1.
E’ noto che la mente umana è, in profondità e in superficie, catturata dalla logica degli opposti. La prova evidente di questa cattura è facilmente ricavabile dall’analisi del senso comune e della cultura dominante in un qualsivoglia contesto storico-culturale, a partire dalla distinzione tra Noi e gli Altri che promuove l’etnocentrismo e il pregiudizio nei confronti degli “stranieri”. Barbaro è un termine coniato all’interno della più ricca cultura che un gruppo umano abbia mai prodotto, quella greca. E’ vero che questa stessa cultura, con Eraclito, ha prodotto anche l’intuizione della dialettica, dell'intima correlazione tra gli opposti. Ma tale intuizione, dovuta ad un genio solitario, è rimasta sterile sino all’Ottocento, allorché è stata ripresa da Hegel e Marx. Solo nel Novecento, infine, nella cornice della Teoria delle Catastrofi, essa è stata scientificamente formalizzata come legge del divenire della materia per cui ogni forma implica un conflitto latente tra “forze” opposte.
Ci si può convincere della suggestione che la logica degli opposti esercita sulla mente umana non solo analizzando l’ideologia normativa proprio di ogni cultura, ma anche ripercorrendo la storia della religione, della filosofia, della letteratura, dell’arte e della scienza. Ovunque ci si imbatte in paradigmi che si succedono nel corso del tempo sulla base di ristrutturazioni critiche che avvengono in nome di quella logica.
Questa premessa, che occorrerà altrove approfondire adeguatamente, serve ad introdurre il discorso su di un libro denso e suggestivo che, fin dal titolo, va controcorrente: contro la corrente dell’esperienza comune, che risulta sempre più appiattita da un banale conformismo, disinvestito da qualunque esigenza morale, contro il pregiudizio che, eleggendo a modello il modo di essere della maggioranza, riverbera un sinistro bagliore su ogni forma di diversità (indigena o esotica), contro la psichiatria, che alimenta stoltamente l’opposizione tra normalità e anormalità, e, infine, contro le discipline psicologiche, che, ad un mondo pervaso da un inquietante malessere, offrono ricette di felicità prêt-a-porter che lasciano il tempo che trovano
La vita schiva è un libro per pochi. I suoi contenuti e, per alcuni aspetti, lo stile stesso richiamano immediatamente Nietzsche: il genio solitario per eccellenza, che ha dedicato pagine sublimi alla necessità, intrinseca ad alcune anime, di prendere le distanze dal mondo, di raccogliersi nella propria interiorità e di sperimentare l’ebbrezza vertiginosa creativa della libertà assoluta che solo la solitudine promuove. E’ singolare, pertanto, che, nel profluvio di citazioni che caratterizzano il saggio, Nietzsche, al quale si deve, tra l’altro, l’aforisma più icastico sul bisogno di raccoglimento interiore (“Odio coloro che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia) non venga nominato una sola volta e risulti addirittura assente dalla bibliografia.
I pochi, a cui il libro esplicitamente si rivolge, sono coloro la cui esperienza, per mantenersi fedele a se stessa, deve sottrarsi alla suggestione della socializzazione forzata che caratterizza il nostro mondo, rifuggire dalle alienazioni imposte dalla vita sociale e rifugiarsi nella solitudine riflessiva e meditativa che promuove e alimenta l’individuazione.
I destinatari del libro e il suo impianto concettuale sono enunciati così nel prologo:
“Questo libro si rivolge […] a una minoranza ben risoluta che persegua la solitudine come antidoto ai molti mall presenti, eventuali, prima o poi inevitabili. La proposta, va subito chiarito, si rivela più credibile se la raccoglie chi possa ammettere di avere odi aver avuto una vita non del tutto infelice o che abbia già saputo fare del dolore un'occasione di rinascita. Vivendola in piena consapevolezza e come esperienza di elevazione umana oltre che intellettuale o poetica. Ed è tale la vita che, per affetto ricevuto e restituito, ci consenta di allontanarci senza strazio eccessivo, rassicurati da un'interna ricchezza pur a un certo punto perduta. Rappresentata oltre che da una disposizione naturale alla riservatezza e a un bisogno fisico di starsene da soli, dalla attitudine ad aiutarsi attraverso un'intensa attività introspettiva. In altre parole, grazie alla fedeltà verso un pensiero riflessivo capace di oltrepassare le banalità. Per dedicarsi alla propria maturazione, a una incessante conversazione con gli eventi e le circostanze esistenziali che ci ripropongono interrogativi insolubili. Ma per questo capaci di scuotere la nostra pigrizia, di ostacolare l'assuefazione emotiva, l'acquiescenza intellettuale.
L'introspezione è figlia naturale, seppur non sempre prediletta, poi in seguito riabilitata (talvolta) negli anni adulti, della timidezza. La propensione dell'animo che ha ben chiaro che cosa sia un sano e civile diritto alla privacy. Da ribattezzare in quanto giusta causa e buona ragione individuale a poter dedicarsi senza troppi ostacoli a una vita vissuta all'insegna dei privilegi, ad altri incomprensibili, che il sentimento della timidezza è in grado di offrire. Se coltivato oltre gli aspetti istintivi e originati. Quando pur essa venga con coerenza e a ragion veduta non più combattuta, bensì inclusa nella propria storia. Perché la timidezza è punto di partenza e compagna di ogni propensione alla vita schiva; nell'incontro con la sua alleata elettiva, la solitudine. In quanto esperienza interiore, intima, indicibile a chicchessia, che conferisce pienezza e non desolazione a quanto sia dato vivere sui crinali dello sconforto.
La timidezza, in tal modo, si rende una forma di sensibilità verso il mondo e se stessi, del tutto alleata alla passione per la solitudine come desiderio. Da difendere, con spontaneità e da esibire in ogni circostanza, sia questa amorosa, famigliare, amicale e financo, in quanto forma trasparente di stare tra gli altri, professionale. Come una ricchezza dunque: per nulla come debolezza e passiva fragilità. Poiché, per molti, furono proprio le traversie del percepire e dell'agire timidamente la vita, non di certo le patologie fobiche e le sue derive morbose, a tributare un valore più alto a ciò che si rende emblema di una forza d'animo dotata di spirito di indipendenza. La timidezza, rafforzata dalle scelte solitarie, con la solitudine come iniziazione a essa, può essere in grado di rafforzare il carattere, le condotte, le decisioni che possono contare più di altre se, in una lizza tutta segreta dentro di sé, la posta in gioco sia il percepire (tra ragione e sentire) che si va adempiendo una crescita interiore come scopo esistenziale.
La scelta schiva, di cui qui si leggerà, non equivale pertanto a "schivare la vita". A ritrarsi in una beata vacanza in qualche luogo disabitato, per inseguire la propria felicità in santa pace. Smettendo - di punto in bianco - di frequentare il prossimo. Occorre imparare a prenderne le distanze (proverbiale attitudine dei timidi) proprio nei momenti di maggiore pienezza dell'emozione di vivere insieme ad altri. Imparando a partire e a viaggiare da soli, a camminare senza alcuna compagnia, a chiudersi la porta alle spalle esigendo che nessuno disturbi, non per lavoro ma per pensare in libertà. Questi sono atti "topici". E poi: dormire da soli, gironzolare per strade sconosciute o per musei senza ciceroni di sorta, rifugiarsi in una biblioteca e, anche se non credenti, in una chiesa. Senza che per perseguire il proprio intento si debba scendere in un rifugio o in una trincea; dalla quale osservare - attraverso gli occhi altrui -. le miserie umane, credendosi protetti e innocenti. Si tratta, semmai, di riconquistare una possibilità di convivenza, seppur instabile, come tutto, tra il diritto a dire onestamente "questo sono io" e il resto del mondo, che si renderebbe più amabile, più evoluto, più assennato se intraprendesse i nostri esperimenti con la solitudine. A tale scopo, far esercizi schivi, nel vicino o nel lontano, per poco o per molto, ci aiuterà a capire quale sia il livello di tolleranza e di sopportabilità del nostro saper stare soli.
E una prova di maturità questa nell'interminabile iniziazione a essa.
Ammesso che l'inseguirla possa ancora aver un peso. La più ardua, specie se non ci congediamo dalla comunità dei nostri simili almeno di quando in quando per masochismo, per espiazione o per misantropia. Per qualche sofferenza psichica che la solitudine non può guarire. Piuttosto per iniziarci, in questa libertà privilegiata già di per sé rara e non comune, a qualcosa di inusuale, che riserva sempre sorprese, che non interrompe anzi prolunga la nostra autoeducazione. Quando il compimento della nostra storia di formazione inizia proprio quando ci chiediamo se siamo in grado di diventare maestri di noi stessi. Non soltanto esploratori dei nostri enigmi. Sapendo ormai bene quel che vogliamo da scelte controcorrente, anticonformiste, eccentriche, incomprese.” (pp. 23-25)
“Occasioni e forme del sentire” (p. 33), timidezza e solitudine sono intimamente associate:
“Chi la timidezza abbia incontrato in passato sulla propria strada o ancora la provi come il primo giorno, seppur nel mutar della vita, è più abituato di altri a confrontarsi con le necessità e le circostanze della solitudine. A non temerle, anzi a desiderarle. A renderle parte accetta e integrante, ineliminabile, della propria storia.
Chi la solitudine prediliga o l'abbia eletta a costume e condotta, non può non essersi incontrato con la timidezza, che invoglia e abitua a evitare la gente e ad appartarsi. Avendo scelto se stesso per compagno o compagna ideali, in appagante e intima amicizia. Non più disposto a barattare la propria libertà di andare e venire a proprio piacimento. Secondo un estro che non disdegna del tutto il ricomparire in pubblico, lesinando le frequentazioni.” (p. 33)
“Le emozioni derivanti da entrambe, pur non coincidenti del tutto, costituiscono ciò che in questo libro si è scelto di chiamare "sentire schivo". Non esauribile in un istante, bensì frequentato da chiunque nutra una naturale propensione per scelte di allontanamento, radicali o discrete, dai propri simili.
Il sentire schivo cercato dona intensi momenti di serenità o di vigorosa concentrazione a coloro che avvertuno istintivamente tale richiamo e che sono disponibili, quasi in una autodisciplina morale, a educarsi a esso. Più disponibili di altri a soffermarsi a ricordare; a riflettere sulla propria storia, a ragionare su di sé. Senza alcun altro intento che non sia provarne il più personale diletto. Cui risonanze di natura etica, non sono certo estranee; poiché quanto ha il potere di rafforzare il senso dell'io, l'esplorazione della propria interiorità, genera ritorni inaspettati e più convinti. Questi spazi, in cui pur non ritenendoci timidi lo diventiamo prendendo le distanze, schivando i mondi abituali, andando a cercare la solitudine, sono dunque (e da gran tempo) quanto di più propizio per l'introspezione, la scrittura, la preghiera, la contemplazione. Tutti motivi che concorrono alla nostra, interminabile, formazione invisibile, segreta, attraversata da reversibilità preziose e da meno tenaci resistenze al cambiamento.” (p. 37)
La timidezza promuove la solitudine perché essa, intesa in senso proprio, la postula come bisogno:
“Si diventa timidi: non solo - alcuni affermano - si nasce tali, per violenze subite, per soprusi e traumi pressoché inguaribili. Ma, in tali casi gravi, occorrerebbe trovare altre parole invece di continuare ad agitare lo spettro della timidezza per designare ciò che, ben oltre un disturbo psichico indotto, costituisce un'ipersensibilità non necessariamente devastata da una ferita. La timidezza è ben più di una condotta difensiva, una sorta di sindrome autoprotettiva: è una figura dell'umano, una voglia di vivere dalle caratteristiche peculiari. Si divincola se tentiamo di ridurla a una categoria clinica; accetta semmai di restare una evocazione letteraria. Essa va riletta in ogni storia di vita, poiché non vi è esistenza individuale che non la conosca, pur in forme leggere, episodiche, mutevoli nel tempo. Nella facoltà riconosciuta di divenire quello che gli schivi non possono che essere: i latori di una sensibilità eccessiva. In sicura controtendenza, se le consuetudini dominanti, i costumi accettati continueranno sempre (come pare) a esaltare aggressività e rivalità sleali. A niente che non sia, più che "normale". Questo modo di essere, che non cessa di apparire segno di follia, di pessimismo, di depressione - senza gli eccessi dolorosi possibili - sempre più arriva a consolidarsi mutandosi in stile esistenziale duraturo. Fino ad attraversare tutte le età, in declinazioni pur differenti, che rendono la solitudine il motivo conduttore, e ispiratore, la risorsa emotiva e intellettuale, di tutta una vita. Chi la timidezza ha sofferto e ha patito, ingessato nel silenzio che non riusciva a infrangere, di questo stato trascorso può avere un ricordo sofferto o viceversa consolante, ma quale sia la sua storia, quali i conti non del tutto risolti, da essa avrà imparato. Ne avrà ormai meno timore, potrà considerarla finalmente un vantaggio e un antidoto per disavventure peggiori. Quasi un tirocinio di cui non ci si può stancare, un'educazione alla tenacia del carattere, un dischiudersi di altre sensibilità. Del tutto ignote ai presuntuosi, ai sicuri di sé, agli arroganti. A patto che non sia caduto nella trappola di rivaleggiare con i loro modi, disperdendo le qualità insostituibili del sentimento e delle virtù della timidezza.” (pp. 38-39)
Nel nostro mondo: “La comunità dispersa dei "puri di cuore', dei "nobili d'animo", dei "beati" in spirito, degli "incapaci di vivere", è sempre più una minoranza in pericolo che rischia l'estinzione, per forze impari e troppo malthusiane prepotenze.
E, invece, la timidezza quando da sentimento si rende tenacia morale, ecco che ci mostra altri suoi volti:
- è alle radici delle filosofie dedite alla meditazione interiore;
- è il requisito che muove la ricerca individuale di un dio nascosto nei luoghi del silenzio o di una natura priva di ogni eco trascendente;
- è la condizione senza la quale la preghiera - credente o miscredente -, la meditazione, il piacere di contemplare non potrebbero darsi;
- è la necessaria pietra dello scandalo in un universo dove il male assoluto, disordinato e inestinguibile, è la violenza che ogni timido teme per sé e per tutti.
Perciò la più vera, originaria, natura della timidezza è una pulsione di vita e non di morte. Tanto più perché la mente timida ne è costantemente abitata, così pervasa dal sentimento della fine, della efemericità del tutto. Dalla assillante presenza dell" esperienza dell'Insolubile".'
La tristezza che i timidi-solitari frequentano tanto spesso, nelle declinazioni della malinconia, della nostalgia, della tragicità del proprio essere apparsi al mondo, trovano come loro riscatto, la tensione e la ripetuta tentazione spasmodica di vivere fino in fondo tali umori. In quanto momenti della vita da conoscere senza rimuoverli da sé o rifuggirli, in quanto sottrarrebbero tempo (e denaro) da spendere altrimenti, da bruciare in istanti che la lentezza proverbiale di chi insegue la solitudine non può sopportare. Poiché i timidi ben hanno imparato a riconoscerne la funesta presenza, sul ciglio di quel nulla che li ha sempre attratti. Nelle sembianze di un timoroso accostarsi agli altri, in quel senso di vuoto e di vanità di ogni cosa innanzitutto. Nella paura di esporsi troppo, di alzare la voce o soltanto di parlare in pubblico. Chi è nato nel sentire timido conosce assai bene l'esitazione, la fragilità, il dubbio e non si rende conto sovente invece di quanta sapienza per la preparazione al vivere, per la sussistenza quotidiana, si celi in tutto ciò. Però ha coltivato in sé, in questa esorbitante titubanza, la volontà tenace di non soccombere alle prepotenze del mondo e, per di più, senza mostrare alcuna invidia per i prepotenti. Semmai, molta ironia e dileggio nei loro confronti. Il compito dei timidi, che tali tengano a restare - segno inequivocabile di uno scatto verso la meta ancora ambita della maturità alla quale nel loro incedere incerto sono più vicini di altri - può consistere nel tentare di educare alla vita schiva coloro che la rifuggano. La cui ragion d'essere, lo si vuol ribadire, non è certo ascrivibile, o riducibile, a un tipo umano e tanto meno psicologico. E piuttosto una qualità dell'intelletto, oltre che un'esperienza emotiva; la quale da sempre disprezzata dagli spavaldi ha informato la storia del pensiero umano cui necessita la solitudine per germinare e poi tornare al mondo.” (p. 51)
2.
Il saggio è un approfondimento di queste tematiche enunciate nella prima parte. La densità dello stile, raffinato e spesso sincopato, che per ciò ricorda la maestria di Nietzsche, rende difficile estrapolare i nodi concettuali. Due di questi, però, correlati tra loro, sembrano particolarmente importanti. Il primo è la necessità di salvaguardare una minoranza depositaria di indefiniti valori rispetto ad una pressione normativa orientata a promuovere una selezione culturale. Una specie in estinzione è il titolo di un capitolo. Si legge in esso un accorato appello rivolto ai timidi di serbare fede e di coltivare il proprio modo di essere:
“I timidi possono recidere lo spago, lo sanno fare meglio, con più pazienza e minor clamore di tanti altri, se non pensassero - noiosi perdonabili - alla loro sedicente disgrazia. Tanto, quel laccio originario non li abbandonerà mai del tutto e sarà la loro salvezza, una paradossale libertà dalle leggi di sopravvivenza, cui dovranno adeguarsi. Certi, almeno, di aver pagato la pigione per quella feritoia, per quello strappo nel panno, da cui vedere e non essere visti. Torto del tutto non hanno. Si sentono squadrati, esaminati, stuzzicati da microscopi e stetoscopi volti a cogliere ogni sommesso colpo di tosse: come possono i timidi non essere stanchi di venir tappati in una teca? Come accusarli di non aprire la bocca? Riusciranno mai. a esibire i loro talenti? No, finché non comprenderanno quale filosofia e poesia li accolga e li attenda. Per esempio qui, tra le pagine di chi pensa che l'esistere abbia ancora un senso per loro. Qui, e non nella sala d'aspetto di uno psicologo, se troppo grave non è il loro silenzio, dovrebbero trovare una dimora e una liberazione: finalmente discesi dal trespolo. Poiché non comprendono, ancora, che non a una padronanza di sé spavalda debbono ambire, inutili emuli di quanto mai apparterrà toro. Bensì alle parole desuete che balbettano, ma che hanno come il dovere di riconsegnare al linguaggio umano involgarito e aggressivo. Senza più disporsi ad accettare, nel romitaggio bambino nascosto, pur per ore passato da un balcone a spiare, una condizione penosa, un graffio inguaribile. Poiché il suo rimarginarsi tacerebbe quel canto, sprecherebbe la a lungo accumulata riserva interiore, la spoglierebbe di valore. Non di quello di far sentire più densa la vita. Giorno per giorno messa da parte, in una trincea per quell'età adulta dove non c'è mai perdono o assoluzione, peri fuori casta.” (pp. 80-81)
L’appello ribadisce l’appartenenza dei timidi ad una categoria speciale:
“I timidi hanno dentro di loro zone di buio (ora è mistero, ora è riservatezza, ora è gusto del segreto e dell'indicibile), conversano con le figure oscure della notte. Da questa condizione di vita non luminosa, compiono escursioni verso le fioche luci accontentandosi di rarefatti bagliori, il riscatto dei timidi, almeno in una accezione filosofica, era in verità già iniziato. Tutti sono miserandi e vili, senza alcuna distinzione; si può pur attendere a correggere la propria natura, ciò tuttavia non varrà a salvare chicchessia, anche il più nobile d'animo, di braccia, di talento. Poiché è l'essere nati - e il dover morire - a custodire la tragicità e cioè la futilità, l'inconsistenza, la vanità di ogni cosa apparsa sotto il sole. La loro sensibilità non li esime di certo dall'essere mortali e uomini quindi, ma li decreta creature speciali che possono aver timore della luce viva, poiché questa è la grande illusione. La luce-vita non può durare per sempre. Mentre noi, venendo dalla notte, torniamo a essa in una parentesi breve, che merita la più assorta meditazione. I lirici greci, Pindaro in specie, già tutto ciò avevano poetato assieme ai tragici.
Avvalendoci ancora del dizionario etimologico, scopriamo che la più diretta derivazione dalla parola latina timiditas contiene alla radice l'etimo greco zumòs: cuore (la vera sede del coraggio vitale e anche le figure del desiderio, del sentimento, della passione). In tal modo, le cose sembrano completamente ribaltarsi: chi è affetto da timiditas è donna o uomo che sente ben più profondamente di altri. Per estensione diviene chi sente quel che altri non sanno cogliere, vedere, percepire. L'indovino, il profeta, il veggente?” (pp. 100-101)
L’impresa è indubbiamente difficile data la persistenza del pregiudizio:
“La morale popolare e più dotta, il pregiudizio e la diffidenza che insorge ancora verso il più debole, il più fragile e l'imbelle - nonostante millenni di lezione cristiana - ha dietro di sé lasciato una miriade di infelici messi alla berlina, che pure in non minuscola parte sono stati donne e uomini di genio. Pur impacciati nella parola, autosegregati nei loro scrittoi e nelle botteghe d'artista, a studiare i classici o il moto delle stelle, a comporre musica nella trepidazione poi di dover leggere in pubblico o suonarla. Questo accadde - forse non accade più - agli infettati da una timidezza non molesta, pur sempre troppo eccentrica da poter essere tollerata dalla perfidia delle classi scolastiche, delle comunità autorevoli o di strada di ogni risma. Non tutti, pur dotati di talento, oscuro e irriso dai solari loro antagonisti, ban potuto salvarsi e vivere un po' di felicità, trovando luoghi, affetti, propri simili in grado di fondare altri modi di esistere, refrattari tanto al gioco dei potenti, quanto alle tenzoni cavalleresche di ogni sorta. Perché può accadere (e accadde un tempo ancor più) che il timido, a lungo andare, creda veramente alla sua perversione, alla sua diversità nefasta e faccia di tutto per accontentare il suo persecutore. In una catena infinita di collusioni con l'avversario e di ripetizioni compulsive, tra il comico di un competere che non si addice a chi - tradendo se stesso - si getta nella mischia quando questa non tanto gli fa paura, quanto semmai non costituisca il suo ideale di vita. I timidi sono stati gli antesignani di una modernità the ne ha riconosciuto i diritti non psicologici, quanto utopici. C'è infatti questo in uno stile di pensiero che muta la vigliaccheria in desiderio di pace; la diatriba vociante, in un bisogno di ragionamento composto; la esibizione sfrontata e il culto sfacciato del denaro verso chi non possiede, in un modo di vita umile e parco. Si dia uno sguardo alla crudeltà di questi proverbi di "saggezza popolare". Tale costume, nonostante i ripetuti tentativi di risollevare le sorti dei timidi (eguagliandoli anche ai puri di cuore del Vangelo, come oltre si vedrà) all'insegna della mutazione della originaria viltà in mansuetudine, non è stato certo tenero nei secoli con i timidi. Quando così li apostrofa: "Cavallo timido nulla vale alla corsa"; "cuore timido è sempre in pericolo"; 'l'uomo timido ha poca fortuna"; "la madre del timido non pianse mai" (sottointeso per averlo perso); "mercante timido, scarso guadagno"; "a can mansueto, il lupo nel saliceto". E ancora, sulla scia di Montesquieu: "Ogni timidezza è soltanto schiavitù"” (p. 94-95)
L’impresa è resa ancora più difficile dalla costanza con cui i timidi convivono con sensi di colpa:
"Che ho fatto di male?" si chiedono coloro che tale gravame fino all'uscita di scena non sanno spiegarsi. Si interrogano inutilmente sulle ragioni delle persecuzioni, dei soprusi, dell'essere divenuti capri espiatori: agnelli, capretti, uccelli gentili…
Ancestrale al timido tocca questa sorte, potrà avere pur una vita quasi felice, ma la malasorte graverà su di lui o su di lei in forma di domanda esistenziale. Dal "perché proprio a me questo sentirmi in colpa", pur non avendo nulla commesso, al "perché nel mondo, della vita, nulla è dato fino in fondo sapere?" I filosofi dell'esistenza, i grandi mistici, chiunque sia tormentato da queste domande diviene parente dei timidi, non dandosi pace circa il mistero dell'essere. Capri espiatori di coloro che sono indifferenti a tali domande, un popolo capace di tutto pur di rubare, comprare, scannare il proprio capro di turno.” (pp. 102-103)
Quando a questi perché non segue una riflessione filosofica, è inevitabile lo scoramento:
“Oltre ai sentimenti dolenti della malinconia, della nostalgia, la "cardialgia" si aggiunge al repertorio del sentir timido: lo scoramento acuto dinanzi all'impotenza del non riuscire a capire e del sentirsi in difetto per questo. E il grido dell'uccello che vorrebbe evadere dalla gabbia dell'esistenza, ancora una volta. L'assurdo, l'insensato, l'irrazionale agita l'animo delle timidezze a vocazione filosofica.” (p. 104)
La mescolanza di emozioni che sottendono l’esperienza della timidezza, non di rado raggiungendo un livello di intensa sofferenza soggettiva, permettono di comprendere l’interesse delle scienze psicologiche e psichiatriche nei loro confronti. Questo nodo – la trasformazione di un modo di essere in una “malattia” – è affrontato dall’autore con evidente, e giusta, indignazione. Egli sottilmente ricostruisce la storia di quell’interesse che muove, purtroppo, dal pregiudizio implicito nell’originaria definizione junghiana dell’introversione:
“Nel 1921, Jung - come già ricordato - introduce la celebre distinzione tra introversione ed estroversione, in quanto polarità strutturali dei processi psichici di natura inconscia e ai timidi, naturalmente, non poteva che essere assegnatala prima casella. L'allievo (ripudiato) di Freud precisava che in merito all"introversione" "non si hanno" o meglio avevano allora - "dati sufficienti sull'introverso, che sfugge a ogni possibilità di osservazione". Il quale è tipo che "sottrae libido all'oggetto". Nella sua sfuggenza "si orienta in base a criteri soggettivi", "attua una morbosa soggettivazione della coscienza"," "rimane nell'ombra". Poiché: "Inadatto al reale, l'introverso vive in un sentiero interno di incertezza che traduce la sua frequente timidezza. La riflessione sull'atto, interminabile, paralizza regolarmente il su potere di decisione. Se presenta un eccesso di emotività.., si chiude ermeticamente in una sensibilità dolorosa che consola sognando"," Soprattutto, in quanto "psicoastenico" (di fatto un depresso), "non possiede il senso della realtà". Chi ne è affetto, di conseguenza, è soggetto riconoscibile per "irresoluzione", "incoerenza", "eccesso di scrupoli", "schivo", "suscettibile", troppo "amico dei libri", "docile", "dolce". Inoltre, il fondatore della psicologia analitica era costretto a dover ammettere che: "Possiamo frequentarli per parecchi anni senza capirli, tanto sono protetti da una corazza inveterata e retrattili al contatto" (p. 110)
Tale pregiudizio raggiunge il suo acme con la neurobiologia contemporanea, che assume univocamente la timidezza come sintomo e ne ricerca il fondamento genetico:
“E’ con le neuroscienze che il quadro di riferimento, comunque di ispirazione filosofica e umanistica muta radicalmente con l'attuale e trionfante versione neurobiologica di ciò che, senza dubbio, ad alcuni appare finalmente come una sindrome circoscritta, isolabile grazie alla identificazione del "gene" della timidezza e dei suoi intimi ripiegamenti.
Che analisi conduce la scienza psicologica sulla timidezza, chi sono i timidi per la clinica, psichiatrica e non solo, più recente? Li si descrive come chi, ormai la faccenda è trita: "Sta in disparte. Preferisce il silenzio. Non socializza. Ha difficoltà a giocare con i coetanei. E un timido. Almeno il 10 per cento dei bambini sono così. Lo sono a scuola, lo sono sempre, con i coetanei e con gli adulti. Colpa di un gene (5-HNLR) ci dicono le ultimissime ricerche... Chi ha il gene è più inibito dei suoi coetanei, non riesce a incontrarsi con gli altri, rischia l'emarginazione. Non solo ha molte probabilità di diventare, da adulto, una persona ansiosa, un alcolista, per esempio, dal momento che l'alcol è uno dei più potenti ansiolitici che si conoscano". E inoltre i timidi già condannati (o introversi) affronterebbero con minori difese irnmunitarie lo stress, soffrirebbero di più esposizione ai virus, fra cui l'HIV, e quando si ammalano il loro decesso avverrebbe prima degli altri ammalati. Si ammette - con nostro sollievo- che non può esistere "una definizione univoca di timidezza o piuttosto ne esistono troppe".” (pp. 114-115)
A questo stolto radicalismo si oppongono, nell’ambito della psicologia e della psichiatria, alcune voci fuori dal coro. Tra queste, viene citata anche la mia:
“Ma perché la "natura" insiste a tirare fuori dal pool genetico una quota di corredi introversi? Dal momento che costoro rappresenterebbero un costo! sociale, una "quota minoritaria" disfunzionale? "Perché l'introversione non è incorsa nella selezione naturale?" La risposta illuminante è che "i corredi introversi contengano delle potenzialità indispensabili per la sopravvivenza e l'evoluzione della specie".` E si prosegue: "Una parte rilevante della cultura.., è dovuta agli introversi.., quasi tutti dispongono di una qualche attitudine creativa... Se si cancellasse dalla storia il contributo degli introversi, il patrimonio culturale dell'umanità ne uscirebbe terribilmente impoverito"." (p. 119)
L’illuminazione viene ripresa nel capitoletto che segue con un ulteriore citazione che viene commentata:
“Un poco di nuova speranza ci riconquista, quando leggiamo, in un testo di "psichiatria critica", che c'è una domanda di infinito nel "corredo emozionale umano", un'ansia esistenziale" che viene sepolta dentro ciascuno di noi per non morirne. "Essa lo costringe a interrogarsi sulla condizione umana e sul suo significato, a riflettere, a chiedersi che cos'è il bene, il male, il giusto... per quanto poco gradevole l'ansia esistenziale obbliga, insomma, l'uomo a filosofare e a prendere posizione"» L'enigma dell'infinito salverebbe chi arrossisce ancora, chi si isola per non essere visto, chi non riesce a pensare a cose soltanto effimere. Forse è, per noi, invece proprio l'enigma della finitezza, la tragicità della scomparsa ineluttabile di ogni cosa a giustificare, ancora, la presenza degli schivi.
I quali senza dover diventare per forza dei solitari famosi, sono comunque il simbolo di una resistenza alla estroversione globale del mondo che se i timidi almeno una volta nella vita non tenteranno di ostacolare, forti della loro mite fermezza, non potrà non danneggiare la terra.
La percezione del finito è sensibilità meditativa per le radici di un'esistenza individuale e assolutamente unica, la cui unicità, la cui storia, non potrà essere salvata, ma almeno raccontata: se la solitudine non farà più paura. Perché dovrà costituire un avamposto disperso di ignoti però affratellati. Si è scritto: "La paura della solitudine è stata come una palla al piede che ha soffocato l'ambizione, un ostacolo alla pienezza della vita al pari della persecuzione, delle discriminazioni e della povertà. Finché non si spezza questa catena, la libertà di molti resta un incubo".
Spezzare la catena, restituire al timido uccello il colore di un volto antico (a chiunque ignoto), che per sempre avrebbe dovuto punirlo per la buona e santa azione, è il riscatto di chi la timidezza vuole salvare, senza impronta alcuna, foss'anche divina.” (p. 121-122)
Gli ulteriori capitoli del saggio sono variazioni sui temi focalizzati nella prima parte, arricchite da citazioni letterarie e filosofiche. Per quanto suggestive (ma non tutte: gli “esercizi” di iniziazione alla vita schiva sono poco praticabili, a mio avviso), esse nulla aggiungono sul piano concettuale a quanto già espresso. Accentuano, casomai, ciò che nella prima parte è implicito: se non sono tout-court artisti, i timidi, attraverso la coltivazione della solitudine riflessiva e meditativa, sono destinati a realizzare una vita interiormente (e affettivamente) piena e significativa. Quando vi riescono, il loro lascito all’umanità equivale ad un riscatto, illustrato nelle pagini finali del libro nei seguenti, splendidi termini:
“Un debito sociale agli schivi per timidezza compete assolvere. Tuttavia non li esonera e salva dai turbamenti delle uscite di scena. Non garantisce loro che la pena sia meno dolorosa, poiché tanta ne hanno vissuta e pagata per esclusione, rifiuto, negazione. Alla quale hanno reagito con il carico di lirismo che li ha sorretti, li ha visti crescere almeno come poeti anche senza aver scritto un verso.
E lo scotto, ultima virtù tra quelle del congedo, di saper restituire al mondo quel che la cattiveria, la perfidia, la non curanza altrui può aver sottratto loro.
Non si entra però nell'ellissi virtuosa della possibilità di riuscire a sopportare le ultime recite ed esibizioni acrobatiche rifugiandosi altrove o soltanto inseguendo di nuovo questa chimera, La giusta riconsegna non del mal tolto, che non è questo il problema, bensì di quel tanto che la sopportazione ha giornalmente instillato senza distruggere del tutto quella vulnerabilità, quella innocenza poi tante volte per sopravvivere magari tradita, va adempiuta in altro modo. Offrendo la propria forza accumulata in quell'ascetismo coltivato e schivo a chi più ancora è terrorizzato dalla solitudine, a chi la rifiutò per legittima aspettativa sociale, a chi disperatamente ne fa esperienza solo giunto all'epilogo.
In un lirismo che la rivolta contro la solitudine muta in ode collettiva di mutua sodale carità. Poco importa se all'insegna dell'immanenza o della certezza in un aldilà. Tanto presente nella poetica di Hikmet, quando si prende coscienza che: "La vecchiaia la solitudine e io e poi una malinconia tutti / e quattro camminiamo fianco a fianco senza parlarci / ciascuno cammina solo ma siamo l'uno a fianco dell'altro / che cosa non avremmo dato gli uni e gli altri per non sentire / il rumore dei passi gli uni degli altri / dentro di noi abbiamo pietà imprechiamo gli uni contro gli /altri ma ci amiamo perché non crediamo gli uni negli altri / che cosa non avremmo dato per arrivare a un incrocio e infilare / presto quattro strade diverse ma non so se uno di noi / morisse se quelli che restano sarebbero contenti",'
Nessuna rinuncia quindi ci attende. Semmai, il riscatto delle meschinità, delle pochezze, delle avidità terminali nelle quali troppa solitudine può gettarci. Nel gran finale senza riflettori, alla solitudine va restituita la sua alta dignità disposti a non rinnegarla per sé, ma al contempo a mitigarla, rifiutandola, invece per gli altri. Affinché non sia mera "consacrazione" (irreligiosa o fiduciosamente credente) alla "ascesi" di coloro che abbiano fatto questa scelta, convinti di aver superato radicalmente le relatività umane. Nell'allucinato sentimento di accedere "a un'eternità soggettiva avendo dato loro l'illusione di una liberazione totale"” (pp. 258-259)
2.
La trama concettuale del saggio sembra, nel complesso, sovrapponibile per molti aspetti all’analisi condotta in Timido, docile, ardente, in particolare per quanto concerne l’identificazione della timidezza come indizio quasi infallibile di una dotazione originaria fuori del comune edi un modo di essere interiormente sempre molto ricco, problematico e in varia misura creativo.
La sostanziale concordanza dei contenuti può, ad una prima lettura, mascherare alcune differenze che mi sembra doveroso rilevare.
La prima, più rilevante di quanto possa apparire, è di ordine terminologico. Demetrio rifiuta il termine introversione in quanto la sua adozione da parte di Jung coincide con la psicologizzazione e la psichiatrizzazione di un modo di essere che egli considera uno dei registri su cui si declina l’esperienza umana. Al suo posto, sceglie il termine timidezza che, in virtù della naturale associazione con la solitudine, configura quel modo di essere come un sentire schivo. La scelta non mi sembra felice.
La timidezza è imprescindibile dal contatto con il mondo esterno, con il mondo sociale: essa rappresenta l’indizio comportamentale di una difficoltà ad adeguarsi alle “normali” richieste della vita di relazione. Non penso che questo indizio possa essere assunto come naturale. Tra le caratteristiche genotipiche dell’introversione senz’altro si dà la riservatezza, vale a dire una sorta di pudore riferito al mondo privato, interno, che può essere sormontato solo quando si danno circostanze di rapporto all’interno della quali si stabilisce una sintonia comunicativa intersoggettiva e si sperimenta una qualche affinità.
La timidezza si può ritenere uno sviluppo almeno in parte negativo dell’introversione, poiché solitamente essa somma alla riservatezza una componente di vergogna, vale a dire un sentimento che va ben al di là della riservatezza, implicando la paura del giudizio sociale. Tale paura, in parte giustificata dal pregiudizio sociale, è anche sempre proiettiva: essa, insomma, rivela l’interiorizzazione da parte del soggetto del codice normativo sotteso al pregiudizio.
Tra i numerosi termini che la psicoanalisi e le discipline psicologiche hanno prodotto nel corso della loro storia, introversione ed estroversione sono tra i più felici e pregnanti. Essi infatti fanno capo alla diversa attrazione che rispettivamente il mondo interno e quello esterno esercitano sulla soggettività. Altrove ho illustrato i motivi per cui lo spettro genetico che combina le due componenti si può ritenere uno stratagemma evoluzionistico di grande significato, poiché esso ha privilegiato e privilegia, attraverso la maggioranza tendenzialmente estroversa, la trasformazione del mondo esterno e l’adattamento ad esso, riservando ad una minoranza l’esplorazione dei mondi e dei modi di essere possibili.
L’uso che la cultura fa delle combinazioni genetiche è legato a circostanze storiche. Introversione ed estroversione, in quanto geneticamente determinate, esistono da sempre. Anche la riservatezza, in quanto espressione primaria dell’introversione, esiste da sempre. La timidezza, invece, anche arricchita dei significati che ad essa associa Demetrio, almeno come oggi la conosciamo, è l’espressione dell’interazione dei soggetti introversi con un determinato mondo storico.
La questione terminologica fa capo ad un’altra differenza. Demetrio non è certo un cognitivista (definizione che – presumo – lo offenderebbe), ma, da filosofo, incentra il suo discorso sulla coscienza. Dal suo punto di vista, il disagio che investe i “timidi” è dovuto essenzialmente alla difficoltà che essi hanno di capire il potenziale significativo del loro modo di essere che, se ben coltivato, può portarli a livelli eccellenti di maturazione.
In realtà, le cose sono più complesse. Si entra nel mondo sprovveduti e, prima di raggiungere un minimo di autonomia psicologica, occorre fare i conti con i codici normativi, che ogni bambino vive come assoluti e naturali in quanto li vede rispettati dalla maggioranza delle persone (adulti e coetanei).
Demetrio non nega questo aspetto, ma ritiene che, raggiunta l’autonomia, vale a dire da grandi, ogni soggetto può prendere coscienza del suo modo di essere come diverso rispetto a quello degli altri e procedere verso l’individuazione. In teoria questo è possibile, ma non in virtù di una presa di coscienza o di una riflessione filosofica, bensì dell’intuizione e della comprensione delle valenze oppositive che hanno ostacolato e rendono praticamente impossibile una normalizzazione pure, talora, ardentemente desiderata.
La presa di coscienza dell’alienazione, che sempre più spesso è promossa da un disagio psicologico che il soggetto non riesce a decifrare o interpreta banalmente come espressione della sua inadeguatezza (vissuto associato spesso al disprezzo per il mondo così com’è), è preliminare alla scoperta del senso e delle vicissitudini del modo di essere introverso.
Con rarissime eccezioni, insomma, è l’inconscio che arriva alla verità ben prima della coscienza e, attraverso il malessere, denuncia l’inanità di uno sforzo adattivo che viene quasi sempre perseguito, sia pure con non poche ambivalenze.
E’ un dato di fatto che, nel nostro mondo, gli introversi vivono male, sotto il profilo soggettivo e sociale, e di solito riconducono il proprio malessere a ciò che sperimentano dolorosamente nel contatto con gli altri: la timidezza, appunto, vale a dire una dimensione da cui quasi tutti aspirano ad affrancarsi.
Sollecitarli all’accettazione e alla valorizzazione di questo aspetto attraverso un discorso persuasivo di impostazione filosofica è un nobile intento, che però determina solitamente una reazione negativa, di irritazione se non addirittura di sdegno perché, per come la vivono, accettare l'introversione significa tout-court rassegnarsi ad essere infelici.
Demetrio giustamente rifiuta di iscrivere l’introversione nella cornice di una “patologia”. Pur citandomi come esponente di una “psichiatria critica” (p. 121), egli non può (comprensibilmente, data la scarsa diffusione del mio pensiero) tenere conto del fatto che, nella mia accezione, l’aggettivo definisce di fatto un orientamento antipsichiatrico, vale a dire un modo di rapportarsi alla sofferenza umana, sperimentata dai soggetti come psicologica, che, prescindendo da ogni nosografia, dà ad essa il significato di una protesta inconscia contro l’alienazione che ha irretito l’esperienza soggettiva e che, nel suo stesso porsi, attesta non già l’impossibilità costituzionale di un adattamento alla normalità, bensì il rifiuto (viscerale, inconsapevole, radicale) di adattarsi ad essa.
Nell’ottica antipsichiatrica, il malessere soggettivo è, insomma, l’indizio di un potenziale di sviluppo della personalità che non può realizzarsi entro i limiti della gabbia normativa alienante. Perché quel potenziale si realizzi, giungendo all’autorealizzazione e ad una vita autentica, il soggetto deve però risolvere la scissione dinamica tra la suggestione normativa che inquina il suo essere, ed è spesso rappresentata a livello cosciente sotto forma di desiderio di diventare altro da sè, e l’inconscio che si protende, invece, verso una differenziazione rispettosa della vocazione ad essere personale, la cui realizzazione - sul piano soggettivo, affettivo, sociale e culturale – può portare ad un equilibrio che si mantiene solo sulla base dello sforzo di individuarsi fino al termine della vita.
Più che ricondursi all’antitesi tra normalità e anormalità, l’antipsichiatria nega e ribalta tali categorie. Le nega, nel senso che esse non hanno validità che in un determinato contesto storico-culturale, e le ribalta perché identifica nella normalità corrente una forma inconsapevole di alienazione (o, se si vuole, di rassicurante e inconsapevole "follia") e nell’anormalità l’indizio di una spinta verso la disalienazione (o la “guarigione”) di cui il soggetto deve farsi carico per dilatare la sua coscienza a misura dell’inconscio.
Necessaria perché gli introversi possano trovare un minimo di serenità interiore, che non esclude il procedere ulteriormente verso il massimo possibile, la disalienazione non esclude i “normali”, vale a dire coloro la cui “patologia” giunge a soffocare e a rimuovere la protesta a livello inconscio, che tutt’al più si esprime sotto forma di malessere in apparente (insonnia, ansia, depressione frustra, ecc.). La disalienazione della “normalità” comporta però la necessità di una nuova programmazione sociale e di una nuova cultura, che mobilitino l’esigenza dei soggetti di umanizzarsi piuttosto che adattarsi al mondo così com’è.
Una nuova programmazione sociale significa una riforma delle istituzioni pedagogiche sulla base di una concezione della natura umana affrancata dalla necessità di un ingabbiamento normativo (che produce cittadini adattati) e aperta al potenziale di differenziazione creativa che, sia pure in misura diversa, è implicito in ogni corredo genetico individuale.
Certo, la possibilità di raggiungere uno statuto di equilibrio e di “saggezza” sul piano personale, che è l’obbiettivo proposto da Demetrio, si dà anche nel nostro mondo. Ma, posto che esso sia raggiunto, convivere con una sensibilità che restituisce inesorabilmente come penosa l’esistenza della maggioranza dei soggetti non è un bel vivere, tranne che non ci si chiuda nella torre d’avorio di un’esperienza elitaria. L’esperienza di Nietzsche, che si è cimentato su questo terreno, attesta che questa soluzione può essere addirittura pericolosa, almeno per gli introversi geniali.
La disalienazione individuale non può prescindere da una persistente preoccupazione per lo stato di cose esistente nel mondo. Nessuna società, presumibilmente, sarà mai del tutto affrancata dalla necessità di un codice normativo e dall’esigenza che la maggioranza della popolazione si adatti ad esso senza metterne sistematicamente in discussione le norme, le regole e i valori e senza interrogarsi sul loro significato storico. Ciò non significa però che i codici normativi si equivalgano. Nulla vieta di pensare che un nuovo codice normativo possa promuovere, oltre all’adattamento all’esistente, una qualche attenzione al mondo interiore e al suo protendersi, in varia misura, verso una differenziazione personale che accresce il tasso di autenticità e riduce il conformismo passivo.
La preoccupazione degli introversi per lo stato di cose esistente postula, risolti i problemi personali, la definizione di un progetto comune il cui obbiettivo, utopistico ma non dereistico, è e non può essere che una rivoluzione culturale, all’insegna del motto proverbiale per cui chi libera se (e nella misura in cui si libera) libera gli altri.
La LIDI, come noto, è nata con questo duplice intento.
Le differenze tra La vita schiva e Timido, docile, ardente sono, dunque, notevoli, al di là delle concordanze che riguardano i presupposti di partenza e gli esiti delle due ricerche, singolarmente simili. Esse impongono una riflessione finale sul conflitto, che si va delineando all’interno della nostra cultura, tra approccio umanistico e approccio scientifico alla condizione umana. Si tratta di un tema la cui densità richiederà, forse, una trattazione a parte. Mi limito, qui, ad alcuni cenni.
Le insufficienze dell’approccio scientifico – psicologico, psicoanalitico, psichiatrico, ecc. – le ho stigmatizzate a tal punto in tutti i miei scritti che non penso ci sia molto da aggiungere. Lo psicologismo, lo psicoanalismo e la psichiatrizzazione dell’esperienza umana portano lontano dalla verità perché essi prescindono, sia pure in misura diversa, dal presupposto per cui ogni esperienza individuale si struttura, prende forma ed evolve sulla base dell’interazione tra la natura umana e un determinato ambiente storico-sociale. Il nesso reciproco e interattivo tra soggettività e storia sociale è il grande assente nell’ottica delle discipline scientifiche (o pseudoscientifiche) il cui oggetto sono l’uomo e i fatti umani.
Quelle insufficienze consentono di comprendere la lenta e graduale rivendicazione da parte degli umanisti (filosofi, letterati, artisti, ecc.) di avere una voce in capitolo, disponendo essi di un enorme patrimonio culturale al quale l’umanità potrebbe e dovrebbe attingere.
Sono del tutto favorevole, per quanto riguarda lo studio dell’uomo, alla caduta della barriera tra discipline scientifiche e discipline umanistiche. Ma tale caduta non può significare un passo indietro nell’evoluzione della cultura. La psicologia, la psicoanalisi, la psichiatria (per non parlare della neurobiologia e della genetica) sono nate dalla presa d’atto dei limiti interpretativi del patrimonio umanistico in rapporto alla condizione umana. Tali limiti non vanno solo ricondotti ad un difetto di dati inerenti la struttura e il funzionamento del cervello, bensì al fatto che, nonostante la filosofia, la letteratura, l’arte siano in larga misura espressione delle potenzialità creative dell’inconscio, che la coscienza canalizza e organizza, esse non hanno mai avuto la capacità, se non a livello di intuizioni, di approfondire la struttura, la dinamica, le modalità di funzionamento e il senso ultimo della dimensione inconscia.
I filosofi in particolare hanno sondato tale dimensione riconducendola però nell’alveo della Ragione. Non hanno ovviamente mai (o quasi) ignorato l’importanza delle emozioni. Rimane, però un fatto che, se le discipline psicologiche, su questo terreno, sono ancora oggi gravemente lacunose, lo sono anche le discipline umanistiche.
Un filosofo sensibile e colto può interpretare le esperienze umane, normali e patologiche, con una finezza e una profondità maggiori rispetto a qualsivoglia psichiatra e anche a molti psicoanalisti. Remo Bodei, il cui saggio ho recensito, ha dedicato al delirio schizofrenico uno dei testi migliori della letteratura “psichiatrica” contemporanea. Il saggio di Demetrio è un'ulteriore riprova che un filosofo può affrontare tematiche di cui la psicologia e la psichiatria si sono appropriate giungendo ad esiti molto più pertinenti rispetto a quelli cui esse sono pervenute.
Interpretare, però, è una cosa, incidere sull’organizzazione della personalità, fino a promuovere una disalienazione, un’altra. Occorre, a tal fine, fare i conti con lo statuto normalmente mistificato della coscienza e con le dinamiche inconsce, che sono sempre scisse tra l’aspirazione alla normalizzazione e il bisogno di individuazione.
Il conflitto tra discipline scientifiche e discipline umanistiche si potrà risolvere solo in virtù di un’integrazione, che porti gli “specialisti” dei mali dell’anima ad approfondire le tematiche esistenziali e filosofiche sottese ad ogni esperienza soggettiva e gli studiosi umanisti ad interessarsi del patrimonio che la Scienza ha prodotto e continua a produrre in termini più aperti ad un patrimonio la cui ricchezza ha un indubbio spessore filosofico.
Una panantropologia, infine, è la soluzione del problema. Essa però richiederà l’affrancamento delle discipline scientifiche e di quelle umanistiche dalle gabbie "normative" che esse hanno costruito.