente una colpa e non richiedono di conseguenza una giusta vendetta. Tale cambiamento potrebbe essere alimentato anche da una presa in carico dei coniugi da parte delle strutture pubbliche (Consultori familiari potenziati), sottraendo la gestione della separazione all'influenza nefasta degli avvocati, che, in ordine al mandato loro affidato dal cliente, cercano in ogni modo di soddisfare le sue aspettative, spesso vendicative.
Qualunque terapeuta non cattolico, del resto, sa che, tra i soggetti giovanili che chiedono aiuto, il numero dei figli danneggiati da matrimoni infelici che si sono perpetuati per il loro bene, uguaglia se non supera (fatte le debite proporzioni statistiche), il numero dei figli danneggiati da separazioni.
La sacralizzazione dell'istituzione familiare in nome del bene dei figli, giusta se essa viene affermata da un'angolatura religiosa, suona poco convincente, in genere, sulla bocca dei laici. C'è insomma un po' d'ipocrisia in questa restaurazione dei valori tradizionali. Ma c'è un'ipocrisia ancora peggiore, sulla quale vorrei soffermarmi.
2.
La tutela dei bambini, sventolata come una bandiera dai cattolici e dai conservatori, in realtà è un flatus vocis, cui non corrispondono i fatti. Penso che sia agevole dimostrare questo affrontando due problemi, che sono all'ordine del giorno per le famiglie, ma che esse non possono risolvere.
Il primo problema è il consumismo infantile. Qualunque genitore sa che i bambini cominciano ad avanzare richieste specifiche di beni di consumo a partire da tre anni. Tali richieste sono potentemente influenzate dalla pubblicità televisiva, che interrompe di frequente i cartoni animati e le trasmissioni per i bambini. Esse poi si diffondono per contagio. Se alcuni bambini di una classe materna o elementare acquistano quei beni, gli altri sono spinti univocamente ad imitarli. Le richieste diventano incessanti, lamentose, esasperanti. Si dirà che il genitore non è tenuto a rispondere ad esse. Rifiutare gli acquisti non è però facile. I bambini infatti che si vedono negata la realizzazione delle loro richieste, se la prendono a morte, ritengono di avere subito un'ingiustizia, covano un sordo rancore per la frustrazione cui sono sottoposti.
Non hanno ovviamente alcuna colpa. Essi identificano i beni di consumo come oggetti del desiderio e si rivolgono ai genitori dando per scontato che questi hanno il potere di soddisfarlo. Non hanno nessuna capacità di capire che cosa significa il costo di quei beni e quanto esso gravi sul bilancio familiare.
Se questo è vero, c'è da chiedersi in quale misura possa ritenersi lecita la pubblicità che si rivolge a degli utenti inermi. La pubblicità è uno dei caposaldi della razionalità del sistema capitalistico, che, attraverso la concorrenza, offre ai consumatori dei beni che mobilitano le loro preferenze. Essa, nel suo significato più proprio, è una modalità d'informazione rivolta a sopperire alla difficoltà di comunicazione tra produttori e consumatori in un sistema di mercato allargato. Per essere corretta, però, l'informazione non deve essere solo veritiera, ma va rivolta anche ad un soggetto in grado di operare una scelta consapevole, vale a dire di valutare il vantaggio dell'acquisto in rapporto al sacrificio economico ch'esso comporta.
Dato che i bambini non sono in grado di operare questa valutazione, la pubblicità che ad essi si rivolge serve solo a stimolare i loro desideri e a trasformarli, anche attraverso l'imitazione, in bisogni incoercibili. Per questo aspetto, benché veritiera, essa si può definire comunque scorretta.
La tirannia dei piccoli consumatori, un target che la pubblicità ha identificato come vulnerabile e manipolabile, è un dato di realtà con cui ormai si confrontano rutte le famiglie.
Chi volesse veramente tutelare i bambini da questa manipolazione, che crea induce precocemente un'appetizione consumistica destinata a crescere nel corso del tempo, creando inevitabili problemi di bilancio familiare, dovrebbe fare una cosa molto semplice: presentare un progetto di legge che vieti in modo assoluto la pubblicità televisiva rivolta ai bambini, almeno nel corso delle trasmissioni programmate per loro. Chi tra i tanti Soloni che si battono per la tutela dell'infanzia ha il coraggio di avanzare una proposta del genere?
Certo, le società che producono beni di consumo per l'infanzia si ribellerebbero, definirebbero quella legge come lesiva delle regole del libero mercato, minaccerebbero ristrutturazioni e licenziamenti, ecc. Ma perché si deve concedere loro di profittare di utenti inermi e di danneggiarli instillando in loro precocemente falsi bisogni?
Sarà difficile risolvere la crisi demografica in corso senza affrontare questo problema. Il costo dell'allevamento di un bambino, valutabile - per via del consumismo indotto, delle visite pediatriche mensili, della scuola materna privata, ecc. - intorno ai 450 euro, è semplicemente proibitivo per le famiglie italiane medie.
3.
L'altro problema riguarda i cartoni animati e i videogiochi violenti. Si tratta di due prodotti che vengono fruiti in successione: gli uni dalla prima alla seconda infanzia, gli altri dalla seconda infanzia all'adolescenza. Chi ha seguito nel corso degli anni lo sviluppo di questi prodotti si è reso conto di una progressiva accentuazione dei contenuti violenti, che, a livello di videogiochi, sono ormai giunti a livelli di inaudita brutalità e sadismo.
Una sciocca schiera di psicologi minimizzano l'impatto psicologico di questi prodotti in nome del fatto che essi svolgerebbero una funzione utile: servirebbero a scaricare simbolicamente l'aggressività. La stupidità di questo giudizio è da ricondurre al fatto che esso si fonda su di un presupposto ideologico per cui, in ogni essere umano, si darebbe un tasso elevato di aggressività da scaricare. Essi confondono, sulla scia di Freud, due dimensioni diverse: per un verso, la capacità emozionale che tutti gli esseri umani hanno di nutrire emozioni negative (rabbia, odio, vendetta); per un altro l'aggressività che è una dimensione oggettivata solo da comportamenti orientati a attaccare, colpire, ferire, danneggiare e/o distruggere l'altro. E' ovvio che le emozioni negative possono talora tradursi in comportamenti aggressivi: Ma, intanto, questa è una circostanza occasionale che non implica una causalità meccanica; in secondo luogo, i comportamenti aggressivi più distruttivi sono tipicamente adulti, e vengono realizzati per motivazioni "razionali" che nulla hanno a che vedere con le emozioni negative.
Se questo è vero, ritenere che i bambini abbiano bisogno di scaricare un'immane aggressività, quella rappresentata nei cartoni animati e nei videogiochi, non solo è ridicolo, ma anche pericoloso. Si ignora la possibilità, assolutamente concreta, che la rappresentazione virtuale della violenza possa operare un condizionamento psicologico e determinare una nefasta confusione tra l'asetticità simbolica della rappresentazione e la concretezza dell'azione.
Ricondurre solo all'influenza dei cartoni animati e dei videogiochi il tasso di aggressività crescente che manifestano i bambini di oggi sin dalla tenera età, in conseguenza della quale le scuole materne e quelle elementari si stanno trasformando in un Far West dominato dalla legge del più forte, è azzardato. Negare però quell'influenza significa negare la luce del sole.
Anche da questo punto di vista, la tutela dei minori dovrebbe passare attraverso una legge restrittiva che riguardi la produzione e la diffusione dei cartoni animati e dei videogiochi violenti. Ma anche a questo livello, si urta contro interessi consolidati e, forse, ancor più che per gli altri beni di consumo, in un'ideologia connivente con la necessità di adattare i bambini al mondo così com'è: violento, appunto.
Come per i beni di consumo tipo merendine, leccornie, astucci, zainetti, scarpe da ginnastica, ecc., anche per la regolazione della fruizione dei cartoni animati e dei videogiochi ci si appella alla famiglia. E' come se non ci si volesse rendere conto che, di fronte a sollecitazioni mediatiche cos' massicce, il potere della famiglia si riduce praticamente a zero. Alcuni genitori radicali hanno tentato nel corso di questi anni di risolvere il problema eliminando il televisore e rifutando di acquistare videogiochi violenti. La conseguenza è stata quella di ritrovarsi con dei figli che, all'epoca della scolarizzazione, si sentivano alieni in mezzo agli altri, incapaci di scambiare informazioni e di comunicare.
Non esistono soluzioni individuali di problemi legati ad una programmazione massiccia mediatica il cui obbiettivo è l'infanzia. La soluzione di tali problemi è politica e culturale. In assenza di provvedimenti a riguardo, il richiamo alla tutela dell'infanzia è una formula vuota di contenuti. Occorrono fatti, non parole, e, soprattutto, il coraggio d'intervenire su di una programmazione che assoggetta gli esseri umani agli strumenti prima ancora che essi siano in grado di difendersi.
Dicembre 2003