Sull'ateismo (1)


1.

Pure essendo stato educato nella tradizione cattolica e avendo tentato sino intorno ai venti anni di dare senso alla fede dedicandomi alla lettura diretta dei testi sacri, le numerose e insolubili contraddizioni in essi presenti, nonché l’incontro folgorante con il pensiero di Marx, hanno indotto un abbandono indolore della religione e il passaggio all’ateismo.

Non ho mai avuto alcun ripensamento in merito né crisi di “astinenza” né suggestioni mistiche. Ho continuato a studiare le religioni come fenomeni culturali di lunga durata nella storia della cultura umana, e ho sentito il bisogno, alcuni anni fa, di scrivere un saggio (Facci un dio...), mai pubblicato, sui testi canonici della Bibbia per chiarire il mistero dell’appropriazione, da parte del Cristianesimo, di una tradizione religiosa - quella veterotestamentaria - radicalmente diversa.

Ho assistito piuttosto sgomento, negli anni ’70 del secolo scorso, al rivolgersi di alcuni cari amici alla filosofia orientale e al loro dedicarsi a varie pratiche di meditazione. Ho assistito, non meno sgomento, a partire dalla metà degli anni ’80, al ritorno alla fede di altri amici che l’avevano abbandonata.

Ateo, dunque, da ormai quasi cinquant’anni, devo riconoscere che, per quanto netto e irreversibile, il mio modo di pensare la questione religiosa non ha nulla del razionalismo intollerante che riscontro in altri atei, conosciuti di persona o attraverso i libri.

Pure riconoscendo che parecchi credenti praticano una fede opportunistica, aspirando alla vita eterna come se non bastasse loro quella terrena piuttosto mediocre, non ritengo tout court che tutti coloro che credono siano spiriti poco critici, bambini terrorizzati dalla morte, bisognosi del ciuccio, come afferma Dawkins, o, addirittura, come sostiene giocando sull’etimologia Odifreddi, “cretini”. Rifiuto definizioni del genere perché, tra l’altro, non penso che, in genere, tutti coloro i quali non credono siano univocamente più maturi, critici e razionali. Molti semplicemente trascurano e rimuovono il confronto con le problematiche esistenziali (chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?).

Nulla mi vieta di pensare che i credenti possano avere l’intuizione di qualche dimensione trascendente che rimane al di fuori del mio orizzonte vissuto. Il problema è che, per quanto possa sforzarmi di comprendere, rievocandola, la suggestione religiosa, la sento del tutto estraneo al mio modo di sentire, di pensare e di vivere.

L’ateismo dichiarato, ma mai protestato con arroganza, non mi ha posto alcun problema in sede di analisi. Ho avuto molti pazienti credenti, e ho rispettato la loro fede, mettendo in discussione solo l’eventuale incidenza di principi religiosi, peraltro malintesi, nella strutturazione conflittuale del loro mondo interiore. Qualcuno di essi, nel corso dell’analisi, ha abbandonato la fede, ma i più sono rimasti credenti.

Alla consueta domanda, che mi è stata rivolta più volte, se non credo proprio in nulla, rispondo che non solo non ho una fede religiosa, ma non ho una fede di alcun genere. La stima e l’ammirazione nei confronti di Marx, Darwin, Freud e Nietzsche riguarda il loro nobile laicismo materialistico, ma non mi hanno mai portato a dichiararmi marxista ortodosso, darwinista, freudiano o nichilista. Penso, come Lèvi-Strauss, che la vicenda umana, nata dal caso, si concluderà senza che l’Universo abbia un fremito, e che l’infinitesimale segmento di tempo dell’esperienza individuale all’interno di questo smisurato intervallo non abbia alcun senso oggettivo.

Questa convinzione non ha alcun accento nichilistico poiché essa non esclude che l’insignificanza oggettiva della vicenda umana possa essere riscattata consapevolmente dal senso che il soggetto riesce a dare consapevolmente ad essa. Ma quale senso può riempire un involucro vuoto?

Anzitutto un senso naturalistico. Non penso sia un vantaggio per un animale essere dotato dell’autoconsapevolezza. Dato che l’uomo ha questa capacità, è giusto che la utilizzi per prendere posizione in rapporto al suo essere un “mostro di belle speranze”, vale a dire un animale neotenico, nato dal caso (o dal caos della complessità), sopravvissuto in nome della solidarietà sociale, capace di soffrire e purtroppo di far soffrire. Prendere posizione significa, né più né meno, affrontare l’alternativa di alleviare la propria mancanza ad essere usando gli altri o coltivare un orientamento incentrato sulla pietas, che comporta il non farsi e il non fare del male (almeno intenzionalmente): il rispetto dell’umano, insomma, in sé e nell’altro, svincolato da qualunque istanza umanitaristica. Tentare di alleviare, in sé e negli altri, le pene dell’esistenza non comporta alcun “amore” per l’uomo, ma solo il riferimento alla sua estrema vulnerabilità.

La casualità della comparsa della specie umana comporta, poi, al di là della pietas, un vivo interesse per la fenomenologia comportamentale dei suoi membri, vale a dire per il “mistero umano”. Naturalmente nessuno può giungere ad assumere l’atteggiamento di un osservatore distaccato, di un alieno che studia etologicamente una specie singolare. L’incapacità di distaccarsi dall’oggetto ha però il vantaggio di potere anzitutto indagare se stessi e approfondire il senso delle proprie contraddizioni, nella misura in cui è possibile attraverso l’introspezione e la considerazione della propria appartenenza storica.

Posto che si riesca ad andare un po’ avanti su questa via, la percezione che la propria soggettività è un frammento forse significativo, ma infinitamente minuscolo della fenomenologia comportamentale umana, nello spazio e nel tempo, sopravviene e orienta a cercare di capire il più possibile gli aspetti complessi e contraddittori di tale fenomenologia.

Ci si orienta, insomma, verso una comprensione e una spiegazione dei comportamenti umani che richiede di approfondire le scienze umane e sociali: l’antropologia culturale, la psicologia individuale e collettiva, la sociologia, la politologia, la storia sociale.

Attraverso questa via non si consegue alcuna verità. Ci si trova di fronte, anzi, all’inquietante contraddizione, presente sotto ogni cielo e in ogni tempo, di un essere che, per alcuni aspetti, meriterebbe di scomparire dalla faccia della Terra a vantaggio degli altri animali e dell’ambiente stesso, e, per altri aspetti, non meriterebbe di venire cancellato dall’Universo quando il sole si spegnerà. Animale ignobile per un verso, soprattutto per quanto concerne il rapporto con i suoi simili, l’uomo ha saputo esprimere anche, attraverso l’arte, la filosofia, la scienza e la lotta per la giustizia, una straordinaria nobiltà.

La lunga indagine, che nessuno potrà mai esaurire, torna così al punto di partenza. Posto che l’abominevole e il nobile convivono nel nostro assetto comportamentale, sia pure in misura diversa, quale di queste dimensioni coltivare? Quale memoria di sé lasciare a coloro che ci conoscono e, laddove possibile, a coloro che verranno dopo di noi?

L’etica atea sta nell’operare una scelta a riguardo e, per quanto mi concerne, nel valorizzare al massimo grado la dimensione neotenica che ha determinato la comparsa della nostra specie. Sono convinto, infatti, che se tale dimensione fosse valorizzata dalla cultura, vivere significherebbe per tutti assecondare il bisogno di ricerca intrinseco all’apparato mentale umano e rispettare il valore di non danneggiare gravemente e intenzionalmente il simile. Venendo meno l’oppressione dell’uomo sull’uomo, lo sfruttamento, la violenza, la guerra, l’esistenza umana non sarebbe affrancata da tutti i mali: sarebbe, semplicemente, più tollerabile.

Il paradiso in terra è un’utopia: la fuoriuscita dell’umanità dalla sua preistoria è, invece, forse ancora possibile.

2.

Questa lunga premessa introduce un discorso sull’ateismo che sta tornando alla ribalta sull’onda dei tentativi delle varie religioni esistenti di accreditare il loro potere salvifico come panacea per i mali molteplici prodotti dalla globalizzazione (paura, insicurezza, precarietà, perdita delle radici, smarrimento esistenziale, ecc.).

In realtà, l’ateismo non è mai morto. Se non esiste un gruppo umano o una cultura che non abbia sviluppato una qualche forma di credenza “religiosa”, non ne esiste (almeno in epoca storica) neppure uno che, al suo interno, non abbia riconosciuto contestazioni più o meno vivaci della credenza in questione. Se il bisogno “religioso” fosse innato o naturale, tale fenomeno sarebbe inesplicabile (se non in termini di “degenerazione”). In realtà, la storia dell’ateismo, com’è possibile ricostruirla su base documentaria, riconosce una serie di figure culturalmente prestigiose. Per citare solo le più importanti basta elencare, oltre ai ben poco noti materialisti indiani che hanno opposto una vivace resistenza nei confronti del radicale spiritualismo che caratterizza l’induismo, Democrito, Lucrezio, Seneca, Voltaire, Holbac, Hume, Schopenauer, Feuerbach, Marx, Darwin, Freud, Nietzsche, Lévi-Strauss.

L’elenco potrebbe essere molto più lungo. Esso concerne autori che conosco e che ho studiato. Il più radicalmente ateo tra essi è Lévi-Strauss, che, peraltro, non ha mai esplicitamente affrontato la tematica religiosa.

A Lévi-Strauss, Antonio Gnoli ha dedicato, su Repubblica del 23 maggio 2008, un articolo impeccabile:

“Quando nel 1934 Claude Lévi-Strauss si imbarcò dal porto di Marsiglia, destinazione le foreste del Brasile, circolava un film che alla giungla aveva innalzato una monumentale metafora di tutte le paure che un mondo altro e arcaico suscitano nell'uomo occidentale. King Kong uscì nelle sale cinematografiche nel 1933 e, come tutti sanno, narra di un re spodestato dal suo regno e portato in catene nella scintillante New York. Lo scimmione è un sovrano sui generis che incute terrore tra gli indigeni dell'isola, fino a quando un manipolo di bianchi immaginano di ricavarne un grande spettacolo: tanto più pittoresco ed efficace quanto più l' immagine del grande gorilla risulterà teatralmente terrificante.

In fondo ciò che l'Occidente, nelle sue componenti più ciniche e affaristiche, ha sempre saputo gestire è la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realtà, la paura - moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri - è un motore formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni, impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti.

Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell'esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un'opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri senza precedenti veri. Nasceva con pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacché alla fine quel libro che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo.

Lévi-Strauss (il grande vecchio compirà cento anni a novembre, si sono tenuti convegni sulla sua figura e altre celebrazioni sono previste in Francia e in Italia) scrisse Tristi tropici in quattro mesi. Il libro nasceva da urgenze diverse: il divorzio dalla prima moglie, la bocciatura al Collège de France, il progetto - vago, seducente e poi abortito - di scrivere un romanzo che avesse come protagonista una specie di truffatore europeo che circuisce gli indigeni della foresta amazzonica. Non so se davvero Lévi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c' è che Tristi tropici è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito. In certe pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell'etnologo, condizionato da un'ambiguità che mina, almeno in parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall'altro è consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si intende indagare. È la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara fin dall'inizio. Tristi tropici si apre con un'affermazione sconcertante: «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». L' odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera così esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques Rousseau.

Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che è civilizzazione. Il peso di quell'odio bilancia l' amore che nutre per l' innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù dei Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévi Strauss visita, fotografa, filma, racconta. È uno sforzo immane quello a cui l' etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all'Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui miserie: di accelerarne la fine. Considera Tristi tropici un'opera di corruzione del lavoro dell' etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull'impressionismo e Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni. Non è che gli impressionisti non sapessero dipingere, ma essi cercavano l' illusione di un' arte spontanea. La stessa illusione è convinto si celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro colore di superficie?

Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienza improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull'India e le caste, sul buddismo e l' Islam. Ma a uno sguardo più attento si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo. Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si imbatte nell'omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato, Rousseau è stato il modo in cui l' Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che l' Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà interamente trasparente. Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono.

Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana.

Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo Emmanuel Lévinas che per definire l' ateismo moderno si richiama al capolavoro levistraussiano: «L'ateismo moderno», scrive Lévinas, «non è la negazione di Dio, è l'indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante». Che cos'è che colpiva in maniera così acuta il filosofo francese? Credo la mancanza di senso - sia della storia, sia del soggetto che in teoria dovrebbe esserne il portatore - che circola in Tristi tropici. Non a caso l' opera fu letta anche come un attacco all'esistenzialismo e in particolare a Jean-Paul Sartre.

«Il mondo», si legge alla fine di Tristi tropici - «è cominciato senza l' uomo e finirà senza di lui». Siamo i privilegiati del pianeta. Solo perché l' arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza. Abbiamo detronizzato la natura, e le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più complesse, sorrette da equilibri precari. «Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso». Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientante visione che Lévi-Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti. Ed è la medesima frustrazione provata nell'assistere alla caduta di King Kong dall' Empire State Building. Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c' era più spazio per la natura e per il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato uomo.”

Penso che l’indifferentismo levi-straussiano sia l’orientamento filosofico più congeniale a chi ritiene espressione di mera presunzione il fatto che un essere cosciente, solo perché dotato della capacità di prevedere la propria fine e non tollerandola, pensi di essere destinato ad una parabola diversa rispetto a quella di tutti gli organismi biologici.

Esso, peraltro, è un orientamento filosofico debole, per quanto fondato su di un’immensa cultura, perché non riconosce altro fondamento che un’intuizione di ordine personale. Come il credente sente che Dio esiste o esiste “qualcosa” di irriducibile alla materia, così Lévi-Strauss sente come insignificante il riferimento alla trascendenza. Quale delle due intuizioni sia più vicina alla verità lo ignoro. Penso, però, che il rispetto che si deve a coloro che credono non può e non deve impedire una critica radicale di ogni forma di spiritualismo su base filosofica, psicologica e soprattutto scientifica. E’ possibile una cosa del genere?

3.

Come accennato, la filosofia, da Democrito a Lévi-Strauss, è ricca di pensatori atei. Pochi di essi, però, hanno dedicato un’attenzione specifica all’ateologia, vale a dire ad un disciplina critica nei confronti di qualunque teologia e capace di edificare un sistema di valori alternativo ad essa-

Tra i precursori di una moderna ateologia si possono citare Jean Meslier con il suo "Testamento" (1729), Paul Henri Thiry barone d'Holbach con "La contagion sacrée" (1768), Denis Diderot con “De l'interpretation de la nature” e Ludwig Feuerbach con "L'essenza del cristianesimo" (1841).

L’elenco si è allungato di recente con la pubblicazione del "Trattato di ateologia" (Fazi, Roma 2007) scritto dal filosofo francese Michel Onfray, il quale ne riassume in questi termini il significato (Repubblica dell’8 settembre 2005):

“Dio è morto? è da vedere. Una buona novella come questa avrebbe dovuto produrre effetti solari di cui si aspetta sempre, e invano, la minima prova. Al posto di un campo fecondo scoperto da una simile scomparsa si constata piuttosto il nichilismo, il culto del niente, la passione del nulla, il gusto morboso del notturno tipico di civiltà che finiscono, il fascino per gli abissi e i buchi senza fondo nei quali si perde l' anima, il corpo, l' identità, l' essere e ogni interesse per qualunque cosa. Quadro sinistro, apocalissi deprimente. La morte di Dio è stata un gadget ontologico, un facile colpo a effetto, consustanziale a un XX secolo che vedeva la morte dovunque: morte dell' arte, morte della filosofia, morte della metafisica, morte del romanzo, morte della tonalità, morte della politica. Si decreti quindi oggi la morte di queste morti fittizie! Un tempo queste false notizie servivano a qualcuno per allestire scenografie di paradossi prima di cambiare la casacca metafisica. La morte della filosofia rendeva possibili libri di filosofia, la morte del romanzo generava romanzi, la morte dell'arte opere d' arte ecc. La morte di Dio ha scatenato la gara a produrre sacro, divino, religione. Noi nuotiamo in quest'acqua lustrale.

Chiaramente, l' annuncio della fine di Dio è stato tanto più rimbombante quanto più era falso. Squilli di tromba, annunci teatrali, si è suonata la grancassa facendo festa troppo presto. L' epoca crolla sotto informazioni venerate come il verbo autorizzato di nuovi oracoli e l' abbondanza va a scapito della qualità e della veracità: mai così tante false informazioni sono state celebrate come altrettante verità rivelate. Per ottenere l' accertamento della morte di Dio, sarebbero stati necessari indizi, prove, corpi del reato. Ma tutto questo manca. Chi ha visto il cadavere? A parte Nietzsche, e neanche...

Come nell' opera di Ionesco, avremmo subito la sua presenza e la sua legge; esso avrebbe infestato, ammorbato, appestato, si sarebbe sfatto a poco a poco, giorno dopo giorno, e noi avremmo assistito a una vera decomposizione - anche nel senso filosofico del termine. Invece di tutto ciò, il Dio invisibile da vivo è rimasto invisibile anche da morto. Effetto annuncio. Siamo ancora in attesa delle prove. Ma chi potrà fornirle? Quale nuovo folle per questo impossibile compito? Dio infatti non è né morto né moribondo - contrariamente a quanto pensavano Nietzsche e Heine. Né morto né moribondo perché non mortale. Una finzione non muore, un'illusione non trapassa mai, un racconto per bambini non si confuta. Né l'ippogrifo né il centauro subiscono la legge dei mammiferi. Un pavone e un cavallo sì: un animale del bestiario mitologico no.

Dio appartiene al bestiario mitologico, come migliaia di altre creature registrate sotto uno degli innumerevoli lemmi dei dizionari, tra Demetra e Dioniso. Il sospiro della creatura oppressa durerà quanto la creatura oppressa, cioè sempre (...). Non si uccide un soffio, un vento, un odore, non si uccide un sogno, un'aspirazione. Dio fabbricato dai mortali a loro immagine ipostatizzata non esiste se non per rendere possibile la vita quotidiana, nonostante il cammino di tutti verso il nulla. Fin quando gli uomini moriranno, una parte di essi non potrà sopportare questa idea e inventerà dei sotterfugi.

Non si assassina un sotterfugio, non lo si uccide. Piuttosto potrebbe essere lui a uccidere noi: poiché Dio manda a morte tutto ciò che gli resiste. In primo luogo la ragione, l' intelligenza, lo spirito critico. Il resto segue per reazione a catena. L' ultimo Dio sparirà con l' ultimo uomo. E con lui spariranno il timore, la paura, l' angoscia, macchine per creare divinità. Il terrore di fronte al nulla, l' incapacità di considerare la morte come un processo naturale, inevitabile, col quale è necessario venire a patti, davanti al quale solo l' intelligenza può essere efficace, ma anche il diniego, la mancanza di senso all'infuori di quello che noi stessi diamo, l' assurdità a priori: sono questi i fasci genealogici del divino. La morte di Dio presuppone l' addomesticamento del nulla. Noi siamo lontani anni luce da un tale progresso ontologico.

Dunque Dio durerà quanto le ragioni che lo fanno esistere; i suoi negatori anche. Ogni genealogia appare fittizia: non esiste una data di nascita per Dio, e neanche per l' ateismo pratico - per quello teorico il discorso è diverso. Proviamo ad avanzare una congettura: il primo uomo - altra finzione - che afferma Dio, deve al tempo stesso o successivamente e alternativamente non credervi. Il dubbio coesiste con la credenza. Il sentimento religioso abita probabilmente lo stesso individuo tormentato dall'incertezza o ossessionato dal diniego. Affermare e negare, sapere e ignorare: un tempo per la genuflessione, un altro per la ribellione, e in funzione delle occasioni creare una divinità o bruciarla. Dio sembra dunque immortale (...). E l' ateo?

La negazione di Dio e dell'aldilà occupa probabilmente una parte dell'anima del primo uomo che crede. Rivolta, ribellione, rifiuto dell'evidenza, irrigidimento di fronte alle decisioni del destino e della necessità, la genealogia dell'ateismo sembra altrettanto semplice di quella della credenza. Satana, Lucifero, il portatore di chiarezza - il filosofo emblematico dei Lumi -, colui che dice no e non vuole sottomettersi alla legge di Dio, si sviluppa in contemporanea in questo periodo fecondo. Il diavolo e Dio rappresentano le due facce di una stessa medaglia, come teismo e ateismo. E tuttavia il termine non è antico e la sua accezione precisa - la posizione di chi nega l' esistenza di Dio se non come finzione costruita dagli uomini per cercare di sopravvivere malgrado l' ineluttabilità della morte - è tardiva in Occidente.

Certo, l' ateo esiste nella Bibbia - Salmi (10, 4 e 14, 1) e Geremia (5, 12) -, ma nell'antichità esso designa talora non chi non crede in Dio, ma colui che non accetta gli dèi dominanti del momento, le loro forme socialmente stabilite. Per molto tempo l' ateo è la persona che crede a un dio affine, straniero, eterodosso. Non l' individuo che svuota il cielo, ma colui che lo popola con le proprie creature. In tal modo l' ateismo serve politicamente ad allontanare, identificare o fustigare l' individuo che crede a un dio diverso da quello che l' autorità del momento e del luogo invoca a sostegno del suo potere. Poiché un Dio invisibile, inaccessibile, dunque silenzioso riguardo a ciò che gli si può far dire o addossare, non si ribella quando qualcuno si pretende investito da lui per parlare, decretare, agire in suo nome, per il meglio o per il peggio.

Il silenzio di Dio permette la chiacchiera dei suoi ministri che usano e abusano dell'epiteto: chiunque non crede al loro Dio, dunque a loro, diventa immediatamente un ateo. Dunque il peggiore degli uomini: l'immoralista, il detestabile, l' immondo, l' incarnazione del male. Da rinchiudere all'istante o da torturare, da mettere a morte. Perciò dirsi ateo è difficile; atei si è chiamati, e sempre nella prospettiva insultante di un'autorità impaziente di condannare.

D' altronde la costruzione del termine lo precisa: a-teo. Prefisso privativo, il termine implica una negazione, una mancanza, un buco, un atteggiamento di contrapposizione. Non esiste nessun termine per qualificare positivamente colui che non si sottomette alle chimere se non questa costruzione linguistica che inasprisce l' amputazione: a-teo, dunque, ma anche mis-credente, a-gnostico, non-credente, ir-religioso, in-credulo, a-religioso, em-pio (all' appello manca l' a-ddio!) e tutti i termini che da essi derivano: irreligione, miscredenza, empietà ecc. Niente per indicare l' aspetto solare, affermativo, positivo, libero, forte dell'individuo che si colloca oltre il pensiero magico e le favole. L'ateismo rientra dunque tra le creazioni verbali dei secoli. La parola non deriva da una decisione volontaria e sovrana di una persona che si definisce con questo termine nella storia. L' ateo qualifica l'altro che rifiuta il dio locale al quale tutti o la maggior parte credono. E hanno interesse a credere, perché l'esercizio teologico nel chiuso dello studio si regge sempre su milizie armate, polizie esistenziali e soldati ontologici che dispensano dalla riflessione ed esortano a credere al più presto e molto spesso a convertirsi.

Baal e Jahwèh, Zeus e Allah, Ra e Wotan, ma anche Manitù devono i loro patronimici alla geografia e alla storia: secondo la metafisica che li rende possibili, essi designano con nomi diversi una sola e identica realtà fantasmatica. Ma nessuno è più vero di un altro, poiché tutti vivono in un pantheon di allegri compagni di fantasia, dove banchettano Ulisse e Zarathustra, Dioniso e Don Chisciotte, Tristano e Lancillotto, figure magiche come la volpe dei dogon e i loa vudù.”

Contestato, accusato di nietzschianesimo deteriore e tardivo, di monolitismo ideologico, in quanto articolato sulla base dell’ipotesi per cui tutte le religioni nascono dalla paura della morte (accusa peraltro non vera, dacché Onfray sa bene che la religione mosaica ignora l’immortalità), il libro del filosofo francese ha avuto un inaspettato successo, soprattutto ovviamente in Europa, laddove la secolarizzazione avanza velocemente.

Il limite del libro è che esso è un saggio di filosofia sull’ateismo e oggi, nonostante un presunto revival del pensiero filosofico, tutti ritengono che l’universo simbolico è illimitato, per cui, adottando un metodo speculativo, si può dire tutto e il contrario di tutto.

La vera antitesi alla religione si presume che sia la scienza, e non tanto la fisica, la chimica o l’astronomia, che offrono dati compatibili con l’ateismo ma non incompatibili con la religione, bensì la biologia evoluzionistica. Non è certo per caso che, negli ultimi quindici anni, si è realizzato un attacco concentrico nei confronti di Darwin e del darwinismo da parte dei Cristiani in America e di alcuni cattolici in Italia. Darwin inquieta non solo perché la sua teoria azzera ogni riferimento ad una Creazione o ad un Disegno intelligente, ma anche perché, via via che la elaborava, egli di fatto è passato da una fede solida all’ateismo. La sua parabola umana, insomma, è emblematica del potere corrosivo che il pensiero scientifico ha sulle credenze religiose.

La parabola è ricostruito da Darwin nella sua Autobiografia in termini molto onesti. Quando egli si imbarca sul Beagle la sua fede è assolutamente ortodossa, anche se già sottesa da un orientamento critico che gli impedisce di prendere per oro colato i testi biblici: "A quel tempo ero pervenuto, gradualmente, a rendermi conto come il Vecchio Testamento, per la sua storia del mondo così manifestamente falsa, con la Torre di babele, l’arcobaleno come presagio, ecc., per la sua attribuzione a Dio dei sentimenti di un tiranno vendicativo, non meritasse più fede dei libri sacri degli Indù e della credenza di qualsiasi barbaro." (p. 67)

A partire da questi dubbi, il pensiero critico viene ad urtare contro una serie di ostacoli insormontabili: i miracoli, le contraddizioni dei testi evangelici, il dogma dell’inferno ("un’odiosa dottrina" p. 69). In conseguenza di ciò, la fede si attenua e subentra una certa incredulità che, alla fine, diviene totale.

Ma non è solo la critica dei contenuti dottrinari a provocare quest’incredulità. E’ evidente che la visione del mondo religiosa viene gradualmente ad essere sostituita da una visione scientifica. Tale visione comporta un aspetto destruens e uno costruens. Quello destruens è l’incompatibilità tra la fede e l’evoluzione naturale: "Oggi, dopo la scoperta della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno nella natura... che in passato mi era sembrato decisivo...

Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura è il risultato di leggi determinate." (p. 69)

Se non c’è un disegno, ciò non significa che il mondo animale sia il regno dell’assurdo. Si può pensare infatti che "la maggior parte degli esseri viventi, se non tutti, si sono sviluppati per selezione naturale in modo tale che si valgano delle sensazioni piacevoli come loro guida abituale." (p. 71)

Applicato all’uomo questo principio non porta all’edonismo egoistico: "Mi sembra che per un uomo che non abbia la costante certezza di un Dio personificato o di una vita futura con relativa ricompensa, l’unica regola della vita debba essere quella di seguire gli istinti e gli impulsi più forti o che gli appaiono migliori... D’altra parte l’uomo considera passato e futuro e confronta i suoi vari sentimenti, desideri e ricordi; e trova poi, con il parere di tutti i più saggi, che la massima soddisfazione deriva dal seguire certi impulsi e precisamente gli istinti sociali. Se agisce per il bene altrui riceve l’approvazione degli altri uomini e conquista l’amore delle persone con cui vive, cioè la cosa più piacevole che vi sia sulla terra. A poco a poco troverà insopportabile obbedire alle passioni dei sensi piuttosto che agli impulsi superiori, che quando diventano abituali possono quasi essere chiamati istinti. Talvolta la ragione gli suggerirà di agire contro l’opinione altrui; non riceverà allora segni di approvazione, ma avrà la sicurezza di avere seguito la sua guida più profonda, la coscienza." (p. 76)

Qualcuno può ritenere banale una visione del mondo che attribuisce a tutti gli esseri viventi un bisogno primario di felicità che sopravvive alle infinite esperienze di dolore cui essi sono sottoposti e all’uomo un istinto sociale che lo porta naturalmente a sviluppare una coscienza morale e, al limite, a sentire come un valore la capacità di opporsi all’opinione altrui quando egli lo ritiene giusto. In realtà si tratta di una filosofia densa di suggestioni, sulla quale ancora oggi vale la pena di riflettere.

C’è stato qualche tentativo di recuperare tali suggestioni in una cornice vagamente panteistica. In questa direzione si è impegnato, per esempio, George Levine, come risulta dalla seguente intervista pubblicata su Repubblica del 26 aprile 2007 a firma di Elisabetta Ambrosi:

“«Charles Darwin viene ormai associato nella coscienza pubblica ad un mondo meccanicista e brutalmente competitivo. Considerato l' autore di una teoria controversa che ha fatto di lui un Anticristo, è sopravvissuto non tanto come l' icona di un passaggio rivoluzionario nel modo in cui pensiamo alle origini dell' umanità, ma come la spiacevole incarnazione del razionalismo scientifico che, secondo Weber, disincantò il mondo».

George Levine, professore di Letteratura inglese alla Rutgers University (New Jersey), racconta di come ha deciso di contestare questo cliché interpretativo nel suo ultimo libro, Darwin Loves You. Natural Selection and the Re-enchantment of the World (Princeton University Press). Un volume dal titolo curioso, che nasce da una guerra condotta a colpi di adesivi sui paraurti delle automobili americane (invase alternativamente da stickers con su scritto «Jesus Loves you» o, provocatoriamente, «Darwin Loves you») e che ha spinto il professore statunitense a mostrare come l' opposizione radicale «Jesus vs Darwin» possa essere superata. «La frase "Darwin ti ama" può sembrare ironica, ma in realtà essa contiene una profonda verità», ci spiega. «Sono convinto infatti che, malgrado tutto quello che è stato detto, Darwin amasse il mondo. Per me leggere L' origine delle specie è stata un'esperienza di grande gioia».

E' proprio grazie al naturalista inglese, infatti, che è possibile realizzare quello che a noi moderni sembra un ossimoro, cioè un "reincantamento" del mondo, seppure "secolare". Richard Dawkins e Daniel Dennett, noti per il loro «ateismo darwinista» militante, sono avvisati: «Sono troppo aggressivi e mi sembra che non capiscano abbastanza che la vita richiede qualcosa di più della razionalità. La razionalità è sottile (thin), la vita invece ben più densa (thick)».

Ma Levine non è tenero neanche verso tutti coloro, neocreazionisti e fondamentalisti religiosi, che tentano di negare la «verità» dell'evoluzionismo. «E' una teoria che tutti siamo costretti ad accettare. Anche Wojtyla l'ha fatto, e non si può tornare indietro. Per questo non condivido le recenti dichiarazioni di Benedetto XVI sulla non dimostrabilità della teoria darwiniana».

Leggere Darwin, secondo lei, ci può rendere più felici. Eppure non tutti, specie i credenti, sarebbero d' accordo. Che spazio resta, ad esempio, per i sentimenti morali nella teoria darwiniana?

«Devo confessare che sono un ateo, quindi per me non è stato un problema studiare Darwin. Tuttavia sono convinto che per tutti, religiosi e non, sia molto importante sentire che il mondo ha un senso: ma credo che, rileggendo gli scritti di Darwin non solo come teorie scientifiche ma anche come un'opera letteraria, si possa intravedere in essi un modello per guardare alla vita con amore, trovando in essa bellezza e sentimento, pur senza trascendenza. So bene che Darwin dimostra che la realtà è piena di male, che non c' è nessun Dio, e che tutto è creato dal caso: non si tratta certo di una cosa piccola né che suscita piacere. Tuttavia, la "fede" nell'evoluzione si può tranquillamente coniugare con un sentimento profondo di meraviglia per il mondo naturale. Darwin lavorava con amore immenso verso tutte le cose biologiche. Amava le formiche, le zanzare, i vermi, tutto. Ne era intimamente commosso. In questo senso, non era uno scienziato distaccato dalla sfera dell'etica, perché, quando scriveva, avvertiva intensamente come ogni cosa fosse un "miracolo": un miracolo vero, sebbene "materialista". Tuttavia, essere materialisti non significa non avvertire il valore profondo del mondo».

Ma come è possibile essere materialisti e, ad esempio, avere credenze religiose?

«Per spiegarmi meglio utilizzo un argomento preso da quello che considero un altro mio "eroe" intellettuale, William James. Secondo James, la qualità di un'idea o di una persona non dipende dalle sue origini, ma dai suoi effetti. Ad esempio, la religione non viene sminuita dal fatto che possiamo ricostruirne l' origine. Allo stesso modo, secondo Darwin l' etica non perde il suo valore solo perché ammettiamo che i principi morali si siano evoluti mediante l' azione della selezione naturale. Al contrario. E lo stesso vale per l' estetica, che si è sviluppata anch'essa dal mondo biologico. Insisto, il disincanto non è l' effetto inevitabile della spiegazione naturalistica. Anzi, ritengo che una forma d' incanto sia la conseguenza naturale e positiva di un impegno intenso verso ciò che è interamente "secolare".

Quando Darwin guardava gli organismi, provava certamente una grande passione e malgrado molti facessero cose terribili, erano per lui sempre stupefacenti, parte di quel grande organismo in cui tutti sono imparentati con tutti». Una sorta di panteismo, insomma?

«Quasi, ma senza Dio. So che questa è una posizione filosoficamente molto problematica. Dennett è un filosofo, Dawkins uno scienziato e senz'altro sono in grado di difendere le loro posizioni in maniera ben più sofisticata, ma io credo che siano troppo aggressivi e mi sembra che non si rendano sufficientemente conto che la vita per tutte le persone richiede qualcosa di più della razionalità: richiede anche l' inclusione nella vita dei sentimenti morali. La razionalità è una cosa molto "esile", la vita esige molto di più. Chi dunque sostiene che l' evoluzione tramite selezione naturale abbia come conseguenza la rimozione di ogni significato e consolazione dal mondo è portatore di un razionalismo "trionfalistico" che calpesta gli aspetti affettivi ed immateriali dell'esistenza».

In realtà, il tentativo di Levine di riabilitare Darwin è un po’ sterile. Se si accentua un po’ troppo la meravigliosa armonia della Natura, si finisce inesorabilmente per dovere ammettere un Disegno intelligente se non addirittura un Creatore.

E’ ovvio che uno scienziato che dedica la sua vita ad un “oggetto”, finisce per amarlo. Non lo ama però necessariamente in sé e per sé, ma per la gioia che ricava dall’indagarlo e dallo scoprire leggi che, entro certi limiti, lo rendono intellegibile, vale a dire dotato di un ordine in difetto del quale esso non si darebbe o si destruttererebbe, non necessariamente di senso.

La massima “meraviglia” dell’Universo (finora noto) è legata agli esseri viventi. Essa, però, viene immediatamente temperata nel momento in cui ci si rende conto delle sue imperfezioni, che trovano nell’uomo, animale nobile e terribile al tempo stesso, l’espressione più acuta.

3.

All’aspra verità del darwinismo e della selezione naturale si riconduce Richard Dawkins, che oggi si può ritenere il capofila degli atei a livello mondiale. Rielaborando il titolo di un famoso saggio di Freud (Il futuro di un’illusione), egli ha pubblicato un libro (L’illusione di Dio. le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007), che prende una posizione senza sfumature.

Piergiorgio Odifreddi lo ha intervistato su Repubblica del 6 settembre 2007, subito dopo l’uscita della traduzione italiana del libro:

“Lei usa la parola «religione» come sinonimo di «teismo». Non crede che dovremmo almeno distinguere le religioni teiste da quelle atee, ad esempio il Cristianesimo dal Buddhismo?

«Se definiamo una religione come un insieme codificato di valori o di regole di vita, allora lei ha certamente ragione: in questo senso, il Buddhismo è una religione che non crede in Dio. Ma io mi concentro su quelle che ci credono.”

Forse perché le trova irrazionali? Eppure gli Stoici credevano, pur rimanendo perfettamente razionali.

«Lo loro era una fede di tipo naturalistico, e la stessa cosa si potrebbe dire dei Quaccheri o degli Unitari moderni. Ma, di nuovo, io concentro il mio attacco sulle religioni che hanno credenze soprannaturali».

Perché non si limita a decostruire la nozione di Dio, e vuole addirittura dimostrarne la non esistenza?

«Perché credo che l'ipotesi di un essere soprannaturale che ha creato l' universo, si possa formulare come una proposizione scientifica: in quanto tale, diventa allora passibile non soltanto di verifica, ma anche di refutazione. E la mia tesi è che, parlando da un punto di vista scientifico, questa ipotesi appare molto improbabile».

Non impossibile?

«No. Ma non lo sono nemmeno le fate, o il Mostro di Spaghetti Volante che è recentemente diventato popolare in Internet come parodia di Dio».

Lei usa l' evoluzionismo come arma antireligiosa, ma non crede che esso sia compatibile con la credenza in un Creatore che si limita a intervenire nel primo istante della creazione?

«Certo, ma sarebbe un Creatore ben diverso da quello della Bibbia o del Corano. Nel suo libro La creazione (Zanichelli, 1985), Peter Atkins discute cosa dovrebbe fare un Dio che volesse organizzare le cose in modo che la Natura potesse badare a se stessa e generare autonomamente la vita, e la sua conclusione è che non dovrebbe fare assolutamente nulla!».

Nemmeno «in principio»?

«Il «principio» è appunto il momento a cui Atkins arriva alla fine, dopo aver eliminato tutto il resto. Ma anch'io, come biologo, le posso dire che l'evoluzione per selezione naturale è un modo parsimonioso ed economico di generare la vita, che non necessita di alcun intervento divino».

Rimane ancora la possibilità di pensare a Dio come giustificazione del perché ci sono leggi della natura, e del perché sono quelle che sono.

«Questo lo trovo molto poco soddisfacente, in quanto lascia aperto l'analogo problema di giustificare allora perché c' è Dio, e perché è quello che è».

Lei usa l' evoluzionismo anche per spiegare l' esistenza delle religioni: non crede che la loro emergenza sia troppo recente, rispetto ai tempi lunghi necessari all'evoluzione?

«Questo è vero se parliamo di evoluzione biologica, e del tempo necessario a produrre un cervello che mostri una propensione per le religioni. Ma l'evoluzione culturale avviene molto più rapidamente, come mostra ad esempio il cambiamento delle lingue, o lo sviluppo della tecnologia: queste cose hanno una scala temporale di qualche secolo, ben compatibile con la millenaria storia delle civiltà che hanno sviluppato religioni».

A proposito di evoluzione culturale, molta gente ritiene che la scienza stessa sia un prodotto del pensiero cristiano.

«La scienza occidentale è sicuramente nata nel Rinascimento cristiano, ma questo non significa che debba qualcosa al Cristianesimo: anzi, si potrebbe argomentare che si sia sviluppata non grazie a, ma nonostante il Cristianesimo. E, comunque, non dobbiamo dimenticare le origini greche del pensiero scientifico. E nemmeno gli sviluppi in paesi non europei, soprattutto la Cina».

Visto che abbiamo cominciato a parlare del Cristianesimo, lei crede alla storicità di Gesù?

«La maggior parte degli storici ritiene che sia esistito, e io mi adeguo. Ma credo che Gesù sia stato soltanto una delle molte figure profetiche del suo tempo, tutte più o meno simili fra loro, e che la sopravvivenza del suo culto sia solo un accidente storico».

Cosa pensa del fatto che, tra gli sparuti scienziati cristiani, ci siano comunque premi Nobel come Werner Arber e Charles Townes, o medaglie Fields come Enrico Bombieri e Laurent Lafforgue?

«In genere gli scienziati «credenti» sono religiosi soltanto nel senso astratto di Einstein, ma qualche eccezione che crede letteralmente a cose come la verginità della Madonna effettivamente c' è. Io lo trovo molto difficile da capire, e immagino che ci riescano solo attraverso una compartimentalizzazione della mente: hanno il cervello diviso, e non permettono a una metà di interferire con l' altra».

Cioè, sono scienziati durante la settimana e credenti la domenica?

«Sì, e comunque sono molto pochi: nel libro cito, ad esempio, un sondaggio effettuato all'Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, dal quale risulta che il 93 per cento dei membri sono atei o agnostici. Ci sono dati simili per la Royal Society inglese, e sarei molto curioso di sapere se la stessa cosa è vera anche per altre Accademie delle Scienze: ad esempio, per i vostri Lincei».

Townes, che ho citato prima, ha vinto il premio Templeton per la scienza e la religione. Da come ne parla nel suo libro, si direbbe che lei proprio non sopporti la Fondazione Templeton, vero?

«Non mi piacciono i suoi metodi. A volte trovano gente veramente religiosa da premiare, come Townes appunto. Ma spesso si limitano a scovare grandi scienziati che abbiano scritto qualcosa che suoni vagamente simpatetico verso la religione, come Freeman Dyson, e lo premiano. E' una specie di corruzione finanziaria, e bisogna essere fatti tutti d' un pezzo per rifiutare un premio di più di un milione di dollari. Io, però, non prenderei troppo seriamente queste cose: quando si viene corrotti con somme così elevate, si agisce sotto costrizione».

Un altro vincitore è John Barrow, che ha legato il suo nome al Principio Antropico: un argomento che, stranamente, nel suo libro lei apprezza.

«Il fatto è che l' evoluzione spiega perfettamente lo sviluppo della vita sulla Terra, ma ha problemi con le sue origini: si tratta infatti di un evento molto raro, con una probabilità assolutamente minimale, dell'ordine di uno su qualche miliardo. Ma poiché ci sono così tanti pianeti nell'universo, essendoci un centinaio di miliardi di galassie, ciascuna con un centinaio di miliardi di stelle, allora ci si può attendere che ci siano miliardi di pianeti con la vita. E il Principio Antropico descrive quali condizioni questi pianeti debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra: a me questa sembra una spiegazione scientifica, e per nulla teista».

Il fatto è che il Principio Antropico viene spesso applicato all'intero universo.

«E' la stessa cosa. La probabilità che le costanti fondamentali della fisica siano finemente calibrate, in modo da permettere all'universo di essere come lo conosciamo, è assolutamente minimale. Ma si può pensare di vivere in un multiverso con tanti universi, ciascuno con i suoi valori delle costanti fondamentali, e allora ci si può attendere che ci siano universi con questi valori calibrati in maniera tale da produrre creature come noi. E il Principio Antropico spiega di nuovo soltanto quali condizioni questi universi minoritari debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra».

A me non sembra affatto la stessa cosa: un conto è parlare di un gran numero di pianeti, e un altro di un gran numero di universi!

«Sono assolutamente d' accordo con lei: è più plausibile fare questi ragionamenti coi pianeti, che con gli universi. Forse dovremmo chiedere ai fisici se ci sono altre ragioni per credere in un multiverso, invece che in un universo: da quanto ne so, ci sono, ma non so quali siano».

Come risponderebbe a un'obiezione alla Berkeley, del tipo: la scienza fa la schizzinosa con Dio, ma poi crede in cose altrettanto metafisiche o implausibili, dalle stringhe ai multiversi?

«Che c' è una differenza. Un Dio in grado di calibrare le costanti fondamentali di un universo o creare le condizioni per la vita su un pianeta, per non parlare di un Dio in grado di ascoltare e soddisfare le preghiere dei fedeli, dev'essere un'entità molto complicata e complessa. Il multiverso, invece, non è più complicato o complesso di un singolo universo: solo più prolifico e ridondante».

In una recente conferenza-dibattito dal titolo "Staremmo tutti meglio senza la fede?", Dawkins ha chiarito sinteticamente il suo pensiero:

“Il firewall della fede

Prima di cominciare vorrei brevemente rispondere a un paio di affermazioni fatte dal dottor Spivey che ha parlato prima di me. Egli ha sostenuto che la nostra battaglia per liberare il mondo dalla religione sia destinata alla sconfitta in quanto la religione fa parte della nostra natura di esseri umani. Ebbene, dottor Spivey, parla per te. Non fa parte della mia natura, e non fa parte della natura della stragrande maggioranza dei miei amici nelle università di Gran Bretagna, Stati Uniti e ovunque altro.

Spivey ha anche detto: se non avessimo la religione, come faremmo senza la Cappella del King's College, senza la Cappella Sistina, eccetera? Beh, sapete com'e: gli artisti devono pur mangiare. E, al tempo in cui fu costruita la Cappella Sistina e fu dipinto il suo soffitto, sapete bene chi aveva i soldi. Artisti come Michelangelo dovevano andare dove era il patronato. Non sapremo mai che soffitto avrebbe potuto dipingere Michelangelo se gli fosse stato commissionato di dipingere, per esempio, il museo della scienza. Non sapremo mai come avrebbe potuto essere "l'oratorio evoluzionistico" di Haydn... o la "sinfonia mesozoica" di Beethoven.

Ora, suppongo che un difensore della religione, molto probabilmente, avanzerebbe quattro ragioni per credere che la religione sia una cosa buona; quattro cose che la religione fa per noi, ed io le chiamo "spiegazione" (spiegare il mondo, da dove veniamo, da dove viene l'universo, e così via), "esortazione" (il che significa l'esortazione morale; cosa è bene, cosa è male); "ispirazione" e "consolazione". Credo che il mio collega Anthony Grayling, nel suo discorso, coprirà alcuni aspetti dell'esortazione, così farò meglio ad essere breve su di essa.

Per quanto riguarda la consolazione, incontro spesso persone che dicono "ma se togli la religione alle persone, come faranno a sopravvivere? Come faranno ad andare avanti quando perdono una persona amata, o quando temono la morte per se stessi?". È un argomento ragionevole. È certamente possibile ottenere consolazione da una bugia. Molte persone, quando chiediamo loro se vorrebbero che il medico dicesse loro la verità, nel caso avessero una malattia mortale e restassero loro soltanto sei mesi di vita, rispondono "no, preferirei che il medico mi mentisse". In questo non c'è niente di male; ed io rispetterei questo desiderio, se fossi un medico e pensassi che il paziente volesse che io gli mentissi. Ma non credo che questa sia dignitosa come giustificazione generale della religione. A meno che, naturalmente, essa - la religione - non sia vera. Non abbiamo tempo di entrare nel merito, ma credo che ci siano ottime, ottime ragioni per credere che non c'è assolutamente alcuna base per credere che ci sia alcuna verità nelle affermazioni della religione. Così, coloro che ottengono consolazione dalla religione... confesso che li assimilo a dei bambini con un ciuccio in bocca; non credo che sia una posizione molto dignitosa, molto degna di rispetto, per un adulto, andare in giro succhiando un ciuccio. Ed è essenzialmente questo che essi fanno.

Ispirazione. Trovo che l'ispirazione fornita dalla religione (il paradiso dichiara la gloria di Dio, tutte le cose luminose e meravigliose, e così via) sia robaccia, parrocchiale, di vedute limitate, se comparata con l'ispirazione che si può ottenere contemplando il mondo della scienza: lo spazio profondo, il tempo profondo, e, come il defunto Carl Sagan ci ha insegnato, la profonda complessità nello studio della vita. Lo studio scientifico di questi profondi, meravigliosi, eleganti misteri è uno dei più grandi traguardi raggiunti dallo spirito umano, e, fino al punto in cui la religione offre un'alternativa, o addirittura ostacola l'attività scientifica, credo che staremmo tutti meglio senza di essa.

Il che mi porta all'altra delle mie quattro categorie, la spiegazione. Nel campo della spiegazione, la scienza ha tutte le carte in mano. La religione una volta aspirava ad avere una mano di carte decente, ma oggi non più. Non c'è ragione di supporre che alcuna religione, alcun libro religioso, alcun insegnante di religione, abbia alcunché da dire su domande come "da dove viene l'universo", "da dove veniamo", "perché esiste la vita", "a cosa serve la vita". Oggi sappiamo che tutte le risposte date dalla religione a queste domande, che una volta erano le migliori risposte disponibili, sono completamente sbagliate. Non c'è assolutamente alcuna evidenza per esse.

Ed è molto peggio di così. Il punto centrale con cui vorrei terminare è che la religione corrompe l'educazione, in quanto interferisce in grande misura con l'istruzione dei bambini e degli studenti. Non è solo che ai bambini vengono insegnate cose false; è che l'indottrinamento dei bambini che la fede sia una virtù li porta ad essere immunizzati, messi in guardia, contro i nemici della fede, che si dice loro arriveranno; le loro menti diventano come dei computer che erigono un firewall per impedire l'ingresso di informazioni. Ho parlato con dei miei colleghi in America, scienziati che cercavano di tenere conferenze di biologia agli studenti (e naturalmente la biologia non ha senso senza l'evoluzione), e ogni volta che la conferenza menzionava l'evoluzione, i miei colleghi vedevano un mare di teste che si muovevano facendo segno di "no", braccia incrociate, e persone che non ascoltavano. Sono addestrati per dare le risposte giuste, per mettere le crocette nel posto giusto, negli esami; sanno come rispondere agli esami sull'evoluzione; ma sono stati in anticipo messi in guardia, corazzati dal firewall della fede, per tapparsi di fatto le orecchie ogni volta che l'insegnante parla di evoluzione. E questo significa corrompere l'educazione. Ecco una citazione da Kurt Wise, un geologo americano. Egli studiò geologia ad Harward (nientemeno), sotto la guida di Stephen J. Gould (nientemeno), ed era bene instradato verso una carriera eccellente di geologo accademico, carriera che aveva desiderato disperatamente per tutta la vita. Il problema venne da dentro di lui, ed era la sua educazione religiosa -- il suo firewall di fede. Non riusciva a riconciliare la sua educazione scientifica con la sua religione, per cui letteralmente prese un paio di forbici e ritagliò via dalla Bibbia tutti i versi a cui avrebbe dovuto rinunciare se voleva accettare la sua educazione scientifica. Scrisse:

“Per quanto provassi, anche se avevo lasciato intatti i margini di tutte le pagine della Bibbia, mi era impossibile prenderla in mano senza che essa si spaccasse in due. Dovevo scegliere tra l'evoluzione e le scritture. O le scritture erano vere e l'evoluzione era falsa, oppure l'evoluzione era vera e dovevo gettar via la Bibbia... fu lì, in quella precisa notte, che accettai la parola di Dio e rifiutai tutto ciò che la potesse mai contraddire. E con questo, con grandissima tristezza, gettai nel fuoco tutti i miei sogni e tutte le speranze nella scienza.

[..] io sono un creazionista che crede nella "terra giovane" perché questo dicono le scritture, quali io le comprendo. Come ho confidato ai miei professori anni fa quando ero in college, se anche tutta l'evidenza dell'universo dovesse contraddire il creazionismo, io sarei il primo ad ammetterlo, ma resterei ancora creazionista, perché questo è ciò che la parola di Dio sembra indicare. Io devo stare da questa parte.”

Se la religione può fare tutto questo ad un geologo di Harvard di grande istruzione, provate a immaginare cosa può fare ad un normale bambino che frequenta la scuola.”

Dawkins fa dunque appello alla Scienza contro la religione e sostiene che la prima spiega l’origine dell’Universo, l’origine e l’evoluzione della vita sulla Terra in termini più profondi e propri della seconda.

La spiegazione scientifica urta, però, contro due difficoltà che Dawkins riconosce: la prima riguarda l’origine della vita, l’altra l’impossibilità di dimostrare che Dio non esiste. Quest’ultima non è sorprendente, se è vero che la Scienza si può applicare solo ad “oggetti”. Data questa difficoltà, l’ateismo scientifico di matrice evoluzionistica è valido soprattutto in negativo, vale a dire nella sua capacità di rendere inessenziale l’idea di Dio ai fini della spiegazione dell’esistenza della vita, e dell’uomo in particolare: l’unico animale finora noto nell’Universo, che ha avuto bisogno di costruire quell’idea.

5.

Penso che oggi l’indifferentismo di Lévi-Strauss e l’estremismo materialistico di Dawkins vadano superati nell’ottica di un ateismo che, al di là di una personale presa di posizione nei confronti dell’esistenza, si configuri come un orientamento critico nei confronti delle Religioni storiche e dello Spiritualismo che, anche quando si pone in antitesi ad esse, ne rappresenta il fondamento. Tale orientamento, come ho cercato di chiarire nell’Introduzione al saggio sulla Bibbia, assume i fenomeni religiosi come fenomeni culturali, li analizza nella loro struttura concettuale e dottrinaria e nei loro sviluppi nel corso del tempo, e li valuta, infine, sulla base della conoscenza attuale della realtà psicobiologica dell’uomo.

Quale può essere il significato di un ateismo praticato in questi termini, che definirei dialettici?

Intanto si tratterebbe, semplicemente, di restaurare “verità” storiche. Le religioni sono nate in determinati contesti storici ad opera di figure realmente esistite, anche se ormai avvolte dalla leggenda: Mosé, Buddha, Confucio, Gesù, Maometto. Sono dunque prodotti creativi di soggetti in carne ed ossa. Se si mette tra parentesi il riferimento all’ispirazione divina o, nel caso di Buddha, all’intuizione trascendentale, essi possono essere analizzati come “oggetti culturali”.

Data la distanza storica, l’impresa non è affatto semplice. Essa però permette di comprendere che gli ulteriori sviluppi rappresentano o istituzionalizzazioni del messaggio originario o trasferimenti dello stesso in un diverso contesto storico o ibridazioni tra i vari messaggi (come per esempio nel neoinduismo). Gli sviluppi sono essi stessi di ordine storico, vale a dire prodotti culturali.

Se si mette tra parentesi il processo di istituzionalizzazione delle religioni, che consiste in gran parte nell’adattare alla mentalità popolare intuizioni piuttosto complesse, ci si rende conto che i messaggi originari mirano a fornire, in formule diverse, una risposta a due problemi di fondo, che solo la mente umana può porsi: perché esiste il male? perché esiste l’ingiustizia?

Il male va considerato in senso ampio; esso fa riferimento al dolore, alla malattia, al lutto e, infine, alla separazione dal gruppo (la morte). L’ingiustizia è, in qualche misura, correlata al problema del male: essa, infatti, fa capo alle vicissitudini che contrassegnano e differenziano le esperienze individuali - dalla diversa dotazione personale (per esempio in termini di bellezza/salute/intelligenza) alla collocazione gerarchica nella struttura sociale, che implica una diversa disponibilità di risorse, al numero di eventi negativi che incorrono nel corso della vita, ecc.

Non è affatto vero, come sostengono alcuni atei, che la matrice delle religioni è solo la paura di morire. Questa paura, infatti, intesa come annullamento dell’individuo, è storicamente piuttosto recente. Per un periodo straordinariamente lungo di tempo, che copre tutto l’arco della nascita delle grandi religioni, la morte era null’altro che la separazione dal gruppo, che implicava la partecipazione ad esso in un altro status. La paura, insomma, non si configurava come annullamento dell’individuo, bensì come abbandono e dimenticanza da parte del gruppo del bisogno del morto di essere tenuto in vita attraverso il ricordo. Ancora oggi si onorano i morti andandoli a trovare al cimitero perché essi non si sentano soli, Chiunque frequenta i cimiteri, peraltro, di fronte ad un sepolcro in via di disfacimento pensa: i parenti lo hanno abbandonato.

La deistituzionalizzazione delle religioni rivela il loro impianto nelle profondità della mente umana, laddove l’intuizione della finitezza umana si associa ad un orizzonte di straordinaria ampiezza, che rappresenta la matrice della religiosità, vale a dire dell’esigenza del soggetto finito di sentire di appartenere ad una realtà che lo trascende di ordine cosmologico o sociale. Il Buddista aspira a sciogliere la catena dell’esistenza per approdare al Nirvana, ad un armonia cosmica non turbata dal dolore e dalle ingiustizie. Ebrei, Cristiani e Musulmani aspirano a ricomporre, nell’aldilà un’appartenenza comunitaria sancita dall’amore divino.

In questa ottica, si può affermare che le religioni hanno danneggiato l’umanità facendosi carico di aspirazioni radicalmente umane - l’affrancamento dal male, il regno della giustizia, il ricomporsi di un ordine armonioso, ecc. -, ma illudendo gli uomini che esse debbano realizzarsi compiutamente.

La funzione dell’ateismo è di disilludere gli uomini, orientandoli ad accettare e a cooperare per una realizzazione parziale (e utopistica, vale a dire storicamente da perseguire costantemente) di quelle aspirazioni nell’orizzonte mondano.

La tensione utopistica implicita nell’ateismo è di ordine etico. Essa accetta i limiti della realtà e dell’umano, ma ritiene che essi possano lentamente essere spostati un po’ più avanti. restituisce all’uomo, insomma, una responsabilità piena sulla sua vicenda.

I credenti i quali affermano che l’ateismo è una forma di religione a rovescio, colgono una verità parziale. Parlare di ateismo religioso è un ossimoro, ma la matrice dell’ateismo è di fatto la “religiosità” come dimensione intrinseca alla complessità del cervello, alla sua apertura al mondo dei simboli e alla sua capacità di immaginare una condizione affrancata dal male e dalle ingiustizie.

Laddove Marx scrive che la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, e, in germe, la critica della valle di lacrime di cui essa è l'aureola coglie una profonda verità. Egli ha anche ragione nel sostenere che togliere la religione, che è la felicità illusoria dell'uomo, significa avanzare l'esigenza della felicità reale di esso. Sbaglia, però, nel ritenere che, in virtù di un profondo cambiamento sociale, la felicità possa diventare un obiettivo facilmente perseguibile. Laddove si riuscisse, infatti, ad eliminare tutte le inutili sofferenze che l'uomo infligge a se stesso e ai propri simili, rimarrebbe pur sempre il problema di una condizione esistenziale vulnerabile, precaria e finita. La solidarietà sociale e la pietas, laddove assumessero una valenza universale, potrebbero sicuramente alleviare il peso intrinseco a quella condizione, ma non azzerarlo.

Occorrerebbe, dunque, in ogni caso da parte di ogni uomo la capacità di farsi carico di tale condizione e di affrontarla senza paura, ritenendola per un verso conseguenza del suo essere biologico e per un altro della struttura affatto particolare del suo apparato mentale.

Una visione laica della vita, insomma, è imprescindibile dal coraggio di esistere e di accettare gli aspetti costitutivi dell'esperienza umana. Perché tale coraggio non sia elitario, c'è bisogno però di un'organizzazione solidaristica di vita comunitaria.

L’ateismo, se non vuole ridursi ad una presa di posizione razionalistica e intellettualistica, deve farsi carico delle debolezze e delle aspirazioni umane, aiutare gli esseri umani a scoprire che possono confrontarsi con esse senza necessariamente precipitare nell’angoscia e promuovere un’organizzazione sociale comunitaristica che, senza mirare al Paradiso sulla Terra, restauri il significato dell’appartenenza e della memoria nel contesto di un mondo fatto a misura d’uomo.