1.
Questo articolo è un excursus rispetto ai precedenti, dedicati a descrivere le prime fasi di sviluppo dei bambini e i problemi che esso crea nel nostro contesto socio-culturale. Riprenderò quanto prima il filo del discorso per descrivere le vicissitudini che sopravvengono con l'acquisizione della stazione eretta e della deambulazione.
Quello che ora mi preme è affrontare il ruolo che le scienze psicologiche (o meglio, l'insieme di saperi e di luoghi comuni che ambiscono a definirsi tali) hanno svolto e svolgono a riguardo.
Ho già accennato al fatto che i genitori di oggi, in genere, tendono a pensare che allevare un bambino richieda competenze affatto particolari di cui sono depositari gli specialisti (pediatri e psicologi). Come prova di questa convinzione basta citare il numero di madri e di padri che, implicitamente o esplicitamente, convalidano l'assioma secondo il quale "fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo".
L'analisi di questo assioma è un buon punto di partenza. Si tratta, infatti, di una verità contingente, quindi storico-culturale, trasformata dagli specialisti in una legge universale in conseguenza della quale fare il genitore fidando sull'intuizione, sul buon senso, sul ricordo d'essere stati bambini, sulla tradizione depositata nelle precedenti generazioni è sostanzialmente un grave rischio. Per non correrlo, facendosi carico della responsabilità che il figlio possa "finire male", occorre affidarsi alla guida degli esperti: informarsi, leggere, e, infine, fare riferimento ad uno specialista di fiducia (il pediatra e/o lo psicologo).
Il carattere contingente dell'assioma in questione è facile da dimostrare. Psicopedagogia e Psicologia sono scienze recenti, che hanno, tra l'altro, acquisito credito presso l'opinione pubblica solo negli ultimi decenni. Se la loro funzione fosse stata necessaria per l'allevamento dei bambini, non si vede come l'umanità abbia potuto affrontare questo compito sino ad oggi.
L'obiezione per cui, in difetto di una "guida" scientifica, l'allevamento avveniva sulla base di tradizioni, false convinzioni (come quella che nel Medio Evo europeo ha comportato la pratica della fasciatura) ed errori di ogni genere, non è infondata. Il problema è che, con l'avvento degli "esperti", le cose sembrano essere piuttosto peggiorate che non migliorate.
Nonostante l'impegno quantitativo e/o qualitativo dei genitori e il loro bagaglio informativo medio, infatti, siano aumentati rispetto al passato, i bambini di oggi manifestano disturbi del comportamento (iperattività, insonnia, bulimia, tics, ecc.) e vere e proprie "nevrosi" (ansia, depressione, fobie, ecc.) in una percentuale nettamente maggiore rispetto a due-tre generazioni fa e, presumibilmente, al passato.
Si tende solitamente a ricondurre questa situazione alla nuclearizzazione della famiglia, ai ritmi di vita contemporanei e allo stress che, mediamente, affligge i genitori, e in particolare le madri (quelle che lavorano per via del fronte di impegni eccessivo, quelle che stanno a casa per via dell'implacabile nevrosi delle casalinghe). Il ruolo svolto da questi fattori sociali e psicosociologici è fuor di dubbio. Fare riferimento ad essi, però, non è esauriente perchè il disagio in questione è troppo pervasivo ed affiora anche nei nuclei familiari che godono di un tenore di vita del tutto rassicurante.
A quei fattori, insomma, occorre aggiungere un modo sostanzialmente e inconsapevolmente sbagliato di vivere ed agire i ruoli genitoriali. Anzichè farsi carico di questo problema e cercare di interpretarlo, la psicologia contemporanea lo assume come un dato di fatto riconducibile all'oggettiva difficoltà dell'impegno di allevare un bambino. Essa, in breve, conferma l'assioma secondo il quale fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo è, naturalmente, si propone, attraverso una schiera di specialisti che cresce di giorno in giorno, nella veste umanitaristica della "scienza" che può consentire di essere all'altezza dell'immane compito.
Basta entrare in una libreria ben fornita per imbattersi in una miriade di testi scritti a tal fine. Ne cito alcuni di un certo successo: Asha Phillips I no che aiutano a crescere (Feltrinelli); Non ho paura di dirti No (San Paolo); Amare senza viziare (Fabbri); Se mi vuoi bene dimmi di no (Mandragora): L'amore non basta (Fabbri); Guida per i genitori felici (Fabbri); Il genitore consapevole (TEA); Tutto quello che un genitore non dovrebbe fare (Pan); Come crescere un bambino ottimista (Sperling & Kupfer); 10 regole per vivere con un bebè (Armenia); Il dito in bocca (id); Bambini che fanno i capricci (id); Per non perdere la calma (id); Niente sgridate, chiacchieriamo (id); Non dite mai (Fabbri); E adesso cosa faccio (Mondadori); Non ce la faccio più (Pan); Gravidanza del padre, parto di testa (Stampa alternativa); Padre Cercasi (Magi); Se non è grande, che padre è? (Armando); Nuovi papà, bravi papà (Fabbri).
La qualità e i contenuti di testi del genere è eterogenea: alcuni sono scritti sicuramente da psicologi calati seriamente nel ruolo di "ortopedici" dei disagi umani; altri, da "esperti" che si limitano a ripetere luoghi comuni o a propagandare il verbo del pensiero positivo. Il fattore che unifica questa letteratura è, però, per l'appunto, la difficoltà oggettiva, al limite dell'impossibile, di allevare un bambino senza commettere gravi errori in difetto di una guida specialistica.
Si tratta, dunque, tenendo conto anche del relativo successo editoriale, di un fenomeno indiziario di quel processo di psicologizzazione della cultura contemporanea che ho rilevato in un articolo precedente.
Se si parte dal presupposto che lo sviluppo sociale, che marcia in parallelo con il "progresso", produce nuovi bisogni - di ordine materiale, psicologico, culturale, ecc. -, in precedenza inesistenti, ai quali va data una risposta, il ruolo crescente della psicologia nel nostro mondo, complementare e in opposizione a quello della psichiatria, che cerca essa stessa di estendere la sua influenza trasformando in disturbo genetico o biochimico ogni espressione di disagio soggettivo, potrebbe essere assunto come un fenomeno positivo. Esso attesterebbe che, preso atto della complessità dell'esperienza umana - a livello individuale, intersoggettivo e microsociale - le persone avvertono il bisogno di aumentare i loro livelli di cultura e di consapevolezza per migliorare la qualità della vita.
Il problema, affrontato da un punto di vista critico nei confronti dell'ideologia del "progresso", verte sul fatto che i bisogni in questione, benchè sperimentati soggettivamente, siano autentici o falsi, vale a dire prodotti dal sistema sociale o da qualche istituzione in particolare per fini che hanno poco a che vedere con la qualità della vita.
Ora, l'identificazione del ruolo genitoriale con il mestiere più difficile del mondo sembra prodotta a bella posta dalle discipline psicologiche per incrementare la necessità che esso venga agito sulla base di un sapere posseduto solo dagli specialisti; per indurre insomma un'ulteriore delega ai "tecnici" dei problemi della vita.
Che cosa c'è di male in questo? Perchè contestare lo sviluppo di servizi pubblici e privati che tendono ad aiutare le persone a svolgere il loro ruolo? L'accettazione da parte dei genitori di un aiuto psicologico non è forse un segno di maturità e di consapevolezza rispetto al passato?
2.
Per rispondere a questi quesiti, senza correre il rischio di essere identificato come un bastian contrario, preferisco partire da un dato che non è solitamente valorizzato (anche se ho già fatto cenno ad esso), ma ritengo estremamente significativo.
Medice cura te ipsum - formula proverbiale che può essere estesa a tutti gli operatori che svolgono un'attività assistenziale - è un luogo comune, che non va assolutizzato. Entro certi limiti, esso, infatti, sottolinea la necessità che chi si prende cura degli altri non agisca in maniera troppo contraddittoria. Un medico che fuma o beve alcol o è bulimico o lavora dodici ore al giorno non è autentico se consiglia vivamente, e casomai aspramente, alle persone di seguire un regime di vita più igienico.
Al di là di certi limiti, quell'imperativo perde significato. Un medico senza vizio alcuno può morire per la rottura di un angioma cerebrale un valido cancerologo di cancro, un ottimo cardiologo di infarto, ecc.
Nell'ambito della psicologia, la formula proverbiale sembra invece avere un valore assoluto. Si dà per scontato che uno psicoterapeuta non può aiutare gli altri a risolvere problemi che egli stesso non ha risolto. E' questa la ragione per cui l'accesso all'albo degli psicoterapeuti postula una lunga formazione e un training personale.
A rischio di apparire eretico, mi verrebbe da estendere anche a questo ambito il discorso fatto per la medicina. Freud stesso è convissuto con una serie di disturbi nevrotici che non si sono mai del tutto risolti. Conosco di persona psicoterapeuti "affetti" da perfezionismo morale che si chiedono di continuo come sia possibile che i loro pazienti perfezionisti giungono a regolare la disponibilità nei confronti degli altri meglio di loro, psicoterapeuti non immuni da episodi depressivi che riescono a portare alla guarigione pazienti depressi, ecc.
Sono dunque l'ultimo a pretendere che lo psicologo o il terapeuta corrispondano allo stereotipo del soggetto pienamente realizzato, sereno, felice e privo da contraddizioni.
Ciò detto, è pur vero che c'è un limite al di là del quale lo scarto tra immagine sociale e vita quotidiana diventa una mistificazione.
Che la psicologia non detenga le chiavi atte ad assicurare che l'allevamento dei figli si realizzi su di un terreno rassicurante e positivo è confermato dal fatto che, nella classifica per ruolo sociale dei genitori i cui figli sviluppano una qualche forma di disagio mentale, gli "psicologi" (le virgolette segnalano che nella categoria vanno compresi gli psicoterapeuti di formazione psicologica, gli psichiatri e gli psicoanalisti) sono al secondo posto dopo gli insegnanti (essi stessi mediamente convinti di sapere come si allevano bene i bambini).
Questo riferimento non è poco significativo ai fini del discorso sullo stato delle cose inerente l'allevamento dei bambini.
Esso, infatti, implica che i genitori i quali, per il ruolo sociale di "educatori" che ricoprono, danno per scontato di essere esperti della psicologia infantile e quindi dotati di particolari competenze rispetto alla media, sono proprio coloro che commettono più errori o producono più problemi. Che ciò nonostante insistano nel voler insegnare agli altri genitori come si allevano i figli è umanamente comprensibile, ma, a dire il vero, patetico.
Il problema non sta nel verificare se essi hanno o non hanno le competenze che si attribuiscono in termini psicopedagogici, bensĪ se queste competenze hanno effettivamente rapporto con quell'insieme complesso di problemi che viene mortificato dal parlare di allevamento dei bambini (anche se il termine ha una certa utilità e io stesso lo adotto): si tratta, infatti, a ben vedere, di uno degli aspetti più significativi della riproduzione sociale, cioè del processo in virtù del quale ogni società perpetua nel tempo la sua identità, le sue tradizioni, le sue istituzioni e, naturalmente, gli agenti storici che la mantengono in vita.
3.
E' superfluo rilevare che in nessuno dei numerosi libri di psicopedagogia c'è un qualunque riferimento a qualcosa del genere. Nei meno rozzi (vale a dire non scritti con intenti meramente commerciali), si arriva tutt'al più ad accennare ai cambiamenti sociali intervenuti, e in particolare alla nuclearizzazione della famiglia, che, allentando criticamente la trasmissione transgenerazionale del sapere e delle pratiche pedagogiche, fa sĪ che i genitori si ritrovino soli nell'affrontare e nel portare avanti un'esperienza delicata e difficile. Tale riferimento - è ovvio - vale solo a sottolineare la necessità di compensare e vicariare quell'allentamento con l'aiuto degli esperti.
Il problema a riguardo è che tra la programmazione sociale che sottende la riproduzione nel nostro mondo e l'aiuto degli esperti si dà uno scarto drammaticamente rilevante, al quale occorre aggiungere i modi di vedere, di sentire e di pensare dei genitori che sono estremamente diversificati ma, allo stesso tempo, accomunati da alcune idee sbagliate.
Parto da quest'ultimo aspetto. Le idee sbagliate dei genitori sono sostanzialmente quattro: la prima è che il bambino è un essere terribilmente vulnerabile e precario, per cui basta un nonnulla a comprometterne o distorcerne l'evoluzione; la seconda, che lo sviluppo del bambino dipende quasi esclusivamente dalle cure e dalle attenzioni che riceve; la terza, è che sia loro dovere assoluto rendere i figli sereni e felici; la quarta che, a tal fine, sia indispensabile non commettere gli errori educativi delle generazioni precedenti.
Se si riflette un po' su queste convinzioni, non si stenta a riconoscerne le matrici.
Le prime due sono, ahimè, il prodotto della divulgazione psicologica, a partire dalla psicoanalisi o meglio da una certa tradizione psicoanalitica. Freud ha drammatizzato oltre misura il peso dei primi anni di evoluzione nello sviluppo e nell'integrazione della personalità, incentrandolo su di un dramma filogenetico - il passaggio dalla natura alla cultura - che si ripete all'interno di ogni singola esperienza e deve fare i conti con la potenza delle pulsioni. Nell'ottica freudiana, però, il dramma, da ultimo, è l'interiorizzazione della Legge, che promuove l'accettazione del principio di realtà. La tradizione analitica, in primis con Melania Klein, ha viceversa drammatizzato il rapporto con la Madre, dal quale dipenderebbe l'integrazione della personalità infantile. Questo tema, poi, è stato ripreso in tutte le salse dalla psicologia evolutiva che è giunta ad assegnare alla diade Madre -Bambino un significato evolutivo vitale.
La stessa psicoanalisi, nel suo sforzo di delineare quello che avviene nella mente dei bambini nei primi mesi e anni di vita, è giunta a costruire lo stereotipo dell'esserino infinitamente vulnerabile, radicalmente bisognoso di cure per stare al riparo da un'angoscia che lo perseguita. Anche se la psicologia evolutiva non si è fatta carico totalmente della drammaticità del mondo interiore originario ricostruita dagli psicoanalisti, essa ha estrapolato dall'analisi il riferimento alla precarietà psicologica e alla vulnerabilità dell'infante.
Su questa base, prodotta dalla divulgazione, è naturale che i genitori si sentano investiti da doveri esorbitanti di protezione e di cura, e giungano a vivere i figli come esseri sempre sospesi sul filo del rasoio della frustrazione, dell'abbandono, del dolore e dell'angoscia. Ciò rende intollerabili tutte le manifestazioni comportamentali infantili (pianti, rabbie, ecc.) che, in sè e per sè, attestano semplicemente che il bambino è un essere emotivamente "squilibrato" (se non lo fosse non avrebbe bisogno di una ventina di anni per giungere ad un minimo di maturità).
In altri termini, le tempeste in un bicchiere d'acqua, che sono il tratto più tipico del comportamento infantile, vengono assunte come indizi preoccupanti di qualcosa che non funziona, incrementano a dismisura l'ansia genitoriale e inducono un senso di responsabilità sottilmente sotteso dal sentirsi inadeguati e in colpa.
La terza convinzione ha cause molteplici. Per alcuni genitori la possibilità che il figlio sia felice è, come accadeva anche in passato, semplicemente un compenso delle loro frustrazioni, tensioni e sofferenze. A questo occorre aggiungere che, nel nostro mondo, la felicità, intesa anche superficialmente come esibizione di uno status e di un modo di essere positivo, vitale, gioioso, è imposta mediaticamente come indizio e prova di normalità e di successo. Per quale altro motivo si affermano correnti psicologiche incentrate sul pensiero positivo e sulla terapia del riso? C'è infine da considerare che, dato il miglioramento globale del tenore di vita, la possibilità che un figlio, che "ha tutto", non sia felice si traduce nei genitori in uno scacco che sottolinea le loro responsabilità.
In questa ottica eudemonistica, che lo sviluppo infantile postuli il graduale scioglimento della rete di illusioni che caratterizza i livelli di coscienza dei primi anni di vita e l'acquisizione di una progressiva consapevolezza sullo stato di cose esistente ( i limiti e le contraddizioni dei genitori e dei grandi, la propria vulnerabilità e finitezza, l'esistenza della casualità, della malattia, della morte, del "male", ecc.), è praticamente misconosciuto. Il bambino dovrebbe mantenere, se ben allevato, un livello di coscienza positivo e ottimistico, cioè rimanere infantile.
La quarta convinzione in parte è il prodotto dell'esperienza personale dei genitori come figli, in parte è essa stessa il prodotto delle discipline psicologiche. E' fuori di dubbio che parecchi genitori possano avere avuto esperienze filiali frustranti, ma la psicologia, dando credito alla figura del genitore consapevole, quasi perfetto, ha riverberato sul passato una luce sinistra, tale che la generazione dei nonni è stata sottoposta ad un implacabile processo esitato in un verdetto di condanna.
I genitori di oggi, anzichè chiedersi se i propri, date le condizioni oggettive di vita e gli strumenti di cui disponevano (o la cultura di cui erano partecipi), abbiano fatto il possibile, drammatizzano i loro errori e le loro colpe. In conseguenza di questo, essi si condannano a non doverle riprodurre o al limite a non doverne commettere in assoluto, pena un senso di colpa infinito. Nella misura in cui, insomma, essi sono implacabili con i propri genitori, sono costretti a porsi degli obiettivi perfezionistici.
4.
Come incidono questi diversi fattori nella pratica pedagogica è presto detto. Gran parte dei genitori affrontano l'allevamento dei figli non come un'esperienza supportata da una programmazione evolutiva tale per cui, assicurando loro almeno un minimo di protezione e di cura, i figli crescono mediamente bene, ma come un test o un esame difficilissimo che mette alla prova il loro essere adeguati o inadeguati. Da ciò discende un'ansia di fondo che drammatizza sistematicamente tutte le vicissitudini proprie dello sviluppo infantile. Dando per scontato, sulla scia di quanto dicono gli esperti, che un bambino bene allevato è sano, sereno, disteso, gioioso, o addirittura solare, essi drammatizzano tutti i comportamenti che si discostano da questo stereotipo: una malattia, un'insonnia, un pianto, un'espressione di rabbia vengono interpretati come indizi di qualche errore o colpa commessi.
L'essere adeguati, poi, ai bisogni di un esserino concepito come estremamente vulnerabile e precario significa letteralmente concentrare l'attenzione su di lui, anticipare i suoi desideri, evitare qualunque frustrazione, metterlo al riparo dal fantasma drammatico di sentirsi solo e abbandonato a se stesso.
Adottando un modello ansioso, iperprotettivo, normativo e tendenzialmente perfezionistico, i genitori naturalmente si trovano facilmente di fronte a conseguenze inaspettate. Per un verso, infatti, i bambini, interiorizzando il riferimento alla loro vulnerabilità che sottende l'iperpotezione, diventano ansiosi, inquieti, paurosi; per un altro, sono spinti compulsivamente a chiedere sempre più attenzione e partecipazione, a pretendere che il genitore sia infinitamente disponibile nei loro confronti. Diventano, insomma, precocemente esserini letteralmente divoranti e tirannici nei confronti dei genitori.
Una volta indotto questo atteggiamento, si istaurano poi quei terribili circoli viziosi interattivi per cui i genitori, esasperati dal rapporto che essi hanno concorso a produrre, entrano nella spirale delle ambivalenze emozionali che si amplificano e si autoalimentano. Avvertono, infatti, associati ai sentimenti di amore, di tenerezza, di protezione e di cura, forti pulsioni di insofferenza, di rabbia, di rifiuto che, in alcuni momenti, giungono a tradursi in odio nei confronti del "persecutore" e, in conseguenza dei sensi di colpa, danno luogo ad atteggiamenti riparativi all'insegna di più amore, tenerezza, cura, ecc.
In conseguenza di queste dinamiche, tanto più se esse, come accade di frequente, cronicizzano, è comprensibile che i genitori giungano a confermare che il loro mestiere è il più difficile del mondo e richiede un aiuto specialistico.
5.
E' fuor di dubbio che l'aiuto di uno psicologo può contribuire a cambiare nei genitori alcuni errori comportamentali e comunicativi, e dunque migliorare l'interazione tra essi e i figli. E' altrettanto ovvio che la psicologia nel suo complesso intende mettere in discussione il fantasma ideologico del bambino come essere infinitamente complesso, delicato, vulnerabile e precario sul quale si fonda il potere che essa ha conseguito.
Un esame anche superficiale della letteratura psicopedagogica corrente, rivolta al grande pubblico, pone di fronte ad una miscela di revisionismi (il superamento del permissivismo), strategie comunicative, consigli di ogni genere, luoghi comuni, ecc. Manca del tutto un quadro minimamente unitario inerente la psicologia del bambino, le leggi proprie dello sviluppo, il contesto socio-culturale all'interno del quale si realizza la riproduzione sociale. Prevalgono due preoccupazioni di fondo: la prima riferita al fatto che i bambini, sperimentando il potere tirannico che i genitori ad essi concedono, non acquisiscano il principio di realtà, attraverso la frustrazione dei loro desideri, e mantengano nel corso del tempo un orientamento narcisistico e onnipotente (infondato); la seconda, che essi, acquisendo consapevolezza dello stato di cose esistente nel mondo e della loro condizione esistenziale possano non sviluppare un orientamento adattivo, positivo o addirittura ottimistico.
Queste due preoccupazioni rivelano, all'insaputa degli autori, la programmazione sociale che si esprime attraverso i loro libri: una programmazione adattiva, realistica se non addirittura razionale, ma, nello stesso tempo, immune da qualsivoglia atteggiamento critico.
Questo mi sembra un aspetto poco confutabile, ma mi rendo conto che una valutazione del genere può facilmente essere qualificata come ideologica. Quale altro fine possono proporsi i genitori se non quello di indurre nei figli un adattamento all'esistente? Dovrebbero promuovere, forse, un disadattamento? E, in secondo luogo, che senso ha fare riferimento ad un'educazione che concorra allo sviluppo di una coscienza critica laddove si affrontano i problemi di bambini di pochi anni?
La risposta a queste obiezioni, che presumibilmente sarebbero avanzate dagli psicologi e dai genitori, ci portano in medias res, vale a dire a capire quali sono i nodi di fondo dell'allevamento dei bambini e perchè l'impegno dei genitori si rivela troppo spesso vano, se non addirittura
6.
Lo sviluppo evolutivo riconosce due fasi critiche di particolare importanza. La prima è legata al venir meno dell'idealizzazione che, nei primi anni di vita, induce il bambino ad attribuire ai suoi genitori (e agli adulti in genere) una sorta di onnipotenza funzionale a metterlo al riparo dalla percezione della sua straordinaria vulnerabilità, a farlo sentire totalmente protetto e, in una certa misura, in una botte di ferro. Tale passaggio si realizza a partire dai cinque-sei anni e comporta una lenta e graduale presa di coscienza della finitezza degli esseri umani, dei grandi e della propria. L'indizio più rilevante di tale passaggio è la presa di coscienza della morte come fine dell'esistenza individuale, che crea nei bambini una certa inquietudine e in alcuni addirittura un panico transitorio.
La seconda fase critica si avvia con l'adolescenza e si conclude tra i venti e i venticinque anni. Comunemente essa viene identificata come il periodo dell'individuazione, nel corso della quale la personalità si differenzia, acquisisce un'identità sufficientemente delineata, e sviluppa un modo di vedere, di pensare e di agire autonomo.
In realtà si tratta di una fase che conclude il "disincanto" sopravvenuto con lo scioglimento dell'ipnosi infantile e comporta un'assunzione di responsabilità in rapporto alle dimensioni esistenziali dell'esperienza umana. Non solo, infatti, il soggetto giunge ad una consapevolezza radicale della vulnerabilità, precarietà, contingenza e finitezza intrinseca alla condizione umana. Egli deve confrontarsi anche e dare senso a quanto di negativo c'è nella vita e nel mondo: il dolore, la malattia, la morte, le ingiustizie, le prepotenze, la violenza, la guerra e la casualità.
Se questo è vero, è evidente che gli obbiettivi che i genitori devono proporsi per assecondare una programmazione genetica che sottende lo sviluppo della personalità sono due: il primo, ovvio, è proteggere e tutelare i bambini in maniera tale che essi non incorrano precocemente in esperienze (fisiche o psichiche) traumatiche; il secondo, viceversa, è aiutarli, via via che crescono, a farsi carico delle consapevolezze esistenziali, inerenti la condizione umana e lo stato di cose esistente nel mondo, in maniera tale da agevolare un'assunzione di responsabilità a riguardo, che comporta anche necessariamente l'interpretarle e dare ad esse senso.
Mentre il primo obbiettivo si può ritenere univoco, il secondo comporta un ventaglio di possibilità, inerenti la libertà del soggetto, che va dall'adattamento realistico al disadattamento critico.
Il problema nel nostro mondo è che, mentre il primo obbiettivo viene perseguito addirittura in una forma ansiosa e talora ossessiva (fino al punto che anche una banale escoriazione dovuta ad una caduta dà luogo, nelle madri, a reazioni apprensive e smodate), il secondo obiettivo - l'aiutare i figli a farsi carico dei limiti della condizione umana, delle inquietudini e del dolore intrinseco all'esistenza e del male esistente nel mondo - non solo non viene perseguito, ma viene disatteso.
E' evidente che ciò dipende sostanzialmente dall'ideologia per cui fare bene il genitore significa rendere il figlio felice, ossessione al di sotto della quale si dà, più spesso a livello inconsapevole, un'universale fobia del dolore e della depressione - conseguenza quest'ultima ritenuta inevitabile per chi si pone troppi problemi.
La conseguenza di questa fobia, che impedisce di perseguire l'obbiettivo evolutivo che si può ritenere in assoluto il più importante, è che, iperprotetti e mistificati, i ragazzi di oggi sviluppano con straordinaria frequenza una tipologia di personalità omologabile ad un diamante. Sembrano più svegli, maturi, sicuri, disinvolti rispetto agli adolescenti del passato, ma, non appena vengono a contatto con aspetti di realtà che rientrano nell'ambito del "male" intrinseco all'esistenza (delusioni, frustrazioni, incidenti, lutti, ecc.), vanno letteralmente in frantumi.
Una controprova di questa interpretazione è legata a contesti sociali e culturali non occidentali nei quali, pur assolvendo i genitori il loro ruolo protettivo, le circostanze di vita sono caratterizzate dal fatto che i bambini non sono schermati dagli aspetti negativi dell'esistenza e dal male del mondo, che hanno sotto gli occhi e coi i quali convivono precocemente. E' un caso che queste situazioni producano complessivamente personalità più equilibrate, più solide, più capaci di affrontare la vita per quello che essa è?
La psicologizzazione dell'allevamento dei bambini non serve assolutamente a nulla se non aiuta i genitori a capire e ad accettare il fatto che, dei due obbiettivi evolutivi che essi devono perseguire, il primo, assolutamente necessario nei primi anni di vita, è funzionale a porre, in termini di sicurezza e di fiducia primaria, le premesse perchè il secondo possa essere raggiunto.
In ultima analisi, non è vero che fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo. Esso lo diventa nel momento in cui il genitore, sentendosi forse in colpa per aver messo il figlio in questo mondo, pretende di riparare violando le leggi proprie dello sviluppo evolutivo, che comportano l'acquisizione progressiva della consapevolezza inerente la condizione umana e lo stato di cose esistente nel mondo.
La psicologia che pretende di avere le chiavi per agevolare quel mestiere al fine di rendere i figli ottimisti e felici non fa altro che incrementare i livelli di mistificazione che già incombono su di esso.