FORNERO E TASSINARI

LE FILOSOFIE DEL NOVECENTO

Bruno Mondadori, Milano 2002

1.

Nonostante il Novecento sia destinato a rimanere nella storia contrassegnato, per un verso da eventi militari, politici e economici di grande significato (le due Grandi guerre, il conflitto tra blocco occidentale e blocco sovietico, la decolonizzazione, l’affiorare del fondamentalismo islamico, l’avvio di un processo di globalizzazione planetaria, ecc.) e, per un altro, dall’egemonia della scienza e della tecnica rispetto alle discipline umanistiche, la filosofia, nel corso di esso, ha riconosciuto uno sviluppo piuttosto florido. Ciò è attestato, tra l’altro, dal fatto che in ogni manuale o trattato di storia della filosofia il Novecento richiede un’estensione maggiore rispetto a qualunque secolo precedente. Il libro di Fornero e Tassinari, che è un manuale completo per quanto sintetico, costa di ben 1500 pagine! Esso riprende la struttura dei quattro volumi già pubblicati da Fornero come aggiornamenti della apprezzatissima Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano e si segnala per una chiarezza espositiva che ha pochi confronti nella pubblicistica contemporanea.

L'imponente sviluppo del pensiero filosofico del Novecento richiede una riflessione preliminare. Si tratta di un fenomeno culturale e sociologico che va ascritto, anzitutto, alla proliferazione della filosofia come specializzazione accademica. La lettura delle biografie degli autori citati pone di fronte a questo dato inconfutabile. Tranne rare eccezioni, i filosofi del Novecento sono docenti universitari o hanno comunque rapporto con l’Accademia. L’unico termine di confronto sono i due secoli precedenti, e soprattutto l’800. Il XIX secolo è dominato dagli idealisti accademici (Fichte, Schelling, Hegel), ma la polemica contro l’idealismo avviene da parte di pensatori che operano, o per volontà propria o perché emarginati, al di fuori dell’Università (Schopenauer, Kierkegaard, Marx). Anche il positivismo, forma estrema di reazione contro l’idealismo, si realizza ad opera di autori (Comte, Stuart Mill, Spencer) che non sono accademici. Il secolo, poi, si conclude con Nietzsche, che giunge alla cattedra, peraltro di filologia, a soli 24 anni, ma l’abbandona a 31 anni, e diventa un filosofo vagabondo, emarginato e nello stesso tempo ferocemente critico nei confronti della filosofia cattedratica.

Questo dato non può essere minimizzato. La proliferazione della filosofia del Novecento a livello accademico, vale a dire la sua istituzionalizzazione, non implica solo la tendenza alla specializzazione, e quindi alla coltivazione di un sapere il cui linguaggio e le cui tematiche sono accessibili solo agli addetti ai lavori. Essa significa anche, e necessariamente, una qualche subordinazione del pensiero filosofico al potere, se non addirittura all’ideologia dominante.

Questa tematica, inerente il rapporto tra sapere e Potere, vivacissima e dibattuta negli anni ’70, è stata accantonata prematuramente. Nulla di fatto vieta al filosofo di professione, e che quindi vive insegnando, di coltivare liberamente e criticamente il pensiero: di fare, insomma, il suo mestiere. Ma l'istituzionalizzazione accademica della filosofia, se non limita formalmente la libertà di pensiero, limita inesorabilmente la diffusione e l’incidenza sociale della filosofia. Tale limitazione si realizza attraverso un linguaggio specialistico, che tende a diventare esoterico, e, nella maggior parte dei casi, appare rivolto alla comunità degli addetti ai lavori.

La specializzazione dà luogo, poi, ad un sapere che sacrifica l’estensione all’intensione, e tende ad esercitarsi su aree tematiche sostanzialmente separate tra loro e poco comunicanti. Essa comporta inesorabilmente la frammentazione e la dispersione del pensiero filosofico, che diventa pertanto sempre meno incisivo a livello sociale. Il titolo del libro di Fornero e Tassinari è significativo a riguardo.

Dagli albori del pensiero filosofico si sono date correnti e orientamenti diversi. In senso letterale, dunque, per ogni secolo si dovrebbe parlare di filosofie. Non lo si fa per il semplice motivo che, prima del Novecento, le diverse correnti si differenziano sulla base del principio dell’opposizione. Questo processo "dialettico" dura fino a tutto l’Ottocento e, in un certo senso, culmina nell’opposizione tra Illuminismo razionalistico e Idealismo romantico. Il tentativo hegeliano di concludere la storia della filosofia in virtù del riconoscimento, nell’opposizione dialettica tra tesi e antitesi, di una tensione evolutiva dello Spirito per giungere alla trasparenza a se stesso fallisce. Non solo l’hegelismo stesso dà luogo a due correnti contrapposte: la destra e la sinistra. Esso promuove anche la reazione del Positivismo, che sostituisce la Scienza all’Idea.

La dialettica filosofica investe anche la prima metà del Novecento attraverso la contrapposizione tra bergsonismo, fenomenologia e esistenzialismo per un verso, e pensiero marxista occidentale per un altro.

Solo nella seconda metà del secolo, e con una progressione crescente negli ultimi trent’anni, la filosofia va incontro ad una "diaspora" tale per cui le diverse tematiche esplorate dai filosofi appaiono come ambiti separati. La dialettica, laddove si dà, non si intrattiene tra le tematiche, ma all’interno di esse. Non è per caso che un filosofo contemporaneo (Rorty) è giunto a parlare di post-Filosofia. Il termine non fa riferimento ad un’impossibile fine del pensiero filosofico ("Non c’è pericolo che la filosofia si esaurisca. La religione non è finita con l’Illuminismo, né la pittura con l’Impressionismo […] anche se la filosofia si avvia ad apparire come un confuso stadio di transizione [...] ci sarà certamente qualcosa chiamato "filosofia" dopo la transizione." p. 1219), bensì ad una trasformazione. Secondo Rorty, tale trasformazione comporterà il superamento della filosofia sistematica in nome di un esercizio filosofico che egli definisce edificante. Verrà abbandonata, insomma, la pretesa di perseguire l’obiettivo di un sistema, vale a dire di un sapere organizzato che pretende di esaurire l’Essere e la Conoscenza, a favore di una filosofia che si proporrà "di edificare, cioè formare gli uomini, più che di conoscere oggettivamente il mondo. In questa nuova veste di tipo etico-formativo, la filosofia, semplice scrittura tra le scritture, non si pone più come espressione privilegiata del sapere, ma come una delle tante voci all’interno della "conversazione" complessiva dell’umanità: "l’impegno morale dei filosofi dovrebbe essere quello di continuare la conversazione dell’Occidente". Conversazione che si nutre del dialogo, ossia di una democrazia dialettica che vive del confronto costante dei diversi punti di vista, senza pretese di sopraffazione reciproca." (p. 1220)

Gli storici della filosofia non possono fare altro che accettare la diaspora che si è prodotta e tentare di fornire un'esposizione dettagliata del pensiero filosofico contemporaneo nei vari ambiti in cui esso si è sviluppato. E’ quanto fanno per l’appunto Fornero e Tassinari, i quali addirittura includono nella loro esposizione campi del sapere, della pratica sociale o dello sviluppo tecnologico – come la psicoanalisi, il femminismo, la politologia, la teologia, la bioetica, l’intelligenza artificiale – che, di solito, non sono presi in considerazione   dalla manualistica tradizionale. Si tratta di un’impostazione per alcuni aspetti originale, che implica una concezione della filosofia come metodologia riflessiva su qualunque fenomeno culturale di rilievo. Tale impostazione però comporta due limiti.

Il primo è paradossale. Nella misura in cui il pensiero filosofico si frammenta, si settorializza e si specializza, lo storico della filosofia si assume il compito di illustrarne il dispiegamento e di cogliere nella sua ricchezza, nonostante la diversità delle prospettive, un segno di vitalità. In virtù di ciò, egli è però esposto al rischio di diventare un tuttologo (neologismo deteriore ma, nel caso in questione, efficace) e di sopperire al rifiuto del sistema, tipico della filosofia contemporanea, con un paradossale, appunto, bisogno di ordinamento espositivo, che implica però delle scelte discutibili. Tale rischio si realizza nel testo in questione in maniera evidente. Lo spazio e l’importanza assegnata dagli autori alla teologia sembra del tutto fuori luogo, mentre colpisce l’esclusione, quasi completa, dalla trattazione, per un verso, delle scienze naturali (fisica, chimica, biologia, ecc.), che hanno inciso profondamente sulla visione del mondo dell’umanità e hanno anche fornito, per mano di scienziati (da Schroedinger a Prigogine), testi di assoluto valore filosofico, e, per un altro, del pensiero economico che, nonostante la sua pretesa di scientificità, è denso di suggestioni filosofiche.

Il secondo limite è la conseguenza della diaspora filosofica cui ho fatto cenno. Ricostruita e organizzata come disciplina che riflette sulle implicazioni filosofiche del sapere tout-court con una sua metodologia e un suo linguaggio (peraltro non ben definiti), la filosofia può avere senz’altro un significato edificante (nell’accezione di Rorty), ma si allontana dall’obiettivo suo proprio, che è quello di fornire una chiave per leggere e interpretare la condizione umana (dall’esserci all’esser fatti in un certo modo, dall’esigenza di adattarsi al mondo   a quella di trasformarlo, che implica la produzione di una cultura materiale e spirituale, dall’essere in sé all’essere per sé e all’essere per l’altro, ecc.).

La lettura del testo di Fornero e Tassinari fornisce, riguardo a quei problemi, suggestioni molteplici, ma sarebbe arduo per un lettore comune ricavare da esso una chiave che lo aiuti nell’orientarsi in un mondo complesso e a vivere meglio. Senza un centro di gravità, le diverse prospettive filosofiche generano più confusione che saggezza. L’edificazione di cui parla Rorty sembra, dunque ridursi al mito dell’anima bella.

Oltre all’estensione del campo filosofico, con la singolare esclusione già rilevata delle scienze naturali (eccezion fatta per l’intelligenza artificiale), l’unica scelta significativa degli autori è identificabile nel fatto che il primo capitolo è dedicato a Friedrich Nietzsche, la cui attività intellettuale cessa bruscamente dieci anni prima della fine dell’800. Tale scelta assume evidentemente Nietzsche come antesignano della diaspora del pensiero filosofico novecentesco. Egli ha scritto, in Umano, troppo umano: "I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo… E in realtà, io stesso non credo che alcuno abbia mai scrutato il mondo con un sospetto ugualmente profondo". Dove porta questo sospetto sistematico? Ad affermare: "C’è un solo mondo ed è falso, crudele e contraddittorio, corruttore, senza senso… Un mondo così fatto è il vero mondo… Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa verità, cioè per vivere… La metafisica, la morale, la religione, la scienza… vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita" (Frammenti postumi 1887-1888).

La negazione della Verità e la demistificazione come menzogna di ogni sapere che aspira a definire una Verità, un Sistema, è il lascito di Nietzsche al pensiero filosofico. Si tratta di un’eredità che segna tutta la filosofia del Novecento e la cui onda lunga si esprime nel postmodernismo e nella postfilosofia di Rorty. Ma è un’onda lunga paradossale. Essa recepisce l’avversione antisistemica di Nietzsche ma, al tempo stesso, assegna alla filosofia un ruolo edificante, sostanzialmente di ordine morale, che lo avrebbe fatto inorridire.

2.

Il libro di Fornero e Tassinari è un resoconto puntuale di questa singolare parabola per cui il pensiero critico, che è l’anima stessa dell’esercizio filosofico, viene ingabbiato progressivamente in aree specialistiche che tolgono ad esso vigore. La lettura dell’indice può essere di una qualche utilità.

1. Nietzsche: la crisi delle certezza 2. Matematica, logica e fisica: la crisi dei fondamenti 3. La rivoluzione psicoanalitica 4. Neocriticismo e storicismo 5. Cassirer: la filosofia delle forme simboliche 6. Weber: sociologia e filosofia della modernità 7. L’antipositivismo in Francia: lo spiritualismo 8. Bergson e il bergsonismo 9. Lo storicismo assoluto di Croce 10. Gentile: la filosofia dell’Atto 11. Il pragmatismo americano e europeo 12. Dewey: pragmatismo e neoilluminismo 13. Il dibattito epistemologico tra Ottocento e primo Novecento 14. Russel: uno scettico appassionato 15. Il marxismo dopo Marx 16. Gramsci: un marxista creativo 17. Il marxismo nell’età della Terza Internazionale 18. La Scuola di Francoforte, Benjamin e il freudomarxismo 19. Husserl e gli sviluppi del movimento fenomenologico 20. L’esistenzialismo come atmosfera culturale e filosofica 21. Il primo Heideggere: l’Esserci e le sue strutture 22. Jaspers: sperimentare l’essere nel naufragio 23. Sartre 24. Manifestazioni alternative della filosofia dell’esistenza 25. Il secondo Heidegger: la centralità dell’essere 26. Wittgentein: realtà, linguaggio e metafisica 27. Il neopositivismo 28. La filosofia analitica 29. La neoscolastica. Maritain e le filosofie neoclassiche 30. Dalle filosofie della persona al pensiero tragico 31. Le teologie cristiane del XX secolo 32. Tradizione ebraica e filosofia: Rosenzwieg, Buber, Lévinas 33. Crisi e rifondazione della politica: Schmitt, Arendt e Weil 34. Gli sviluppi dell’ermeneutica contemporanea da Gadamer a Ricoeur 35. Popper: epistemologia e filosofia politica 36. L’epistemologia postpositivistica: Khun, Lakatos e Feyerabend 37. Strutturalismo e poststrutturalismo 38. Derrida: il decostruzionismo 39. Il postmoderno e le sue filosofie 40. Rorty: la post-Filosofia 41. Dalla riabilitazione della filosofia pratica all’etica del discorso: Habermas e Apel 42. Femminismo e filosofia 43. Putnam: logica, filosofia del linguaggio e riflessione etica 44. Antropologia filosofica e filosofia della tecnica: Scheler, Gehlen, Plessner 45. Jonas: filosofia e ecologia 46. Nuovi esiti della filosofia della scienza 47. Nuovi percorsi della filosofia analitica 48. La filosofia della mente 49. Intelligenza artificiale e filosofia 50. Sviluppi della riflessione politica 51. Etica e bioetica

Nella sua completezza che si estende ad aree tradizionalmente ritenute estranee al pensiero filosofico propriamente detto (dalla psicoanalisi alla teologia cristiana, dal femminismo all’intelligenza artificiale e alla bioetica), l’indice permette immediatamente di riconoscere, anche se tale riconoscimento può riuscire chiaro solo dalla lettura del libro, una sorta di cesura. Fino agli anni ‘60, il pensiero filosofico è caratterizzato da grandi scuole di pensiero: la fenomenologia, l’esistenzialismo, il marxismo, il neopositivismo, lo strutturalismo. La crisi e la frammentazione intervengono prima con l’antistoricismo di Popper e poi con il postmodernismo.

Popper, per alcuni aspetti, si può ritenere un antesignano del postmodernismo. Originariamente epistemologo, giunto alla conclusione che anche le scienze esatte sono solo congetture che si approssimano alla verità ma senza mai poter pretendere di esaurirla, egli applica poi questo stesso concetto alle scienze umane e sociali invalidando per un verso la psicoanalisi e per un altro lo storicismo. La critica dello storicismo in particolare, che, nella sua accezione, corrisponde ai sistemi filosofici che tentano di scoprire una chiave che consenta di interpretare il senso e il fine dello sviluppo storico, è radicale. La fase construens di questa critica, che porta Popper ad identificare nella società aperta, democratica e liberale, l’unico modello valido di società, che prescinde da valori e da fini assoluti e cerca di migliorare se stessa attraverso il confronto delle diverse opinioni, è meno importante della fase destruens. Se infatti la storia non ha un senso e non ha un fine, e sono solo gli uomini a dare ad essa senso, la filosofia non può ridursi che ad un commento dei processi storici che può tutt’al più aiutare a capire la logica dei tentativi e degli errori. Essa non ha né può avere alcun sistema di riferimento etico. La libertà e la democrazia sono valori formali atti a promuovere solo un confronto tra modi di vedere diversi.

Il postmodernismo porta alle estreme conseguenze la denuncia di Popper rifiutando qualunque sapere onnicomprensivo della realtà in nome di un “discorso” aperto alla molteplicità, alla diversità, alla frammentazione. Alle idee-madri della modernità, inauguratasi con l’Illuminismo, centrate sul concepire la storia in termini di “emancipazione”, sull’assumere l’uomo come “dominatore” della natura (con conseguente esaltazione della scienza) e sul pensare secondo le categorie di “unità” e “totalità”, i postmoderni contrappongono un’alternativa teorica che, se non le ribalta del tutto, coincide comunque con una critica radicale. L’alternativa infatti comporta: “a)la sfiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti e la proposta di forme “deboli” (Vattimo) o “instabili” (Lyotard) di razionalità, basate sulla convinzione dell’inesistenza di fondamenti ultimi e unitari del saper e dell’agire...; b) il rifiuto dell’enfasi del “nuovo” e della categoria avanguardistica di “superamento”..; c) la rinuncia a concepire la storia alla stregua di un processo universale o necessario, in grado da fungere come piattaforma “garantita” dell’umanità verso l’emancipazione e il progresso. Rinuncia che si accompagna all’elaborazione di una sorta di “pensiero senza redenzione”, ossia ad una sfiducia programmatica nei confronti di ogni terapia “salvifica” (politica, esistenziale, artistica, ecc.) finalizata al raggiungimento di una condizione umana “trasparente” e dialetticamente “riconciliata” con se stessa; d) il rifiuto di identificare la ragione con la ragione tecnico-scientifica e di concepire l’uomo come padrone incontrastato della natura e dell’ambiente…; e)il rpivilegiamento el paradigma della molteplicità rispetto al paradigma dell’unità, ossia la consapevolezza che “il mondo non è uno, ma molti”. Consapevolezza che fa tutt’uno con la tesi della natura storico-localistica (o “etnica”) delle credenze e che si traduce in una difesa programmatica della plurivocità e della differenza, accompagnata d una serie di pratiche culturali di rottura… tese a far valere i diritti del molteplice, del particolare, del diverso, del difforme, dell’incommensurabile.” (pp.1186 -1187)

Secondo i postmodernisti accettare che la storia non abbia un senso definito e dedicarsi a capire ciò che è possibile capire di un mondo la cui complessità si sottrae ad una visione totalizzante, e va esplorato nella sua indefinita molteplicità, è il segno che l’umanità o, per essere più precisi, la civiltà occidentale ha raggiunto finalmente la maturità del disincanto, che dovrebbe preludere ad una globalizzazione culturale in nome della diversità.

Per quanto quest'obiettivo si possa ritenere valido per evitare eccessi ideologici, non ci si può astenere da una riflessione che contrasta alquanto con il presupposto antistoricista del postmodernismo. Esso, infatti, appare immediatamente espressione e figlio di un clima, di un’atmosfera culturale, di una fase evolutiva di una società storicamente determinata. Il clima è quello del disincanto, l’atmosfera culturale quella determinata dal rifiuto del sistema e dalla negazione della Verità di Nietzsche, la fase evolutiva quella contrassegnata dalla globalizzazione. Insomma, se si dà una filosofia intrecciata con il mondo storico questa è il postmodernismo. Esso è l’erede della crisi della razionalità occidentale, e sembra a tal punto riflettere tale crisi da ritenere che non si dia un’al di là praticabile per il pensiero umano.

3.

Data questa situazione, c'è da chiedersi quale significato possa avere la filosofia oggi. La domanda è importante in quanto è immediatamente evidente lo scarto tra l'orientamento postmodernista e postfilosofico aperto al dubbio, al dialogo, al riconoscimento di vari punti di vista, e l'evoluzione del mondo, anche di quello occidentale figlio dell'Illuminismo, che attesta un bisogno sempre maggiore a livello collettivo di certezze, di solidi valori di riferimento, di illusioni (tra cui quella religiosa). Se la filosofia si disinteressa di questo scarto, essa rischia di diventare una disciplina elitaria, riservata agli addetti ai lavori. Se si fa carico di tale scarto, pretendendo in qualche misura di colmarlo, rischia di scoprire che la frammentazione del pensiero filosofico non consente alcuna comunicazione con il sociale.

Come uscire da quest'impasse?

Il rifiuto del sistema propugnato dal postmodernismo non può essere messo in discussione. Nessuno oggi se anche volesse potrebbe pretendere, dato lo sviluppo dei campi del sapere, di ripercorrere le tracce di Hegel. Un sapere onnicomprensivo ormai è al di fuori della portata di una mente per quanto geniale e anche di un'équipe di pensatori. Se anche fosse possibile, esso si configurebbe comunque come un letto di Procuste in rapporto alla complessità del mondo.

Si escluda pure la pretesa di arrivare, filosoficamente o in qualunque altro modo, alla Verità. C’è da chiedersi però se questa rinuncia debba giungere al punto di non interrogarsi sulla possibilità che si dia, e debba darsi, qualche piano o livello del sapere che possa essere assunto come asse strutturale del sapere filosofico, e, in senso lato, delle scienze naturali, umane e sociali.

Io ritengo che tale asse possa essere rappresentato dall’antropologia filosofica. Un capitolo del libro è dedicato a questo ambito particolare, la cui importanza è definita in questi termini: “Il grande sviluppo delle scienze che ha segnato il XX secolo, in particolare delle cosidette scienze umane, ha portato alla conoscenza di molteplici e diversi aspetti dell’uomo, da quello biologico a quello psicologico, da quello linguistico a quello sociale, da quello economico a quello culturale. Questo progresso ha comportato però soltanto l’approfondimento di singole sezioni dell’unic totalità dell’individuo, l’analisi di singole componenti della complessa “realtà-uomo”. Si è perciò avvertita l’esigenza di cogliere e pensare l’essere umano nella sua interezza, sintetizzando, integrando e armonizzando i risultati delle indagini scientifiche per ricomporre in unità i molteplici aspetti indagati e ottenere così un’immagine globale dell’uomo.” (p. 1307)

Quest’esigenza si può ritenere assolutamente primaria per la filosofia, se è vero ancora oggi, e, in conseguenza dello sviluppo tecnologico si direbbe più che mai, che l’uomo è la misura di tutte le cose. Essa però è stata coltivata solo da tre autori (Scheler, Gehlen, Plessner). Per quanto il loro pensiero, eccezion fatta per lo spiritualismo di Scheler, sia denso di suggestioni, l’impresa di un’antropologia filosofica comprensiva di tutti i dati ricavati dalle scienze umane e sociali, dalla psicoanalisi e dalla neurobiologia sembra ancora lontana dal potersi definire compiuta.

C’è da chiedersi, ovviamente, se essa, urtando contro il ben noto problema del soggetto che riflette su se stesso come oggetto, possa essere mai portata a compimento. Il dubbio è legittimo, ma non dovrebbe impedire di accettare questa sfida e di proseguirla. Ma in base a quali presupposti e su quali linee essa può essere portata avanti?

L’eredità di Gehlen e di Plessner è preziosa per vari aspetti. Gehlen sottolinea che l’uomo, così come si è definito attraverso l’evoluzione naturale, è un essere organicamente carente, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione istintuale è primitiva, incompiuta, non specializzata. Il drammatico allentamento degli istinti che caratterizza la natura umana, il quale postula per necessità la costruzione di un ambiente culturale che permetta all’uomo di sopravvivere, è una delle chiavi fondamentali dell’antropologia filosofica. Essa dissolve d’emblée i presupposti pulsionali della teoria freudiana, e sottolinea il fatto, valorizzato solo parzialmente da Gehlen, che la sopravvivenza e l’adattamento della specie umana passano attraverso la cooperazione sociale.

A Plessner va il merito di avere rilevato, in maniera più radicale rispetto a Gehlen, la doppia natura dell’uomo, che egli riconduce all’immediatezza mediata, per cui esso vive da un lato come organismo animale nell’immediatezza della natura e dall’altro come essere “eccentrico” nella mediazione culturale. Una conseguenza dell’”eccentricità” è l’insicurezza e l’inquietudine per cui l’uomo sperimenta se stesso come una nullità e quindi sente il bisogno di porsi alla ricerca di un fondamento assoluto.

L’allentamento della dotazione istintuale, la potenza dell’istinto sociale, la necessità di costruire un mondo culturale, la ricerca di un “luogo utopico” che rimedi all’insicurezza ontologica: questi sono i presupposti di un’antropologia filosofica che va ulteriormente approfondita tenendo conto degli sviluppi della neurobiologia, della psicoanalisi, dell’antropologia culturale, della sociologia, dell’economia e delle discipline storiche. In Abracadabra ho tentato di dare un contributo in tale direzione.

Posto che si riesca a formulare un modello antropologico filosofico sufficientemente coerente, la filosofia sarà destinata a rinnovarsi e a trovare nuovamente un centro di gravità che oggi difetta.

Febbraio2005