1.
Una landa desolata, ove il vuoto, il non senso, l’aridità emozionale, l’incapacità di stabilire rapporti significativi con gli altri, l’indifferenza nei confronti della generazione dei padri, delle tradizioni da essi trasmesse e dell’ordinamento sociale, l’assenza di qualsivoglia progetto che vada al di là del vivere alla giornata, rimbombano drammaticamente, spingendo i soggetti ad adottare qualunque soluzione che allevi l’insostenibile angoscia di essere nessuno: questa è la condizione giovanile che Galimberti analizza nei suoi molteplici aspetti, adottando il punto di vista dell’osservatore partecipe che non rinuncia alla neutralità obbiettiva dello studioso, privilegia la comprensione dei fenomeni rispetto al giudicare, è immune da ogni intento consolatorio, e si astiene dal fornire ricette e soluzioni del male, senza rinunciare, peraltro, a delineare una prospettiva positiva.
Per l’ottica adottata, la profondità dell’analisi, il superamento dello psicologismo, l’orientamento dialettico che raccorda il particolare alla totalità, si tratta di un libro che si può tranquillamente ritenere eccezionale nel panorama della pubblicistica sul disagio giovanile.
Alcuni articoli pubblicati sul sito (Il buco nero nell’anima giovanile, Il bullismo e la frontiera della cultura) hanno messo a fuoco lo stesso problema. Sarebbe ridicolo, però, da parte mia, non riconoscere che il saggio di Galimberti è molto più articolato, profondo e incisivo: un piccolo ma denso capolavoro sotto il profilo psicosociologico.
Detto questo per onestà intellettuale, anticipo di non essere d’accordo con Galimberti su alcuni punti che ritengo particolarmente importanti. Mi soffermerò su di essi dopo un’analisi del saggio che prende in considerazione soprattutto la lunga introduzione e le proposte che l’autore avanza nei capitoli finali. Le analisi dei fenomeni comportamentali giovanili – dall’esibizionismo mediatico (cap. 5) alle generazioni nichiliste (cap. 9) -, che occupano il corpo centrale del saggio, si possono ritenere sintetiche ma perfette.
Il tema del libro, anticipato dal titolo, è l’effetto del nichilismo, vale a dire della “morte di Dio” e della perdita di prestigio dei valori tradizionali, sulla condizione giovanile, caratterizzata da un oscuro, pervasivo malessere:
“Un libro sui giovani: perché i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.
Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell'analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all'impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell'inarticolato all'altezza del quale c'è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d'animo senza tempo, governato da quell'ospite inquietante che Nietzsche chiama "nichilismo"…” (p. 12)
Il malessere giovanile è vissuto sul registro dell’esperienza soggettiva, quindi sul registro psicologico, ma esso ha una tale diffusione e riguarda, con analoghe modalità, un numero tale di soggetti da costringere a considerarlo un fenomeno storico-culturale collettivo piuttosto che una somma di singole esperienze:
“Se l'uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell'insensatezza che l'atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un'implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime…
Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della "ragione strumentale" che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell'orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l'aridità del sentimento.” (pp. 12-13)
L’ottundimento della capacità di riflessione e l’anestetizzazione emotiva sono, di fatto, gli indizi più rilevanti della cattura che il nichilismo, la cui genesi è remota, opera sulle coscienze giovanili:
“Il nichilismo è un'antica figura, perché intorno all'essere e al nulla si è aperto il grande scenario della filosofia che, a differenza della religione e della scienza, non si è assestata sul positivo atteso o realizzato, ma in quel frammezzo tra positivo e negativo, tra essere e nulla, in cui la decisione si fa più drammatica e più vertiginosa la scelta di campo. Una scelta, infatti, che non è tra questo o quell'ente, tra Dio o il mondo, ma tra il senso della totalità dell'essere e la sua implosione.
Da Gorgia - per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile" - a Heidegger - per il quale "che ne è dell'essere? Dell'essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse l'essenza del nichilismo finora rimasta nascosta?" -, per l'intero arco della storia della filosofia, l'ospite inquietante ha fatto sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa presenza è divenuta clima della terra, spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini nella loro storia hanno di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra. Ma perché proprio oggi? Perché, scrive Franco Volpi:
Oggi i riferimenti tradizionali - i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori - sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l'indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l'isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. Sotto la calotta d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o morale possibile.” (p. 17)
La “morte di Dio” ha dunque sprigionato le sue micidiali potenzialità di indurre smarrimento perché, ad essa, si è associata anche la crisi della razionalità scientifico-tecnica che avrebbe dovuto sopperirla. Figlia della scienza, la tecnica manipola l’uomo, lo rende un appendice degli strumenti, lo estranea a se stesso:
“La tecnica, infatti, è entrata in profondo conflitto con il primato che l'uomo aveva assegnato a se stesso nella storia dell'essere. E in verità, nell'assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che riducono lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non sia troppo antico per abitare l'età della tecnica che non noi, ma l'astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un'obbligazione più forte di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte.
In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario umanistico, e le domande di senso restano inevase non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra fra le sue competenze trovar risposte a simili domande.
La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l'età pre-tecnologica, e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.” (p. 20-21)
Che il “disincanto del mondo”, anticipato da Max Weber, fosse destinato a produrre una crisi culturale epocale, era, in una certa misura, scontato. La crisi che esso ha prodotto a livello giovanile, espressa da “sofferenze non hanno una vera e propria origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà” (p. 26), può essere ricondotta ad un unico fattore di ordine generale: una percezione “persecutoria” del futuro:
“In che cosa consiste questa crisi? In un cambiamento di segno del futuro: dal futuro-promessa al futuro-minaccia. E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente), quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora, come dice Heidegger, "il terribile è già accaduto", perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l'energia vitale implode.
[…] Tutto ciò è cominciato con la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche che ha segnato la fine dell'ottimismo teologico che visualizzava il passato come male, il presente come redenzione, il futuro come salvezza. La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi. La scienza, l'utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade colpa, redenzione, salvezza trovava la sua riformulazione in quell'omologa prospettiva dove il passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come salvezza.” (p. 26)
Purtroppo, la salvezza anticipata e promessa dall’Illuminismo, da tutti i movimenti di liberazione dell’uomo che ad esso si sono ispirati e, infine, dal consumismo è venuta meno, dando luogo ad un’affannosa ricerca del benessere hic et nunc, del carpe diem, che non appare capace di colmare il vuoto dell’esistenza::
“Oggi questa visione ottimistica è crollata. Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro dall'estrema positività della tradizione giudaico-cristiana all'estrema negatività di un tempo affidato a una casualità senza direzione e orientamento.
E questo perché, se è vero che la tecno-scienza progredisce nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano e che paurosamente ruotano intorno all'assenza di senso. Per dirla con Spinoza, viviamo in un'epoca dominata da quelle che il filosofo chiama le "passioni tristi", dove il riferimento non è al dolore o al pianto, ma all'impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l'Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà…
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell'assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. Ciò significa che nell'adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull'amore di sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). Senza questo passaggio, si corre il rischio di indurre gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un'educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che "ci si salva da soli", con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.” (p 27-28)
Al venire meno di una prospettiva futura o al suo impregnarsi di valenze “persecutorie”, le istituzioni pedagogiche (Famiglia e Scuola) reagiscono adottando pedissequamente l’ideologia secondo la quale solo l’istruzione permette di inserirsi nella società e di diventare produttori di un reddito individuale. Tale ideologia ha un effetto devastante, perché riduce la formazione della personalità sociale all’acquisizione di competenze tecniche:
“Alla base della demotivazione scolastica esiste quella tendenza all’oggettivazione che porta i medici a considerare i pazienti solo come organismi, che porta nel mondo del lavoro a considerare gli uomini in base al solo criterio dell'efficienza, risolvendo la loro identità nell'efficacia della loro prestazione, che porta i professori a giudicare i loro studenti in base al profitto, termine che il mondo della scuola ha mutuato dal mondo economico, risolvendo l'educazione in un puro fatto quantitativo dove a sommarsi sono nozioni e voti.
Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dalla scuola vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi: creatività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile e di cui la scuola non tiene il minimo conto. Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche. Libera da questi inconvenienti, la mente può disporsi più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione; più sono disanimate, meno coinvolgono l'anima, all'insegna di quel risparmio emotivo che rende l'incasellamento delle informazioni molto più agevole.
Espulsa dalla scuola l'educazione emotiva, l'emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non può esprimersi, e tentazioni d'abbandono in quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell’alcol e della droga sono solo esempi neppure troppo estremi.” (p. 35)
2.
Galimberti giunge così al cuore del problema, che, peraltro, denuncia da anni: il difetto di una programmazione educativa che, al di là dei livelli cognitivi, si faccia carico anche di quelli emozionali, decisivi per la maturazione della personalità:
“Se non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, l'incuria dell'emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi uno studente, andando a scuola, corre. E non è un rischio da poco perché, se è vero che la scuola è l'esperienza più alta in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte in quel nulla inquieto e depresso che neppure il baccano della musica giovanile riesce a mascherare.
Quando parlo di "cuore" parlo di ciò che nell'età evolutiva dischiude alla vita, con quella forza disordinata e propulsiva senza la quale difficilmente gli adolescenti troverebbero il coraggio di proseguire l'impresa. Il sapere trasmesso a scuola non deve comprimere questa forza, ma porsi al suo servizio per consentirle un'espressione più articolata in termini di scenari, progetti, investimenti, interessi. Infine resta la vita, e il sapere lo strumento per meglio esprimerla.
Laddove invece il sapere diventa lo scopo e il profitto il metro per misurarlo qualunque siano le condizioni d'esistenza in cui una vita è riuscita a esprimersi, la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca.
"Causa prima" di devianza, rispetto a tutte le "cause seconde" che la sociologia vede alla base del disagio giovanile, la scuola si offre con quel volto irresponsabile di chi si tiene fuori dai problemi connessi ai processi di crescita e, limitando consapevolmente il suo spazio operativo, manifesta quella falsa innocenza che l'oggettività del trattamento (profitto-giudizio) è sempre disposta a concedere a chi non si prende cura della soggettività dei giovani, perché mettervi le mani non garantisce di poterle tirar fuori davvero pulite e disinfettate.” (p. 38)
In difetto di un’educazione emozionale, il mondo delle emozioni va per conto suo. Si appiattisce per un verso e tende all’eccesso per un altro:
“Questi figli si trovano ad avere un’emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l'emozione e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo.
L'eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo portano sostanzialmente a quattro possibili esiti: 1) lo stordimento dell'apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell'ignavia e della non partecipazione che portano all'atteggiamento opaco dell'indifferenza; 3) il gesto violento, quando non omicida, per scaricare le emozioni e per ottenere un'overdose che superi il livello di assuefazione come nella droga; 4) la genialità creativa, se il carico emotivo è corredato da buone autodiscipline.” (p. 41-42)
“Manca un'educazione emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la televisione come baby-sitter, e poi a scuola quando, sotto gli occhi molto spesso appannati dei loro professori, ascoltano parole inincidenti, che fanno riferimento a una cultura troppo lontana da ciò che la televisione ha loro offerto come base di reazione emozionale. E così la loro sensibilità fragile, introversa e indolente, che la scuola si guarda bene di educare, tracolla in quell'inerzia a cui li aveva allenati l'apprendimento passivo davanti al video e oggi davanti a internet, con frequenti fughe nel sogno o nel mito, nella ricerca neppure troppo spasmodica di un'identità, di cui troppo presto si dubita di poter reperire la fisionomia, per incapacità di rintracciare radici emotive proprie.” (p. 46)
“Oggi l'educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell'attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emotivi rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo, l'empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare...
Se la scuola non è sempre all'altezza dell'educazione psicologica, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione emotiva, l'ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il nucleo familiare.” (p 48)
“E’ stato loro insegnato tutto, ma non come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore.
Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo perché il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il comportamento, perché è fallita la comunicazione emotiva, e quindi la formazione del cuore come organo che, prima di ragionare, ci fa sentire che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo.” (p. 53)
Tutte le fenomenologie comportamentali giovanili che Galimberti analizza nella parte centrale del saggio (la pubblicizzazione dell’intimità, la seduzione della droga, il gesto estremo omicida o suicida, i comportamenti antisociali dei ragazzi del cavalcavia, l’adesione al terrorismo, il narcisismo radicale, il rifiuto degli squatter, la violenza negli stadi, il teppismo, ecc.) sembrano riconducibili a spinte motivazionali che non sono filtrate dalla riflessione e non sono ancorate ad un’emozionalità minimamente attiva.
3.
L’ultima parte del saggio è dedicata al che fare. Coerente con le premesse esplicitate nelle prime pagine, Galimberti si astiene a fornire ricette risolutive per il debordante e devastante malessere giovanile. Egli, però, non rinuncia a delineare alcuni principi che potrebbero favorire la fuoriuscita dal tunnel del nichilismo negativo.
Il primo principio è il richiamo al coraggio di esistere, alla necessità di prendere virilmente sulle proprie spalle la responsabilità dell’esistenza:
“Bisogna educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi. Questa è la forza d'animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Che è ciò che rifiutiamo di noi. Quella parte oscura che, quando qualcuno la sfiora, ci fa sentire "punti nel vivo". Perché l'ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombre non ci concede le sue figure. Accolta, l'ombra cede la sua forza. Cessa la guerra tra noi e noi stessi e perciò siamo in grado di dire: "Ebbene sì, sono anche questo". Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d'animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.
Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte," scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore. Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d'uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l'unico colore del cielo.
Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta s'è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei loro padri, e la parola che i padri rivolgono ai figli è insicura e incerta. I loro sguardi si incontrano, ma spesso solo per evitarsi.
Eppure i giovani, anche se mai lo confesseranno, attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare che attraversano è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato. Il rischio che corrono, quando evitano le soluzioni estreme, è quello di passare il tempo della loro vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche, "una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute". E così perdono il contatto con se stessi nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le loro anime assopite, ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell'ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, conformismo, dimenticanza di sé.” (p. 54-55)
L’assunzione di una responsabilità personale sull’esistenza è la premessa indispensabile perché i giovani, aiutati o no dagli adulti, scoprano di nuovo il senso simbolico della loro esperienza, che non può prescindere dalla messa in gioco dell’esistente in nome dell’innovazione, vale a dire della scoperta e della pratica di mondi e di modi di essere possibili, che Galimberti definisce Etica del Viandante:
“Cancellata ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, i giovani non stanno al gioco delle stabilità o delle definitività, e perciò liberano il mondo come assoluta e continua novità, perché non c'è evento già inscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l'immotivato accadere.
L'andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugura infatti una visione del mondo radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella l'andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a un'offerta di accadimenti, dove si può prendere provvisoria dimora finché l'accadimento lo concede; nel secondo caso si aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli accadimenti i quali, non percepiti, passano accanto agli uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza del mondo.
Non attraversate dall'evento nel suo accadere immotivato, le generazioni che hanno preceduto la gioventù di oggi hanno riprodotto il modello dell'uomo della stabilità, difeso e chiuso nelle spesse mura della Società della torre di cui parla Goethe, mentre i giovani d'oggi, al pari del viandante che accade insieme all'evento, recalcitrano a ogni schema di progressione e significazione, per dire sì al mondo, e non a una rappresentazione tranquillizzante del mondo. Impossibilitati a dominare il tempo inscrivendolo in una rappresentazione di senso, i giovani d'oggi, dopo aver rinunciato alla meta, sanno guardare in faccia l'indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami irradiati da un destino risolto in benevola provvidenza.
Non si legga quindi l'etica del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l'accadimento stesso, l'accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro.
Se noi adulti siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora l'etica del viandante può offrire ai giovani un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le loro costruzioni, perché l'apertura che chiede sfiora l'abisso, dove non c'è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione che i giovani aborrono, che è poi quell'andare e riandare sulla stessa strada, senza che una meta si profili davvero all'orizzonte.” (p. 143 - 144)
L’Etica del Viandante, ovviamente, non basta. Occorre riaprire l’orizzonte della speranza, vale a dire l’apertura al possibile che porta con sé tutta una serie di valori antropologici fondamentali:
“Il nichilismo e l'ipotesi del suo oltrepassamento avviano a questi pensieri sostenuti dall'attesa e dalla speranza, che sono figure che hanno a che fare con il futuro, quindi con la vita che ha da venire. Inattesa con l'avvenire immediato solitamente legato a un evento, la speranza con un futuro lontano pieno di promesse, senza le tracce dell'ansia, dell'inquietudine, della perplessità, dell'insicurezza che caratterizzano l'attesa...
Nell'attesa non c'è durata, non c'è organizzazione del tempo, perché il tempo è divorato dal futuro che risucchia il presente a cui toglie ogni significato, perché tutto ciò che succede è attraversato dal timore e dall'angoscia di mancare l'evento. La speranza, invece, guardando più lontano e ampliando lo spazio del futuro, distoglie l'attesa dalla concentrazione sull'immediato e dilata l'orizzonte.
La speranza, infatti, è l'apertura del possibile. Essa fa riferimento a quei "nuovi cieli" e a quelle "nuove terre" che sono promessi dalla religione, dall'utopia, dalla rivoluzione, dalla trasformazione personale che siamo soliti temere, perché arroccati alla nostra identità assunta come un fatto e non come un'interminabile e mai conclusa costruzione.” (p 146)
“È come se lo sguardo senile della cultura occidentale non avesse più occhi per la condizione giovanile che potrebbe portare un rinnovamento, e perciò la lascia ai margini del proprio incedere, parcheggiata in spazi vuoti e privi di prospettive, senza farsi sfiorare dal dubbio che forse il sintomo della fine di una civiltà non è da addebitare tanto all'inarrestabilità dei processi migratori o ai gesti disperati dei terroristi, quanto piuttosto al non aver dato senso e identità e quindi aver sprecato le proprie giovani generazioni, la massima forza biologica e ideativa di cui una società dispone.
Il segreto della giovinezza, forse più noto ai ricercatori di mercato che ai sociologi, agli psicologi, agli educatori e agli stessi genitori, deve essere riconosciuto e riconsegnato ai giovani, che lo vivono comunque, ma un po' alla cieca, perché è stata loro sottratta la mappa, che occorre rintracciare, ricomponendo i pezzi spesso incodificabili dei comportamenti giovanili.
Nel segreto della giovinezza, la prima figura che rintracciamo è l'espansività. Già gli antichi Greci avvertivano che la vita non è eterna, ma breve, e, proprio perché breve, va vissuta in tutta la sua espansività. Espansività vuol dire pienezza, quella pienezza cantata da Africa Unite: "Ci sono notti che le labbra bruciano nel sale, quelle notti da farci l'amore fin quando fa male".
Espansività vuol dire potenza che si esprime nello spirito animale del giovane che sfida romanticamente gli elementi, puro tuffo nella vita che osa la temerarietà. Espansività vuol dire accelerazione della vita che detesta la ripetizione e giunge a stressare l'esperienza, fino al "dis-astro" che, come ci ricorda Steiner, "è una pioggia di stelle sull'umanità".
E poi coralità giovanile ben espressa da quella canzone dei Beatles: "Io sono lui, come tu sei lui, come tu sei me e noi siamo tutti assieme". Sensazione di appartenere a una comunità nascente, sentimento di nascere insieme al mondo, di essere tra giovani prima ancora che nel mondo. Stupore incantato del riconoscimento, da cui nasce la propria identità, non attraverso un processo di interiorizzazione, ma come dice il poeta spagnolo Aleixandre, "attraverso quel palpito che muove migliaia di cuori che fanno un unico cuore", per intonare, direbbe Apollinare, "il canto di tutto l'amore del mondo".
All'area mitica della giovinezza, oltre all'espansione per cui Nietzsche scrive: "Il giovane viene spinto selvaggiamente nell'esistenza", in quella bella continuità di speranze che, al dire di Conrad: "non conosce pause né introspezioni",10 appartiene anche la figura dell'assenza che non è mancanza, ma tensione esplorativa, dinamica, immaginativa, fantastica. Se l'espansività è l'adesione incondizionata alla pienezza della vita, la sensazione che il reale, come dice Musil, "non esaurisce tutto il possibile", spinge i giovani verso quegli universi alternativi alla realtà, perché, prima di essere reale, la vita deve essere fantasticata.
È la forma della passione che, diceva Stendhal, "non è cieca, ma visionaria" e perciò "prende il vento dell'eventuale" (Breton), "come il mare che è sempre qualcosa che ricomincia" (Sartre), perché ogni giovane, come il Tonio Kroger di Thomas Mann, "è portato per mille modi d'esistenza".
La passione per l'assenza inventa il gioco, come quel muoversi di qua e di là per non farsi risucchiare dalla monotona ripetizione del reale, inventa l'utopia per creare spazio a un'idea e, con la luce dell'ideale, illuminare lo spessore opaco del reale. L'utopia giovanile non è necessariamente una fuga nel sogno e neppure, all'altro estremo, una densa consistenza ideologica, ma un pensare con il cuore che immette nel pensiero una corrente di calore, perché, ce lo ricorda Dostoevskij, nel giovane "la logica è sempre fusa a un violento sentimento che si impadronisce di tutto l'essere" e porta a "scardinare la mediocrità della vita di tutti i giorni e andare a far volare l'aquilone nel prato" (Brizzi), perché l'utopia, come scrive Beck, "invoca l'immaginazione come soluzione".
E poi il viaggio che per Elias Canetti è la metafora del "desiderio giovanile di varcare ogni confine". "Dove andiamo," si legge in Kerouac, "non lo so, ma dobbiamo andare." "Anche dall'altra parte della vita," scrive Celine, come i bambini che, per scoprire, guardano gli oggetti che ricevono in regalo anche da dietro, anche dall'altra parte. Viaggiare, magari o soprattutto senza una meta, per il giovane vuol dire assorbire visi, parole, moltitudini, inghiottire l'universo per non morire di noia.
E poi, a fianco dell'utopia, la sfida per mettersi alla prova, per far nuovi tentativi, per commentare, lanciando una sfida, il mondo che stanno ereditando, prima che siano date le consegne. In ogni sfida giovanile c'è sempre un gesto ulteriore, una sorta di escursionismo simbolico, in cui traluce il desiderio di annaspare per qualcosa di diverso, qualcosa di meglio rispetto a quello che si è in procinto di ricevere. "Un abisso a mia disposizione? Grazie per l'occasione," scrive Paul Claudel.
E oltre la pienezza espansiva e l'assenza che promuove la ricerca, al segreto della giovinezza appartiene la trasformazione, la missione creativa del cambiamento che Paul Valéry descrive come un "andare senza dèi verso la divinità". È nella trasformazione, infatti, che il giovane valorizza i suoi maestri, semmai ne ha avuti, perché il passato è l'abbrivio del futuro.
In mezzo c'è la figura della riappropriazione di quanto, nello slancio della vita, si è depositato nel sottosuolo dell'anima, ma non si è estinto. La riappropriazione giovanile non è senza ribaltamento. "Mi avete fregato di nuovo," si legge nella Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. "Ma io sarò maestro e farò scuola meglio di voi."
Il ribaltamento non è dissoluzione pantoclastica, non è azzeramento, ma, come dice il giovane protagonista di Padri e figli, è "sgombrare lo spazio",25 rifiutare "i sorrisi col cuore piegato" (G. Corso), ribellarsi alla morale quietista che "insegna alla gente ad accettare le calamità della vita" come si dice nel film Mosquito Coast.
Il ribaltamento allude alla ricostruzione, che non consiste nel far vincere il contrario di ciò che è stato, perché, come ci ricorda Breton, "attaccare la morale è un altro modo di renderle omaggio", ma consiste nel prendere consapevolezza che, come scrive Benjamin, "ogni giorno noi usiamo forze immense, come i dormienti. Ciò che noi facciamo e pensiamo è colmo dell'essere dei padri e degli avi".
Dopo l'irruenza espansiva, dopo il vagabondare nell'assenza, dopo la passione che trasforma, i giovani prendono a scrutare nel proprio cuore e si svelano a se stessi. La rivelazione di sé a sé, che accompagna l'individuazione, è l'ultima costellazione del mito della giovinezza quando, come scrive Yeats, "si scruta dentro il cuore, perché è lì che sta crescendo l'albero sacro".
È allora che comincia a declinarsi il "pronome riflessivo" (Kierkegaard) con la voglia di andare oltre la soglia, fino al proprio centro. L'io cerca casa, ma la trova all'aperto, perché l'io non è una costruzione, ma una scoperta resa possibile da una danza che "danza verso la propria definizione" (Rukeyser), che è poi quella che Hòlderlin chiama "la grande ora".
Proprio perché si è "infranta la propria fatalità" (Artaud) si può far prova della propria vita. Non nel senso, come si è soliti dire, che i giovani rappresentano il futuro perché un giorno diventeranno adulti. Niente di più falso. La loro età non è un transito. Il futuro è già ben descritto nel presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto "sano realismo", abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere” (p. 164 - 169)
4.
Il fuoco di artificio di citazioni colte con cui si chiude il saggio è esemplare del valore e dei limiti dell’opera. Riguardo al valore, non si sottolineerà mai abbastanza l’ampiezza e la profondità fenomenologica e psicosociologica dell’analisi della condizione giovanile contemporanea. Per quanto riguarda i limiti, il discorso è complesso poiché fa capo a vari nodi teorici che non è semplice argomentare.
Un primo nodo è da ricondurre ad un’osservazione giusta, che inaugura il saggio, ma i cui presupposti sono discutibili. Galimberti afferma che il malessere giovanile contemporaneo, in virtù della sua diffusione epidemica, non può essere ricondotto alla somma di singole esperienze disagiate, e, come fenomeno epocale, ha una matrice culturale più che psicologica. L’affermazione è inconfutabile, ma essa implica che si diano disagi psichici che sono meramente soggettivi. Ritengo che questo non sia vero. Almeno nell’ottica struttural-dialettica, tutte le esperienze di disagio psicologico hanno, al di là delle vicissitudini soggettive, una matrice culturale o implicano comunque valori culturali.
Questo primo nodo non è solo una questione di principio. Se si parte, infatti, dal presupposto che il nesso tra storia sociale ed esperienza soggettiva individuale è costitutivo di ogni esperienza umana, ciò significa che esso è di ordine interattivo e dinamico. Ora, l’aspetto dinamico è quello che caratteristicamente rimane al di fuori di un approccio fenomenologico alla soggettività.
L’importanza di questo nodo si capisce facilmente se si fa riferimento alla tesi fondamentale del libro: quella secondo la quale la “morte di Dio” e il venir meno delle certezze tradizionali è la causa primaria del nichilismo passivo che affligge oggi i giovani. Assumendo un punto di vista fenomenologico e culturale, questa verità sembra ovvia. Assumendo, viceversa, un’ottica psicodinamica, essa sembra molto precaria. Se è vero, infatti, che la “morte di Dio”, vale a dire il repentino abbandono di una credenza che viene ancora oggi inculcata a tutti i bambini determina negli adolescenti una situazione di smarrimento e di angoscia, non è meno vero che le difese che vengono messe in atto (dal narcisismo onnipotente alle droghe) significano, piuttosto, con il loro evidente intento di colmare lo iato tra finito e infinito, che Dio non è affatto morto e che la “forma” religiosa, la quale implica un Assoluto che azzera quello scarto, non si è affatto inattivata a livello inconscio.
Non è per caso che gran parte delle organizzazioni di volontariato che si dedicano al recupero di tossicodipendenti hanno una matrice cattolica e che la riabilitazione, in un numero non insignificante di soggetti, coincide con il ritorno alla fede, vale a dire con l’affiorare di un bisogno di certezze assolute che l’uso della droga tentava di vicariare.
Se questo è vero, ricondurre il nichilismo giovanile al senso di vuoto e di insignificanza dell’esistenza prodotte dal venir meno delle certezze tradizionali, coglie la superficie fenomenologica del fenomeno, non la sua essenza. Dal punto di vista psicodinamico, tali vissuti sono sicuramente riconducibili ad un processo di anestetizzazione emotiva, ma tale processo non è la conseguenza di un difetto di educazione dell’emozionalità (che in un certo qual senso c’è sempre stato), bensì dell’impossibilità di confrontarsi con i nuclei dell’ansia esistenziale (vulnerabilità, precarietà, finitezza, ecc.) dovuta all’essere essi assunti come espressione di una radicale debolezza fobicamente vissuta.
E’ la fobia della debolezza, riferita all’umana debolezza, vale a dire alla mancanza ad essere su cui si è fondato storicamente il potere della religione, il fattore dinamico che sottende il malessere giovanile contemporaneo. La conseguenza di tale fobia è di alimentare una tendenza complementare all’onnipotenza e al culto delle emozioni forti (dallo “sballo” alla violenza).
Se Dio non è morto che in apparenza, nella forma dell’abbandono della credenza e della pratica religiosa, il fallimento della Ragione e della Scienza, che ne è l’espressione più viva, e sul quale i filosofi insistono come se la loro opposizione all’avvento della Scienza, trovasse finalmente un riscatto, è un equivoco. Se è vero, infatti, che le promesse della Tecnica di portare l’uomo alla felicità, affrancandolo dai bisogni materiali, si possono ritenere fallite al punto che lo sviluppo del benessere materiale coincide ovunque con un decadimento della qualità della vita, la Scienza in sé e per sé non ha mai operato promesse del genere. Essa, piuttosto, ha posto le basi di una nuova cultura affrancata dai dogmatismi e aperta alla ricerca incessante e umile di una verità che nessuno scienziato ha mai pensato di poter catturare nella sua interezza.
La Scienza è una sorta di disciplina che, nel momento in cui non pone alcun limite alla ricerca, riconduce l’uomo alla consapevolezza dei suoi limiti e dell’immane scarto che si dà tra il suo apparato cognitivo e la complessità dell’Universo.
Se la Scienza è, dunque, fallita finora nel portare l’umanità sulla via della critica ad ogni dogmatismo, a partire naturalmente da quello religioso, ciò non è dovuto alle promesse che ha fatto, ma nel non essere mai riuscita a diventare collettivamente habitus mentale e senso comune.
L’ultimo nodo che vorrei sottolineare è che ribadire senza prove il fallimento della Scienza per riabilitare il potere culturale e “salvifico” delle discipline umanistiche, in primis la filosofia, significa alimentare un conflitto che non ha ormai significato.
Faccio un esempio di grande spessore. Parlare del valore fondamentale dell’emozionalità nell’esperienza umana e dunque della necessità di un’educazione emozionale, ritenendo che questa potrebbe essere la soluzione del problema del nichilismo, è, ormai, alla luce della psicoanalisi, quasi un turismo. Il problema è che, dopo oltre due millenni di riflessione filosofica e un secolo e mezzo dalla nascita delle discipline psicologiche, non si dispone ancora oggi di una teoria delle emozioni che si possa ritenere nel complesso credibile e convalidabile scientificamente. Se c’è una possibilità che tale lacuna venga oggi colmata la speranza risposa sul connubio che si va delineando tra neurobiologia e psicoanalisi.
Se si ritiene che il patrimonio umanistico e quello scientifico abbiano, nel loro complesso, potenzialità il cui uso a livello di formazione dei giovani, potrebbe dissolvere il nichilismo, i veri problemi come giungere veramente alla “morte di Dio”, impedendo che tutti i bambini vengano precocemente investiti di simboli e miti religiosi, e, cosa ancora più importante, come criticare e demolire l’uso improprio che il sistema capitalistico fa della Scienza sotto forma di Tecnica.
L’Umanesimo Scientifico rappresenta, a mio avviso, il possibile futuro dell’umanità al di là delle secche del nichilismo. Nella cornice di un’umanità affrancata definitivamente dai dogmi e dalle superstizioni, che si fa carico del suo esserci sulla base della passione della conoscenza e della coltivazione delle emozioni, le suggestioni filosofiche di Galimberti possono raggiungere il loro pieno valore.