1.
Come tutti coloro che hanno frequentato il liceo classico, la mia preparazione scientifica è stata molto carente finché, avendo deciso a 17 anni di fare medicina con l’intento di diventare psichiatra, avvertii l’esigenza di recuperare il terreno perduto per colpa di programmi ridicoli e di insegnanti impreparati.
Cominciai a studiare da solo matematica, fisica, chimica e biologia, e sviluppai nei confronti di queste discipline una passione di segno diverso ma non minore rispetto a quella che nutrivo per la letteratura, la filosofia, la storia, ecc.
Da autodidatta non sono mai riuscito ad inoltrarmi sul terreno della matematica superiore. Acquisii però gli strumenti essenziali per approfondire la fisica, la chimica, la biologia evoluzionistica e la genetica.
Al primo anno di Università, grazie ad un testo straordinario di fisica di Mario Ageno, scritto per studenti di medicina, mi appassionai alla materia. All’epoca - 1962 - Ageno, nonostante la battura di arresto della Seconda guerra mondiale, era già un maestro: laureatosi a soli 21 anni, aveva fatto il suo corso di apprendistato nella scuola di Fermi, e si stava orientando verso la biofisica. Aveva di fatto già tradotto, nel 1946, "What is Life?" (Cos'è la vita?) di Erwin Schrödinger: un libro di inquietante complessità, che già conteneva in nuce le premesse degli sviluppi ulteriori idealistici di alcuni fisici.
Per un certo tempo, avvalorandomi di conoscenze più profonde di biologia, mi interessai di biofisica. L’interesse si accentuò quando intrapresi la specializzazione in psichiatria. Gli insegnanti, in gran parte freudiani, anzi matteblanchiani (dato che Matte Blanco era la figura più prestigiosa del corpo docente), per un verso aderivano alla teoria delle pulsioni freudiana (che è rozzamente materialistica) e, per un altro, parlavano dell’inconscio come un’entità quasi metafisica.
Avendo aderito al materialismo e concependo la mente come espressione dell’attività e dell’organizzazione di un organo prodotto dall’evoluzione naturale, messo in grado, però, di giungere a regime in virtù dell’interazione con l’ambiente socio-culturale, mi interrogavo di continuo sul rapporto tra il corpo e la mente e mi chiedevo quale mai potessero essere i correlati neurofisiologici della teoria analitica.
Ero certo di una sola cosa, vale a dire che la teoria freudiana dell’Es non era compatibile nè con l’evoluzionismo né con i dati forniti dall’antropologia culturale. Per il resto, il buio era assoluto.
M’imbattei allora, per caso, in un testo da poco tradotto in italiano: La Fisica della Mente (Bollati Boringhieri, Torino) a cura di Vittorio Semenzi. Si trattava di un’antologia di scritti di vari autori, tra cui figuravano studiosi prestigiosi come K. S. Lashley, R. Sperry, Norbert Wiener, ecc.
Nonostante la fama degli autori, però, il libro non diceva gran che. Al di là del dibattito riguardo alla possibilità di omologare l’apparato mentale ad un computer (convalidata da alcuni, respinta da altri), il nodo principale verteva sul conflitto tra il paradigma riduzionistico (secondo il quale le funzioni mentali sono riconducibili alla somma di processi neurofisiologici elementari) e quello olistico (secondo il quale esse rappresentano l’emergenza di qualcosa di nuovo spiegabile solo nell’ambito della teoria della complessità).
Da allora ho seguito questo dibattito assistendo al sorprendente fenomeno per cui la maggioranza dei neurobiologi si è schierata sempre più dalla parte del materialismo (sia pure diversamente interpretato), mentre un numero consistente di fisici, in conseguenza dell’adesione alla teoria quantistica, si sono orientati verso un idealismo, anch’esso diversamente interpretato, che in alcuni ha assunto una configurazione radicale.
Ho tentato di capire meglio l’impatto della fisica contemporanea sulla teoria della mente leggendo quasi tutte le voci di Fisica dell’Enciclopedia Einaudi, dell’enciclopedia Europea Garzanti e le opere di Paul Davies, che si può ritenere il maggior divulgatore a riguardo (L’Universo che fugge, Mondadori, Milano 1979; Dio e la nuova Fisica, id. 1984; Sull’orlo dell’infinito, id. 1985, Il cosmo intelligente, id. 1989).
Se affermassi di avere le idee chiare, mentirei. Qualche idea, però, la ho e cerco di esporla in quest’articolo prendendo spunto da uno scritto di Piergiorgio Odifreddi, che risale a oltre dieci anni fa, ma mi sembra ancora attuale.
Il corsivo nel testo è mio.
2.
Almeno ad un primo sguardo superficiale, sembra che le categorie dei fenomeni di cui abbiamo esperienza si possano ridurre a due sole, a cui i greci hanno dato il nome di physis e psyche, e che sono studiate rispettivamente da fisica e psicologia (in senso lato).
Le due categorie furono chiamate, rispettivamente, res extensa e res cogitans da Descartes, ma oggi ci si riferisce ad esse più prosaicamente come materia e mente, in barba a coloro che ritengono che solo le lingue greca e tedesca siano in grado di esprimere compiutamente i concetti filosofici.1
Terminologia a parte, il problema essenziale è la relazione fra materia e mente.
Da un punto di vista ontologico, si possono distinguere almeno tre diverse posizioni: il materialismo, che nega l'esistenza della mente a qualunque livello; il mentalismo, che ne ammette l'esistenza a qualche livello di complessità; e il panpsichismo, che assegna proprietà mentali a ogni entità fisica.
Da un punto di vista epistemologico le possibilità sono invece molteplici, a seconda che si considerino le due categorie riducibili (una all'altra, o entrambe a qualcos'altro), oppure irriducibili.
La riducibilità delle categorie si chiama monismo e può essere di tre tipi: materialista, se la mente è riducibile alla materia; idealista, se la materia è riducibile alla mente; e neutro, se mente e materia sono riducibili a qualcosa di più fondamentale.2
L'irriducibilità delle due categorie si chiama invece dualismo, e può essere di quattro tipi: fisico, se la materia guida la mente; animista, se la mente guida la materia; interazionista, se le due categorie si influenzano reciprocamente; e indipendente, se le due categorie procedono parallelamente senza influenzarsi.
Prevedibilmente, le grandi religioni non adottano posizioni univoche sull'argomento: per il buddismo la mente è un'illusione da cui bisogna liberarsi; per l'induismo l'illusione da cui bisogna liberarsi è invece la materia; il taoismo riduce sia la materia che la mente al Tao; per il cristianesimo la materia è mortale, e la mente immortale e immateriale; ...
Forse più sorprendentemente, neppure le scienze adottano posizioni univoche: per la neurobiologia la mente è descrivibile in termini puramente fisiologici (come nel motto del dottor Vogt nell'800, secondo cui il cervello secerne pensieri come il fegato secerne la bile); per la teoria dei sistemi la mente è un epifenomeno di sistemi biologici sufficientemente complessi; per l'intelligenza artificiale mente e materia sono analoghi a software e hardware nei computer; la matematica moderna riduce sia la materia che la mente (o meglio, le teorie dello spazio materiale e del tempo mentale, cioè la geometria e l'aritmetica) agli insiemi;3 ...
Fino a quando la fisica rimase materialistica e deterministica fu naturalmente impossibile far rientrare in essa i fenomeni mentali, a causa di alcune loro caratteristiche essenziali quali, appunto, l'immaterialità e il non determinismo (nella forma della libertà, o del libero arbitrio). L'avvento della meccanica quantistica, i cui fenomeni esibiscono caratteristiche analoghe, sembra però aver aperto la possibilità di coerenti descrizioni fisiche della mente, sia moniste che dualiste. 4
Può dunque essere ormai prossimo il superamento dell'attuale situazione paradossale, in cui si possiedono precise teorie scientifiche dei fenomeni materiali che si conoscono indirettamente (mediante i sensi), ma solo vaghe teorie filosofiche dei fenomeni mentali che si conoscono invece direttamente (per introspezione).
Benché una soddisfacente teoria quantistica della mente non esista ancora, molti fisici autorevoli e titolati si sono spesso avventurati in speculazioni fantasiose ma stimolanti, che vale la pena di ripercorrere nonostante il loro carattere tentativo e ipotetico. Come si vedrà, col passare del tempo e il consolidarsi della meccanica quantistica le ipotesi sono comunque diventate sempre meno generiche e sempre più tecniche, il che rende possibile sperare che esse finiranno presto o tardi per convergere ad un limite.
1 Bramini (brahmans)
I fondatori della meccanica quantistica si trovarono alle prese con una teoria completamente nuova, che coinvolgeva l'osservatore in una maniera sconosciuta nella fisica classica. Essi furono dunque costretti a considerare la possibilità che la coscienza avesse un ruolo centrale nella costruzione non solo dell'immagine del mondo, ma della realtà stessa.
Liberamente
Il primo fra i fisici quantistici a cercare di affrontare i problemi filosofici presentati dalla nuova teoria fu lo stesso Max Planck, premio Nobel nel 1919 per la scoperta del quanto d'azione: le sue riflessioni furono pubblicate nel 1933 in Dove sta andando la scienza?
Proponendosi come un risoluto avversario del positivismo, Planck sostiene che i fatti acquistano significato soltanto all'interno di una teoria esplicativa: la natura della spiegazione scientifica è dunque essenzialmente metafisica, e come tale irrazionale o mistica nelle sue premesse, ed incompleta nelle sue conclusioni.
Dalla natura antropomorfa delle teorie scientifiche deriva comunque il fatto che non c'è contraddizione fra l'assoluta causalità della materia e l'apparente libertà della mente: il determinismo riguarda oggetti osservati, la libertà soggetti osservanti, e uno stesso atto di conoscenza non può far coincidere soggetto e oggetto. Più precisamente, la descrizione oggettiva e causale richiede una distanza prospettica sufficiente dall'evento, che diminuisce quanto più ci si avvicina al soggetto: nella coscienza la scienza trova dunque i limiti della propria applicabilità .
E il problema non è qui un'insufficiente comprensione, così come non è un'insufficiente velocità che impedisce ad un corridore di distaccarsi dalla propria ombra: esseri superiori potrebbero forse percepire la causalità della nostra coscienza, ma avrebbero gli stessi problemi con la loro. Il fenomeno è dunque relativo, ed analogo a quello scoperto da Gödel: la capacità di riconoscere la consistenza di un sistema formale richiede una distanza sufficiente da esso, e tende a svanire quando il sistema si rivolga a se stesso.
La scienza ci conduce quindi fino alle soglie della coscienza ma poi, come Beatrice con Dante, deve abbandonarci in altre mani. E, secondo Planck, è proprio nell'istintiva percezione dell'insuperabile autarchia della coscienza che si devono ricercare le cause sia del rifiuto delle spiegazioni scientifiche della natura, che della ricerca di complementari credenze irrazionali.
Complementariamente
La filosofia ufficiale della meccanica quantistica, detta interpretazione di Copenaghen, e le sue implicazioni filosofiche sono state elaborate da Niels Bohr, premio Nobel nel 1922 per la struttura dell'atomo di idrogeno, a partire dagli anni '20.
L'idea fondamentale, più volte ripetuta da Bohr nei suoi saggi, è che una comunicazione non ambigua dei dati sperimentali richiede che la descrizione degli apparati di misura e degli esperimenti sia fatta nel linguaggio comune usato nella vita quotidiana, eventualmente raffinato nella sua versione matematica. In particolare, anche quando si parla di fenomeni quantistici non direttamente osservabili (ad esempio, il movimento di una particella), la comunicazione dell'esperienza non può che essere riferita a fenomeni macroscopici direttamente osservabili (ad esempio, la traccia lasciata su una lastra fotografica).
Il problema è che, mentre per fenomeni classici l'interazione con gli apparati di misura è trascurabile, e si può quindi effettuare in pratica una separazione netta tra osservato e osservatore, per i fenomeni quantistici questo non è possibile, e si è dunque costretti a considerare una inseparabile combinazione fra osservatore e osservato. Poiché differenti esperimenti descrivono differenti combinazioni, diventa impossibile parlare di un fenomeno quantistico indipendentemente dalla particolare situazione sperimentale in cui lo si osserva: il fenomeno esibisce dunque una complementarietà di proprietà, una sola delle quali può venir osservata in un particolare esperimento.
È solo grazie alla complementarietà che è possibile usare consistentemente concetti classici che, se presi insiemi, sarebbero contradditori (ad esempio, considerare allo stesso tempo un fenomeno come una particella ed un onda 5). D'altra parte, la complementarietà provoca una sostanziale incompletezza di qualunque descrizione, perché nel momento in cui si determina una delle proprietà di un sistema, automaticamente si è costretti a trascurare tutte quelle complementari ad essa. La complementarietà e dunque un principio di consistenza e incompletezza della meccanica quantistica: grandezze coniugate non si possono usare simultaneamente in maniera contradditoria, e non si possono determinare in maniera completa.
Se le idee precedenti rappresentano un'inversione di tendenza rispetto alla fisica ottocentesca, in altri campi della conoscenza esse sono sempre state evidenti e comuni. Ad esempio, nella biologia si è da sempre usato un duplice paradigma per affrontare il problema della vita: da un lato il meccanicismo, che tende a spiegare i fenomeni biologici in termini fisico-chimici (causa ed effetto), e dall'altra il finalismo, che li affronta invece in termini teleologici (fine e scopo).
Secondo Bohr, la lezione che si può trarre dalla meccanica quantistica è che le due spiegazioni sono appunto complementari e irriducibili: entrambe necessarie per una visione completa del problema, ma nessuna sufficiente. Ad esempio, la scoperta del dna non ha certo spiegato il fenomeno della vita, ma ha soltanto descritto in termini meccanicisti la riproduzione cellulare. E l'applicazione dei concetti della meccanica quantistica alla biologia non è soltanto metaforica, perché è noto che gli organismi sono direttamente sensibili a fenomeni quantistici (ad esempio, la vista a pochi fotoni).
Inoltre, contro il riduzionismo si può arguire non soltanto indirettamente, per analogia con la fisica quantistica, ma anche direttamente. Anzitutto, nello studio degli organismi biologici tendono a scomparire le distinzioni fondamentali necessarie alla descrizione scientifica: da un lato fra sistema e ambiente, a causa della continua attività metabolica, e dall'altro fra osservatore e osservato. Inoltre, l'interferenza osservazionale richiesta per una descrizione completa di un organismo potrebbe essere incompatibile con il mantenimento della sua vita: in altre parole, potrebbe esserci un principio di esclusione tra fisica e biologia.
Anche nella psicologia si ritrova in termini quasi identici la complementarietà, nello studio del problema della coscienza: da un lato la spiegazione neurofisiologica dei meccanismi cerebrali, dall'altro la sensazione del libero arbitrio e della libertà di scelta. Come già nel caso della vita, anche qui potrebbe esserci un possibile principio di esclusione, a causa dell'alterazione che si osserva quando si cerca di verbalizzare una sensazione, analizzare un sentimento, razionalizzare un'intuizione, concentrarsi su un particolare aspetto di un pensiero. Il fenomeno è esemplificato nella maniera più efficace dall'abisso che separa la formalizzazione e l'intuizione (o la dimostrazione e la verità) matematica, e fa presumere che più si osserva il cervello e meno si vede la mente; o, in altre parole, che sarà impossibile arrivare ad una spiegazione puramente meccanicista della coscienza.
Ma ancora più cruciale, a questo proposito, è la realizzazione che la scienza non descrive la realtà, bensì soltanto la nostra esperienza di essa. Questa posizione, evitabile in pratica nella fisica classica a causa della pratica separabilità tra osservatore e osservato, è divenuta inevitabile nella meccanica quantistica, ed ha posto fine alla rimozione meccanicista: poiché ogni spiegazione fa riferimento ad una attività cosciente, la coscienza non fa parte di ciò che si può spiegare, e dunque sia la vita che la coscienza si possono studiare solo rinunciando a spiegarle.
Infine, anche nella sociologia la complementarietà è di casa: le varie culture umane sono semplicemente paradigmi alternativi di organizzazione della visione del mondo, ugualmente validi ed efficaci. In questo caso però, invece dell'incompatibilità manifestata dalle proprietà complementari della fisica atomica, le varie culture umane esibiscono una consistenza reciproca che permette di immaginare una loro progressiva assimilazione: la complementarietà sociologica non può dunque essere motivo di dispute o battaglie per il predominio di una cultura a scapito di altre, e deve piuttosto essere vista come la ragione per considerare tutte le prospettive culturali come ugualmente fruttuose e degne di attenzione.
Il contributo di Bohr alla filosofia della scienza si può dunque isolare nella complementarietà, che egli pose nel motto del suo stemma (contraria sunt complementa), considerò come espressione di un livello più profondo di verità (“le verità superficiali sono quelle la cui negazione è contradditoria, le verità profonde quelle la cui negazione è ancora una verità”), e arrivò a vedere in ogni aspetto della realtà fisica e umana: osservatore-osservato, soggetto-oggetto, finalismo-meccanicismo, vita-fisiologia, mente-cervello, istinto-ragione, sentimenti-pensieri, libertà-condizionamento, carità-giustizia, scienza-arte, ...
Parallelamente
Una sistematizzazione matematica della nuova fisica fu fatta nel 1932 da John von Neumann nel classico I fondamenti della meccanica quantistica, in cui vennero anche per la prima volta distinte nettamente l'evoluzione deterministica della funzione d'onda da un lato, e il collasso probabilistico provocato dall'osservazione dall'altra.
Per analizzare la distinzione osservatore/osservato von Neumann considerò una catena di apparati macroscopici, ciascuno dei quali osserva il precedente: ad un estremo la catena interagisce con un sistema quantistico, i suoi primi anelli sono strumenti di vario tipo, gli ultimi sono processi cerebrali, e all'altro estremo la catena interagisce con la coscienza di un osservatore umano. Sotto opportune ipotesi, von Neumann dimostrò che non ha importanza dove (cioè in quale anello della catena) si suppone che il collasso della funzione d'onda del sistema quantistico osservato abbia luogo, perché il risultato sperimentale non cambia: il che permette di adottare un atteggiamento pragmatico nei confronti della faccenda, senza doversi preoccupare di risolvere il problema se il collasso sia un fenomeno fisico o mentale.
Allo stesso tempo, la possibilità di far arretrare a piacere il confine tra osservatore e osservato verso gli ultimi anelli della catena, e cioè verso le microstrutture cerebrali profonde, richiede però l'introduzione di un postulato che von Neumann chiama di psicoparallelismo : la percezione soggettiva, che per sua natura è un fenomeno extrafisico precedente l'osservazione e la sperimentazione, deve poter corrispondere in maniera equivalente a precisi processi fisici.
Inoltre, l'arbitrarietà della distinzione fra osservatore e osservato non impedisce che essa sia comunque necessaria per la formulazione stessa della meccanica quantistica, le cui affermazioni non sono mai del tipo “una certa quantità fisica ha un certo valore”, bensì sempre del tipo “un osservatore ha fatto una certa osservazione”. Benché arretrabile a piacere, il ruolo della coscienza non è dunque eliminabile.
La posizione di von Neumann è quindi ad un tempo epistemologicamente riduzionista e ontologicamente dualista: la coscienza si può descrivere in termini materiali con approssimazione arbitraria, ma possiede uno stato di a priori necessario e non eliminabile.
Amichevolmente
Poiché permette di immaginare il collasso della funzione d'onda in qualunque anello della catena di apparati di osservazione, la posizione di von Neumann almeno implicitamente suggerisce che il collasso sia non un fenomeno fisico oggettivo, bensì un fenomeno psicologico soggettivo. Questa posizione è resa esplicita da Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963 per la legge di conservazione della parità, in una serie di saggi raccolti in Simmetrie e riflessioni.
Egli parte da una variante del famoso esperimento del gatto di Schrödinger: si pone un gatto in una stanza isolata insieme ad una fiala di veleno, la cui rottura può essere provocata dall'emissione casuale di una particella (ad esempio, da una sostanza radioattiva in un contatore Geiger); se il gatto viene considerato come un sistema quantistico e descritto mediante una funzione d'onda, esso si trova in una sovrapposizione dei due stati “gatto vivo” e “gatto morto” (ovvero, “un po' vivo e un po' morto”),6 fino a quando un osservatore esterno guarda dentro la stanza, nel qual caso (e solo allora) la funzione d'onda collassa ad uno dei due stati “gatto vivo” o “gatto morto”.
La variante di Wigner si ottiene introducendo un amico dell'osservatore, oltre a questo e il gatto: l'osservatore può allora chiedere all'amico che cosa egli veda nella stanza, senza dover necessariamente guardarci lui, e quando l'amico risponde la funzione d'onda dell'osservatore collassa (cioè il gatto diventa vivo o morto, e cessa di essere un po' vivo e un po' morto).
Il problema è però che l'amico fa parte dell'apparato di misura dell'osservatore, e dovrebbe dunque rimanere in sovrapposizione di stati pure lui (credendo un po' di aver visto il gatto vivo e un po' di averlo visto morto), fino a quando l'osservatore non gli rivolge la domanda e ottiene la risposta (nel qual caso crederà di aver visto il gatto vivo o di averlo visto morto). Ma, ovviamente, l'amico ha sempre creduto ad una sola delle due alternative, e cioè quella che ha dichiarato in risposta alla domanda dell'osservatore, e non si è mai trovato in sovrapposizione di stati (o, almeno, così dice).
La soluzione più semplice è che il collasso sia effettivamente avvenuto quando l'amico ha guardato nella stanza, ma in questo caso la descrizione della meccanica quantistica cessa di essere valida quando esseri coscienti entrano a far parte del sistema: in altre parole, il collasso della funzione d'onda è un fenomeno soggettivo determinato dall'azione della coscienza, e la coscienza è un fenomeno non lineare che determina il collasso della funzione d'onda lineare.
Benché l'argomento precedente mostri che il materialismo è incompatibile con la meccanica quantistica, Wigner ritiene più convincente come sua refutazione il fatto che il grado di realtà della coscienza sia maggiore di quello del mondo esterno. Mentre infatti si può consistentemente negare l'esistenza di quest'ultimo, benché la cosa sia impraticabile, negare l'esistenza della prima è impossibile, perché ogni conoscenza (compresa quella del mondo esterno) risiede nella coscienza.
Più precisamente, se si definisce il grado di esistenza di un oggetto o di un concetto come l'utilità che ne deriva nella visione del mondo, ad esempio in termini di comprensione del passato e previsione del futuro, allora c'è un vasto spettro di gradi di esistenza, che va dall'assoluto della propria coscienza, al relativo delle sensazioni altrui e degli oggetti. Il che non significa, però, che la coscienza debba essere indipendente dal resto del mondo, né che si possa fare a meno di ciò che ha un'esistenza più relativa: soltanto uno studio profondo della coscienza (umana e non) potrà determinare le proprietà effettive dell'esistente, e confermare o smentire le intuizioni che abbiamo di esso.
Wigner ha espresso in maniera particolarmente memorabile la realtà dei concetti matematici, parlando di una loro irragionevole efficacia nelle applicazioni scientifiche: solo una minima parte dei fenomeni naturali si può infatti descrivere matematicamente, e solo in condizioni estremamente speciali; è dunque incredibile che quando una descrizione sia comunque possibile, lo sia non in maniera soltanto approssimata, bensì con un grado di accuratezza spropositato.
In ogni caso, è sorprendente ed ironico che secoli di studio scientifico del mondo esterno siano giunti infine alla conclusione che la vera realtà è la coscienza, in accordo con le più estreme teorie idealistiche.
2 Guerrieri, mercanti e artigiani (kshatriyas, vaisyas e sudras)
I grandi sacerdoti della meccanica quantistica si erano limitati ad assegnare un generico ruolo epistemologico e ontologico alla coscienza, legato in qualche maniera al collasso della funzione d'onda. Ma se i preti benedicono i cannoni, sono gli artigiani che li costruiscono, i mercanti che li finanziano, e i soldati che combattono: le astratte prediche sul collegamento fra mente e materia richiedono dunque più concrete strategie e tattiche di implementazione, che descrivano precisamente i (supposti) meccanismi di contatto, superando le secolari difficoltà del dualismo.
Potenzialmente
Una delle interpretazioni più soddisfacenti della meccanica quantistica è stata proposta nel 1958 da Werner Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932 per il principio d'indeterminazione, in Fisica e filosofia.
Secondo Heisenberg, le difficoltà di interpretazione della meccanica quantistica sono l'effetto di una mancata espiazione del peccato originale della filosofia moderna: il dualismo cartesiano fra materia e mente. Esso è visto come una pericolosa semplificazione, che sta all'origine di gravi difficoltà concettuali.
La prima di tali difficoltà è il realismo, che dovette essere assunto da Descartes come dogma (appena mascherato dietro il supposto argomento che Dio non ci inganna) per poter assegnare una valenza ontologica alla materia: il “cogito, ergo sum” era stato invece sufficiente per assegnare una valenza ontologica alla mente. Benché metafisica ufficiale della fisica classica, il realismo è stato rifiutato dapprima dall'idealismo, a partire da Berkeley, e poi anche dalla fisica moderna, a partire da Bohr.
La posizione di Heisenberg rispetto al realismo è intermedia fra l'accettazione e il rifiuto, e si esprime interpretando l'equazione d'onda probabilistica come una versione quantitativa della nozione aristotelica di potentia (Metafisica, ix), da intendere come una simultanea sovrapposizione di possibilità che predetermina l'attualità futura (analogamente, una sovrapposizione di immagini proiettate contemporaneamente su uno schermo predetermina l'immagine che si può vedere attraverso un filtro che ne isoli una sola). Il mondo microscopico è dunque reale e oggettivo per Heisenberg, ma in maniera diversa dal mondo macroscopico: il primo fluttua in una molteplicità eraclitea, mentre il secondo giace in una univocità parmenidea, ed il passaggio dall'una all'altra avviene attraverso le interazioni sperimentali (esemplificate dagli acceleratori, in cui si passa dalla potenzialità dell'energia all'attualità delle particelle).
Una seconda difficoltà del dualismo cartesiano era stato il meccanicismo psicologico: l'impossibilità di rendere conto dell'interazione fra “res extensa' e “res cogitans' aveva infatti costretto a postulare un loro parallelismo, e a ritenere che la mente potesse quindi essere descritta negli stessi termini usati per la descrizione della materia.
La posizione di Heisenberg supera il parallelismo fra mente e materia, mediante un'applicazione del principio di complementarietà: come le particelle hanno una natura duale (sia corpuscolare che ondulatoria), così mente e materia sono aspetti complementari di una stessa sostanza. La sostanza ultima potrebbe forse essere l'energia (come per Eraclito lo fu il fuoco), visto che essa si conserva, ed uno degli attributi fondamentali della sostanza è appunto la sua indistruttibilità; certo non può essere la massa, che si può creare dall'energia e trasformarsi in essa, né una forza, poiché le forze sono oggi interpretate come scambio di particelle. Potrebbe però anche essere qualcosa di ancora più astratto o “mentale', ad esempio equazioni differenziali (come per Platone lo furono le forme geometriche), le cui soluzioni potrebbero rappresentare le particelle.
Quanto al tentativo meccanicista di spiegare la mente negli stessi termini usati per spiegare la materia, Heisenberg lo vede sia come un retaggio del cartesianesimo che come un peccato d'ingenuità, per due motivi complementari.
Anzitutto, la fisica (compresa quella quantistica) si basa sulla distinzione fra osservatore ed osservato, che viene a cadere nel momento in cui la coscienza studia se stessa: le difficoltà di una teoria puramente fisica della mente potrebbero dunque essere analoghe a quelle della cosmologia quantistica, che hanno richiesto radicali reinterpretazioni ontologiche (tipo l'introduzione di molti mondi, coesistenti e paralleli).
Inoltre, in termini più generali, qualunque teoria si basa su un linguaggio: ma parole e concetti, anche quelli matematici, non sono rigidamente definiti ed hanno campi d'azione limitati, che vengono scoperti nel corso dell'evoluzione storica, e si possono trascendere soltanto mediante radicali reinterpretazioni semantiche. Ad esempio, “spazio' e “tempo' classici acquistano nella fisica relativistica un significato completamente diverso,7 e “particelle' e “onde' si possono usare nella fisica quantistica soltanto in maniera classicamente contradditoria, formalizzata nel principio di complementarietà.
Mentre è dunque possibile che si possa ottenere una teoria fisica della mente, è invece improbabile che essa non debba richiedere sostanziali stravolgimenti metafisici e linguistici della fisica attuale, meccanica quantistica compresa. In altre parole, gli sviluppi della fisica moderna preludono più ad un “ridefinizionismo' che ad un “riduzionismo'.
Isomorficamente
Una coerente teoria della mente, basata da un lato sulle posizioni ontologiche di Heisenberg appena descritte, e dall'altro su quelle psicologiche di William James (1842-1910),8 è stata sviluppata da Henry Stapp in una serie di saggi, raccolti nel 1993 in Mente, materia e meccanica quantistica.
Nella sua opera principale, I principi di psicologia del 1890, William James aveva enunciato alcune posizioni pragmatiche (in accordo con la sua generale filosofia). Anzitutto, una teoria della mente degna di questo nome non può soltanto dissolverla nella descrizione di meccanismi comportamentali o neurofisiologici, ma deve essere in grado di rendere conto delle azioni più apparenti e costanti della coscienza: la libera scelta fra varie alternative, e il controllo del comportamento. Inoltre, poiché tutto ciò che possiamo sperimentare sono percezioni, l'universo deve essere riducibile ad un'unica sostanza (esperienza pura), di cui la coscienza è solo una parte. Infine, il riduzionismo psicologico non può basarsi esclusivamente sulla fisica classica, perché essa non è in grado di assegnare ad un sistema complesso proprietà che non siano riducibili a quelle delle sue costituenti: l'introspezione mostra invece che i pensieri e la coscienza, nonostante la presenza di componenti, sono sistematicamente percepiti come sostanzialmente unitari.
Le ingiunzioni di James sono state sistematicamente disattese dalle teorie psicologiche dominanti del secolo, dal comportamentismo di Watson al darwinismo neurale di Edelmann: esse rimuovono tutte il problema della coscienza, limitandosi a descrivere in maniera puramente classica le sue manifestazioni a vari livelli, dal sociologico al neurofisiologico. La fisica quantistica ha maturato i tempi di un cambiamento, ritrovandosi in perfetta sintonia con le posizioni di James: il collasso della funzione d'onda esibisce le stesse caratteristiche di scelta e determinazione della realtà attribuite alla coscienza, l'interpretazione di Copenaghen riduce l'intera realtà all'osservazione, e gli eventi quantistici rivelano un carattere olistico che non permette di ridurli al comportamento individuale delle loro parti.
Mentre von Neumann e Wigner cercavano però di costruire una teoria mentale della meccanica quantistica, attribuendo ad una indefinita coscienza la causa del collasso della funzione d'onda, Stapp ribalta il loro approccio e costruisce una teoria quantistica della mente, definendo la coscienza come la manifestazione del collasso. In altre parole, nel cervello gli eventi si mantengono in inconscia sovrapposizione di stati fino a quando essi vengono resi psicologicamente coscienti dal collasso fisico della funzione d'onda , e la coscienza è quindi la controparte macroscopica del processo di fissazione delle strutture microscopiche del cervello (così come le sensazioni sono la controparte macroscopica del funzionamento dell'organismo).
A causa di un risultato di von Neumann citato in precedenza, non ha importanza in che punto della catena di osservazione si suppone che il collasso avvenga, perché i risultati sono largamente indipendenti da dove esso si situi: la precedente definizione è dunque compatibile con svariate ipotesi, in particolare che la coscienza sia un fenomeno di basso o di alto livello cerebrale (cioè, neuronale o integrato).
Ciò che invece ha importanza è la relazione fra la struttura degli eventi cerebrali da un lato, e di quelli psicologici dall'altro: ed una volta postulata una corrispondenza fra gli eventi, è naturale estenderla anche alle loro strutture. Stapp propone dunque la seguente definizione: la coscienza è l'immagine isomorfa del collasso della funzione d'onda degli eventi cerebrali.
Più precisamente un evento cosciente, cioè l'attualizzazione di una potentia cerebrale, crea una configurazione neuronale temporaneamente stabile detta simbolo, a sua volta costituita da componenti: in tal modo si genera una disposizione per l'attivazione di tutti gli altri simboli che hanno componenti in comune con quello, e si crea quindi una nuova potentia che attende di essere attualizzata da un successivo evento cosciente. La tendenza dei simboli a svanire crea la sensazione del fluire del tempo, l'insieme dei simboli attuali in un dato momento costituisce uno schema corpo-mondo che viene continuamente aggiornato, l'insieme dei simboli che persistono e a cui le sensazioni momentanee vengono riferite costituisce il senso del sé (un'esperienza cerebrale come tutto il resto), e l'integrazione quantistica degli eventi cerebrali viene percepita psicologicamente come l' unità della coscienza.
Poiché la realtà è costituita dalle attualità, che a loro volta sono determinate dalle potenzialità, ma non tutte le attualità sono eventi di natura cerebrale o umana, si può dire più generalmente che la mente è la manifestazione del processo di attualizzazione delle potentia, di cui la coscienza umana è dunque solo un aspetto particolare. Si arriva così per via fisica ad una teoria che ha vari aspetti in comuni con quella filosofica esposta da Whitehead ne Il processo e la realtà .
Tutto ciò che esiste, cioè la totalità delle attualità, si manifesta dunque come un atto creativo della mente universale, una scelta che allo stesso tempo è delimitata dallo spazio delle possibilità preesistenti, e restringe lo spazio delle possibilità future. E gli atti creativi della mente universale sono linearmente ordinati, poiché essi corrispondono a cambiamenti nello stato potenziale dell'universo, che è unico in ogni istante: dunque il tempo mentale è lineare, in accordo con l'esperienza, e in contrasto con il tempo fisico (in altre parole, l'evoluzione deterministica della funzione d'onda e il suo collasso si riferiscono a due tempi distinti, locale e relativistico l'uno, e globale e classico l'altro).
La teoria di Stapp lascia aperti i problemi del libero arbitrio e del determinismo, perché non decide se il collasso della funzione d'onda sia frutto del caso o di qualche scelta ad un livello più profondo. Presentando però la coscienza umana ad un tempo come la manifestazione di un processo naturale e la localizzazione di un processo universale, essa reintegra l'uomo nella natura e nell'universo, e contrasta in tal modo le nefaste e tuttora influenti visioni di Bacone e Descartes, che vedevano da un lato la natura come terra di conquista scientifica e tecnologica dell'uomo, e dall'altro la mente come un fenomeno estraneo alla natura.
Psiconicamente
Postulare un ruolo centrale della mente nel processo di creazione della realtà attuale a partire da quella potenziale è ancora un'attività di natura puramente filosofica: per renderla scientifica è necessario andare oltre le affermazioni generiche, indicando esplicitamente i (supposti) meccanismi attraverso i quali la mente entra in contatto e interagisce con la materia in generale, e con il corpo umano in particolare (creando la coscienza).
L'ipotesi, implicitamente adottata nella discussione precedente perché oggi la più accreditata, è che la coscienza sia in qualche maniera collegata al cervello, benché non sia sempre stato così: ad esempio gli egizi, che dedicavano estrema cura alla preservazione (nei vasi canopi) di quelli che essi ritenevano essere i principali organi, iniziavano il processo di imbalsamazione estraendo il cervello mediante dei tubicini, e buttandolo via.
Per uscire dalla filosofia ed entrare nella scienza non è comunque ancora sufficiente dichiarare genericamente il cervello come sede della coscienza, ed è necessario scendere a livelli più concreti. Il primo ad aver raccolto la sfida è stato Descartes, che ha puntato l'attenzione sulla ghiandola pineale a causa della sua posizione centrale strategica e della sua unicità (quasi tutte le strutture cerebrali sono invece doppie): può essere interessante notare che, a tutt'oggi, la funzione della ghiandola pineale è sconosciuta.
Ipotesi più moderne per la localizzazione della coscienza sono il talamo, che funziona da centralino di coordinamento dell'intero cervello, e la formazione reticolare, che seleziona gli input sensoriali e decide quali si debbano considerare (secondo Francis Crick, “se il talamo è la porta della corteccia, la formazione reticolare ne è il guardiano”).9 Entrambe le ipotesi si basano su motivazioni simili a quelle di Descartes, e cioè centralità (funzionale, non più posizionale) ed unicità, e non vanno dunque oltre la solita genericità.
Il primo a scendere al livello delle microstrutture nella ricerca di una localizzazione cerebrale della (azione della) coscienza è stato John Eccles, premio Nobel per la medicina nel 1963 per la spiegazione del meccanismo di interazione sinaptica, che ha sviluppato le sue idee partendo nel 1953 da Le basi neurofisiologiche della mente, transitando nel 1977 attraverso la collaborazione con Karl Popper ne L'io e il suo cervello, e approdando nel 1994 a Come l'io controlla il suo cervello.
Si ricordi che i costituenti della struttura cerebrale sono i neuroni, collegati mediante sinapsi, attraverso cui si propagano impulsi elettrici che stimolano il sistema nervoso. Un collegamento di un neurone ad un altro si può visualizzare come un sacco (bottone sinaptico) di uova (vescichette contenenti alcune migliaia di molecole di trasmettitori) posato su un piano (la parete di un dendrite), dal quale si dipartono degli scarichi (microtubuli): quando si verificano le condizioni appropriate una di queste uova si rompe, e il suo contenuto viene riversato negli scarichi (l'intero processo di chiama exocitosi).
Il sacco contiene circa 2000 uova, di cui la maggior parte sono libere, mentre una cinquantina sono organizzate appunto come nei contenitori delle uova, però in una struttura (paracristallina) esagonale invece che quadrata (griglia vescicolare presinaptica). L'arrivo di un impulso attraverso il neurone può appunto provocare la rottura di una delle uova: le sottolineature sono essenziali, perché la rottura non avviene sempre ma solo ogni tanto (in media circa una volta ogni 5, cioè il 20% delle volte), e quando avviene si rompe comunque un solo uovo. La rottura dell'uovo e il conseguente travaso di molecole dal sacco al piano provocano una piccola differenza di potenziale fra essi, che sommata alle migliaia in arrivo ad uno stesso neurone da altri collegamenti può raggiungere un livello tale da provocare una scarica.
La prima parte della teoria di Eccles si basa sul fatto, scoperto negli anni '80, che la semplice intenzione di effettuare un'azione è sufficiente a provocare uno stimolo di aree cerebrali selezionate, relative agli organi che dovrebbero essere coinvolti nell'azione. L'ipotesi è allora che l'intenzione mentale sia un meccanismo che agisce a livello delle griglie vescicolari, aumentando sostanzialmente la probabilità che avvenga la rottura di una vescichetta: l'azione mentale è dunque resa sia possibile che utile dalla probabilità estremamente bassa dell'exocitosi (se essa fosse sostanzialmente vicina ad 1, non ci sarebbe “spazio per la mente”).
La seconda parte della teoria si basa sul fatto, scoperto negli anni '70, che i dendriti che si dipartono dal corpo dei neuroni corticali tendono a raggrupparsi in fasci di un centinaio, detti dendroni, a ciascuno dei quali si collegano circa 100.000 sinapsi (il numero dei dendroni varia da 200.000 per i mammiferi più primitivi a 40 milioni per l'uomo). Poiché circa una metà dei neuroni della corteccia sono raggruppati in dendroni, questi sembrano essere elementi costitutivi dell'azione cerebrale, ed Eccles postula allora che esistano paralleli elementi costitutivi dell'azione mentale detti psiconi : ciascuno di essi agirebbe su un dendrone, e l'azione concertata sulle sue sinapsi tenderebbe ad amplificare l'azione dell'atto mentale.
A prima vista, poiché l'azione mentale degli psiconi avviene senza consumo di energia, essa sembrerebbe essere in disaccordo con le leggi della fisica. Ma in effetti non c'è contraddizione: la mente è un campo di probabilità, che non trasporta né materia né energia, ed è analogo in questo al campo descritto dall'equazione di Schrödinger (almeno secondo l'interpretazione corrente). Inoltre, la mente non agisce direttamente sulla materia cerebrale, ma soltanto sulle probabilità di reazione delle griglie vescicolari: in questo modo vengono a cadere i problemi dell'interazione mente-corpo che avevano turbato il dualismo a partire da Descartes stesso.
A scanso di equivoci, a onor del vero generati da persistenti e poco felici dichiarazioni filosofiche e religiose di Eccles stesso, la teoria non è in contrasto con l'evoluzione. Anzi, come egli ha elaborato nel 1989 in Evoluzione del cervello e creazione dell'io, la sua opinione è che la mente sarebbe un fenomeno nato con i mammiferi, come meccanismo di integrazione reso necessario dal potenziamento cerebrale, e dalla conseguente crescita della mole dei dati sensoriali da elaborare: prima dei vertebrati non c'era coscienza, e prima dell'uomo non c'era autocoscienza .
La teoria non è neppure in contrasto con le apparentemente rivali teorie dei neuromenti (Changeaux, Crick, Damasio ed Edelman), e si pone semplicemente ad un differente livello: invece di trattare in maniera classica aggregazioni macroscopiche di neuroni, ne descrive in maniera quantistica il comportamento singolo, o di aggregazioni microscopiche. Anzi, le due trattazioni sono complementari, perché una descrizione classica deve essere necessariamente deterministica,10 e non può quindi render conto di comportamenti apparentemente volontari (a meno di ridursi ad un completo meccanicismo mentale).
Infine, benchè la teoria di Eccles si professi dualista, essa non lo è in un senso cartesiano: anzi, la riduzione di entrambe a campi di probabilità può far presumere l'esistenza di una sostanziale identità di struttura profonda tra mente e materia . Il dualismo è invece esplicitamente popperiano, nel senso che la mente è un epifenomeno soggettivo, il Mondo 2 della coscienza individuale, che si oppone da un lato al Mondo 1 della materia, e dall'altro ad un ulteriore epifenomeno oggettivo, il Mondo 3 della conoscenza sociale e storica (si dovrebbe quindi più propriamente parlare di trialismo, a meno di voler scomodare direttamente la Trinità).
Gravitazionalmente
Pur motivato da problematiche completamente differenti, a posizioni simili a quelle di Eccles è pervenuto di recente anche Roger Penrose, dapprima nel 1989 con la La mente nuova dell'imperatore, e poi nel 1994 con Le ombre della mente.
Per motivi che non interessano qui, perché non hanno niente a che vedere con la meccanica quantistica, Penrose enuncia un dogma centrale secondo il quale nei processi mentali sono presenti aspetti non computabili, che condannano al fallimento i progetti dell'Intelligenza Artificiale.
Penrose ritiene che la fisica moderna, non solo quella classica ma (sorprendentemente) anche quella quantistica, non esibisca però aspetti intrinsecamente non computazionali: per trovarli sarà dunque necessario attendere una teoria della gravitazione quantistica, dalla quale dovrebbe (o potrebbe) derivare una spiegazione del collasso della funzione d'onda. L'idea di Penrose è che la sovrapposizione di stati sia instabile, e che possa essere mantenuta soltanto in situazioni di bassa energia: in presenza di un sufficiente disturbo ambientale (condizione normale ad esempio per i sistemi biologici), gli stati sovrapposti dovrebbero separarsi in maniera sufficiente da rendere impossibile una loro coesistenza, e necessaria una scelta fra essi.
A scanso di equivoci, Penrose ritiene che il problema del collasso vada risolto in maniera autonoma e puramente fisica, in particolare senza far intervenire la coscienza. Anzi, una volta trovata una soluzione che faccia emergere sostanziali aspetti non computazionali, si potrà finalmente affrontare il problema della coscienza in maniera riduzionistica. L'attacco di Penrose alla Intelligenza Artificiale non è dunque un attacco contro il riduzionismo in generale, ma soltanto contro una sua forma particolarmente rozza e semplicistica, che pretende di ridurre la complessità dei processi fisico-chimici del cervello alla semplicità dei processi elettronici dei calcolatori.
Affinché però l'intero progetto stia in piedi, è necessario che il substrato fisico dei processi mentali si situi ad un livello sufficientemente basso nel cervello, in maniera tale da far intervenire fenomeni quantistici e riduzioni di funzioni d'onda. Qui Penrose si spinge oltre le proposte di Eccles, proponendo di scendere ad un livello più basso delle interazioni sinaptiche: la sua tesi è che i microtubuli svolgono un ruolo essenziale nell'azione della coscienza.
L'osservazione fondamentale è che le cellule eucariote (cioè quelle di tutti i sistemi viventi eccetto virus, alghe e batteri, la cui struttura è procariota) hanno due centri vitali: il nucleo con l'informazione genetica, che controlla l'ereditarietà e la produzione delle proteine di cui la cellula è composta, e il centrosoma, che controlla l'azione della cellula (compresa la divisione mitotica) e la sua organizzazione.
Il centrosoma è il sistema di controllo del citoscheletro, una specie di sistema nervoso della cellula, costituito da fibre di microtubuli, le cui pareti sono composte di tasselli a forma di arachide (tubulini), con un elettrone piazzato nel mezzo, che può passare da una nocciolina all'altra. Ogni tassello è circondato da altri sei disposti in una struttura esagonale, la cui polarizzazione determina la posizione dell'elettrone nel tassello centrale: in altre parole, ciascun microtubulo funziona come un automa cellulare .
Poiché questo vale per ciascuna cellula neuronale, l'intera struttura cerebrale non è dunque un semplice computer, come nei modelli più superficiali, ma uno i cui chip sono a loro volta dei computer (una connection machine). In altre parole, i microtubuli aggiungono un livello di complessità al modello computazionale del cervello .
Il nuovo livello di complessità produce un salto di qualità nelle potenzialità del sistema. Se infatti cento miliardi (1011) di neuroni capaci di lanciare mille (103) segnali al secondo permettono una frequenza di 1014 segnali al secondo, i diecimila (104) tubulini per neurone, ciascuno in grado di lanciare per conto suo un ulteriore milione (106) di segnali al secondo, portano l'intera frequenza a 1024 segnali al secondo. E se una frequenza dell'ordine di 1014 poteva essere di prossima portata per i computer, una dell'ordine di 1024 è per ora semplicemente un miraggio.
Si può sostenere a questo punto che la coscienza ha a che fare coi microtubuli perché sono essi a determinare la plasticità cerebrale. Questa infatti non dipende dalla struttura neuronale, che rimane abbastanza stabile dopo la formazione del cervello, ma dalle connessioni sinaptiche, che sono determinate proprio dalle fibre di microtubuli: e, a differenza dei neuroni, sia i microtubuli singoli che i collegamenti fra microtubuli diversi sono appunto soggetti ad un continuo processo di crescita e degenerazione, responsabile della continua ristrutturazione delle connessioni neuronali.
È interessante notare che il centrosoma che controlla il citoscheletro, presente in altri tipi di cellule, non esiste nei neuroni, il che fa pensare che essi siano controllati in qualche maniera globale. L'ovvia supposizione è che il cervello esibisce fenomeni di coerenza quantistica responsabili del coordinamento dell'azione dei microtubuli, a livello sia di singoli neuroni che di sistemi più complessi. La coerenza, in cui molte particelle si trovano in un unico stato ed esibiscono comportamenti quantistici macroscopici, potrebbe addirittura essere responsabile della percezione unitaria della coscienza.11
Se effettivamente la coscienza è collegata all'azione coordinata dei microtubuli, sorge spontanea la domanda se essa possa essere presente in altri sistemi organici eucarioti, eventualmente in tutti. Il fatto che i comuni anestetici abbiano un'azione paralizzante anche su microorganismi unicellulari, potrebbe effettivamente far ipotizzare una risposta positiva. Penrose non si spinge così lontano, accontentandosi di affermare che la coscienza non è un fenomeno puramente umano, ed è ad esempio probabilmente presente in elefanti e scimmie.
Quanto alla posizione ontologica, Penrose non si discosta troppo da quella di Eccles e Popper, ed accetta la distinzione nei tre mondi degli oggetti, delle sensazioni e delle idee. Ma, a differenza di Eccles e Popper, egli ritiene che la vera realtà è il mondo delle idee, di cui gli altri due sono soltanto riflessi: una posizione certo sorprendente per un riduzionista, anche se forse non per un matematico.
3 Intoccabili (harijans)
Accreditare alla coscienza il collasso della funzione d'onda, o ricercare nel cervello la porta d'ingresso del teatro cartesiano, possono apparire progetti azzardati. Essi non esauriscono però lo spettro delle proposte che sono state fatte: alcune di queste sono anzi così radicali, che finiscono per far considerare i loro proponenti come degli eretici, quando non semplicemente degli appestati da evitare, o degli svitati da compatire.
Divinamente
Nel 1958 Erwin Schrödinger, premio Nobel per la fisica nel 1933 per l'equazione che descrive l'evoluzione dell'onda quantistica, pubblicò le sue riflessioni sul problema della coscienza in Mente e materia.
Egli non era nuovo a scorribande ai confini o al di fuori della fisica: ad esempio, nel 1944 aveva già pubblicato il famoso Che cos'è la vita?, in cui cercava di spiegare il fenomeno della riproduzione biologica in termini atomici, proponendo in particolare per la prima volta la nozione di codice genetico. Il libro conobbe un grande successo (è ancora letto tuttora), ed ebbe un ruolo importante nello stimolare l'interesse dei fisici (oltre che degli stessi Francis Crick e James Watson,12 futuri scopritori della struttura del dna) verso i problemi della biologia molecolare: l'episodio è interessante come precedente, e potrebbe ripetersi per qualcuna delle teorie quantistiche della mente.
Per tornare appunto a questa, nell'appendice a Che cos'è la vita? Schrödinger enunciava le solite due premesse, considerate inoppugnabili: da una parte, il funzionamento del corpo è puramente meccanico, e descrivibile mediante le leggi della natura (in particolare, senza che l'indeterminazione quantistica abbia un ruolo biologico rilevante); d'altra parte, l'esperienza diretta ci mostra che noi possiamo dirigere le attività corporali macroscopiche, prevedendone gli effetti. La conclusione tratta era però inaspettata, benché descritta come l'unica corretta: la coscienza è in grado di controllare la materia, in accordo con le leggi della natura.
Altre due osservazioni sperimentali, che cioè da un lato la coscienza soggettiva viene sempre sperimentata singolarmente e indivisibilmente, e dall'altro le varie coscienze individuali producono un'unica immagine del mondo, portavano a concludere, altrettanto inaspettatamente, che la coscienza è una sola, e la sua molteplicità è solo apparente.13
Schrödinger notava che queste conclusioni sono sorprendenti solo per una certa mentalità occidentale contemporanea, mentre ad esse erano invece già giunti dapprima gli induisti a partire dalle Upanishad, con la coincidenza fra l'atman soggettivo e il brahman oggettivo espressa da “aham brahmasmi ” (io sono brahman), poi i mistici medioevali, attraverso esperienze che essi similmente descrivevano con l'espressione “deus factus sum ” (sono divenuto dio), e infine anche i filosofi moderni, da Spinoza a Whitehead.14
In Mente e materia venivano invece affrontati due problemi complementari: i ruoli biologico ed epistemologico della coscienza. Per quanto riguarda il primo, ancora una volta Schrödinger prendeva seriamente i fatti: poiché la sopravvivenza degli esseri viventi è legata all'apprendimento per ripetizione, e il controllo di nuovi processi diviene gradatamente inconscio con il consolidarsi della pratica, la coscienza è associata al processo di apprendimento dei sistemi organici (non solo umani).
La sua presenza, sia ontogenetica (nell'individuo) che filogenetica (nella specie), è dunque un sintomo del fatto che l'apprendimento è ancora in corso, e che non si è ancora raggiunto il perfetto controllo della conoscenza necessaria per la sopravvivenza: in altre parole, la coscienza è il marchio d'infamia di un'evoluzione ancora imperfetta e in divenire, e non la medaglia al valore di un'evoluzione superiore e completata. Da questa prospettiva, la vita organica incosciente (ad esempio, delle piante e degli animali) è ad un livello di sviluppo evolutivo maggiore di quella dell'uomo.
Un esempio di fenomeno nella zona di evoluzione del comportamento umano è forse la contrapposizione fra i desideri (“io voglio”) ed i precetti (“tu devi”): il conflitto fra l'ego e il super-ego sarebbe in tal caso una manifestazione biologica dell'esistenza di un passaggio in atto, ancora in divenire, dall'essere individuale ad uno sociale (di cui si possono considerare tappe successive il nazionalismo e l'internazionalismo).
Passando infine al ruolo epistemologico della coscienza, Schrödinger isolava nel principio di realtà il nucleo della difficoltà. L'oggettività è una semplificazione che introduce una separazione artificiale tra ciò che è percepito e colui che percepisce, e permette l'emergere della scienza solo a costo dell'affossamento della coscienza: non ritroviamo l'io nella nostra immagine del mondo perché esso è quell'immagine, ed essendo il tutto non può esservi contenuto come parte.
L'impressione che la fisica moderna abbia incrinato la barriera fra soggetto e oggetto è dunque fuorviante: in realtà non c'è nulla da incrinare, perché la barriera non esiste, e soggetto e oggetto coincidono.
Implicatamente
Volendo usare termini metaforici (per non dire, più apertamente, metafisici) per l'intervento della mente nel collasso della funzione d'onda, si potrebbe dire che i fenomeni quantistici altro non sono che messaggi espressi in un linguaggio cosmico di cui conosciamo, attraverso la funzione d'onda, la statistica della sintassi, ma di cui ci sfugge completamente la semantica (così come, nella linguistica moderna, la distribuzione statistica delle lettere individua perfettamente il linguaggio in cui un testo sufficientemente lungo è scritto, ma non dice nulla sul suo contenuto): in altre parole, siamo finora riusciti a descrivere il linguaggio della mente, ma non ancora a capirlo .
Un tentativo di scendere (o salire) al livello profondo del linguaggio cosmico è stato fatto da David Bohm nel 1980, in Totalità e ordine implicato (tradotto nel 1996 come Universo, mente e materia).
Il punto di partenza di Bohm è un'analisi degli insegnamenti che si possono trarre sia dalla relatività generale che dalla teoria dei quanti. Entrambe hanno introdotto aspetti globali nella descrizione della realtà, mantenendo però anche caratteristiche locali: più precisamente, nella relatività si considera un unico campo non lineare di cui gli eventi materiali sono discontinuità, ma ci si basa anche in maniera essenziale sulla trasmissione di segnali a velocità non superiori a quella della luce; e nella teoria dei quanti si descrivono connessioni istantanee come nel teorema di Bell, ma si mantiene un'equazione lineare che descrive ancora il comportamento di oggetti (benché potenziali e non più attuali).
Le difficoltà di unificazione fra le due teorie fisiche del secolo risiede forse proprio in questa commistione di aspetti globali e locali, che in entrambi i casi ha il sapore di una rivoluzione incompiuta contro la visione metafisica (ancora) dominante: l'essere di una divisa molteplicità. In contrapposizione ad essa Bohm propone di passare decisamente all'alternativa del divenire di una indivisa totalità, con un esplicito richiamo ad una tradizione che va da Eraclito al Whitehead de Il processo e la realtà .
Poiché ogni linguaggio non solo è determinato da un visione del mondo ma a sua volta la determina e tende a nasconderla, il linguaggio ordinario basato sulla struttura soggetto-predicato-complemento è non solo l'effetto della visione frammentata, ma anche la causa del suo perdurare. Il passaggio ad una visione unitaria richiede dunque una revisione linguistica in cui soggetti e complementi (indicanti oggetti) vengano esplicitamente sostituiti da verbi (indicanti azioni). Nella nuova struttura grammaticale, chiamata da Bohm reomodo (da rheo, “fluire”),15 frasi come “un fatto è stabilito, o constatato” dovrebbero essere riformulate come “un fare si è stabilizzato, o è divenuto costante”, e l'oggetto “verità” dovrebbe essere sostituito dal processo di “verifica”, in accordo fra l'altro con l'etimologia delle parole stesse (ad esempio: “fatto” è il risultato di un “fare”, e “verificare” un “rendere vero”).
Il divenire costante o stabile è appunto il modo mediante il quale dal fluire della totalità indivisa si distaccano momentariamente strutture, che noi chiamiamo in certe condizioni oggetti e in altre pensieri: dunque materia e mente sono entrambe astrazioni dal flusso universale. Si passa così da una visione in cui il tutto è l'interazione delle parti ad una in cui le parti sono astratte dal tutto, mediante la creazione di un ordine esplicato frammentario e temporaneo che si forma a partire dall'ordine implicato unitario che regola il fluire globale: in termini metaforici, l'ordine esplicato viene visto attraverso una lente che permette di separare elementi rilevanti (“messi in rilievo”) e autonomi (“auto-descriventisi”), quello implicato mediante un ologramma in cui ogni parte rimanda al tutto olonimo.
Come le proprietà sintattiche e semantiche di un messaggio non sono necessariamente in corrispondenza diretta fra loro, così non lo sono le proprietà significative dei due ordini. Bohm fa l'esempio di un contenitore formato da due cilindri concentrici di vetro, e contenente un fluido viscoso come la glicerina: se si fa cadere una goccia di inchiostro insolubile nel fluido essa appare come una macchia (ordine esplicato), ma se si ruota uno dei cilindri la macchia scompare uniformemente nel fluido (ordine implicato), salvo ricomparire quando si fa ruotare il cilindro nella direzione opposta. Se si lascia cadere una goccia, si ruota il cilindro, si lascia cadere un'altra goccia, e così via, si ottiene una situazione in cui in ogni momento solo una delle macchie è visibile (ordine esplicato), ma tutte sono presenti contemporaneamente in maniera invisibile (ordine implicato): in particolari condizioni le varie macchie possono anche dare l'illusione di uno o più movimenti continui di qualcosa che non c'è, eventualmente addirittura con apparenti connessioni causali.
Sia l'esistenza di strutture particolari che le loro connessioni al livello dell'ordine esplicato possono dunque non essere significative dal punto di vista più profondo dell'ordine implicato. In particolare, le varie teorie che descrivono l'ordine esplicato sono come visioni prospettiche di uno stesso oggetto (theoria significa “visione”): tutte derivano dall'immagine tridimensionale (implicata), ma essa non è riducibile a nessuna delle prospettive (esplicate). E come i punti di vista determinano le visioni prospettiche, così le teorie determinano quali domande si possono fare e quali risposte si possono ottenere: non ha dunque senso parlare di verità, conoscenza e spiegazione, ad esempio nella forma di approssimazioni successive ad un qualche limite (per non parlare di teorie del tutto), e ci si deve accontentare di adeguatezza, esperienza e comprensione.
Nella terminologia di Schrödinger, Bohm sembra suggerire che l'ordine esplicato si apprende coscientemente, mentre l'ordine implicato si conosce inconsciamente: la coscienza ci rende dunque vittime di un'illusione, facendoci concentrare sugli aspetti più superficiali e frammentati della realtà, e distraendoci da quelli più profondi e unitari. Più precisamente, badando solo alle increspature che costituiscono la realtà manifesta (nel senso letterale di “toccabile con mano”, cioè tangibile), sia materiale che mentale, perdiamo di vista l'oceano stesso, a cui diamo rispettivamente i nomi di vuoto e inconscio. In accordo con le moderne teorie sia fisiche che psichiche, questi sarebbero bacini di energia di cui noi percepiamo non l'intensità assoluta ma solo le variazioni. E lo stesso universo potrebbe non essere altro che una gigantesca onda momentanea e fortuita, forse solo una fra tante, il cui rifrangersi noi chiamiamo storia cosmica.
Meditatamente
Le teorie di Bohm sono condivise da Brian Josephson, premio Nobel per la fisica nel 1973 per la scoperta dell'effetto tunnel, che ne ha elaborato indipendentemente una versione analoga.
In aggiunta egli ritiene che, come ci sono tre ordini di realtà fisica che possiamo descrivere come classico, quantistico e implicato, così ci sono tre ordini di esperienza soggettiva che si possono descrivere come sensoriale, mentale e trascendentale. La corrispondenza fra i vari ordini non è soltanto metaforica, bensì una vera e propria identità: in particolare, la mente è l'esperienza del livello quantistico della realtà, mentre la meditazione (o meglio, l'illuminazione) permette di sperimentare l'ordine implicato.
Josephson nota anzitutto che la fisica avrà poco da dire sulla coscienza, fino a quando si limiterà allo studio di proprietà spazio-temporali: spazio e tempo sono infatti esempi paradigmatici di costrutti mentali. L'immagine che egli offre è quella delle stelle da un lato, e della materia interstellare dall'altro: le proprietà delle condensazioni di materia sono completamente diverse da quelle del medium da cui deriva la condensazione. E la stessa dicotomia si ritrova nell'esempio di Bohm, tra materia e vuoto quantistico.
Se l'oggetto della fisica non è dunque per ora rilevante, il suo metodo è però irrinunciabile: si deve quindi procedere ad un studio diretto della coscienza, ma in maniera sperimentale. E certo la psicologia non è di aiuto, visto che i suoi esperimenti si basano in genere su soggetti alterati e situazioni non riproducibili. Non rimane allora che l'introspezione oggettivata, come la si può trovare negli stati di coscienza pura (samadhi ): essa è riproducibile in soggetti normali mediante tecniche classiche di meditazione, e genera descrizioni perfettamente coincidenti (da questo punto di vista, non è dunque meno oggettiva degli oggetti concreti). I dati sperimentali sono fra l'altro stati raccolti da una tradizione mistica e letteraria (per la maggior parte orientale) secolare, che sarebbe insensato ignorare. E la più recente tradizione fisica ha ormai abituato a dover considerare anche gli esperimenti più “oggettivi' come osservazioni introspettive.
Secondo Josephson, la percezione e lo sviluppo delle strutture matematiche e artistiche sarebbe ottenuta combinando fra loro idee e concetti consci, propri dell'ordine esplicato, sullo sfondo dello stato di coscienza pura, che riflette l'ordine implicato. Da questa genesi deriverebbe dunque non solo la rilevanza, ma anche la “irragionevole efficacia” che matematica e arte esibiscono rispetto al mondo esterno: esse sarebbero gli intermediari attraverso i quali l'ordine profondo si manifesta nell'ordine superficiale, o la coscienza pura si manifesta nella mente cosciente.
Mediante una opportuna matematizzazione il misticismo sperimentale potrebbe dunque diventare, allo stesso tempo, il fondamento ultimo e la sintesi universale sia della scienza che della religione, in cui Dio verrebbe identificato con l'ordine implicato. E questi sviluppi segnerebbero un ricongiungimento con l'inizio della filosofia moderna, più precisamente con La dotta ignoranza del cardinal Cusano, in cui già si trovano sia la distinzione fra esplicato ed implicato, che un primo abbozzo di teologia matematica.
4 Conclusione
La storia del secolo xx ha testimoniato un paradossale fenomeno di inversione: le scienze umane hanno subìto l'onda d'urto del materialismo delle scienze fisiche ottocentesche, divenendo sempre più meccaniciste e riduzioniste; la fisica ha invece subìto l'urto dell'onda quantistica, ritrovandosi non deterministica e dualista come le scienze umane dell'ottocento.
Nello spettro che va dall'atomico al culturale, mente e coscienza sono dunque scivolate da un estremo all'altro: eliminate gradualmente dalla storia, dalla sociologia, dalla psicologia e dalla neurofisiologia, esse si ritrovano inaspettatamente oggi nella fisica delle particelle e del cervello.
Non sta a noi decidere se questi sviluppi debbano rallegrare o crucciare: certo non si possono ignorare, a meno di non volerli (in)coscientemente rimuovere. E, come è appropriato concludere in questo frangente, questo è “quanto'.
Bibliograficamente
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* Eugene Wigner, Symmetries and reflections, 1967.
Note:
1 In un'intervista del 1966, pubblicata postuma da Der Spiegel nel 1976 col titolo di Solo un Dio ci può salvare, Martin Heidegger dichiarava che i tedeschi sono chiamati ad una missione, precisando: “Penso alla speciale affinità tra il linguaggio e il pensiero tedesco e greco. I francesi me l'hanno confermano ripetutamente: quand'essi incominciano a pensare, parlano tedesco. Mi assicurano che non ci riescono nel loro linguaggio”.
Nel 1955 il critico Erwin Panofsky, esiliato dai nazisti lo stesso anno (1933) in cui Heidegger si iscriveva invece al partito, scriveva ne Il significato delle arti visive : “La lingua tedesca consente purtroppo, ad un pensiero abbastanza volgare, di declamare dietro una fumosa cortina di apparente profondità ... Quando invece parla o scrive in inglese, anche uno storico dell'arte deve più o meno sapere cosa vuol dire, e deve voler dire quello che dice.”
2 Il monismo neutro si muove nello stesso spirito delle teorie unificate della fisica, dall'elettromagnetismo alle superstringhe.
3 Nella logica la materia si esprime attraverso gli oggetti, e la mente attraverso i predicati (come diceva Fichte: gli oggetti sono dati, e i predicati sono posti). Il tentativo di sviluppare una logica “materialista', detta del second'ordine, in cui anche i predicati vengono considerati come oggetti, ha incontrato difficoltà ed ottenuto (per ora) pochi risultati.
4 Dal punto di vista metaforico della zoologia domestica, si è effettuato un passaggio dal cane di Pavlov, che esibiva soltanto riflessi condizionati deterministici del tipo stimolo-risposta, all'evanescente gatto di Schrödinger, di cui parleremo fra poco.
5 Gli esempi più semplici e classici di questa complementarietà sono le formule di Einstein che determinano l'energia e il momento di un fotone: E = h n e p = [h/( l)], dove h è la costante di Planck, n è la frequenza e l la lunghezza d'onda. Proprietà particellari (energia e momento) sono dunque determinate da proprietà ondulatorie (frequenza e lunghezza d'onda).
6 Più precisamente: se la probabilità di emissione della particella che causa la rottura della fiala è p, ““vivo con probabilità 1-p e morto con probabilità p”; o, nel caso in cui p sia 1/2, ““mezzo vivo e mezzo morto”.
7 Una situazione analoga si presenta nella logica, dove gli stessi connettivi e quantificatori sono usati classicamente e intuizionisticamente: le traduzioni di una logica nell'altra sono possibili solo grazie a sostanziali tradimenti dell'interpretazione.
8 Le idee di James hanno avuto una vasta influenza sul pensiero scientifico del secolo, dalla formulazione della complementarietà di Bohr all'approccio alla coscienza di Crick.
9 Nell'analogia fra computer e cervello la formazione reticolare sarebbe la cpu, e le varie parti della corteccia costituirebbero le periferiche per il trattamento di input e output. La differenza fra il cervello umano e quello delle scimmie e altri animali è enorme dal punto di vista corticale, ma minima da quello reticolare: il che significa che nell'uomo si sono potenziate le periferiche, che funzionano in particolare da preprocessori largamente autonomi, ma la struttura della cpu è invece rimasta invariata.
10 Non basta invocare fenomeni caotici perché anch'essi sono teoricamente deterministici, anche se praticamente imprevedibili (in quanto piccole variazioni dei dati possono generare grandi variazioni nei risultati).
11 I fenomeni di coerenza quantistica erano una volta ritenuti possibili solo a basse temperature (come per superconduttività o superfluidità), ma oggi sembra che essi si possano manifestare anche in presenza di oscillazioni ad alta frequenza (dell'ordine di 5 ×1010 oscillazioni al secondo, più o meno quella dei tubulini). La cosa non sembra collegata al ciclo a bassa frequenza (dell'ordine di 40 oscillazioni al secondo) scoperto recentemente, e al quale viene a sua volta da altri (ad esempio, Crick) attribuita l'unità della coscienza.
12 Crick ha scritto nella sua autobiografia (What mad pursuit ) che il libro ““lasciava immaginare che appena dietro l'angolo ci fossero grandi cose”. Watson, dal canto suo, ha dichiarato che dopo la lettura egli si ritrovò ““polarizzato verso la scoperta del segreto del gene”.
13 C'è un'altra via d'uscita dall'apparente disparità numerica fra la molteplicità delle coscienze individuali e l'unicità dell'immagine del mondo: la molteplicità dei mondi. Questa è la soluzione di Leibniz, che è stata ripresa dall'interpretazione dei molti mondi della meccanica quantistica.
14 Un florilegio di citazioni pertinenti fu compilato nel 1946 da Aldous Huxley in Filosofia perenne, citato con ammirazione da Schrödinger in entrambi i suoi libri.
15 Si ricordi il panta rei (tutto scorre) di Eraclito.
3.
Odifreddi ovviamente non può citare Fritjof Capra che ha pubblicato il Tao della fisica (Adelphi, Milano) nel 1982. Il pensiero di Capra è sulla linea di quello di Bohm e di Josephson, ma, se possibile, è più radicale nel sottolineare la corrispondenza della visione del mondo prodotta dalla fisica quantistica con quella, affiorata attraverso la meditazione, delle filosofie orientali.
Nel primo capitolo, egli fornisce un sintetico sviluppo della scienza nei seguenti termini:
“Un ulteriore sviluppo della scienza occidentale doveva verificarsi solo nel Rinascimento, quando gli uomini cominciarono a liberarsi dall'influenza di Aristotele e della Chiesa e mostrarono un nuovo interesse per la natura. Verso la fine del Quattrocento lo studio della natura fu affrontato per la prima volta con spirito realmente scientifico e vennero effettuati esperimenti per controllare le ipotesi teoriche. Poiché parallelamente si verificò un crescente interesse per la matematica, questo sviluppo condusse infine alla formulazione di teorie propriamente scientifiche, basate sull'esperimento ed espresse nel linguaggio della matematica. Galilei fu il primo a combinare conoscenza empirica e matematica e perciò viene considerato il padre della scienza moderna.
La nascita della scienza moderna fu preceduta e accompagnata da uno sviluppo del pensiero filosofico che portò a una formulazione estrema del dualismo spirito-materia. Questa formulazione comparve nel Seicento con la filosofia di René Descartes, il quale fondò la propria concezione della natura su una fondamentale separazione tra due realtà distinte e indipendenti, quella della mente (res cogitans) e quella della materia (res extensa). La separazione “cartesiana” permise agli scienziati di considerare la materia come inerte e completamente distinta da se stessi e di raffigurarsi il mondo materiale come una moltitudine di oggetti differenti riuniti insieme in una immensa macchina. Una siffatta concezione meccanicistica del mondo fu sostenuta da Isaac Newton, che su questa base costruì la sua scienza della meccanica e la pose a fondamento della fisica classica. Dalla seconda metà del Seicento alla fine dell'Ottocento, il modello meccanicistico newtoniano dell'universo dominò tutto il pensiero scientifico. Era accompagnato dall'immagine di un Dio monarca che dall'alto governava il mondo imponendo a esso la sua legge divina. Di conseguenza, le leggi fondamentali della natura ricercate dagli scienziati vennero considerate le leggi divine, invariabili ed eterne, alle quali il mondo era soggetto.
La filosofia di Cartesio non fu solo importante per lo sviluppo della fisica classica, ma ebbe anche un'enorme influenza su tutto il modo di pensare occidentale fino ai giorni nostri. La famosa frase di Cartesio “Cogito ergo sum” ha portato l'uomo occidentale a identificarsi con la propria mente invece che con l'intero organismo. Come conseguenza della separazione cartesiana, l'uomo moderno è consapevole di se stesso, nella maggior parte dei casi, come un io isolato che vive “all'interno” del proprio corpo. La mente è stata divisa dal corpo e ha ricevuto il compito superfluo di controllarlo; ciò ha provocato la comparsa di un conflitto tra volontà cosciente e istinti involontari. Ogni individuo è stato ulteriormente suddiviso in base alle sue attività, capacità, sentimenti, opinioni, ecc., in un gran numero di compartimenti separati, impegnati in conflitti inestinguibili, che generano una continua confusione metafisica e altrettanta frustrazione.
Questa frammentazione interna dell'uomo rispecchia la sua concezione del mondo “esterno”, che è visto come un insieme di oggetti e di eventi separati. Si considera l'ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate che devono essere sfruttate da vari gruppi di interesse. Questa visione non unitaria è ulteriormente estesa alla società, che viene suddivisa in differenti nazioni, razze, gruppi religiosi e politici. La convinzione che tutti questi frammenti - in noi stessi, nel nostro ambiente e nella nostra società - siano realmente separati può essere vista come la causa fondamentale di tutte le crisi attuali, sociali, ecologiche e culturali. Essa ci ha estraniati dalla natura e dagli esseri umani nostri simili. Essa ha provocato una distribuzione delle risorse naturali incredibilmente ingiusta, che crea disordine economico e politico: un'ondata di violenza, sia spontanea sia istituzionalizzata, che cresce sempre più e un ambiente inospite, inquinato, nel quale la vita è diventata fisicamente e spiritualmente insalubre.
La separazione operata da Cartesio e la concezione meccanicistica del mondo hanno quindi portato nello stesso tempo benefici e danni; si sono rivelate estremamente utili per lo sviluppo della fisica classica e della tecnologia, ma hanno avuto molte conseguenze nocive per la nostra civiltà. È affascinante osservare come la scienza del ventesimo secolo, nata dalla separazione introdotta da Cartesio e dalla concezione meccanicistica del mondo, e che anzi poté svilupparsi solo sulla base di una concezione del genere, superi oggi questa frammentazione e ritorni nuovamente all'idea di unità espressa nelle prime filosofie greche e orientali.
Al contrario della concezione meccanicistica occidentale, la concezione orientale è di tipo “organicistico”. Per il mistico orientale, tutte le cose e tutti gli eventi percepiti dai sensi sono interconnessi, collegati tra loro, e sono soltanto differenti aspetti o manifestazioni della stessa realtà ultima. La nostra tendenza a dividere il mondo percepito in cose singole e distinte e a sentire noi stessi come unità separate in questo mondo è considerata un'illusione che deriva dalla propensione della nostra mente a misurare e a classificare. Essa è chiamata avidya, o ignoranza, nella filosofia buddhista ed è considerata uno stato di turbamento mentale che deve essere superato.
“Quando la mente è turbata, si produce il molteplice, ma il molteplice scompare quando la mente si acquieta.” (Asvaghosa)
Le varie scuole del misticismo orientale, sebbene differivano fra loro in molti punti particolari, sottolineano tutte l'unità fondamentale dell'universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento. L'aspirazione più elevata dei loro seguaci - siano essi Indù, Buddhisti o Taoisti - è quella di diventare pienamente consapevoli dell'unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo singolo e di identificarsi con la realtà ultima.
Il raggiungimento di questa consapevolezza - chiamata “illuminazione” - non è solo un atto intellettuale ma un'esperienza che coinvolge l'intera persona e che fondamentalmente è di natura religiosa. Per questo motivo, la maggior parte delle filosofie orientali sono essenzialmente filosofie religiose.
Nella concezione orientale, quindi, la divisione della natura in oggetti separati non è fondamentale e ciascuno di tali oggetti ha un carattere fluido e continuamente mutevole. La concezione orientale del mondo è perciò intrinsecamente dinamica, e il tempo e il mutamento ne sono elementi essenziali. Il cosmo è visto come una unica realtà indivisibile, in eterno movimento, animata, organica: materiale e spirituale nello stesso tempo.
Poiché il movimento e il mutamento sono proprietà essenziali delle cose, le forze che causano il movimento non sono esterne agli oggetti, come nella concezione della Grecia classica, ma sono una proprietà intrinseca della materia. Corrispondentemente, l'immagine orientale della divinità non è quella di un sovrano che dirige il mondo dall'alto, ma quella di un principio che controlla ogni cosa dall'interno:
Colui che, risiedendo in tutti gli esseri, da tutti
gli esseri è diverso, lui che tutti gli esseri non conoscono,
per il quale tutti gli esseri sono corpo,
lui che governa dall'interno tutti gli esseri,
questi è il tuo atman, l'intimo reggitore, l'immortale.
(Brhad-aranyaka-upanisad)
Dai prossimi capitoli risulterà chiaro che i principi fondamentali della concezione orientale del mondo sono gli stessi che ritroviamo nella visione del mondo che sta emergendo dalla fisica moderna. Lo scopo che mi propongo con queste pagine è di far capire come il pensiero orientale e, più generalmente, il pensiero mistico forniscano alle teorie della scienza contemporanea un importante e inerente riferimento filosofico: una concezione del mondo nella quale le scoperte scientifiche dell'uomo possono trovarsi in perfetta armonia con le sue aspirazioni spirituali e la sua fede religiosa. I due temi fondamentali di questa concezione sono l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni e la natura intrinsecamente dinamica dell'universo. Quanto più profondamente penetriamo nel mondo submicroscopico, tanto più ci rendiamo conto che il fisico moderno, parimenti al mistico orientale, è giunto a considerare il mondo come un insieme di componenti inseparabili, interagenti e in moto continuo, e che l'uomo è parte integrante di questo sistema.
La concezione del mondo organicistica, “ecologica”, delle filosofie orientali è senza dubbio una delle principali ragioni dell'immensa popolarità che esse hanno recentemente ottenuto in Occidente, specialmente tra i giovani. Nella nostra cultura occidentale, che è ancora dominata da una visione meccanicistica e frammentata del mondo, un numero crescente di persone ha visto in essa la ragione che sta alla base della diffusa insoddisfazione presente nella nostra società e molti si sono rivolti alle vie orientali di liberazione.”
Che la visione del mondo occidentale sia ancora oggi meccanicistica e frammentaria non è vero. Il meccanicismo è stato superato da tempo. Nell’ambito della biologia nessuno studioso ritiene che gli animali siano macchine e, in riferimento all’uomo, che il cervello sia un computer. Il riferimento alla distinzione di enti e di individui biologici senz’altro sussiste, ma è ormai agganciata alla teoria dei sistemi complessi che comporta flussi e relazioni dinamiche di ogni genere tra di essi.
Al misticismo di Capra è dedicato un capitolo del primo dei cinque libri di un’opera straordinaria, per quanto poco nota: L’invenzione di Dio di Gianni Grana. L’autore, singolare figura di ateo umanista, ha lasciato incompiuta l’opera (il quinto volume esiste solo sotto forma di bozze), ma, via via che la componeva, l’ha affidata al Web (http://www.ateismodigiannigrana.it/pianoopera.htm).
Il capitolo in questione è il seguente:
“L’immaginario "Tao della fisica": abbraccio mistico fra religioni orientali e fisica sperimentale di Occidente
Una schiera d’intellettuali di livelli promiscui si è spinta molto oltre nella "scoperta" e nella "dimostrazione" della superiorità e perfino "attualità" delle religioni mistiche orientali, oggi, nel confronto con la cultura moderna occidentale, e addirittura con la fisica sperimentale più avanzata, la micro-fisica subatomica. Chi più ha osato in questo senso è uno scienziato statunitense, Fritjof Capra, un fisico specializzato proprio nel campo delle alte energie, uno che se ne intende e che ha creduto di poterne trarre le più ardite conseguenze non solo teoriche, di teoria della scienza, ma più generalmente filosofico-religiose.
Il suo limite evidente – lo dichiaro sùbito – a me pare sia nella non rara "duplicità" (dovrebbe dirsi "doppiezza"), apparentemente inconciliabile, che il fisico riscontra nel proprio vissuto, fra l’esercizio disciplinare quotidiano, di fisico teorico e sperimentale ancorato comunque alla teoria scientifica e alla "sperimentalità", per di più tecnologicamente molto complessa, e una superabile e finanche compiaciuta vocazione mistica.
In un suo ottimo libro intitolato Il Tao della fisica (1978, tr. it. Adelphi 1989, 1996), Capra appare impegnato a risolvere teoricamente questo virtuale conflitto, a partire da personali confesse e piuttosto epidermiche sensazioni, "in riva all’oceano", di "unione" o almeno "partecipazione" – mistica appunto – coi "ritmi universali" di "una gigantesca danza cosmica". La sua mistica di riferimento è appunto quella antica del grande Oriente, e con particolare attrazione il tao-buddhismo mahayana cinese detto Zen (Chan, meditazione), in cui insistentemente crede di cogliere le straordinarie intuizioni e percezioni paniche – per una "illuminazione" mistica elevata a "conoscenza superiore" – che la fisica quantistica nel nostro secolo avrebbe convalidato sperimentalmente.
L’accostamento comparativo non è in sé arbitrario, è anzi altamente "illuminante" per la difficile comprensione sia del linguaggio teorico sofisticato, sia della logica evertita inerente ai processi sperimentali della fisica subatomica novecentesca. La condizione di "comparabilità" è che si svolga sempre sul piano teorico, del pensiero filosofico-mistico antico e della filosofia (teoria) della scienza moderna, senza mai travalicare nella irrazionalità magico-illusionistica della concreta esperienza mistica, millantata come "conoscenza superiore". Livelli "conoscitivi" estremamente sfuggenti e psico-mentalmente "anomali", che dovrebbero essere estranei all’interesse del fisico filosofante, e invece sono al centro della sua comparazione, viziandola e rischiando continuamente d’inficiarla, con salti logici spericolati per carenza di senso storico e epistemologico.
Si spinge perfino a una estensione disinvolta alla esperienza mistica in generale di ogni tempo e spazio, a cui fornisce così una giustificazione e un fondamento anche (pseudo)"scientifico" insperato, e ne garantisce perciò una priorità "conoscitiva" assurda, da parte di uno scienziato occidentale sia pure enchanté della mistica orientale, purtroppo con guide in evidenza come Krishnamurti, Akbar Khan, Castaneda, Liu Hsiu Ch’i ecc.
L’ottimo libro ha il grande merito di sintetizzare e spiegare con rara chiarezza concettuale gli ardui temi cruciali della "rivoluzione" microfisica, legata alla meccanica quantistica di Planck e alle teorie della relatività einsteiniane, ai princìpi d’indeterminazione di Heisenberg e di complementarità di Bohr, traendone conseguenze teoriche generali di notevole significato innovativo nella cultura occidentale. E’ pure suo merito la interpretazione comunque chiarificante, nella correlazione scientifica moderna, anche a prezzo di forzature accomodanti, basate su divulgazioni attuali di dottrine filosofico-mistiche antiche di difficile comprensione per l’intelligenza critica occidentale, spesso oscurata da traduttori e storici poco "illuminati".
"I concetti della fisica moderna presentano spesso sorprendenti corrispondenze con le idee espresse nelle filosofie religiose dell’Estremo Oriente" (p. 18): induismo taoismo buddhismo riassunti in intuizioni centrali che pare fin troppo li assimilino, nelle loro notevoli diversità di origine e di sviluppo storico e filosofico pluri-secolare. La tesi, plausibile in linea generale, ma sùbito spinta al limite per l’apparente incongruità del confronto, secondo i nostri parametri ereditati, induce in forte sospetto di indiscriminazione, "mistica" appunto, nel momento in cui l’autore aggiunge, dilatando a dismisura il paradosso, che "la fisica moderna ci porta a una concezione del mondo che è molto simile a quella dei mistici di tutti i tempi e di tutte le tradizioni" (p. 19).
E infatti già nei richiami casuali, si limita al greco Eraclito, al sufista Ibn A-rabi e – per suggerimento del fanta-narratore Castaneda – perfino allo stregone yaqui (messicano) Don Juan, con la conclusione arrischiata e per quanto mi riguarda senz’altro da rigettare, come "scandalosa" da parte di uno "scienziato", che "la fisica ci porta oggi a una concezione del mondo che è sostanzialmente mistica" (p. 20). Al solito, per mancanza e perfino per rifiuto mistico di una prospettiva storico-epistemologica, non si sofferma e non si interroga quindi sulla "arcaicità" concettuale e linguistica di queste "fonti", a cui attinge con enorme fede come a depositi di verità universali: con la solita fede presupposta nella purezza della "sapienza" antica, che uno scienziato dovrebbe sapere ricondurre a una genesi biologica e culturale, e la correlativa sfiducia ottusa nel degenerato sapere moderno.
Che lo riaffermino ancora oggi ecclesiastici militanti, a sostegno della loro chiesa, o intellettuali di opzione reazionaria ("tradizionale") al seguito di Guénon e di Evola, mistici e occultisti di successo, illusionisti del para-normale ecc., è già duro da subirsi come dato di subcultura massmediale; che lo sostenga così irriflessivamente, per suoi problemi personali di accordo fra intime contraddizioni, un fisico americano delle "alte energie", alle prese con acceleratori nucleari e con calcoli ultra-complessi, è intollerabilmente patetico e deprimente.
Capra gioisce perché la fisica attuale "ritorna alle sue origini", rileggendo mentalmente lo stesso antico pensiero greco come pensiero mistico, a cominciare dai "naturalisti" della scuola jonica, i "fisici" che erano anche matematici e astronomi, fino all’"oscuro" Eraclito che – per probabile influsso "orientale" – aveva intuito l’inarrestabile divenire del mondo in trasformazione, nella opposizione perenne e nell’unità dei contrari (logos), ordine fuoco e anima universale, d’ispirazione che oggi diremmo panteistica, "orientale" appunto.
Concezione dinamica a cui si contrapponeva Parmenide, con la sua concezione dell’unità statica dell’Essere, ingenerato indivisibile immutabile e immobile, come un dio sovrastante il mondo, all’origine delle rigide ontologie teistiche occidentali. Capra vi lega pure, con approssimazione, "una tendenza di pensiero che alla fine condusse alla separazione tra spirito e materia e a un dualismo che divenne caratteristico della filosofia occidentale" (pp. 20-21). E la trova anche negli atomisti che pure, fra i filosofi della natura greci, furono i geniali anticipatori del futuro atomismo e materialismo scientifico (vi è stato, come ho detto, un atomismo filosofico indiano, per es. nel sistema Vaisesika, ma è difficile dire quale preceda storicamente). In ogni caso a Capra non interessano proprio per la loro concezione pluralistica e dinamica della materia corporea, degli atomi costituenti infiniti generanti infiniti mondi ecc. Lui, come un qualunque mediocre filosofo odierno, vi trova l’origine di una grigia visione meccanicistica che perdurerà fino a Newton e oltre, e che sarà travolta solo dalla fisica elettro-magnetica ottocentesca e da quella subatomica del 900: ma una tale durata teorica – rigorosamente fondata all’interno del sistema – dovrebbe indurre a maggiore rispetto se non consensuale almeno "storico".
Non risulta affatto in Democrito un dualismo di materia e spirito, risulta al contrario una materializzazione dell’anima atomizzata, distinta per sottigliezza ma non incorporea: e proprio questo è inaccettabile per il misticismo e monismo immaterialistico di Capra. Che pure con fondamento segnala l’attenzione esclusiva nella cultura occidentale per l’anima umana e i problemi etici, facendone però carico a torto all’umanesimo naturalistico e laico greco, mentre l’addebito dovrebbe farsi casomai al nefasto predominio cristiano che, oltre le sue stesse fonti ellenistiche, neoplatoniche e gnostiche, ha teologicamente esasperato dalle origini un divorzio celestiale dalla corporeità e dal "mondo", proporzionale all’interesse politico delle gerarchie per il governo mondano.
Non è il "modello aristotelico dell’universo", che era quello del mondo fisico increato e in movimento – Capra sembra ignorarlo (p. 23) – in cui la stessa psicologia era parte della biologia, ma è la cristiana alienazione radicale dalla svilita "natura" corporea, che ha pesato sulla cultura occidentale clericalizzata, inibendo o emarginando in qualche convento la ricerca naturale, si può dire fino all’età moderna inoltrata. E’ qui nella inamovibile dogmatica cristiana la vera radice "sacra", non semplicemente di un dualismo anima-corpo, in cui entrambi i termini abbiano pari dignità teorica, ma di una opposizione egemonica dello "Spirito" plenario retoricamente santificato, addirittura come Terza Persona della mostruosa divinità trinitaria, sanzionata col "simbolo niceno-costantinopolitano".
Era tutta e solo cristiana la "immagine di un Dio monarca che dall’alto governava il mondo imponendo a caso la sua legge divina" (Capra, p. 24). Ne fu condizionato e inibito anche il dualismo cartesiano di coscienza (mente cogitante) e materia estesa, che ancora riconosceva la priorità "divina" dell’anima universale, in un’opera (Le monde) rimasta inedita per sua scelta dopo la condanna galileiana. Restò a lungo ferma l’opposizione fra soggetto e oggetto, fra intelletto e realtà esterna, (ma non certo infruttuosamente se si considera lo sviluppo storico dell’empirismo che Capra sembra avere abrogato), la critica liberale all’innatismo cartesiano, che coincide con una destituzione anti-teistica, da Locke a Hume, e una predicazione di "tolleranza" religiosa, nell’ambito – dietro lo schermo – di una analisi dell’intelletto umano e della "natura umana".
D’altra parte, proprio da tale studio assiduo della res cogitans, dell’intelligenza umana, poi con Kant delle categorie o forme apriori di una "critica della ragione", si determina un indirizzo logico-epistemologico che mette in valore l’attività costruttiva della mente umana nel processo conoscitivo, quindi la inevitabile soggettività e relatività logico-linguistica del conoscere, senza aspettare le risultanze della fisica teorica novecentesca, e anzi determinandone gli esiti teorici celebrati con tanta insistenza da Capra, quasi fossero un prodotto autonomo di riflessione, imposta dai risultati sperimentali. E’ dunque una enorme sciocchezza attribuire all’intelligenza critica e distintiva occidentale nell’Europa cristiana, messa a così dura e durevole prova da tanti secoli di controllo inquisitorio ecclesiastico, la "frammentazione interna dell’uomo", la separazione degli oggetti naturali, il vederli cioè orribilmente come oggetti distinti dal contesto, da cui originerebbe "la causa fondamentale di tutte le crisi attuali, sociali ecologiche e culturali" (p. 25).
Una enormità che nasce da iterazione retorica di luoghi comuni correnti, ma più da obnubilazione mistica, dalla pretesa di una priorità di valore dell’"unità" astratta o immaginale, di una intuizione panica del mondo che, nella sua immediatezza percettiva, è propria delle "illuminazioni" mistiche, ma nulla può avere in comune con la "scienza" professata dal fisico teorico-sperimentale Capra, che in quella cultura della ragione critica è radicato per genesi formativa e per euristica disciplinare.
L’apologia della mistica orientale, che subito si esprime, punta su una concezione "organi-cistica" della "realtà ultima", retorema logoro delle teologie che è un insensato teorico-scientifico, concezione opposta a quella meccanicistica occidentale, da tempo insidiata e superata, ma comunque tuttora valida nell’ambito fenomenico proprio. "Per il mistico orientale, tutte le cose e tutti gli eventi percepiti dai sensi sono interconnessi, collegati tra loro, e sono soltanto differenti aspetti o manifestazione della stessa realtà ultima" (ivi). E’ evidente la pericolosa confusione di piani diversi, a cui porta l’"unificazione" generica di dottrine antiche, originariamente diverse fra loro e di sviluppi ulteriori diversificati, attraverso dispute e conflitti, in aree geografiche e socio-culturali anche remote.
Chi frequenta la storia del pensiero filosofico e religioso indiano, cinese, giapponese, tibetano, nella sua estrema varietà di "sistemi", d’indirizzi ascetici e mistici ma anche "naturalistici" e "materialistici", meno fortunati perché in genere esprimono culture di contrasto alle fantasie "idealistiche" e "spiritualistiche" prevalenti, ma non per questo meno importanti, non può che avvertire il nonsenso di una espressione sommaria come "la concezione orientale del mondo", superficialmente adottata da Capra, i cui "principi fondamentali" si ritroverebbero "nella visione del mondo che sta emergendo dalla fisica moderna". Altra espressione generica - questa - che assimila gli esiti – irrisolti o comunque provvisori – di dispute teoriche sempre aperte, non riducibili ai due "temi fondamentali" su cui con esclusività insiste Capra: "l’unità e l’interdipendenza di tutti i fenomeni e la natura intrinsecamente dinamica dell’uni-verso" (p. 27).
Ma queste idee "organicistiche" in polemica anti-meccanicistica, anti-materialistica ecc., erano già state sostenute cinquantanni prima dal filosofo matematico inglese A.N.Whitehead, che rivendicava per la sua filosofia della natura, di un universo visto come processo dinamico di eventi, la denominazione di "organicismo”, che derivava a sua volta dalla monadologia di Leibniz. Organicista era anche Schelling, il più mistico degli idealisti romantici tedeschi, intuizionista irrazionale era Bergson, che "introdusse nella filosofia la concezione organica della scienza fisiologica" (Whitehead, La scienza e il mondo moderno, 1925, tr. it. Bompiani 1945, p. 173).e che, negando il "tempo spazializzato" dei fisici, risolveva il dualismo materia-spirito, oltre lo "slancio vitale" della natura, nella superiorità della coscienza.
Era Whitehead a ritenere che sia "possibile arrivare a una concezione organica del mondo se noi partiamo dalle nozioni fondamentali della fisica moderna, invece di partire come prima dalla psicologia e dalla fisiologia" (p.178). Diceva pure di essere arrivato, attraverso i suoi studi di matematica e fisica, alla sua concezione unitaria della realtà universale, come processo di eventi in correlazione reciproca. La sua visione finalistica doveva ipotizzare un filosofico (metafisico) "Dio della realtà concreta", come ancora più oscura "base della razionalità" (pp. 201-6); ma era per sua cultura estraneo alle tradizioni mistiche, d’Oriente e d’Occidente. Credeva nella funzione critica e costruttiva della ragione speculativa (La funzione della ragione, tr. it. La Nuova Italia 1958), nell’evoluzione naturale dell’umanità (pp. 65ss.), nella storia della civiltà (pp. 40ss.), nella costruzione delle scienze e delle cosmologie filosofiche (pp. 69ss).
Whitehead rivendicava alla filosofia il compito di fornire una sistemazione e spiegazione teorica delle risultanze scientifiche, attraverso la critica degli schemi operativi degli scienziati: una pretesa di tutela e magistero che io ho più volte censurato nei filosofi contemporanei, per l’incompetenza abituale dei filosofi rispetto agli esiti disciplinari e alla tecnicità elaborata della ricerca scientifica, ma è questo uno dei casi in cui tale competenza a più livelli non può essere negata.
Ho voluto insistere su Whitehead, non perché io riconosca alla sua "visione del mondo" una particolare novità speculativa, ma proprio in quanto erede di una lunga tradizione di pensiero occidentale, che può risalire in approcci molteplici fino alle grandi stagioni del pensiero ellenico, da Pitagora a Platone, a Aristotele, dagli ionici agli epicurei, agli stoici e ai neoplatonici, complessivamente all’insegna duplice della physis e del logos, che fu insieme parola e discorso organizzante, scelta e relazione, analisi e sintesi, ratio distintiva e ratio o legge universale.
Il laudato "organicismo", in accezioni variabili, attraversa l’intera storia del "pensiero occidentale", non menomato certo, ma anzi continuamente ridefinito, dal glorioso logos umano che, inteso come linguaggio e ragione critica, è stato sempre lo strumento fondamentale della ricerca filosofica-scientifica, insidiato sempre dal mysterium e dalla mistica, dalle oscure pretese di "illuminazione" meta-razionale; e finalmente vanificato o reso impotente dalla marea retorico-mistica "orientale", neoplatonica e gnostica cristiana, dalla mistificazione "conoscitiva" del Cristo-Logos, assurto a "Verbo divino" e cioè teologicamente sacralizzato, ricrocifisso in odore e luce di santità cristologica.
Potrei pure citare fra i suoi "precedenti" ignorati Oliver Lodge, matematico e fisico inglese contemporaneo di Whitehead, autore fra l’altro negli anni 20-30 di libri come Barriere illusorie fra materia e spirito, che è un’estensione del titolo originale Phantom Walls (tr. it. Laterza 1936), e Sopravvivenza dell’uomo (tr. it. Laterza 1933), problema che in tutti e due i libri sembrava come ossessionarlo, e che riteneva fornito di "prove", sempre su base razionale e senza appelli mistici.
La riproposizione mistica "orientale" di Capra, dunque, è oltremodo incongrua, in relazione alle più serie riflessioni ma specialmente alle acquisizioni scientifiche dell’ultimo secolo, nella fisica atomica e nella teoria fisico-matematica. Uno sforzo di conciliare visioni antitetiche fra natura e ultra-natura, che non si risolve in una sintesi chiarificante per "illuminazione", ma ha sempre il costo più elevato del sacrificio della ragione umana, che le religioni ci hanno abituato a subordinare all’irragione mistificante della fede, sull’altare del "sacro" e dei suoi "separati" celebranti.
La personale "scoperta" di Capra, intuitiva e mistica, è pericolosa perché non esita a svalutare gravemente lo stesso lavoro scientifico, iterando i più triti argomenti anti-scientisti, profusi in tutto il secolo da teologi e filosofi e teosofi in più che sospetta sintonia, degradando beffardamente e quasi ridicolizzando i risultati di una lunga ricerca, di una faticosa e dispendiosa sperimentalità, assimilati alle approssimazioni illusionistiche e ai sogni visionari, alle folgorazioni istantanee della più remota mistica universale.
In "Misticismo e logica", uno dei suoi fortunati essais e articoli divulgativi, che Bertrand Russel ha pubblicato nella stampa anglo-americana e poi raccolti in volumi e volumetti diffusi nelle collane economiche di tutto il mondo, trovo sia insoddisfacente la tesi riduttiva, secondo cui mistica e scienza risponderebbero e due "impulsi" universali coesistenti e in conflitto in tutti gli uomini. Eraclito e Platone naturalmente sono subito assunti come modelli e prototipi di tale accordo discorde di misticismo e senso scientifico, E Parmenide è indicato come esempio e prototipo del "misticismo logico", che "domina la concezione di tutti i grandi metafisici mistici dai suoi tempi fino a Hegel e ai suoi discepoli moderni" (Misticismo logico e altri saggi, tr. it. Longanesi 1970, p.8). Ma qui m’interessa il repertorio dei "convincimenti" con cui Russel caratterizza le "filosofie mistiche" di ogni epoca e luogo, incluse le metafisiche filosofiche fino all’identificazione.
1) Anzitutto "la fede nell’intuito [intuizione] contrapposto alla conoscenza analitica deduttiva", basata sui "sensi" e sulla ragione; la fede quindi in una conoscenza "rivelata", in una realtà diversa da quella apparente, e in sostanza "superiore", cioè non soltanto luminosa per effetto di adorazione e, come dice. Russel, paragonabile ai sogni dei poeti e degli innamorati, ma soprannaturale e "divina", promanante dalle potenze superiori oggetto dell’adorazione. Russel farà poi l’esempio dell’intuizionismo mistico di Bergson, col supposto primato dell’intuizione come facoltà rivelatrice, che attinge l’assoluto, "unico arbitro della verità metafisica, contrapposta all’intelletto, come "facoltà puramente pratica", a cui è riservata una mera conoscenza del relativo, con un rovesciamento paradossale caro ai mistici (pp. 13ss.).
2) "La fede nell’unità, il rifiuto di ammettere l’opposizione o la divisione", su cui si fondano i vari panteismi religiosi e i vari monismi filosofici, da Parmenide a Hegel ecc.; e cita i paradossi di Eraclito, realmente simili a quelli taoisti attribuiti a Lao-Tzu: "il bene e il male sono una cosa sola", "la strada che sale e la strada che scende sono un’unica e identica cosa", "entriamo e non entriamo negli stessi fiumi; siamo e non siamo" ecc. Paradossi apparenti che pongono in evidenza suggestivamente la relatività e reversibilità delle antitesi, nell’unità e nel flusso inarrestabile del reale.
3) "La negazione della realtà del tempo", l’irrealtà metafisica del tempo che è negazione della storia, come appare in Parmenide, in Spinoza e in Hegel, secondo le solite estensioni millenarie di cui anche Russel storico sui generis abusa. Russel, che mi sembra a tratti predisposto anche lui a simpatie mistiche ("Uno degli aspetti più seducenti dell’illuminazione mistica…"), tende a ridurre a mistica, se non l’evoluzionismo biologico darwiniano, le filosofie evoluzionistiche del progresso permanente e del flusso continuo, come quella bergsoniana; poi senza chiarimenti fa pure il nome di Nietzsche (pp. 22ss.), che era acerrimo critico della razionalità della decadence occidentale, e che forse meglio avrebbe rappresentato la soppressione del tempo nell’irrazionalità mistica "orientale" dell’eterno ritorno dell’uguale.
4) "La convinzione che tutto il male sia mera apparenza, un’illusione prodotta dalle divisioni e dalle contrapposizioni dell’intelletto analitico", come a volte in Hegel e Spinoza ancora (p.11): in questo caso non a torto, perché l’apprezzamento etico ha un’enorme relatività, ma forse qui poteva servire meglio l’esempio dell’ottimismo creazionale di Leibniz, che con irresponsabilità teistica attribuiva al suo Dio creatore provvidente il governo del migliore dei mondi possibili. E’ l’ottimismo obbligato della fede, animata dal sogno dell’amore e del bene universali come realtà di "visione" (pp. 27ss.).
Ora, a me pare che queste caratteristiche psico-mistiche si ritrovino tutte nella ideo-filosofia di Fritjop Capra, notevolmente caricate nel confronto elettivo, che è una costante dialettica mai tralasciata dall’inizio alla fine, con gli antichi testi mistici orientali: confronto che dovrebbe "migliorare l’immagine della scienza mostrando che esiste una sostanziale armonia tra lo spirito della saggezza orientale e la scienza occidentale." (p. 28). La sapienza mistica immaginosa delle Upanishad ("Dal non essere fammi andare all’essere! Dalle tenebre fammi andare alla luce! Dalla morte fammi andare all’immortalità!"), dell’I ching, del taoista Chung-Tzu, del buddhismo zen propagherebbe la sua "armonia" fino al XX secolo, tanto da riscattare la malfamata scienza sperimentale moderna nel suo abbraccio di luce. Gli antichi nirvàna troverebbero una legittimazione "scientifica" attuale, compensando la scienza fisica di un’assimilazione mistica inattesa e indesiderata, nella via (o Tao) della eterna beatitudine.
L’assurda comparazione, su cui è indispensabile che io esprima una più estesa confutazione, proprio perché è uno scienziato a sostenerlo arrischiatamente e pericolosamente nel dibattito corrente, è spinta oltre ogni limite senza né freno né controllo ma con cognizione diretta, fino al tentativo di assimilazione psico-mentale e quasi procedurale della conoscenza scientifica e della meditazione mistica.
Capra non cita il saggio di Russel di cui ho detto, ma un’altra delle sue amplificazioni generali dalla Storia della filosofia occidentale (tr. it. Longanesi 1953, p.82), per differenziare le diverse tradizioni mistiche occidentali e orientali: "La combinazione di matematica e teologia, che cominciò con Pitagora, caratterizzò la filosofia religiosa in Grecia, nel Medioevo e nell’era moderna fino a Kant. L’orfismo precedente a Pitagora era analogo alle misteriose religioni asiatiche. Ma in Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Spinoza e Leibniz vi è un intimo intrecciarsi di religione e ragionamento, di aspirazione morale e di ammirazione logica per ciò che è eterno, il quale viene da Pitagora e distingue la teologia intellettualizzata dell’Europa dal più diretto misticismo asiatico".
E’ bene ricordare che a Pitagora, che non lasciò testi scritti, si attribuirono dall’antichità viaggi e frequentazioni se non altro mediorientali, egizio-babilonesi, e che i greci seppero ricavare dal mythos il logos: la sommaria caratterizzazione filosofico-religiosa delle due tradizioni è quindi fondata, se è vero che la "struttura altamente differenziata e ben definita" della matematica appare inconciliabile con la "realtà" quale risulta dall’esperienza dei mistici, "completamente indeterminata e indifferenziata" (Capra, p. 37). Qui anzi risalta sùbito come la "struttura" definita e determinata – attribuita all’astrazione matematica – sia opposta alla "realtà" esperibile nell’indeterminatezza e indistinzione dell’esperienza mistica, giacché quella definizione e distinzione concettuale è un valore aggiunto della ragione. Cioè sarebbe proprio della mente umana non della "realtà": che sarebbe così un possesso esclusivo, per intuizione o rivelazione personale, della "illuminazione" mistica.
Ma Capra si adopera tanto per accostare scienza e mistica da ingenerare una gioiosa confusione, o meglio riflettendovi la propria, per es. trovando una ovvia e spiccata "componente intuitiva" nel lavoro sperimentale scientifico, e una altrettanto evidente "componente razionale", variabile da un indirizzo all’altro, nelle filosofie mistiche orientali, spesso realmente sofisticate nell’esegesi testuale, di un’esasperata dialettica scolastica, fino all’ermetismo oscurativo (Tucci, p. 19ss.). Tanto che Tucci definisce quella indiana in blocco una mistica intellettualistica, né può sorprendere giacché si riferisce ex professo alla riflessione teo-filosofica sull’esperienza mistica esemplare dei "Maestri", che fu al contrario – dato essenziale caratterizzante più o meno tutta la mistica asiatica – un’esperienza di eletti per grazia e folgorazione divina.
Ora Capra, che ha come riferimento preferenziale la più "empirica" mistica cinese, in genere si arresta alla suggestione immediata delle parole proprie e altrui, delle sue fonti testuali e storiche, per comporre analogie e similarità fragili o folli, come quella che assimila l’"empiria" (cioè l’effettiva esperienza!) della mistica orientale alla conoscenza scientifica, "fermamente ancorata all’esperimento"!. Empiria, esperienza, esperimento, tutto si confonde per pura assonanza nell’attitudine mistica indistintiva del fisico, che va oltre nella "analogia" accostando incredibilmente per "affinità" alla osservazione scientifica la "visione diretta" dei mistici visionari, "che sconfina dall’ambito dell’intelletto e che si raggiunge guardando più che pensando, esplorando all’interno di se stessi, mediante l’osservazione". Capito?
L’"osservazione" sperimentale "oggettiva" e misurabile, oramai largamente tecnologica nei grandi laboratori scientifici, sarebbe "analoga" alla meditazione introspettiva e allucinatoria dei santoni, per di più definita "metaforica" perché "non sensoriale"! Accezioni remote se non antitetiche sono assimilate al punto di asserire, ancora con aprioristica confusione di piani diversi, che "la fase sperimentale della ricerca scientifica sembra corrispondere alla visione diretta del mistico orientale, e le teorie e i modelli scientifici corrispondono ai vari modi in cui questa visione viene interpretata" (p.41). Si è indotti a chiedersi se Capra ha mai svolto attività sperimentale, e anche se non sia pericoloso che un fisico sperimentale affronti la sua prassi professionale con tale mentalità suggestiva e allucinatoria!
Questa qui riassunta è la tesi centrale del libro, dal titolo eloquente Il Tao della fisica, nel quale l’autore ammette la natura molto diversa dei "modi di osservazione" scientifico e mistico, e anzi utilmente la chiarisce marcando il divario inaccostabile fra tali esperienze, ma per concludere dominato dal suo apriorismo confusivo che "un esame più approfondito mostra tuttavia che le differenze tra i due tipi di osservazione consistono soltanto nel modo in cui esse affrontano il problema e non nella loro attendibilità o nella loro complessità" (p.42)!
Si capirà poi la consistenza di tali affermazioni che, pronunciate con disinvoltura da uno scienziato nucleare, sgomentano più che sconcertare, per la confusione di ruoli e di compiti che autorizzano, assumendo procedimenti "analogici" lungamente tradizionali, come classici "metodi" di santa milizia assimilativa, a opera delle istituzioni clericali e "laiche" cristiane di ogni confessione. Sentite le straordinarie somiglianze e prove decisive di "affinità" procedurale trovate da Capra: per fare esperimenti nucleari ci vogliono tanti anni di studio – per fare esperienze mistiche ci vogliono "molti anni di esercizio" – ma anche per fare il giudice o l’avvocato, il professore di lettere o il critico letterario e infiniti altri mestieri con lauree, per non dire delle fatiche sportive ecc. L’esperimento fisico deve essere notoriamente ripetibile, dall’operatore e da ogni altro addetto competente, per avere valore di "oggettività" sperimentale, e in questo è l’esatta antitesi di un’esperienza personale e irrazionale come quella mistica, che il soggetto – non altri – può ripetere, anzi tentare di ripetere senza mai poterla realmente ripetere e tanto meno ripeterla identica, proprio per il suo carattere improgrammabile di avventura "interiore". Si consideri solo che il fine ultimo tanto bramato della meditazione è l’"illuminazione", non certo ripetibile da altri e spesso irripetibile per intensità ecc. dallo stesso soggetto, quale esperienza elitaria e rara.
Ugualmente inefficace per ovvietà scontata la difesa dell’intuizione, che è facoltà conoscitiva rapida disponibile a tutti, e supporto essenziale per ogni attività, pratica e anche per ogni ricerca teoretica la più controllata per rigore razionale, come nelle più complesse operazioni sperimentali, che implicano intuizioni teoriche e calcoli, prassi tecniche anche manuali, scelte fra opzioni e ipotesi progettuali diverse ecc. Per lo studio del misticismo interessano qui, non certo gli accenni "analogici" ai lampeggiamenti mentali, ai ricordi improvvisi o alla "arguzia" dei mistici orientali, quanto la caratterizzazione psico-mentale del mistico. Il quale non sarebbe – come a me pare certo – preda di "visioni" personali, per stimoli ereditari e ambientali, fisiologici e psichiatrici, attraverso un lungo esercizio ascetico di astrazione, ma attingerebbe uno "stato di consapevolezza" puramente intuitivo, nel "silenzio della mente razionale" ossia della fastidiosa "mente pensante"; e ciò "consente di percepire la realtà in maniera immediata, non concettuale", sottintendendo che sia un grado superiore non solo d’intuizione illuminante ma di "coscienza" (p.44).
Si parla al solito di "realtà", di "coscienza" imprecisata, giocando sui termini per significazioni distanti, sicché per il fisico è realtà allo stesso titolo la "realtà spirituale", mentre non parla mai di "inconscio"! Capra si entusiasma scrivendone – mi auguro non altrettanto in laboratorio – dei prodigi di questo "stato di straordinaria consapevolezza", che si consegue in una beata assenza di pensiero, in un paradossale vuoto della mente che tuttavia sarebbe altamente "consapevole": di che mai, di quale "coscienza" se non immaginaria, presupposta dalla "fede" a-sensoriale e a-razionale in una "realtà ultima", extra-corporea extra-mondana extra-mentale extra-vitale, e che tuttavia sarebbe nelle mistiche orientali l’interna "natura della realtà", inesplicatamente.
Ma di che consiste tale superiore "coscienza" lucente-oscura fatta di "quiete", che nella "meditazione profonda" percepisce i suoni, le impressioni visive e gli altri stimoli ambientali, "ma non ne trattiene le immagini sensoriali"? Per spiegarlo Capra ricorre ancora a una "analogia", suggerita da un maestro zen attuale, con "lo stato mentale di chi si trova di fronte alla morte, non alla morte naturale imminente, ma a quella possibile in un duello alla spada – come si dice – all’ultimo sangue. Tale ipercoscienza sarebbe dunque tutt’altro che uno stato di equilibrio e di "quiete" serenante, sarebbe al contrario una tensione estrema, di concentrazione e vigilanza spasmodica senza distrazioni, come in istanti estremi in cui è in gioco la vita stessa. E non si tratta di una analogia più o meno azzeccata o stridente, perché questa è proprio la mistica del guerriero ovvero del samurai.
E’ una relazione sorprendente questa dell’etica e mistica samurai – il bushido ossia "la via del guerriero" appunto – nel buddhismo zen, che è tutta da approfondire, nei suoi riti e nelle sue virtù cavalleresche, ma pure nelle sue doverose pratiche del duello ritualizzato e non meno sanguinoso, del suicidio (karakiri) e della vendetta (hataki-uchi). Sarebbe finalmente questo il modello elettivo delle mistiche orientali, in così stridente contrasto con la strenua ascesi "spirituale", tendente al "riposo" e alla "calma assoluta", al vuoto come "bene supremo", alla desiata "illuminazione" per la conoscenza della "Legge Eterna" (Il libro del Tao, XV, in Lin Yutang, La saggezza della Cina, p. 31). Capra, evocando il bushido, celebra l’arte che "raggiunge la più alta perfezione" (p. 47), rimuovendo il particolare marginale che tale "perfezione", raggiunta con "lenti e ritmici movimenti yogici", si realizza e si esaurisce nella soppressione fisica dell’antagonista o nella propria, comunque nell’ascesi mortale del sangue., la cui evidenza "analogica" con la fisica sperimentale è abbagliante per rivelazione.
In tale confusione di piani d’esperienza, s’instaurano le "analogie" esterne con la scienza fisica, di una assoluta inevidenza per estraneità insuperabile e sospetta di calcolata mistificazione. "Il misticismo orientale si basa sulla intuizione diretta nella natura della realtà, e la fisica si basa sull’osservazione dei fenomeni naturali negli esperimenti scientifici. In entrambi i campi, le osservazioni vengono in seguito interpretate e l'interpretazione molto spesso viene comunicata con parole. Poiché le parole sono sempre una mappa astratta e approssimativa della realtà, le interpretazioni verbali di un esperimento scientifico o di una visione mistica sono necessariamente imprecise e incomplete" (p. 47).
L’ineffabilità pretesa dai mistici di ogni tempo, in relazione alle loro esperienze di "visioni" inesprimibili, è indistinta e appunto confusa dal fisico americano con la difficoltà di interpretare teoricamente (ne trattava ben più problematicamente e sottilmente Heisenberg in Fisica e filosofia, tr. it. Il Saggiatore 1982, pp. 196ss.), di tradurre quindi in parole e linguaggio d’uso corrente, poi di divulgare discorsivamente, le risultanze tecniche, i calcoli fisico-matematici ecc., relativi a sofisticati esperimenti scientifici di alta tecnologia, e di arduo formalismo algebrico, come quelli della fisica subatomica praticata dallo stesso mistico Capra.
Che qui si ostina a giocare sulle parole, enfatizzando l’approssimazione inevitabile dei calcoli fisico-matematici ecc. relativi agli esperimenti scientifici di alta fisica subatomica, limiti propri di tutte le teorie anche scientifiche, e degli stessi procedimenti logici dei fisici, costretti sempre a isolare alcuni fenomeni osservati (i più rilevanti per loro) e a costruire modelli appropriati (teorie) per descriverli, trascurando altri fenomeni ritenuti irrilevanti o sconosciuti. E con questo? Tali sono i limiti euristici che si dà e la condizione operativa dello scienziato, che procede sperimentalmente per gradi minimi, proteso alla ricerca e alla verifica di verità parziali, relative a frammenti fenomenici di realtà naturale, su cui fonda pure la costruzione di teorie e leggi, senza mai pretendere di perseguire "verità prime e ultime", che per chi pratica le scienze sperimentali sono un puro nonsenso, mistico appunto.
Capra stesso lo spiega bene, riferendosi alla meccanica di Newton, superata nel sec. XIX dalla scoperta dei fenomeni elettrici e magnetici, e poi nel 900 dalla meccanica quantistica e dalle teorie relativistiche: ciò non significa che il modello newtoniano era sbagliato, esso era e resta valido nel suo "campo" fenomenico specifico, come ogni altra teoria scientifica, ancorata alla sua provvisoria capacità descrittiva. Cosa ha in comune questa disciplina imposta con la fluttuante incertezza di esperienze mistiche del tutto soggettive e suggestive che – come riconosce Capra – trascendono l’ambito del pensiero e del linguaggio, e sono perciò incomunicabili? E non solo per la difficoltà di esprimerle e descriverle, ma per la esclusività e spesso unicità - istantanea o prolungata – di esperienze d’irrealtà sfuggenti come sogno, di alienazione totale, conseguite in stati mentali del tutto anòmali, diagnosticabili nella casistica psichiatrica dei deliri psicotici.
Assai più evidente negli effetti è l’analogia di queste "illuminazioni" psico-mentali con le esperienze poetiche e figurali "aperte" del 900, di stile appunto "orientale" come dicevo, con influssi riscontrabili nelle "avanguardie" artistiche e letterarie, dal-la "scrittura automatica" alla pittura "informale", di cui ho largamente trattato nelle mie ponderose opere critiche citate (Le avanguardie letterarie, I-II; Babele e il Silenzio, p.I). Queste con le arti è anzi la sola vera "analogia" che regga, e conferma la soggettività irripetibile di tali esperienze mistiche a-razionali, assimilabili alle esperienze soggettive, ai livelli profondi di emersione dell’inconscio, di abbandono "disinteressato" al libero flusso d’immagini "oniriche", agli automatismi verbali figurali ecc., assai noto nelle "avanguardie" novecentesche: libero flusso peraltro controllato, con un grado di vigilanza conscia che nel poeta e nell’artista non può mai venire meno.
E’ questo un campo di indagini pluri-disciplinari tutto da approfondire, ben più fruttuosamente che le "analogie" sballate con le enormi costrizioni disciplinari, tecnologiche, linguistiche delle scienze sperimentali. Piuttosto è opportuna una considerazione, proprio alla luce delle mie discussioni e indagini sulle arti di avanguardia fra 800 e 900, in coincidenza "sincronica" – come io dico – con le "rivoluzioni" epistemologiche contemporanee: che nelle arti la relazione analogica è immediata, al punto di apparire una sorta di co-ispirazione epocale. La poesia e le arti registrano inconsciamente, indeliberatamente nelle "rivoluzioni" metamorfiche, nelle decomposizioni dei linguaggi e dei significati, nel travolgimento delle convenzioni formali, le violenze emotive e la sofferta patologia delle radicali modificazioni percettive, imposte all’uomo dalle acquisizioni teoriche della nuova scienza, e dalle trasformazioni tecnologiche in atto.
Con assai maggiore verosimiglianza potrebbero riscontrarsi precise "analogie" neolinguistiche e neomorfiche, nelle innovazioni informali di poeti e artisti, coi testi e le figurazioni libere delle tradizioni mistiche orientali, come ha fatto Watts per lo Zen, e io stesso in qualche misura, col supporto di dati biografici di artisti e poeti occidentali, che a quelle tradizioni si sono espressamente rivolti. E lo hanno fatto, per interesse e curiosità tecnico-formali assai più che per simpatie mistiche, del resto legittime e non contraddittorie rispetto al proprio impegno di espressione poetica e artistica, senza per questo azzardare assurde "analogie" conoscitive, epistemiche ecc. con le più antiche dottrine mistiche d’Oriente, come fa Capra, con tipica mancanza di prospettiva storico-geografica, insignendo virtualmente quelle mistiche remote di una dubbia "avanguardia culturale", rispetto alla stessa ultra-conscia "a-vaguardia" scientifica novecentesca.
Quei nonsensi "poetici", quei paradossi alogici dei testi poetici haiku di Basho (sec. XVII), riportati da Watts perché ritenuti d’influenza zen (pp. 198ss.), e ricitati per questo da Capra (p. 51), non hanno solo l’oscurità di "arcani" oracolari, frutto di illuminazioni "spirituali, ma sono pure "arguzie" e dislocazioni sintattiche, scarti e perdite di senso calcolate proprie del linguaggio poetico di ogni tempo, e specialmente moderno fra metaforismo barocco e apoesi ermetica otto-novecentesca, spinti al limite dell’incomunicazione e dell’afasia. Non per difficoltà di esprimere l’occulto inesprimibile, ma per rinuncia o rivolta deliberate, nel rigetto di convenzioni linguistiche millenarie logore per abuso, nella ricerca illusoria e utopica della "autenticità", della energia verbale "originaria", della "prima genesi" della parola riportata alle "primitive" significazioni ecc.
Ecco semmai il possibile terreno comune di un confronto testuale, recinto nella concretezza del linguaggio, nel dominio "aperto" dell’inconscio, in cui anche la storia può essere valicata, fra la testualità mistica antica delle vie di "liberazione" psico-mentale (yoga zen ecc.) e le "liberazioni" psico-linguistiche nella poesia europea moderna più avanzata, fra gli oltranzismi asemantici di Rimbaud e Mallarmé e i flussi inconsci inarrestabili di Joyce e Emilio Villa (v. i miei capitoli specifici nell’o-pera su Villa). Che può essere pure un incontro "mistico", in un’accezione psico-immaginativa generica, ma ha anzitutto un possibile riscontro linguistico totalmente estraneo al simbolismo chiuso e alla tecnicità rigorosamente formalizzata dei sistemi linguistici nelle discipline scientifiche moderne. Un incontro beninteso sempre a grande distanza, a partire da culture e storie remote, di intenzionalità e interessi assai diversi, quale può esservi per es. fra lo scrittore impegnato nell’espressione poetica di rottura, e il maestro zen che pratica la tecnica oscurativa del koan, del "groviglio" o "glicine", tendente a nascondere la spiegazione ritenuta superflua delle verità etico-religiose "evidenti" del buddhismo (Watts, pp. 175ss.).
Assolutamente improprio è quindi l’"al di là del linguaggio" di cui parla esternamente Capra (pp. 53ss.), sul miracolo della sintonia medianica fra la fisica atomica del 900 e le antiche mistiche orientali, osservata in superficie, illusivamente, con interpretazioni pregiudicate sempre dalla tesi "illuminata" da Capra intuita in riva all’oceano. Anche del koan, su cui tanto insiste e – come vedremo – insistono in genere i divulgatori enfatici del buddhismo zen, come Suzuki, dà un’interpretazione strumentale, come di una tecnica didattica paradossale intesa a dimostrare i "limiti della logica e del ragionamento". In realtà sono dei rompicapo che mettono a dura prova gli allievi, enunciazioni dislegate e insensate, aperte – come tanta poesia (o, come io dico, "apoesi" in quanto negazione di "poesia") – alle più varie e libere interpretazioni intuitive, e può darsi che qualche allievo si senta svuotato e stupido, come dice Watts, perché si ostina a cercarvi significati logici, ma altri potrebbero esserne stimolati al contrario a risposte altrettanto "assurde" e "casuali", ugualmente plausibili come enunciazioni dotate non di soluzioni univoche (Capra, p. 58), ma di polisensi virtuali aperti.
In ogni caso è assai difficile che questo modello autorizzi il confronto "analogico" coi paradossi logici che le sperimentazioni della fisica subatomica prospettano ai fisici, nell’interpretazione teorica di fenomeni del tutto nuovi, per la costruzione di nuovi modelli in grado di spiegare e descrivere quei fenomeni. Operazioni casomai inverse di elaborazione razionale lucida, sostenuta da vive e anche audaci intuizioni "inventive".
Lo dice lo stesso Capra parlando della fisica che conosce, rivolta non certo alle sublimi "verità ultime" dello spirito, ma alla cognizione sempre più precisa della "natura intima della materia", con l’aiuto di una tecnologia estremamente "raffinata", che ha consentito di scoprire non una "realtà" immaginaria e del tutto soggettiva, come quella dei mistici, ma "uno dopo l’altro i vari strati della materia" e i suoi "mattoni elementari" (pp. 59-60). Che cosa sono questi "scoprimenti" se non gli esiti di processi complessi, ma consci e razionali, e anzi severamente critici e auto-critici nelle verifiche, sia pure di una "razionalità" la più "aperta" alle sorprese della "casualità", ai paradossi della irrazionalità concorrente, in relazione a eventi che impongono pure riforme concettuali o eversioni logiche, e quindi nuovi orizzonti epistemologici. Tutto ciò è funzionale alla nuova "razionalità" scientifica, e va opposto non agli scienziati che operando lo sanno bene, ma specialmente ai "filosofi" trascendentali del primo 900, che hanno enunciato e denunciato la "crisi delle scienze europee" (Husserl), e agli storici della scienza che nella seconda metà del secolo si sono a lungo esercitati nella Critica della ragione scientifica (tr.it. Il Saggiatore 1981).
Il caso di Capra, che pure ha ignorato – a quanto mi risulta – questo generale sommovimento anti-scientista, è però più patetico perché è a un tempo un addetto ai lavori e un mistico, e credo ben oltre l’intenzione destituisce di senso la "ragione scientifica" (magari illuso di valorizzarla!), assimilata alla irrazionalità mistica "orientale", non solo genericamente ma in ogni fase dei suoi percorsi logico-teorici.
"La nuova fisica" subatomica è tutto un approccio mistico "non sensoriale" (soprannaturale?) a una realtà paradossale, quindi "i modelli e le immagini della fisica moderna" sono del tutto "simili a quelli della filosofia orientale" (p. 61). Le teorie oltremodo discusse dei quanti e della relatività tempo-spaziale, i pure controversi princìpi d’indeterminazione e di complementarità fra fenomeni diversi, nuove formulazioni come "pacchetti di energia" e "campi magnetici", sarebbero pietre miliari di una "rivoluzione" che avrebbe distrutto ogni certezza di "realtà" scientifica, ogni pretesa di leggi deterministiche, sostituendo alla "causalità" la "probabilità", la reale coesistenza di fenomeni apparentemente contraddittori, come la rappresentazione corpuscolare e quella ondulatoria delle particelle (pp. 73ss.).
Deve premettersi – lo ricordo – la ferma convinzione della "irrealtà" di tutte le costruzioni teoriche, come interpretazioni approssimate per difetto, quindi l’effettiva impotenza conoscitiva della "ragione scientifica" che elabora astrazioni, distinzioni e metodi formali, a quanto pare esterni alla realtà naturale; e il primato dell’intuizione extra-sensoriale come cognizione "diretta" e "interna", "non intellettuale" della realtà profonda, delle "essenze" reali. Rimosso ogni diaframma differenziale nell’indistinzione intuizionale, è così aperta la grande "via" taoista della fisica, che accomuna i fisici ai mistici zen, nella percezione e anzi "rivelazione" della "unità di tutte le cose". Non si parla dell’unità astratta e "semplice" (principi unitari) perseguita più o meno da tutta la filosofia antica e moderna, ma della "interconnessione quantistica", della interrelazione e interazione universale dei fenomeni e degli eventi, dalle particelle elementari costituenti il microcosmo mobilissimo della materia/energia, agli astri rotanti e agli ammassi galattici del macrocosmo in espansione forse illimitata.
Queste parti descrittive, per competenza, sono le più interessanti del libro, e più sarebbero apprezzabili per chiarezza espositiva anche di aspetti complessi, se non fossero viziati di questo ossessivo "parallelismo" fra antico e presente, fra Oriente e Occidente finalmente conciliati nella "illuminazione" beatificante. Così temi che di per sé renderebbero improponibile ogni accostamento fra "opposti" sono tutti risolti in unità mistica, a cominciare dal superamento e dalla relatività delle opposizioni, fino alla oggettività dissolta in elaborazione soggettiva, alla negata individualità degli oggetti, anche quella psico-corporea che a ognuno risulta intuitivamente, svanita nella trama delle interazioni universali.
"A livello atomico, quindi, gli oggetti materiali solidi della fisica classica si dissolvono in distribuzioni di probabilità che non rappresentano probabilità di cose, ma piuttosto probabilità di interconnessioni. La meccanica quantistica ci costringe a vedere l’universo non come una collezione di oggetti fisici separati, bensì come una complicata rete di relazioni tra le varie parti di un tutto unificato. Questo, peraltro, è anche il tipo di esperienza che i mistici orientali hanno del mondo, e alcuni di essi hanno espresso tale esperienza con parole che sono quasi identiche a quelle usate dai fisici atomici" (p.157).
Filologia e storia essendo fuori gioco, l’accostamento verbale è facile ma puramente suggestivo, e perciò spesso inattendibile, tanto più se si ricorre per l’antico a interpreti attuali, mistici orientali occidentalizzati con molta fortuna, come Suzuki, Aurobindo e perfino Coomaraswamy, che ovviamente promuovono e favoriscono tali confusioni per il loro proselitismo applaudito.
Realmente l’antica visione cosmica orientale non può che suscitare stupore ammirante nell’occidentale cristiano odierno, di radicata millenaria tradizione tolemaica, cioè favolosamente geocentrica, uso a sentirsi ripetere che solo nei secoli XVI-XVII si sarebbe compiuta una "rivoluzione copernicana", che ribaltava la centralità della terra, restituendola al sole, sempre nella nostra parcella minima dell’universo. Può essere davvero una "rivelazione" scoprire all’interno di religioni più antiche, per lo più ateistiche, non dogmatiche e perciò tolleranti, non governate da chiese monocratiche, delle ascesi atarassiche distensive in antitesi e a compenso dello stressante "dinamismo della vita moderna", senza probabilmente capire il perverso senso mistico alienante del preteso "distacco" meta-corporeo ecc.
Ma assai più rivelatrice è la scoperta dall’antico – dalle Upanishad – di una straordinaria visione panica dell’universo, di tutti i corpi interrelati nella rete relazionale della natura, di cui sono parte attiva anche se ignara tutti gli uomini, tutti gli esseri viventi, nell’unità globale della materia universa: una materia animata estesissima, che include la "coscienza" umana e quello che si dice "spirito" o "mente", e in cui le individualità non sussistono che nella relazione.
Capra si riferisce con predilezione all’Avatamsaka-sutra, un testo che il buddhista e storico giapponese Suzuki considera "il coronamento del pensiero buddhista, del sentimento buddhista e dell’esperienza buddhista", e lo celebra con enfasi consueta in cui presto ci imbatteremo. Il nostro fisico non riferisce a che epoca risale, ma io posso dire che è un testo buddhista che sarebbe stato rivelato a Nagarjuma (sec. II), e trasmesso dalle scuole del VII-VIII secolo, lontano dalle origini, quando il buddhismo si affermò in Giappone, superando i contrasti con lo shintoismo, con sincretismo e tolleranza reciproci.
Si consideri però che l’ammirata concezione dell’unità e armonia cosmica si trova situata sempre nell’indigesta anche se suggestiva mitologia buddhista, nelle sue variazioni fantasiose e nei suoi sviluppi e adattamenti estremo orientali. Infatti, secondo quelle scuole, è il Buddha Vaicorana a costituire il "corpo cosmico" universale, di cui tutti i corpi e le realtà visibili sarebbero emanazioni o riflessi, tali che ognuna contiene tutte le altre, cioè "ogni realtà anche minima contiene tutta la realtà" (v. Di Nola, in Enciclopedia delle Religioni, vol. I, col. 1331), secondo gli abituali paradossi mistici condivisi dalle metafisiche monistiche. Occorre molta cautela dunque nell’enfatizzare, attualizzandole senza limiti, senza il necessario sostegno di strumenti filologici e storici, concezioni antiche di provenienze culturali remote, complicate da una lunga storia contrastata di esegesi e produzioni testuali inesauste.
Può essere suggestiva questa visione globale così riassunta dal Lama Anagarika Govinda, vivente nel nostro secolo, e citato da Capra: "Il Buddhista non crede in un mondo esterno indipendente o che esiste separatamente, tra le cui forze dinamiche egli può inserirsi. Il mondo esterno e il suo mondo interiore sono per lui due facce di uno stesso tessuto in cui i fili di tutte le forze, di tutti gli avvenimenti, di tutte le forme di coscienza e dei loro soggetti sono intrecciati in una inestricabile rete di relazioni infinite e reciprocamente condizionate" (p.163).
E’ un’altra citazione a conforto della tesi fissa dell’incontro con la fisica atomica occidentale, anzi – secondo la tesi di Capra – dello sforzo di avvicinamento indiretto (in laboratorio sperimentale) di questa fisica alle "visioni dirette" e totalizzanti della mistica orientale. Il fisico americano è così invasato della sua tesi da "vedere" proprio, misticamente, la sua fisica procedere irresistibilmente "verso la concezione del mondo dei mistici orientali", quasi fosse davvero univoca come le sue fonti sembrano attestargli. Ma stando all’autore della citazione ultima, per fare un esempio, chi è il Lama tibetano oggi tanto fraterno alle cronache mondane anche in Occidente, come eroe e martire del maoismo repressore, lui assertore di "tolleranza", difensore della "libertà religiosa" ecc.? Il Lama ("maestro") in particolare il Dalai-Lama, è il capo teocratico di "una comunità fortemente gerarchizzata", che "deteneva il potere supremo sul Tibet", prima dell’avvento di Mao, che peraltro gli ha lasciato il potere cosiddetto "spirituale" e religioso (Botto, p. 175), sotto il controllo del potere politico.
Ora, nella crescente modernizzazione del sub-continente cinese, queste comunità coi loro canoni rituali antichi e inamovibili sopravvivono in stridente contrasto, come in Occidente la società telematica coi riti arcaici delle chiese cattoliche. Basta pensare che vi si perpetua ancora "l’istituzione carismatica dei lama incarnati" (R. N. Prats, in Storia delle religioni Laterza, vol. IV, pp. 605-6), per la successione del Lama scomparso, la ricerca del bambino in cui "si può avere la certezza – suffragata da eventi straordinari – che si è rifugiata l’anima del Lama defunto" (Botto, ivi). Come si è visto pure in qualche film "ispirato" del buddhista Bertolucci, il piccolo malcapitato è catturato e monacato dalla sua tenera età, come "predestinato" alla successione del Lama defunto, in lui "incarnato" per "prove" sicure, assistito e sostituito da un reggente fino alla maggiore età, ma ugualmente venerato come "divino" e come un Buddha.
Tralascio il foltissimo pantheon e i vari riti su base mitologica (v. Di Nola in Enciclopedia delle Religioni, vol. I, coll. 1393ss.), e mi limito a ricordare con Botto che "tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei ‘Buddha viventi’, ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini". Sarebbero appunto i "lama reincarnati" di cui sopra, che "sono onorati quale semplice incarnazione carismatica di un altro lama, senza che l’origine del lignaggio religioso da essi istituito venga necessariamente fatta risalire alla figura di un bodhisattva o di un buddha" (Prats, p.606).
La "reincarnazione", ecco una credenza mai sfiorata da Capra, che è pure fondamentale al punto che alcuni studiosi l’hanno posta al centro della religiosità indiana (v. C. Formichi, "La religiosità indiana", in "Bylchnis", gennaio 1922), con la concezione del divenire, del samsàra, il "vortice delle nascite e delle morti che senza tregua si susseguono" (p. 4), che si accorda male in dualismo evidente con la visione mistica dell’universo cosmico. Infatti, non è proprio vero che "materia e spirito" siano fusi e intercambiabili, entrambi corporeizzati ecc., giacché per es. nella importante concezione sankya, l’"anima" (purusa) è sottilmente distinta perfino dalla psiche (buddhi), oltre che dalla natura naturante (prakrti) ovvero psico-corporea, di cui si libera con la morte del corpo, sopravvivendogli per poi reincarnarsi (Tucci, pp. 77ss., 83-84; von Glasenapp, pp. 46ss.). D’altra parte tutte le ascesi mistiche si basano su tale opposizione, e tendono a questa pretesa "liberazione" ultimativa, che dovrebbe portare ai culmini dell’indiamento.
Secondo l’interpretazione di Formichi, che cita le Upanishad, con la morte "gli elementi materiali del nostro essere individuo tornano in grembo alla materia universale, in guisa tale che l’elemento terra che era in noi si ricongiunge con la terra cosmica, l’elemento acqua con l’acqua cosmica, l’elemento cosmico col fuoco cosmico, l’elemento aria con l’aria cosmica, l’elemento etere con l’etere cosmico. Del pari la nostra anima individuale tenderebbe pure a ricongiungersi con l’anima del mondo, se la ferrea legge della causalità non la vincolasse e costringesse a migrare in un altro corpo e a tessere la fila d’una nuova esistenza" (pp. 5-6). In cui l’anima tenterebbe di compiere azioni rimaste interrotte e senza frutto nella precedente esistenza.
Per Formichi tale dottrina indiana, che fu recepita da Pitagora e poi da Platone, e accolta in certo modo anche da filosofi moderni, da F. Bacon a Lessing, a Hume e Schopenhauer, "è una delle più geniali intuizioni della razza aria", che sarebbe perfino "compatibile con la logica e con la scienza", ovviamente nel presupposto della credenza nell’"anima" separabile e autonoma dal corpo animato (pp. 6-7). Ma comunque, restando fuori di inverosimili possibilità di fondazione "scientifica", nell’ambito di concezioni filosofico-religiose, mi pare giusta la considerazione di Formichi, circa la superiorità della ipotetica "re-incarnazione", che fra l’altro risparmia la barbara iniquità dei premi e specialmente delle pene "eterne", che sarebbero dovuti a chi vive una sola vita, negando ogni espiazione dei delitti, e quindi l’esaurimento della pena.
Che la concezione indiana invece, in cui l’uomo "è artefice del proprio destino" poiché premi e castighi sono commisurati al karma, alle azioni buone o cattive compiute nella propria vita, ne prolunga gli effetti nel ciclo eterno del samsàra, in una lunga prospettiva di esistenza pluri-vitale data agli uomini e a tutti i viventi, nel segno della perpetua continuità della vita. Si pensi in confronto alla immaginazione primitiva e infantile del "giudizio universale", con la "resurrezione dei morti" ecc., a opera e in gloria del Cristo-Dio; si pensi al macchinoso triregno oltretombale cristiano, al paradiso dei santi e beati, al purgatorio dei peccatori penitenti e all’inferno dei dannati in "peccato mortale", con la magnifica invenzione cristiana (paolina) del "peccato originale", marchio di colpa indiscriminato di tutti gli uomini: tipiche invenzioni caritative cristiane, secondo la umana charitas propagandata dalla ecclesia e vantata da Beonio Brocchieri! Mitologia goffa su cui tanti anche altissimi poeti e artisti cristiani sono riusciti a comporre, per loro unico merito, straordinarie figurazioni di umanità dolorante e "re-denta".
E’ vero che ogni "visione" d’oltretomba è dall’antico una costruzione mitologica, patetica e a volte poetica e se si vuole simbolica, che suppone la sopravvivenza e addirittura l’immortalità dell’anima, da parte di uomini non rassegnati all’accet-tazione della morte, come perdita definitiva della vita. Ma al solito l’immaginazione teologica e dogmatica cristiana è più povera e a un tempo più lambiccata dei modelli classici ereditati, riflettente dalle "origini" una mentalità autoritaria e repressiva, in un sistema premiale e soprattutto penale efferato, capillare e totalitario, poiché investe ogni momento, ogni atto, ogni parola, ogni pensiero della intera vita, sotto l’imperio dichiarato del Dio trinitario regnante, che nel suo Cielo maschera il potere assoluto della santa chiesa cattolica, potere d’inquisizione, di beatificazione e di condanna senza appello perché "divina".
Anche la "reincarnazione" – o metasomatosi o metempsicosi – non è che una concezione mitologica, ma pure nella sua prospettiva meta-individuale del divenire, del passato e del futuro, in cui l’individuo continua altre individualità e illusoriamente si continua in altre, garantendosi una immortalità non solo oltremondana ma "vitale", pone sempre all’uomo la responsabilità personale delle proprie azioni, e dei loro effetti anche nelle vite future. Un principio di ben altra moralità umana che quella del "giudizio di dio", e peggio della sua chiesa apostolica giudicante: come la "compassione" buddhista rispetto alla charitas cristiana, virtù teologale che prepone sempre l’amore verso Dio, finalizzando l’amore del prossimo all’amore per il dio trino, molto insicuro per darsi tante garanzie di coazione.
Nel buddhismo invece, con la inevitabilità (fatalità) degli effetti dell’azione, rifulge l’aureo straordinario "precetto della ahimsa, ossia del dovere di astenersi dal nuocere a quanlunque vivente", uomo animale o pianta, essendo ogni essere vivente "una particella dell’anima (atman) universale nella quale prima o poi si riassorbirà" (Formichi, p.11). Un vero dogma, quello dell’amore verso tutti gli esseri viventi, una verità comune che "riassume in sé tutta l’etica, costituisce la predicazione prediletta di asceti, teologi, filosofi, poeti, legislatori, e ancora oggi continua a informare il sentimento e la condotta di ogni indiano" (ivi).
Tutto ciò è vero e giustifica le espressioni ammirative del vecchio indianista Formichi, allora professore di sanscrito all’Università di Roma, ma vi è ancora una volta un contesto culturale che non si può trascurare, e che è fortemente contraddittorio quando si scontra, nel buddhismo, con la fondamentale ascesi monastica concepita e strenuamente praticata dal fondatore. Che nel suo pessimismo radicale svaluta la vita come fonte di dolore, il divenire come flusso di nascite e morti e rinascite, il karman che determina la necessità delle reincarnazioni; e che esige il "distacco" più netto dal desiderio che anima la vita, e l’annientamento del karman spinto fino al suicidio, ponendo perentoriamente come termine ambìto la "liberazione" dell’anima da quel ciclo incatenato, per un illusorio e comunque disumano, egotico e snaturato nirvàna.
Quando Capra si esalta per le grandi intuizioni mistiche orientali, basandosi su interpretazioni in parte fondate, compie intanto un errore di attribuzione, gratificandone la "mistica" universale, anziché la riflessione filosofico-religiosa, che per correttezza filologica e storica dovrebbe essere differenziata, almeno da una all’altra delle "grandi religioni" mistiche. Ma oltre all’enorme estensione concettuale che attualizza l’antico, secondo canoni logico-filosofici e perfino scientifici moderni, più gravemente rimuove o deliberatamente nasconde quale è il vero contesto teologico-ascetico che costituisce il contraddittorio risvolto di una mistica e di una ascesi alienante, di una gnosi illusionistica che svaluta come maya (illusione) la temporalità del divenire, e i cui orizzonti immaginari sono estranei a ogni interesse vitale e quindi "umano".
Ancora più estraneo è a un qualunque impegno conoscitivo definibile "scientifico" per la struttura della materia/energia naturale dell’universo, che si dice attingibile nelle ineffabili luminarie dell’estasi, nell’indeterminatezza fantomatica dell’Essere, nell’indefinita e indefinibile unità-totalità trascendente che dovrebbe darsi come suprema "realtà ultima". No, dalla esperienza mistica possono nascere al più delle fantasie religiose, dall’esperienza di pochi mistici sono originate tutte le fantasie mitografiche costituenti il patrimonio religioso antico, che orrendamente si riproduce da millenni, nell’esercizio permanente della scolastica clericale, e nell’inerzia ripetitiva delle masse, su cui fanno leva le potenti gerarchie (ir)-religiose e le organizzazioni politico-amministrative speculanti.
No, dalla mistica non è mai derivato sapere, neppure dalla "filosofia mistica" che nello stesso binomio così enunciato stride, perché l’esperienza mistica è la negazione del filosofare, e la riflessione è sempre esterna al pathos mistico. Così che la profusa esegesi di tanto immaginosi testi poetico-mistici antichi non è che una variazione fra sofistica e retorica continua, su alcune di quelle originarie intuizioni, di acquisizioni conoscitive mai verificabili.
La "verità" mistica non è minimamente identificabile con la "verità" scientifica, e i tentativi di accordo confusivo fra mistica e scienza, come quello così suggestivo e a tratti fascinoso di Capra, tradiscono l’insidia sempre latente nella pretesa candidamente dichiarata nell’Epilogo del libro, che scienza e misticismo siano "due manifestazioni complementari della mente umana" (p.355): si noti l’enorme approssimazione, non l’intuizione immaginante e la razionalità critica o "ragione scientifica", ma tout court "scienza e misticismo". Che vorrà dire, che lo scienziato nella sua formazione dovrà aggiungere le pratiche yoga o il training autògeno, o che dovrà assiduamente consultare i testi mistici, per trovarvi la soluzione dei suoi ardui quesiti teorici, nel pregiudizio mistico proprio dell’autore, e all’origine di questo libro, che l’uomo "ha bisogno" sia della scienza che della mistica? Con questa distinzione contraddittoria, che "la scienza non ha bisogno del misticismo e il misticismo non ha bisogno della scienza; ma l’uomo ha bisogno dell’una e dell’altra" (p.356): e qui emerge con evidenza quanto l’autore identifichi se stesso, un suo personale bisogno, con l’umanità intera e i suoi bisogni presenti e futuri.
Con tale chiarezza epistemologica, il fisico Capra affronta il suo lavoro scientifico, ancora ebbro delle sue ascesi certamente praticate in riva all’oceano, arrivando qui sùbito dopo a attribuire alla mistica la vera sebbene imprecisata conoscenza "profonda" della natura, alla scienza invece una mera utilità "per la vita moderna"! Vedete fino a che punto gli resiste l’autentica patologia mistica, tanto da svalutare la "conoscenza scientifica" perché "astratta e teorica" (malgrado gli imponenti laboratori e le straordinarie produzioni tecnologiche!), mentre invece la "conoscenza mistica" è non solo "profonda" ma trasformatrice, sempre ineffabilmente.
Lo sbocco di queste aberranti persuasioni non può essere che la più convenzionale critica alla società contemporanea, anch’essa "meccanicistica e frammentata" (dimentica almeno l’unità telematica del pianeta!), e l’auspicio di una vera "rivoluzione culturale", capace di realizzare nella società l’"equilibrio dinamico" e l’armoniosa interrelazione della natura.
Da mistico vocazionale Capra idealizza le pretese "armonie" naturali, senza vedere nella sua conoscenza profonda i tragici e sistematici orrori della natura vivente, della natura cosmica, realmente determinata da una ferrea meccanicità (necessità), e ugualmente "aperta" all’infinita possibilità di eventi "casuali" perché imprevedibili (dall’uomo), di eccessi spaventosi, di errori e guasti inesauribili. La splendida-orrida macchina del mondo regge da sempre e reggerà per sempre, verosimilmente, ma è la più disarmonica fabbrica di contrasti e conflitti, di iniquità e arbìtri, di immani catastrofi tutte giustificate, che mai potesse concepirsi. Pensare di farne un modello di "armonia" per le società umane, sarebbe pura follìa mistica.
Come accennavo all’inizio di questo capitolo, Capra apparentemente esente da un punto di vista confessionale, non si rende conto – o se ne rende conto benissimo, consensualmente – che fa un uso strumentale della microfisica, come tantissimi teologi di ogni confessione, e come tanti storici apologeti delle religioni e delle mistiche, da Eliade all’ultimo divulgatore ecclesiastico. La via del Tao, il Tao della fisica paga tale scotto devozionale assai pesante: probabilmente sarebbe stato assai più congruo, e non meno fruttuoso, rifarsi alla intera storia antica della "scienza", dell’astronomia e della "fisica", dalle prime intuizioni dei filosofi naturali ecc.: un campo d’indagine indiziaria pur sempre confuso fra "osservazione" e "visione", ma certamente inequivoco nell’impegno per la "conoscenza" reale della natura, a beneficio della vita e del mondo dell’uomo vivente, dell’uomo non già annichilito nel proprio delirio, ma in crescita continua di sapere nella nobiltà della ricerca, nell’alta moralità della ragione.”
4.
E’ evidente che, se la deriva mistica di alcuni fisici è agevole da criticare perché essa comporta un salto più o meno rilevante dal piano di ciò che si sa attualmente a quello di ciò che si vuole credere, sarebbe ingenuo non riconoscere che i problemi posti dalla fisica quantistica rispetto al rapporto mente-materia sono indubbiamente inquietanti; molto più dello sconvolgimento apportato dalla teoria della relatività alla concezione dello spazio e del tempo.
Dati i limiti delle mie competenze, non posso entrare nel merito della questione se non come studioso dell’apparato mentale umano. Non pretendo neppure di dire cose originali, ma di definire qualche criterio metodologico indispensabile per portare avanti il discorso su materia e mente.
Occorre partire dal fatto che la fisica ha accettato a lungo una visione “aristotelica” del rapporto tra Soggetto e Oggetto, come entità nettamente distinte. La figura 1 rappresenta questa concezione.
Questa concezione è andata in crisi prima per effetto della filosofia che della scienza. Confermata, infatti, da Galilei e da Newton, essa è stata lentamente erosa dalle critiche di Berkeley e soprattutto di D. Hume i, quali, benché empiristi, hanno posto i presupposti di un viraggio appena arginato da Kant, ma giunto alle estreme conseguenze con gli idealisti.
Contestata nei suoi fondamenti oggettivistici, la Scienza ha reagito con il Positivismo rivendicando la capacità della mente umana, dotata del metodo sperimentale, di pervenire a leggi universali sulla materia, scritte in linguaggio matematico, ma in sé e per sé indipendenti dal Soggetto.
Questa fiducia, più che scossa, è stata accresciuta dalla formulazione della teoria darwiniana, avvenuta sulla base di un’osservazione attenta delle forme e dei comportamenti animali.
Prima ancora della fisica quantistica, è stato proprio il darwinismo, però, a generare problemi. Esso, infatti, ha ricostruito l’evoluzione animale sulla base della legge della selezione naturale che, se non è meccanicistica, è di certo casualistica, ed elimina ogni riferimento ad un qualsivoglia Disegno Intelligente.
Tutti gli evoluzionisti riconoscono che l’origine della vita è ancora un mistero, che la selezione naturale non è l’unico meccanismo che ha assicurato l’evoluzione delle forme viventi e, infine, che la comparsa dell’uomo con le sue singolari caratteristiche psichiche è un evento lentamente preparato da una graduale successione di specie umane, ma, in sé e per sé, abbastanza sorprendente.
Sulla base di questi problemi, che la Scienza pensa di poter risolvere in futuro, è stato proposto il cosiddetto principio antropico, il quale ammette un’evoluzione della materia finalizzata a produrre la comparsa di una specie cosciente e dotata di un’intelligenza tale da poter studiare l’Universo.
Weelher ha fornito questo rappresentazione del principio antropico. Il “cordone ombelicale” rappresenta, per l’appunto, l’evoluzione della materia a partire dal big-bang, e la nascita della coscienza umana capace osservarla e di indagarne le leggi.
A partire da questo schema, la fisica quantistica è giunta alla conclusione che la materia non esiste come oggetto se non in dipendenza da una mente che la osserva. E’ la mente che fa uscire la materia dal suo stato di irrealtà. dato che l’uomo è comparso di recente nella storia dell’Universo, la conclusione per cui debba darsi una Mente Universale a monte della materia e delle forme viventi è una conclusione logicamente legittima.
Lo schema di Weehler andrebbe dunque rappresentato come segue.
Si è giunti, pertanto, a riabilitare l’Idealismo assoluto, che si differenzia solo perché alcuni fisici identificano la Mente Universale in un Essere trascendente il mondo (Dio), mentre altri ritengono che essa si identifichi con il Brahman o con l’Uno cui fanno riferimento da migliaia di anni le filosofie orientali.
Si può rimanere sconcertati dal fatto che studiosi della physis siano arrivati ad una conclusione del genere. Non ho dubbi riguardo al fatto che la fisica quantistica porti elementi a favore di tale conclusione. Il problema, però, è che essi adottano un modello di Mente o di Coscienza che si può ritenere abbastanza ingenuo, e che non sembra compatibile con le scoperte della neurobiologia.
Tra queste, la più rilevante in assoluto è quella dei neuroni specchio.
In che senso tale scoperta investe il problema del rapporto tra Materia e Mente? Marginalmente, in apparenza, ma significativamente.
L’unica esperienza mentale che per ora ci è nota è quella umana, incentrata sulla consapevolezza cosciente, vale a dire sulla distinzione tra mondo interno e mondo esterno (autoconsapevolezza) e sull’affacciamento percettivo sul mondo esterno.
I fisici, che hanno indagato per un lungo periodo il mondo esterno come se esso avesse una realtà del tutto autonoma rispetto all’osservatore, da qualche tempo, sulla scorta della teoria quantistica, indagano il rapporto tra Soggetto cosciente e Oggetto, ritenendo queste due dimensioni intimamente correlate tra loro.
Questa correlazione è stata colta dalla psicoanalisi prima che dalla fisica. Dal punto di vista psicoanalitico, il mondo non esiste che nell’interpretazione che un soggetto ne dà. Nessun analista è giunto a pensare che il soggetto produca l’oggetto (se non sotto forma di allucinazioni). Il limite estremo è stato raggiunto da Matte Blanco che, ne L’Inconscio come insieme infiniti, fa riferimento all’esistenza, a livello inconscio, di un principio di simmetria in conseguenza del quale nel profondo della mente umana si darebbe l’indistinzione totale di tutte le cose: una sorta di riflesso di una realtà che non potrebbe emergere nella coscienza umana se non al rischio di uno stato di assoluta confusione, ma che lascia pensare ad una Coscienza (divina) capace di contenerla: l’Uno, dunque, che comprenderebbe il Tutto.
La scoperta dei neuroni specchio ha introdotto, però, in questo discorso una novità di grande interesse. Nell’ottica di questa scoperta, il Soggetto e la Coscienza non si definiscono sulla base del rapporto con un Oggetto, bensì in virtù di una relazione intersoggettiva, com’è raffigurato nella figura seguente.
L’immagine fa riferimento alla concezione della soggettività che si può ricavare oggi dalla teoria dei neuroni specchio. Occorre solo tenere conto che lo sguardo rappresentato va riferito non tanto e non solo alla funzione visiva, ma alla capacità empatica di risonanza tra due mondi di esperienza.
L’intersoggettività, dunque, è il presupposto da cui affiora la coscienza umana, la cui autoconsapevolezza implica la relazione con l’Altro.
Lo sviluppo emotivo e cognitivo dell’uomo procede in parallelo, ma il primo, che stabilisce un legame empatico intersoggettivo, sembra di importanza assoluta perché si dia il secondo.
La Coscienza è il prodotto di potenzialità cerebrali che giungono a regime solo in virtù dell’immersione in un contesto intersoggettivo.
Pervenuto alla consapevolezza attraverso l’intersoggettività, l’uomo può poi rivolgere lo sguardo all’Oggetto e indagarlo sul piano scientifico.
Quale mai può essere la conseguenza di queste considerazioni, ricavabili dalla teoria dei neuroni specchio, sul problema del rapporto tra materia e mente?
Non si può escludere, naturalmente, che nell’Universo esistano altri esseri dotati di coscienza e di autoconsapevolezza. Se ne esistono, però, e quale che sia stata la loro evoluzione, non possono che essere l’espressione di una relazione intersoggettiva.
Posto che ciò sia vero, il riferimento ad una Mente Universale che produrrebbe tutta la realtà come una sua “proiezione” è privo di fondamento. Occorrerebbe, infatti, ammettere che essa si sia prodotta nell’interazione con un’altra Mente e così via all’infinito.
Il concetto di una Mente Universale che trae l’Oggetto dalla irrealtà ad esso costitutiva è senz’altro un’ipotesi ricavabile dalla fisica quantistica, anche se non l’unica. Il problema è che, alla luce della neurobiologia, non si può oggi concepire alcuna Mente se non come prodotto di un’intersoggettività. La Mente Universale di cui parlano i fisici mistici non può avere questa dimensione, perché incompatibile con la sua Unicità.
Presumo che considerazioni intuitive del genere abbiano indotto i Teologi a formulare l’ipotesi della Trinità.
Ovviamente queste riflessioni non risolvono il problema del rapporto tra mente e materia. Esse però lo affrancano dallo sterile schema del Soggetto e dell’Oggetto, e restituiscono peso alla biologia evoluzionistica. Posto infatti che il collasso della funzione di onda va riferito a qualunque organizzazione della materia, se esso ha dato luogo alla nascita della Coscienza umana non è stato in conseguenza del rapporto con l’Oggetto, ma di un cervello capace di rispecchiarsi in un altro cervello, di entrare in sintonia con esso e di accedere, in virtù di questo, al mondo dei simboli.
I fisici farebbero bene a non trascurare che, se la loro mente è in grado di ipotizzare una Mente Universale, ciò è possibile solo perché essi il loro cervello è stato immerso in un ambiente intersoggettivo e culturale.
Questa considerazione non contrasta con una deriva mistica: non la rende, però, affatto necessaria.
E’ la biologia, non la fisica, che detiene il segreto della Coscienza, la quale per ora è nota solo a livello umano, e che potrà, un giorno, svelarlo.