E’ ormai universalmente ammesso che il disagio psicologico adolescenziale si va precocizzando e diffondendo epidemiologicamente. La precocizzazione è attestata dal fatto che sempre più di frequente sindromi strutturate si manifestano, criticamente o in forma strisciante, in soggetti di tredici-quattordici anni. Anche gli episodi psicotici acuti che in passato esplodevano tra i 18 e i 22 anni, tendono a presentarsi con frequenza crescente tra i 15 e i 17. La diffusione epidemiologica del disagio, secondo le più recenti statistiche (peraltro poco concordanti tra loro), sembra riguardare il 10-15% della popolazione adolescenziale. Si tratta, se non della punta, di una parte solo del corpo dell’iceberg. Nella ricostruzione di numerose storie di soggetti che manifestano una sintomatologia franca tra i venti e i venticinque anni è possibile reperire anamnesticamente vissuti e indizi sintomatici e comportamentali, spesso sottovalutati dai soggetti stessi e dai parenti, che attestano una lunga incubazione del disagio.
L’entità del problema e la sua potenziale drammaticità, riconducibile per un verso al fatto che un numero crescente di adolescenti si trova ad essere invalidato talora per anni in un periodo decisivo per la socializzazione e la formazione scolastica, e per un altro alla possibilità che alcune esperienze esitino, in conseguenza di maldestri trattamenti soprattutto psicofarmacologici, in una forma nuova di precoce cronicità psichiatrica che pone un terribile problema alle famiglie e alle strutture assistenziali, spiegano l’interesse crescente da parte degli operatori per il disagio psichico adolescenziale, il fiorire di convegni sullo stesso, e l’istituirsi di servizi pubblici e privati che tentano di rispondere a questa nuova domanda sociale.
Purtroppo, come sempre accade in psichiatria, l’offerta di aiuto e di cura non è mai scevra di contraddizioni. Per alcuni operatori il disagio psichico adolescenziale rappresenta un budget potenziale di inestimabile valore. Ciò è vero sia a livello privato, per gli psichiatri organicisti e per gli psicologi, che contano sulla disponibilità delle famiglie ad affrontare qualunque sacrificio economico per scongiurare il fantasma della malattia mentale, sia a livello pubblico, laddove la proliferazione dei servizi significa un potenziamento dell’organico e nuove possibilità di carriera. Solo da alcuni operatori il problema del disagio adolescenziale viene colto come una frontiera di straordinaria importanza sia teorica che pratica. Dal punto di vista teorico il definirsi di sindromi strutturate in una fase evolutiva della personalità che, rispetto all’organizzazione della personalità adulta, ha una certa trasparenza psicodinamica, riconosce delle componenti interattive microsistemiche ancora evidenti ed è caratterizzata da una intensa ristrutturazione dei livelli cognitivi orientata a definire una visione del mondo personale, offre la possibilità di verificare la pregnanza dei vari modelli che sono stati elaborati nell’ambito della psicologia evolutiva e della psicopatologia. Dal punto di vista pratico, al di là dell’aspetto umanitario sommamente importante poichè spesso nell’adolescenza si decide la carriera di una vita, si dà la possibilità non solo di confrontare l’incidenza di pratiche diverse su di un campione relativamente omogeneo ma soprattutto di valutare di fatto l’incidenza dei vari fattori - genetici, psicologici, interattivi e ambientali - ammessi come concorrenti nella genesi del disagio e di trarne conclusioni epistemologicamente importanti sopreattutto per quanto riguarda la prevenzione.
L’intento di questo articolo è di proporre alcune riflessioni sul problema del disagio psichico adolescenziale preliminari ad ulteriori approfondimenti. E’ importante sottolineare che tali riflessioni non sono neutrali, poiché muovono da una teoria e da una pratica che interpreta i fenomeni psicopatologici in termini psicodinamici e interattivi ma senza ignorare che essi sono e non possono non essere sottilmente correlati alla storia e alla realtà sociale entro la quale si producono.
Questa definizione di campo è significativa poiché, nella teoria e nella pratica corrente, non è l’unica. L’inquietante proporsi del disagio adolescenziale e giovanile ha dato luogo infatti a due diversi orientamenti: l’uno, clinico-riduzionistico (di marca organicistica e/o psicologista), assume tale disagio semplicemente come la somma di esperienze individuali ciascuna delle quali ha una sua storia e riconosce cause specifiche, genetiche, psicologiche e interattive; l’altra, globalistica e psicosociostorica, ritiene che il fenomeno, nel quale confluiscono esperienze soggettive evolute nei più diversi contesti familiari e sociali, non possa non riconoscere una qualche matrice comune di ordine socioculturale. Il primo approccio porta inevitabilmente a sottolineare la predisposizione individuale, genetica – una presunta vulnerabilità agli stress – e/o a tentare di focalizzare disfunzioni delle personalità genitoriali o del sistema comunicativo familiare. Il secondo approccio, che non nega la possibilità di variabili soggettive e microsistemiche congiunturali, rivolge però la sua attenzione all’humus socioculturale sul cui sfondo si definiscono le singole esperienze di disagio.
Gli operatori riduzionisti si pongono ideologicamente come strenui difensori dell’unicità e dell’irripetibilità, sia genetica che psicologica, dell’individuo. Essi non possono negare l’evidenza per cui le sindromi di disagio psichico adolescenziale appaiono fenomenologicamente ripetitive nei sintomi, nei vissuti e nei comportamenti, ma ritengono gli uni, gli organicisti, che essa attesti l’incidenza dei fattori genetici e biologici, gli altri, gli psicogenetisti, che essa copra contenuti strettamente individuali o tutt’al più intersoggettivi. Gli operatori psicosociostorici, che non contestano, ritenendola ovvia, l’unicità e l’irripetibilità dell’individuo, ritengono che l’invarianza strutturale delle sindromi di disagio psichico adolescenziale vada ricondotta a matrici conflittuali, prodotte dall’interazione con l’ambiente, che, una volta definitesi e strutturatesi determinano degli effetti fenomenici costanti quali che sia la diversità individuale e il contesto ambientale. Tali matrici vanno interpretate psicodinamicamente ma, poiché esse pongono in gioco sistemi di valore complessi (anima/corpo, diritti/doveri, obbedienza/ribellione, giustizia/ingiustizia, egoismo/altruismo, libertà/ legge, innocenza/colpa, ecc.), è necessario interrogarsi sui codici culturali a partire dai quali vengono prodotti e, naturalmente, sulla struutura sociale a cui essi apprtengono. Per convalidare l’approccio psicosociostorico occorre anzitutto definire il modo in cui esso si rapporta alla realtà clinica del disagio adolescenziale, vale a dire il modo in cui la interpreta sul piano psicodinamico. Posto poi che si riescano ad individuare delle matrici conflittuali ricorrenti e a definire i sistemi di valore che le sottendono si tratta di tentare di correlarle all’humus socioculturale da cui esse traggono origine.
1. La realtà clinica e la sua interpretazione psicodinamica
Al di là della statistica epidemiologica, i dati disponibili sul disagio psichico adolescenziale sono ancora scarsi. Non è un gran male poiché, quando si renderanno disponibili, risulteranno organizzati secondo le tabelle e i codici diagnostici del DSM IV, e quindi imbrigliati in una classificazione senz’anima. Nell’attesa di poterli almeno criticare, non rimane che procedere a vista tenendo conto dell’esperienza sul campo e estrapolando da essa delle conclusioni di carattere generale.
E’ un luogo comune, condiviso dalla psicologia evolutiva, che l’adolescenza è l’epoca della ribellione e del malessere. Ma ciò che sorprende oggi è la frequenza sempre maggiore con cui le crisi adolescenziali o abortiscono in virtù di un salto adultomorfo o si traducono, più o meno repentinamente, in un disagio psichico conclamato. E’ inevitabile pensare che tra questi due fenomeni si dia una correlazione significativa. In effetti, prescindendo da sottili disquisizioni nosografiche che mirano a creare, accanto a quella adulta, una nuova patologia psichiatrica adolescenziale, non è azzardato affermare che il disagio psichico che investe soggetti dai 12 ai 18 anni sembra iscriversi nell’ambito di due configurazioni psicodinamiche caratterizzate dall’avere una corrispondenza immediata con la conflittualità propria dell’adolescenza: le ribellioni inibite e quelle agite. Le ribellioni inibite si esprimono sotto forma di attacchi di panico, angosce ipocondriache, fobie del più vario genere, sindromi ossessive ritualizzate, crisi di depersonalizzazione, depressioni, deliri persecutori, di colpa e di possessione. Le ribellioni agite si esprimono sotto forma di disordini comportamentali (aggressivi e/o erotici) con una spiccata impronta trasgressiva, sindromi narcisistiche, anoressia e bulimia, stati di subeccitamento o di eccitamento maniacali, deliri di onnipotenza e deliri mistici. Anche questa distinzione, come tutti i tentativi di classificazione, lascia il tempo che trova. Intanto perché si danno di frequente viraggi dalle ribellioni inibite a quelle agite e viceversa, e, in secondo luogo, perché il superamento dell’ottica nosografica costringe ad utilizzare termini che, in gran parte, appartengono alla tradizione psicodinamica e sono logorati dall’uso. Per sormontare questa confusione occorre affrontare il problema alla radice: chiedersi in altri termini, poiché si parla di ribellioni, a chi o a cosa si ribellano gli adolescenti, e, poiché si parla di inibizioni e di disinibizioni, cos’è che inibisce e cosa disinibisce.
Purtroppo i livelli di coscienza degli adolescenti non sono di grande aiuto: alcuni riconoscono di essere malati e chiedono di essere liberati dall’incubo di morire, di impazzire o di commettere atti antisociali, altri sottolinenano la loro inadeguatezza, l’insicurezza, le difficoltà di relazione con gli altri; alcuni ce l’hanno a morte con i genitori, con coloro che li perseguitano, con Dio o con il demonio, altri giustificano razionalisticamente i loro comportamenti e negano di stare male; alcuni individuano cause occasionali del loro disagio (un insuccesso scolastico, una delusione d’amore, un incidente, ecc.), altri fanno riferimento ad un’infanzia disagiata, a traumi affettivi, a maltrattamenti subiti. Solo alcuni hanno una percezione viva e netta delle loro rabbie, ma, tendendo a giustificarle, negano di nutrire sensi di colpa. Coloro viceversa che hanno una percezione dei sensi di colpa, tendendo ad accreditarle, negano di nutrire rabbia.
Non è difficile porre ordine in questa confusione di vissuti, peraltro comprensibile. Le ribellioni, siano esse inibite o agite, sono riconducibili ad un vissuto univoco presistente l’avvento del disagio psichico: un vissuto intollerabile di oppressione, di coercizione, di limitazione della libertà personale e della vocazione ad essere, associato costantemente ad una rabbia infinita. Tale vissuto solo di rado è cosciente e rievocabile; più spesso occorre lavorare non poco per indurre una presa di coscienza. Si tratta di un vissuto sorprendente che in sé e per sé non spiega nulla. Solo in alcuni casi, e non sempre nei più drammatici, infatti è possibile ricostruire un contesto familiare e ambientale oggettivamente definibile come oppressivo e coercitivo. L’interpretazione di questo vissuto è essenziale ai fini della comprensione psicodinamica del disagio psichico. Ma non si tratta di un’ impresa semplice essendo esposta a due rischi pregiudiziali: il pregiudizio psicanalitico che, non trovando per esso un referente, lo attribuisce ad una dinamica fantasmatica persecutoria primaria; il pregiudizio realistico che, in base allo stesso presupposto, lo attribuisce al fatto che i giovani di oggi sono viziati, cronicamente insoddisfatti, incontentabili, causa insomma essi stessi del loro malessere.
Rappresentando un’interpretazione inverificabile, di maniera, il pregiudizio analitico non merita molta attenzione. Un po’ di più, paradossalmente, ne merita quello realistico in quanto esso propone implicitamente un problema ineludibile: come spiegare l’entità del disagio adolescenziale e giovanile attuale, in un contesto sociale liberale e liberalizzato, a confronto con quello del passato, di sicuro minore, in un contesto patriarcale e repressivo? Se i giovani di oggi, in altri termini, si sentono (a livello cosciente e più spesso inconscio) oppressi senza quasi mai esserlo apparentemente, come mai quelli del passato non sono tutti impazziti? La risposta (che andrà ulteriormente approfondita) ci porta nel cuore del problema.
Il fatto che i figli oggi godano di privilegi (in termini di cure, beni, libertà) incommensurabilmente maggiori rispetto al passato è una verità parziale. In passato le aspettative familiari, sociali e soggettive erano di gran lunga più modeste rispetto a quelle attuali. Erano aspettative normative inderogabili, in quanto imposte repressivamente, ma imponevano ai soggetti solo il rispetto dell’ordine gerarchico, della legge e delle convenzioni sociali, dell’onore familiare e del ruolo assegnato dalla nascita. La rigida coercizione della vocazione ad essere individuale, in un contesto socio-culturale che, essendo incentrato sui vincoli e sui doveri parentali, né la riconosceva né dava spazio ad essa, ha fatto anche in passato delle vittime. Ma essa è ben poca cosa a confronto della pressione normativa cui sono sottoposti oggi i bambini, gli adolescenti e i giovani: dalle famiglie che aspirano, tramite loro, ad un salto di qualità dello status sociale, dalla società che propone la vita nei termini di una lotta per sopravvivere, e dalla stessa cultura giovanile infatuata dal mito della forza, dell’adeguatezza, della padronanza di sé, dell’onnipotenza narcisistica. I privilegi di oggi sono soggettivamente pagati a caro prezzo, almeno da parte di alcuni, in termini di indebitamento, perfezionismo, ansia competitiva, necessità di dimostrarsi forti e normali, ecc.
Gran parte della confusione sulla condizione adolescenziale e giovanile oggi discendono dall’ignorare il peso delle aspettative che gravano su di essi e che provenendo da più fronti (la famiglia, la società, i coetanei) risultano spesso contraddittorie tra di loro. Se si tiene conto del fatto che queste aspettative, rifratte dalla sensibilità personale in misura più o meno rilevante, vengono interiorizzate e che dunque gli adolescenti oggi sono letteralmente risucchiati da richieste prima ambientali, consce e inconsce, e poi interiori, di cui sono più o meno consapevoli, il vissuto di oppressione, la cui intensità induce talora a pensare che siano vissuti in un lager, trova immediatamente una spiegazione. La libertà di cui godono è apparente e formale. I codici normativi da cui sono investiti, che sommano a tradizioni remote valori di recente produzione, sono di fatto terribilmente coercitivi. E lo sono in maniera insidiosa perché non appaiono quasi mai coercitivi. Un solo esempio può comprovare il discorso. La padronanza di sé, vale a dire in pratica il controllo sulle emozioni, è un valore ritenuto positivo e rafforzato dal fatto di essere riconosciuto come tale sia dalla cultura religiosa (che vede nelle emozioni negative – la rabbia, l’odio, la vendetta – l’espressione del maligno), sia dalla cultura borghese (che contrappone all’emozionalità popolare la dignitosa compostezza del citoyen) sia infine dalla cultura giovanile (che identifica l’emotività con un patetico infantilismo, con la debolezza di carattere). Nella misura in cui questo codice è interiorizzato, esso, anziché dar luogo alla padronanza di sé, si configura come una terribile coercizione che induce o a rimuovere le emozioni, insensibilizzandosi, o a vivere nel terrore perpetuo di esserne travolti e di essere socialmente smascherati.
Con buona pace dei cognitivisti, che ritengono lo sviluppo della personalità un processo prevalentemente autopoietico, e di alcuni recenti indirizzi psicologici che minimizzano l’influenza familiare e amplificano arbitrariamente quella dei coetanei e dei mass-media, occorre riconoscere che l’infrastruttura della personalità è riconducibile ancora oggi all’interiorizzazione dei valori culturali proprosti dall’ambiente con cui il soggetto interagisce. Questa è forse l’intuizione più profonda e duratura di Freud che a tale interiorizzazione ha ricondotto la strutturazione del Super-io e dell’Ideale dell’io. I termini Super-io e Ideale dell’io richiedono però oggi una nuova concettualizzazione rispetto a quella originaria freudiana determinata da una concezione della natura umana sostanzialmente pessimistica e, quello che è peggio, sbagliata. Il Super-io individuato da Freud come argine delle pulsioni erotiche e aggressive proprie della natura umana appare ormai come un’istanza espressiva di una società e di una cultura gerarchica, patriarcale e repressiva. In questa forma esso ormai è di rado reperibile nella struttura delle personalità adolescenziali e giovanili. Ma se lo si assume come una funzione psichica che si edifica su un bisogno proprio della natura umana – il bisogno di appartenenza/integrazione sociale – in virtù dell’interiorizzazione dei valori culturali, consci e inconsci, trasmessi dall’ambiente educativo e modulati dalla sensibilità personale, riesce evidente che si tratta di una funzione universale, di un aspetto strutturale proprio della soggettività. Se a questo si aggiunge il fatto che esso, per quanto faccia parte della personalità individuale, rappresenta nel suo seno la società e comporta la soggezione dell’individuo a una totalità che lo trascende, la sua importanza diventa chiara. Sostenere, come fanno alcuni conservatori, che il disagio giovanile è riconducibile ad una crisi di valori, vale a dire ad una debole o addirittura assente strutturazione superegoica è una ipotesi superficiale e tendenziosa, che non trova fondamento nella realtà. Anzi può essere smentita addirittura dai comportamenti che sembrano comprovarla.
Poco tempo fa una dottoressa operante in un SAT è stata ‘barbaramente’ uccisa da un tossicodipendente. La confessione del delitto da parte di questi è un documento agghiacciante. Disfatto dalla vita del tossico duro, irrecuperabile nonostanti gli sforzi operati dalla famiglia, egli – ha confessato – si era recato al SAT nell’aspettativa di trovare qualcuno che lo riempisse di botte e lo uccidesse, ponendo fine alla sua squallida esistenza. Colà purtroppo ha trovato invece una persona gentile e disponibile che, anziché punirlo, gli ha parlato a lungo. Alla fine, per eccesso di cortesia, si è offerta di accompagnarlo a casa in macchina, e, durante il percorso, ha tenato di convincerlo ad andare in una comunità. A tal fine, preso atto della vocazione autodistruttiva del giovane, essa ha fatto ricorso ad un argomento fatale: lo ha richiamato al dovere di pensare se non a sé ai suoi e alla loro sofferenza. Tale argomento ha funzionato come una miccia che ha fatto esplodere la furia omicida. Tenendo conto di questi dati a cosa pensare se non ad una situazione di colpevolizzazione profonda, viscerale, giunta già a produrre un bisogno di punizione radicale che, attivata dal discorso della dottoressa, ha scatenato un’intollerabile angoscia che si è rivolta contro di essa responsabile di non averlo punito ma di avergliela fatta provare? Il comportamento di un tossico duro, come quella di molti adolescenti incattivitisi, sembra amorale e asociale, ma spesso, come nel caso in questione, serve solo a soffocare terribili sensi di colpa ed è sotteso da un intenso bisogno di punizione.
Anche riguardo all’Ideale dell’io la concettualizzazione freudiana appare carente e datata, in quanto fa riferimento ad un immagine ideale che il soggetto si fa di se stesso e alla quale cerca di conformare il suo comportamento. Il limite di questa concettualizzazione è che la produzione dell’Ideale dell’io viene ricondotta ad un desiderio soggettivo impregnato di fantasie di perfezione o di onnipotenza (anche malvagia). Nella realtà l’Ideale dell’io, che postula dei modelli sociali di riferimento, si produce o in virtù di una connivenza del soggetto con il Super-io, che serve a negare la sua schiavitù, o in antitesi rispetto al Super-io, come protesta e rivendicazione viscerale di libertà. In entrambi i casi la sua strutturazione è direttamente proporzionale a quella del Super-io, ed è comunque un rimedio che, anziché risolverlo, raddoppia il male poiché introduce, nel cuore della soggettività, una scissione. La sua costante presenza nella struttura della personalità fa pensare che anch’esso si edifichi su di un bisogno intrinseco – il bisogno di opposizione/individuazione – che, nel primo caso, viene negato, nel secondo protestato antiteticamente.
Non si va lontano dal vero affermando che il Super-io veicola i valori che richiamano il soggetto al rispetto dei doveri sociali, vale a dire del suo dover essere in quanto membro di una comunità, e che l’Ideale dell’io, se connivente, rafforza quei richiami, se oppositivo veicola i valori inerenti i diritti individuali – la pari dignità e la libertà. Sono due funzioni entrambe importanti in quanto, attraverso vicissitudini che raggiungono l’acme nel periodo adolescenziale, concorrono ad integrare una personalità dotata di una coscienza morale, vale a dire del senso dei suoi doveri riconosciuti e partecipati, e nel contempo di un’identità individuale autonoma. Ma l’integrazione richiede una serie di circostanze – soggettive, familiari e socioculturali – che, per motivi di cui si discuterà ulteriormente, non sempre si danno. Lo scacco dell’integrazione produce un conflitto strutturale caratterizzato dalla scissione e dall’opposizione tra le due funzioni che si autoalimenta.
La pertinenza di questa concettualizzazione in rapporto al disagio adolescenziale e giovanile è intuitiva. L’adolescenza è il grande snodo dell’evoluzione della personalità, il periodo in cui i doveri interiorizzati precocemente entrano naturalmente in conflitto con le istanze di differenziazione e di libertà personale che vengono esse stesse da lontano ma che, nel suo corso, si intensificano criticamente. E’ il periodo in cui le tensioni tra i bisogni intrinseci accumulate in precedenza possono risolversi ma anche produrre un conflitto strutturale. Il conflitto riconosce sempre le stesse polarità – il Super-io e l’Ideale dell’io – ma naturalmente la sua configurazione dinamica e la sua fenomenologia sono diverse in conseguenza della diversità dei valori superegoici interiorizzati, dei valori antitetici prodotti in opposizione a quelli e alla connivenza dell’io con gli uni o con gli altri. In genere le ribellioni inibite attestano la prevalenza dinamica della funzione superegoica, che frustra la pressione del bisogno di opposizione/individuazione, quelle agite la prevalenza dinamica dell’ideale dell’io antitetico, che frustra la pressione del bisogno di appartenenza/integrazione sociale.
Orientativamente lo schema, in rapporto alla clinica, funziona. Ma esso non va applicato schematicamente. Alcune ribellioni sono inibite da livelli di colpevolizzazione che drammatizzano e significano negativamente esigenze di libertà personale sacrosante in quanto esse hanno assunte, per effetto della frustrazione, un carattere anarchico; altre inibiscono orientamenti di vita e comportamenti che potrebbero danneggiare seriamente il soggetto. Alcune ribellioni sono agite in nome di una protesta assolutamente convalidabile in rapporto ad un regime interiore assolutamente mortificante; altre, viceversa, sono animate da una rabbia indifferenziata che porta il soggetto a dichiarare guerra al mondo intero, ad agire insensibilmente, attaccando e usando gli altri, a negare i sensi di colpa commettendo delle colpe. Si danno insomma una serie di configurazioni conflittuali dinamiche che è possibile individuare solo porgendo attenzione ai sintomi, ai vissuti e ai comportamenti. Non è possibile, in questo articolo, né descriverle né analizzarle.
Una considerazione di ordine generale però può essere fatta. La psicopatologia adolescenziale e giovanile, in maniera più evidente rispetto a quella adulta, pone di fronte a due realtà: l’una caratterizzata dalla volontà inconsapevole di restare pateticamente fedeli a un sistema di valori interiorizzati che, per il loro rigore o la loro astrattezza, impediscono al bisogno di opposizione/individuazione di dispiegarsi e, frustrandolo, finiscono con l’alienarlo, vale a dire col renderlo rabbioso e anarchico; l’altra dalla volontà inconsapevole di spogliarsi del tutto di quei valori sostituendoli con un altro sistema che, per essersi definito sul registro dell’antitesi, è esso stesso alienato, vale a dire tradisce e distorce gli autentici bisogni di libertà e di autenticità del soggetto, costringendolo a indurirsi, a insensbilizzarsi e a incattivirsi. Il conservatorismo superegoico, che implica una connivenza dell’io, e il ribellismo anarchico, tributario dell’Ideale dell’io antitetico, sono le forme estreme del disagio adolescenziale e giovanile, tra le quali si dà uno spettro dinamico che copre tutta la psicopatologia dell’età evolutiva.
Il rapporto tra le tipologie illustrate e il disagio psichico è complesso. Le sindromi ricorrenti negli adolescenti rappresentano vie finali comuni a cui possono pervenire sia gli adolescenti corazzati nell’adultomorfismo antitetico sia quelli mortificati dall’adultomorfismo superegoico. Ambedue le tipologia infatti, in una percentuale significativa di soggetti, sono caratterizzate psicodinamicamente da intensi sensi di colpa. Nel caso dell’adultomorfismo antitetico i sensi di colpa vanno ricondotti alla repressione della sensibilità sia nei confronti dei genitori che dei coetanei che porta gli adolescenti ad agire comportamenti più o meno ingrati o cinici che vengono inconsciamente stigmatizzati dal Super-io. Nel caso dell’adultomorfismo superegoico essi, viceversa, si organizzano in riferimento alla rabbia liberatoria ed eversiva accumulata a seguito della mortificazione del bisogno di opposizione/individuazione.
La precocizzazione del disagio psichico, che ormai investe massicciamente gli adolescenti, pone un ulteriore problema: la valutazione del peso dei conflitti interiori e delle interazioni familiari e sociali. E’ noto che questo problema, colto già parecchi anni fa a livello di disagio giovanile, ha dato luogo alla scissione tra psicoanalisi e teoria sistemica inducendo un reciproco irrigidimento teorico che solo negli ultimi anni è andato incontro a qualche tentativo di mediazione. Il disagio psichico adolescenziale, così come si sta configurando, sembra destinato a incrementare questi tentativi o, per essere più precisi, a promuovere un superamento dialettico del problema. Se infatti, nel corso dell’età evolutiva, la permeabilità della personalità alle influenze e alle interazioni ambientali è inconfutabile, non è meno vero che il definirsi sempre più precoce di sindromi nella cui fenomenologia è agevomente riconoscibile l’espressione di conflitti psicodinamici non immediatamente riconducibili ai giochi interattivi costringe ad ammettere il ruolo di momenti soggettivi relativamente autonomi, strutturati e autoalimentantisi. Il fattore interattivo e quello soggettivo non sono peraltro eterogenei. All’ambivalenza delle famiglie che, nella maggior parte dei casi, adottano un modello educativo ambiguo, iperprotettivo per un verso pseudoautonomizzante per un altro, corrispondono infatti conflitti strutturati nei quali è ampiamente riconoscibile l’opposizione tra il conservatorismo superegoico e la fuga in avanti legata all’ideale dell’io.
2. L’humus socioculturale
Dovrebbe essere ovvio che un qualunque fenomeno di disagio psichico allorchè assume un’incidenza statistica rilevante, sociologica, non possa essere interpretato in termini riduzionistici, organicistici e/o psicologisti. Occorre ammettere che esso, per quanto rappresenti l’insieme di singole esperienze vincolate a diversi contesti ambientali, riconosca un humus socioculturale che ne consente e concorre ad interpretarne lo sviluppo. Il problema è che la definizione dell’humus socioculturale in questione è resa difficoltosa e da una scarsa integrazione tra le scienze del disagio psichico e le altre scienze umane e sociali (in particolare la sociologia, l’antropologia culturale e la storia sociale) e dal fatto che il fenomeno in questione si pone sul piano della contemporaneità, circostanza che notoriamente annebbia l’acutezza dei ricercatori che in essa sono coinvolti. Nonostante queste difficoltà, essendo il riduzionismo un vicolo cieco che può portare solo a stigmatizzare la predisposizione individuale o la patologia familiare, qualche riflessione e qualche ipotesi vanno avanzate.
Nessun ambito del disagio psichico anagraficamente definito – infantile, adolescenziale, giovanile, adulto, senile – può essere affrontato senza una riflessione sul fatto che non solo la scansione delle stagioni della vita ma anche i codici normativi che definiscono il comportamento che si ritiene adeguato per ciascuna di esse e i ruoli asegnati dipendono dal contesto storico-culturale. Per prendere atto di questo assunto, di cui spesso non si tiene conto, in rapporto alla fascia di età che ci interessa, basta considerare alcuni dati elementari, giuridici, come, per esempio, la fluttuazione dell’obbligo scolastico, la definizione, conseguente a questo, di un limite di età al di sotto del quale non è consentito svolgere un’attività lavorativa, il cambiamento dell’accesso alla pienezza dei diritti civili (il raggiungimento della maggiore età che contrassegna anche il venir meno della patria potestà), la definizione dell’imputabilità penale, ecc. Al di là di questi dati di ordine giuridico occorre poi considerare i cambiamenti culturali che assumono un valore di consuetudini. La libertà comportamentale degli adolescenti, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di muoversi al di fuori del controllo parentale, è aumentata di gran misura rispetto al passato. Molti adolescenti passano il sabato sera fuori casa, parecchi trascorrono le vacanze tra coetanei. Le frequentazioni eterosessuali, anche con alcune remore, sono ammessi o comunque tollerati. Si riconosce agli adolescenti lo statuto di consumatori di beni non primari in conseguenza del quale, in molte famiglie, una quota del reddito viene investita nelle spese voluttuarie e nelle ‘paghette’. Il rapporto con gli adulti, nella maggioranza dei casi, risulta affrancato dalla soggezione del passato ed è caratterizzato da un’interazione comunicativa più franca, precocemente paritaria (com’è attestato dall’uso del tu inconcepibile appena qualche decennio fa). L’accesso alle informazioni, attraverso i mass-media e Internet, è forse fin troppo ricco, come pure lo scambio comunicativo all’interno dei gruppi giovanili, il cui esito è la produzione di un linguaggio e di una cultura autonoma, e spesso in opposizione rispetto a quella degli adulti.
Gli effetti psicosociologici di questi cambiamenti sono diversamente valutati dagli esperti e dall’opinione pubblica. C’è chi sottolinea i rischi legati all’eccessiva libertà e al venir meno del controllo sociale, all’atteggiamento permissivistico delle famiglie e alla loro tendenza a viziare i figli; chi viceversa, pur non negando alcune contraddizioni, vede nella situazione attuale una fase di transizione verso una maggiore maturità, flessibilità psicologica e apertura al mondo.
Prescindendo da giudizi di valore occorre ammettere che non appare agevole cogliere i nessi tra i cambiamenti socioculturali cui si è fatto cenno e il crescente disagio psichico adolescenziale. Ciò dipende forse dal fatto che i cambiamenti in questione avvengono alla superficie della struttura sociale, mentre è probabile che qualcosa di più complesso stia avvenendo al di sotto di essa. Ma per quali vie accedere alle falde profonde della struttura sociale, laddove si originano e si organizzano i codici normativi culturali in virtù di un perenne conflitto tra vecchi e nuovi valori? Un indizio che gode del pregio di essere evidente merita attenzione. Esso è costituito dal fatto che, come la sua metafora stagionale - la primavera -, l’adolescenza come periodo evolutivo di lunga durata, necessariamente travagliato, contraddittorio, ricco di slanci e di ricadute, di aperture e di chiusure affettive e cognitive, di dubbi e di certezze assolute, di tensioni edonistiche e spirituali nel contempo, tende a scomparire. Sempre più di frequente infatti le crisi adolescenziali si configurano o come un repentino balzo in avanti comportamentale che trasforma quasi magicamente un bambino in un soggetto terribilmente (e temibilmente) sicuro di sé, ostile alla classe degli adulti, tendenzialmente estroversivo, che odia la solitudine e non ama porsi problemi (con la conseguenza di agire spesso comportamenti sociali caratterizzati da una scarsa sensibilità nei confronti degli altri) o, in una minoranza di casi, come il mantenersi e l’incrementarsi di un assetto comportamentale fin troppo maturo e serio, definitosi quasi sempre sin dall’infanzia.
Si tratta in entrambi i casi di un salto dalla condizione infantile all’adultomorfismo, contrassegnata dalla necessità di apparire più grandi di quanto di fatto si è. La differenza, di non poco rilievo, è che nel primo caso il modello adultomorfo è ispirato dalla necessità di sentirsi confermati dal gruppo coetaneo, nel secondo dalla necessità di continuare ad essere confermati dagli adulti: nel primo la soggezione agli adulti, intesa come segno di infantilismo, è aborrita; nel secondo essa viene ad essere privilegiata mentre è aborrito il modello dei coetanei. In termini analitici si può parlare per un verso di un adultomorfismo antitetico, per segnalare il suo carattere manifestamente oppositivo alla cultura e alle preoccupazioni dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.), per un altro di un adultomorfismo superegoico, per segnalare la soggezione (spesso inconscia) ai valori interiorizzati nel corso dell’infanzia.
Il rilievo psicopatologico di questa mutazione, che esprime due terribili coercizioni normative – l’apparire forzatamente adeguati al modello estroversivo dominante tra i giovani e il non poter tradire le aspettative interiorizzate degli adulti - è abbastanza semplice da definire. Le due tipologie individuate sono entrambe potenzialmente conflittuali: la prima infatti privilegia in assoluto il bisogno di individuazione e, per assicurare ad esso una realizzazione prematura, per l’appunto adultomorfa, frustra il bisogno di appartenenza sociale, rappresentato nella personalità dai valori tradizionali trasmessi dalle istituzioni educative; la seconda privilegia in assoluto il bisogno di appartenenza sociale e, in nome delle aspettative degli adulti, frustra il bisogno di individuazione. Su questo sfondo si definisce la psicopatologia adolescenziale secondo due modalità fondamentali. Alcuni adolescenti appartenenti alla prima tipologia sono indotti infatti dalla pressione dei valori superegoici ad accentuare il loro adultomorfismo antitetico: a indurirsi caratterialmente e comportamentalmente, a insensibilizzarsi, e ad assumere spesso degli atteggiamenti marcatamente egoistici e cinici, finendo con il maturare degli intensi sensi di colpa che prima o poi sono destinati ad esplodere. Alcuni adolescenti appartenenti alla seconda tipologia sono indotti dalla pressione del bisogno di opposizione/individuazione frustrato ad irrigidire il loro adultomorfismo superegoico imponendosi una disciplina di vita, solitamente incentrata sullo studio e sulla coltivazione di valori elevati, che finisce con l’animare nel loro intimo una rabbia anarchica destinata ad implodere o ad esplodere. Si danno anche - e sono sempre più frequenti - casi di adolescenti che virano repentinamente dall’una all’altra tipologia per uno smottamento interiore che tende a risolvere il conflitto senza produrre immediatamente sintomi. Ma, dato che il rimedio risulta solitamente se non peggiore del male un male esso stesso, anche costoro vivono in una condizione di precarietà psicologica. Le tipologie descritte sono facilmente identificabili attraverso la ricostruzione delle storie personali e attraverso la testimonianza dei familiari.
Occorre chiedersi quali siano le cause socioculturali che hanno prodotto la scomparsa dell’adolescenza come essa è stata descritta nei libri di psicologia evolutiva sino agli anni ‘70. Il discorso, ovviamente complesso, non può essere qui affrontato che sinteticamente . Occorre considerare almeno tre aspetti: l’ibridazione di valori avvenuta a livello di mentalità, vale a dire di inconscio sociale, in seguito al venir meno della cultura patriarcale e all’avvento della cultura borghese, l’organizzazione della famiglia e delle istituzioni pedagogiche che sono divenute agenzie di riproduzione antropologica inconsciamente orientate a sfruttare il ‘capitale’ ad esse affidato, e la socializzazione adolescenziale stessa, prodotto della liberalizzazione dei costumi, che, in virtù di una fitta interazione tra coetanei, promuove una cultura relativamente autonoma che esalta, senza rendersene conto, il modello antropologico borghese e lo porta alle estreme conseguenze.
Il primo aspetto può essere appena accennato. Nonostante l’avvento al potere della borghesia risalga ormai a quasi due secoli, la cultura borghese solo lentamente è divenuta un fenomeno di massa scalzando le tradizioni popolari e contadine e entrando in conflitto con le tradizioni religiose. I tratti differenziali propri di quella cultura sono l’esaltazione dell’individuo come causa sui, l’assunzione dello status sociale che egli consegue come espressione del suo merito, e la sollecitazione a competere, a mettersi a confronto e a misurarsi. Rispetto ai vincoli posti all’affermazione dell’individuo dalle culture precedenti, che facevano discendere il suo status e il suo destino dalla nascita, si tratta di un indubbio progresso. Ma il modello borghese, che muove dalla concezione della vita come lotta per sopravvivere, è un modello marcatamente adultomorfo, implicitamente aggressivo che, al di sotto delle apparenze, postula un qualche grado di insensibilizzazione sociale. La sua espressione più propria è il darwinismo sociale, che trasferisce a livello di società la legge della selezione naturale e individua nella debolezza, comunque intesa, un difetto e una colpa. La sostanziale spietatezza di questo modello ha sollecitato una parte della cultura borghese, quella illuminata, a tentare di smussarlo innestando su di esso valori universali – i diritti umani – che comportano la pari dignità tra gli individui e la necessità conseguente di tutelare i più deboli. Ma si tratta di un’ibridazione culturale dovuta al fatto che, all’epoca del suo avvento, la borghesia ha dovuto fare i conti col potere religioso al quale ha dovuto concedere un qualche riconoscimento. La matrice della società borghese era e rimane l’egoismo individualistico, amorale e asociale entro i limiti della legalità, che comporta l’assunzione del socius come rivale. Funzionale al mantenimento del sistema economico che esso ha prodotto, il modello borghese che, alla superficie della struttura sociale, è stato smussato dai compromessi col liberalesimo filosofico e con il socialismo, ha lentamente permeato l’inconscio sociale, ha investito i rapporti interpersonali ed è giunto infine a radicarsi nella soggettività, inducendo l’accettazione della legge del più forte come naturale, e, in coseguenza di questo, la fobia di ogni forma di debolezza e un vissuto universalmente persecutorio.
Il ruolo egemone del modello borghese non ha inattivato però tutte le tradizioni precedenti, troppo profondamente radicate nell’inconscio sociale per essere estirpate. Ciò è vero sia per le tradizioni gerarchiche patriarcali, sia per quelle religiose, tendenzialmente egualitarie e comunitaristiche. Sia le une che le altre anzi di recente si sono rafforzate: le prime in virtù di un bisogno diffuso di ordine che stigmatizza, anche a livello giovanile, gli eccessi e le conseguenze negative della libertà; le seconde in conseguenza del bisogno di reagire all'atomismo individualistico borghese e di contrapporre, alla spietata legge del più forte, la legge dell’amore evangelico.
Nessuno ha la possibilità di decifrare ciò che avviene a livello d’inconscio sociale. Ciò che è certo è che tale livello influenza profondamente il modo di sentire, di vedere e di agire degli esseri umani, indipendentemente dalla consapevolezza che questi hanno di tale influenza. Non è azzardato dunque pensare che i campi educativi, attraversati dalla confluenza di questi diversi valori, sono sostanzialmente confusivi. Il principio di autorità, l’ugualitarismo comunitaristico, l’individualismo borghese si rifrangono nei vari campi - familiari e scolastici - secondo uno spettro di possibilità che comporta, in misura diversa, la compresenza di questi valori che vengono ad essere interiorizzati. Il principio di autorità, del resto, a livello pedagogico è assicurato dalla percezione onnipotente, magica e idealizzata che i bambini hanno universalmente delle figure adulte, ed esso, che assicura la trasmissione dei valori culturali tra le generazioni in virtù di una sorta di ipnosi infantile, non è che apparentemente inattivato dalla familiarità e dall’intimità tra i bambini e gli adulti. Per quanto riguarda gli altri due aspetti, si tratta di due catechismi che vengono regolarmente impartiti. Per fare un solo esempio basta pensare alla scuola. Nell’ora di religione si tenta di imprimere nelle anime infantili, con la paura di un’autorità suprema che vede tutto e punisce i peccatori, i valori dell’amore del prossimo, della solidarietà e dell’uguaglianza. Ma la scuola nel suo complesso, deputata a produrre cittadini borghesi, alimenta la competitività, si disinteressa dei più deboli, che vengono spesso ridicolizzati in pubblico, sollecitando le famiglie ad aiutare i figli nello studio sostiene, senza saperlo, il classismo e i privilegi di nascita, seleziona darwinisticamente i più adatti.
Per quanto concerne l’organizzazione della famiglia, che richiederebbe un lungo discorso, si considereranno solo alcuni aspetti. Per lungo tempo attestata sul registro della riproduzione di sussistenza, la famiglia si sta lentamente trasformando (senza saperlo) in un’istituzione capitalistica. Ciò significa che l’investimento dei genitori nell’allevamento dei figli, in termini, se non di tempo, di affetto, di attenzione,di cultura, di denaro (nonostante alcune dicerie che non tengono conto del passato allorchè i figli erano tirati su come piante) è aumentato sia quantitativamente che qualitativamente. Ma questo investimento non ha prodotto sinora buoni risultati: per un verso perchè il modello pedagogico di riferimento mira a produrre il cittadino medio, quietamente integrato nella società, e mortifica più o meno profondamente il bisogno, soprattutto adolescenziale, di differenziazione e di originalità; per un altro perchè esso si associa costantemente a delle aspettative elevate di essere ricambiati e si traduce, nei figli, in un vissuto di indebitamento che, se riconosciuto, li rende schiavi di quelle aspettative e, se negato, li spinge ad agire in opposizione ad esse.
Occorre tener conto inoltre che le aspettative genitoriali risentono della confusione tra sistemi di valore di cui si è parlato poc’anzi. Esse sono univoche nello scongiurare che i figli facciano una brutta fine, che divengano devianti. E già questa preoccupazione, che cresce con il crescere della devianza, laddove diventa ossessiva basta da sola ad operare come una previsione che si avvera. Ma per quanto riguarda il resto, esse sono più o meno contraddittorie. I principi che vengono impartiti infatti risultano funzionali sia al buon vivere civile (sia esso fondato su valori religiosi o sul rispetto sociale) sia alla necessità di cavarsela nella lotta per la sopravvivenza senza andare troppo per il sottile.
Il terzo fattore è un dato sociologicamente del tutto nuovo: la produzione relativamente autonoma (in quanto influenzata dai mass-media) di una cultura adolescenziale e giovanile fortemente incentrata sull’adultomorfismo estroversivo. Il modello di riferimento degli adolescenti e dei giovani, da essi stesso prodotto, e inconsapevolmente tributario del modello borghese radicale, impone la spigliatezza sociale, l’intraprendenza sessuale, la fobia della debolezza (intesa come insicurezza, dubbio, soggezione nei confronti dell’autorità, tendenza ad abbandonarsi alle emozioni), la padronanza di sè, il culto dell’immagine, la tendenza a sfidare le paure, ecc. Adottato dai più questo modello rende gli adolescenti tendenzialmente narcisisti, egocentrici, edonisti, poco sensibili ai bisogni altrui, inclini a prendere in giro chi rivela una qualunque debolezza e, nel loro intimo, costantemente angosciati dalla paura di crollare e di rivelare la loro inadeguatezza. Coloro che non riescono ad aderire a questo modello, in quanto solitamente introversivi, tendono viceversa ad oscillare tra un sentimento di superiorità e uno di inferiorità rispetto agli altri, ad isolarsi e ad essere rifiutati, a coltivare valori elevati intellettuali e morali e a coltivare un intimo disprezzo, sotteso di invidia, nei confronti degli altri.