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1.
Pochi genitori sanno che cos'è la neotenia. Il termine, un po' astruso, fa riferimento ad un dato di realtà che ha una notevole incidenza nell'allevamento. Rispetto ai piccoli di tutte le altre specie di mammiferi, l'infante umano è sostanzialmente immaturo e tale rimane per un lungo periodo di tempo. In pratica egli viene al mondo in una condizione ancora fetale che persiste per tutto il primo anno di vita.
Il significato biologico ed evoluzionistico della neotenia è abbastanza chiaro. Nella scala degli animali, la maturazione, che coincide con la capacità del singolo individuo di adattarsi all'ambiente, è tanto più precoce quanto più è ricco il corredo istintuale. Gli istinti infatti rappresentano moduli di comportamento quasi automatici, acquisiti nel corso dell'evoluzione della specie, che richiedono un minimo di apprendimento per funzionare adattivamente. Via via che gli istinti si allentano la necessità dell'apprendimento cresce proporzionalmente. A differenza degli istinti, la definizione di moduli adattivi appresi richiede una grande plasticità cerebrale. La neotenia attesta che la specie umana nasce in virtù di un critico allentamento della dotazione istintuale che coincide con una straordinaria plasticità cerebrale.
La conseguenza della neotenia sullo sviluppo della personalità umana è di grande portata a livello pedagogico. Essa infatti permette di spiegare un aspetto dell'evoluzione che mette a dura prova coloro che si fanno carico del bambino, soprattutto le madri. La plasticità cerebrale postula che quasi tutti i moduli di comportamento adattivi, eccezion fatta per la suzione, debbano essere appresi. Ciò riguarda anche i sensi e l'attività motoria, che sono intimamente connessi tra di loro sotto il profilo funzionale. In pratica, il neonato è un essere quasi cieco che si muove senza nessuna coordinazione: oggettivamente è un handicappato, che acquisisce un minimo di autonomia in un tempo sterminatamente lungo rispetto a tutte le altre specie.
Quanto questo aspetto abbia inciso sull'evoluzione della specie umana è difficile da apprezzare. Gli uomini primitivi erano già di per sè degli esseri inermi rispetto ai predatori, sprovvisti di strumenti difensivi (zanne, artigli) e rallentati nella fuga dall'essere bipedi. Essi vivevano in gruppi di trenta o quaranta membri al massimo, quattro o cinque dei quali erano neonati o infanti, Gli spostamenti e le fughe dai pericoli dovevano fare i conti con questo carico che richiedeva di essere portato in braccio. In pratica i neonati e i bambini immobilizzavano quasi il gruppo, esasperando l'inermità degli esseri umani. Date queste condizioni, nessun osservatore che avesse assistito alla nascita della specie umana, avrebbe potuto prevedere la sua lunga sopravvivenza. Se questa si è realizzata, ciò è avvenuto proprio sulla base della plasticità cerebrale che ha consentito all'uomo di aguzzare l'ingegno. Uno degli stimoli più potenti a tal fine è stata la condizione prematura dell'infante.
Oggi quest'aspetto incide diversamente. La condizione "handicappata" del neonato grava sotto forma di limitazione netta della libertà di chi si dedica a lui. Gli sviluppi della civiltà hanno per molti aspetti estinto tutta una serie di pericoli che, all'inizio dell'evoluzione della specie umana, erano elevati, ma ne ha prodotti altri. La vita di gruppo subordinava l'autonomia del gruppo stesso alla necessità di tutelare gli infanti, ma essa rendeva di sicuro più facile l'allevamento che poteva avvalersi del contributo di tutti i membri della comunità. Se non si fosse data una vita comunitaria, una singola coppia con un figlio o più figli non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere dovendosi procurare i mezzi di sussistenza, difendersi dai pericoli e farsi carico della prole. Certo, le condizioni di vita oggettive oggi sono profondamente cambiate. Il neonato però continua a nascere immaturo, e i suoi tempi di evoluzione sono straordinariamente lunghi. Immobilizzata in casa, se non dispone dell'aiuto di membri della comunità (familiare o sociale), una madre rischia di sperimentare una condizione invivibile.
2.
A questo occorre aggiungere un altro dato. L'immaturità dell'infante implica che l'evoluzione della personalità non richiede solo tempi lunghi; essa procede anche attraverso fasi ricorrenti di squilibrio e sulla base di tentativi ed errori. Il primo aspetto, per essere compreso, richiede un discorso complesso che tenterò di semplificare al massimo.
Ho fatto cenno alla plasticità cerebrale. Si tratta di capire meglio cosa essa significhi. Come noto, il numero dei neuroni di ogni cervello umano, che è di circa cento miliardi, raggiunge il massimo intorno al quarto mese di vita fetale. Da allora in poi, alcuni neuroni muoiono ogni giorno, vita natural durante, e non possono essere sostituiti perchè i neuroni (a differenza per esempio delle cellule epidermiche non si riproducono). La morte dei neuroni dovrebbe diminuire progressivamente la plasticità cerebrale, ma non è così. I circuiti neuronali, che si definiscono su base genetica, secondo una programmazione in qualche misura costante, si stabilizzano anche in conseguenza dell'apprendimento. La plasticità cerebrale però non si fonda sulla ristrutturazione dei circuiti neuronali ma sulla base dello stabilirsi di nuove connessioni sinaptiche tra i corpi cellulari.
Le sinapsi sono efflorescenze neuronali che si intrecciano tra di loro in una rete estremamente ricca. Questa rete è estremamente plastica, nel senso che essa può ristrutturarsi di continuo in rapporto all'esperienza. Ma questo non basta a capire le ricorrenti fasi di squilibrio che intervengono nel corso dell'evoluzione della personalità. La neurobiologia ha infatti stabilito che, periodicamente, si realizzano nel cervello delle vere e proprie esplosioni di nuove sinapsi. A che servono queste esplosioni? A fornire al cervello un insieme praticamente indefinito di possibili connessioni. L'apprendimento seleziona questo insieme, nel senso che alcune connessioni vengono utilizzate per acquisire informazioni, per memorizzarle o per promuovere nuovi moduli comportamentali, mentre altre vengono potate in quanto non utilizzate. Nelle fasi di esplosioni sinaptiche ciò che accade è che il cervello viene investito da informazioni che, prima di selezionare le sinapsi, possono circolare in tutta la rete disordinatamente. Questo coincide per l'appunto con le fasi di squilibrio nel corso delle quali il bambino è irrequieto, irritabile, scoordinato, animato da uno strano malessere. In effetti, egli non sa quello che vuole perchè le informazioni circolano liberamente nella sua testa senza trovare ancora dei canali neuronali stabili.Questo significa che la crescita del bambino, particolarmente nei primi anni, è contrassegnata periodicamente da un malessere che si può ritenere fisiologico, e che ciò nonostante basta ad inquietare i genitori.
Questa considerazione porta ad un nodo problematico di grande rilievo nella pedagogia contemporanea. Sulla scorta degli psicologi, che scrivono libri, articoli, rilasciano interviste senza sapere di cosa parlano, e si danno l'aria di esperti della crescita (omettendo il particolare statisticamente significativo per cui i loro figli in media hanno più problemi di quelli dei non addetti ai lavori), i genitori di oggi sono convinti che se il bambino è amato, curato, protetto, stimolato, ecc., egli non deve manifestare alcun problema. In pratica, come ho detto più volte, essi pensano che una crescita sana debba avvenire secondo un modello lineare che comporta un'evoluzione progressiva nell'acquisizione di competenze associata ad un più o meno elevato benessere. Questo presupposto è del tutto sbagliato, poichè ha poco a che vedere con la programmazione che sottende lo sviluppo del cervello e della personalità. Certo, un bambino amato, curato, protetto per molti aspetti manifesta benessere, sicurezza, ecc. Cionondimeno, egli non può scampare alla repentina irruzione di fasi di squilibrio funzionale, che, tra l'altro, prima ancora che il cervello riesca a stabilizzare le nuove connessioni sinaptiche e ad eliminare quelle ridondanti, determinano una qualche regressione comportamentale. Il modello della crescita lineare, per cui la maturazione dovrebbe realizzarsi senza squilibrio alcuno, non è solo sbagliato, ma anche pericoloso.
3.
Attenendosi ai consigli degli psicologi, infatti, i genitori pensano che il benessere del figlio sia totalmente dipendente dalle cure che essi erogano. Sulla base di questo principio, giungono a ritenere che solo cure massimali possano assicurarlo Come ogni altro bisogno, fisico o psichico, il bisogno di cure del bambino riconosce un range che ha due soglie: una minimale, al di sotto della quale si realizzano carenze, e una massimale, al di sopra della quale si realizzano eccessi. I genitori di oggi sono estremamente sensibili, in media, alla soglia carenziale, mentre sono del tutto ignari dell'esistenza di quella massimale, al punto che sempre più spesso la superano.
Il superamento della soglia massimale coincide con quella che gli analisti definiscono iperprotezione. In pratica, accentuando drammaticamente la dipendenza e la vulnerabilità infantile, i genitori - soprattutto le madri - stanno letteralmente addosso al bambino: lo curano, lo coccolano, lo vigilano, sono pronte ad intervenire a qualunque segnale di malessere. Esse sono spinte a pensare che se il bambino, in un qualunque momento del giorno o della notte, si sente abbandonato a se stesso, possa soffrire come un cane e rimanere traumatizzato. In conseguenza di questo, finiscono con il realizzare un legame fusionale o simbiotico con il figlio. A riguardo, e per evitare equivoci, occorre essere chiari.
La dipendenza radicale dell'infante dalle cure adulte è un dato di fatto innegabile, drammatizzato dalla neotenia. Tale dipendenza però non comporta la possibilità che le cure erogate possano scongiurare tutti i malesseri che derivano da un'esperienza mentale dell'infante che è impenetrabile e riconosce di sicuro una quota di squilibri irrimediabili, il cui significato è da ricondurre al fatto che il cervello cresce e le informazioni da cui è pervaso, che provengono dall'interno e dall'esterno, circolano in esso liberamente animando emozioni e sensazioni di ogni genere. Se una madre parte dal presupposto di avere la capacità di assicurare, con le sue cure, un benessere ottimale al bambino, essa finisce inesorabilmente per drammatizzare messaggi infantili che denotano solo uno stato di malessere fisiologico e per sentirsi in colpa se non riesce a rispondere adeguatamente a tali messaggi. In conseguenza di questo, s'instaura un circolo vizioso in conseguenza del quale è l'ansia stessa della madre a diventare la fonte del malessere del figlio.
Un'osservazione importante da fare a questo punto concerne la modalità con cui un bambino piccolo registra ciò che avviene nell'ambiente. Ho già accennato al fatto che tale modalità, sia sul piano delle percezioni che delle emozioni, è ed è destinata a rimanere misteriosa. Un solo punto è chiaro. I bambini, al pari degli animali, hanno una straordinaria capacità di registrare le emozioni delle persone con cui interagiscono. La loro vulnerabilità emozionale fa se che se registrano emozioni negative (ansia, insofferenza, rabbia) interagiscono drammaticamente. Il ricondursi da parte dei genitori al principio delle cure massimali determina quasi costantemente uno stato d'animo che definisce un campo nella quale il bambino avverte originariamente l'ansia, che per lui è una tempesta emozionale. Dopo alcuni mesi, le cose si complicano.
La tensione infatti cui si sottopone il genitore che si fa carico completamente dei bisogni del figlio dà luogo, inesorabilmente, all'insorgere periodico di scatti di insofferenza e di rabbia che, incorrendo in un processo di colpevolizzazione, determinano a loro volta un incremento della protezione e delle cure che giungono ad avere un significato riparativo. Se non sopravviene una presa di coscienza genitoriale riguardo al fatto di dovere ristrutturare il rapporto con il figlio sulla base del criterio di cure minimali, l'interazione amplifica costantemente l'ambivalenza. Il bambino si ritrova così a vivere in un campo nel quale registra momenti di attaccamento e di amore (eccessivo) del genitore e momenti di violento distacco, insofferenza e rabbia. Questa, in assoluto, si può ritenere la circostanza più nociva per lo sviluppo infantile.
Per tutta una serie di ragioni, legate ai cambiamenti della struttura familiare e ad un processo di assurda responsabilizzazione delle madri promosso dagli psicologi e alimentato dal loro stesso narcisismo, questa è anche la circostanza più ricorrente nella nostra società, soprattutto nei contesti urbani. I suoi sviluppi saranno esaminati successivamente. Qui basta dire che il paradosso per cui i bambini oggi sono investiti da attenzioni maggiori rispetto al passato ma non sono affatto più sereni ed equilibrati di quelli di un tempo trova una spiegazione logica. In quanto emotivamente recettivi, essi hanno bisogno di un campo relazionale all'interno del quale sperimentino il livello più basso possibile di tensioni. Hanno sicuramente bisogno di un riferimento adulto costante, ma che non sia ossessivamente orientato a rispondere a tutte le loro esigenze. Tra queste, alcune non possono semplicemente essere soddisfatte. La neotenia, che è assolutamente evidente nel corso del primo anno, è una condizione drammatica di invalidità totale. Drammatica per il bambino che la sperimenta. L'adulto dovrebbe sdrammatizzarla, fare quello che è giusto e possibile fare, prendere tempo. Non è vero che la felicità o l'infelicità dei bambini dipende dalle fasi primarie dello sviluppo. Esso dipende dall'intero arco della fase evolutiva. Qualunque genitore dovrebbe tenere conto che il rapporto con il figlio si svolge su tempi lunghi. Strafare nei primi mesi, per amore, narcisismo o per timore di essere inadeguati al nuovo ruolo, significa avviare l'esperienza col piede sbagliato.
Settembre 2005