1.
Il continuo deprezzamento del dollaro, arrivato ormai alla quotazione di 1,30 sull'euro, pone all'Europa problemi immediati. L'indebolimento della moneta americana favorisce le esportazioni americane e frena quelle europee. Dato che gli Stati Uniti rappresentano un mercato ancora essenziale per il Vecchio continente, che esporta in esso quasi il 40% dei suoi prodotti, questo produrrà un ulteriore rallentamento della già precaria crescita europea che, al limite, potrebbe scivolare verso la recessione.
Nulla porta a prevedere che l'autorità monetaria statunitense (FED) abbia alcuna intenzione di intervenire a sostegno del dollaro, poiché ciò richiederebbe un aumento consistente del tasso di interesse e/o un inasprimento del regime fiscale. Entrambi i provvedimenti sono incompatibili con l'orientamento di fondo dell'attuale Amministrazione statunitense, che si fonda sulla tutela ad ogni costo del tenore di vita statunitense.
Il deprezzamento del dollaro, di fatto, è l'espressione di una strategia deliberata che mira a conseguire tre obiettivi economico-politici.
Il primo, strettamente economico, è quello di ridurre il più possibile l'enorme deficit della bilancia commerciale statunitense, che produce un'emorragia di dollari posseduti da altri paesi (anche europei). Funzionale a mantenere un elevato tasso di consumi, tale deficit rischia di diventare pericoloso perché, come sta di fatto accadendo, può progressivamente erodere la competitività dell'industria americana, riducendo il risparmio e gli investimenti.
Il secondo, non dichiarato, consiste nel punire le due maggiori potenze economiche europee - la Francia e la Germania - per essersi schierate contro l'intervento in Iraq e per avere rifiutato di contribuire economicamente alle spese belliche. In pratica, attraverso l'indebolimento del dollaro, gli Stati Uniti si riprendono la ricchezza che gli Stati nazionali europei avrebbero dovuto spendere per la guerra.
Il terzo obiettivo, ancora più implicito, è quello di frenare la possibile ascesa di un concorrente a livello mondiale, l'Unione Europea, che in prospettiva, se giungesse ad utilizzare al meglio le sue risorse, potrebbe minacciare a medio termine l'egemonia statunitense, che dura ormai da un secolo.
C'è chi prevede che la caduta del dollaro possa arrivare a quota 1,70. Se ciò dovesse accadere, la recessione dell'Europa sarebbe certa, tranne che l'Unione europea non modifichi il patto di stabilità che impone agli Stati nazionali un debito pubblico non superiore al 3% del PIL. Funzionale a mantenere sotto controllo l'inflazione sull'onda dell'esperienza inflattiva a due cifre sperimentata nel corso degli anni '70, il patto di stabilità è contestato anche da alcuni paesi europei, tra cui l'Italia, in quanto esso argina la possibilità dello Stato di rilanciare la crescita con il ricorso ad un aumento della spesa pubblica. Gli Stati Uniti hanno un certo interesse a far saltare il patto di stabilità. La flessibilità della loro economia, infatti, associata alla possibilità di mantenere un regime di debito pubblico sovvenzionato dagli altri paesi in virtù dell'egemonia della moneta americana, permette loro di tenere sotto controllo l'inflazione in maniera più agevole di quanto possa fare l'Europa. Se l'inflazione europea cominciasse a crescere, questo produrrebbe un ulteriore incremento delle esportazioni statunitensi e, ovviamente, una diminuzione di quelle europee.
Sarebbe assurdo sostenere che l'America persegue come fine quello di precipitare l'Europa in una recessione che, in qualche misura, pagherebbe anch'essa in termini politici ed economici. Ha interesse però a tirare la corda fin dove possibile per migliorare la sua bilancia commerciale e, en passant, per mettere ulteriormente in crisi il modello socioeconomico fondato sul Walfare, di cui l'Europa rimane portabandiera. Tale modello, infatti, nell'ottica della globalizzazione neoliberista propugnata dall'America, si pone come un ostacolo. Esso inoltre si pone anche come una sfida ad una nazione potente e ricca, i cui squilibri sociali appaiono ormai irrimediabili e richiedono di essere giustificati come l'inesorabile prezzo da pagare sulla via dello sviluppo. La persistenza in Europa dello Stato sociale denuncia il significato ideologico di tale giustificazione.
In questo quadro già complesso, occorre tenere conto di altri fattori a livello mondiale. Più ancora dei paesi europei, quelli asiatici — Giappone, Cina, India -, laddove la domanda interna è bassa, riconoscono nel mercato statunitense un'area essenziale per la vendita dei loro prodotti. Essi sono i principali creditori degli Stati Uniti, dato che investono una gran parte dei dollari che ricavano dall'esportazione in titoli del Tesoro americano. Essi insomma vendono merci agli Stati Uniti e prestano loro una parte consistente del denaro ricavato. Il problema è che non possono fare a meno di prestare denaro: un disinvestimento in titoli del Tesoro statunitense rischierebbe di produrre in una crisi dell'economia i cui effetti sono imprevedibili a livello mondiale, per quanto univocamente disastrosi.
La prospettiva di una crescita del consumo interno dei paesi asiatici che potrebbe affrancarli dalla dipendenza nei confronti degli Stati Uniti è remota. Essi, in altri termini, producono molto, ma consumano poco, e il loro risparmio è utilizzato dai cittadini statunitensi.
L'economia mondiale, infatti, riposa totalmente sul comportamento "virtuoso" dei consumatori americani, che, per mantenere in equilibrio il sistema, devono continuare ad acquistare beni a ritmo sfrenato e ad indebitarsi.
La situazione è evidentemente paradossale. Il paese più ricco del mondo in pratica vive sulle spalle degli altri. Ancora più di quella militare, l'egemonia economica statunitense è un fattore critico della situazione attuale. A differenza della prima, infatti, che è reale, l'egemonia economica è fittizia, fondandosi sull'obbligo degli altri paesi di prestare soldi agli Stati Uniti. In virtù di ciò, il 5% della popolazione mondiale può consumare oltre il 20% del prodotto, con tutte le conseguenze ecologiche che da ciò conseguono in termini i diseconomie esterne, vale a dire di danni arrecati alla biosfera e alle generazioni future.
Questo articolo cerca di illustrare, senza fare ricorso ad un linguaggio troppo tecnico, i vari aspetti di questo paradosso.
2.
E' opportuno cominciare dagli aspetti più propriamente politici della situazione per dissolvere due miti.
Il primo, di ordine economico, concerne il concepire le monete come merci, per cui il loro valore e le loro fluttuazioni corrispondono a leggi oggettive di mercato. Tale mito ignora che il controllo delle monete nazionali è dovuto alla Banca centrale, che istituzionalmente è indipendente dal potere politico, ma di fatto può lasciarsi influenzare da esso. Se questo è vero per ogni nazione, lo è a maggior ragione per gli Stati Uniti. Alan Greenspan è dichiaratamente un conservatore, la cui anima batte all'unisono con il Partito repubblicano. Se così non fosse, egli avrebbe dovuto sconsigliare la diminuzione delle tasse varata dall'Amministrazione Bush, del tutto irragionevole in una situazione caratterizzata da un enorme deficit di bilancio federale. Se avesse dovuto subirla contro la sua volontà, avrebbe dovuto rispondere immediatamente con un netto aumento del tasso di interesse. Non avendo fatto né l'una né l'altra cosa, è evidente che egli era ed è d'accordo con la conseguenza dell'aumento di quel deficit, che è appunto il deprezzamento del dollaro.
Il secondo mito, pedissequamente ripetuto in Europa dal Presidente del Consiglio italiano, verte sul fatto che gli Stati Uniti, dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno aiutato l'Europa a riprendersi da una situazione catastrofica, dimostrando una grande generosità economica. Da ciò discende che nutrire il sospetto che l'America agisca per danneggiare l'Europa esprimerebbe un persistente pregiudizio antiamericano, dovuto alla sinistra.
Il Piano Marshall, di cui l'Europa ha sicuramente beneficiato, non è stato solo un atto di generosità. Esso, infatti, per un verso ha consentito all'America di investire in prestiti la straordinaria ricchezza produttiva causata dalla seconda guerra mondiale; per un altro, esso, privilegiando le forze politiche europee di centro-destra, è valso ad arginare il pericolo socialista e comunista che, dopo la fine della guerra, aleggiava in Europa; in terzo luogo, infine, esso è servito a mantenere i paesi europei nell'area dell'influenza economica americana, impedendo loro di procedere verso un'organizzazione autonoma.
Il Piano Marshall, insomma, ha sancito per molti anni l'egemonia statunitense in Europa. Il problema è che gli Stati Uniti hanno considerato tale egemonia come definitivamente acquisita. In nome di questo essi hanno sempre contestato il modello di sviluppo socio-economico europeo fondato sullo Stato sociale, ritenendolo incompatibile con il liberismo economico cui essi si sono sempre ispirati.
Di fronte alla resistenza dell'Europa ad adottare un modello di liberismo puro (o selvaggio), gli Stati Uniti hanno sempre posto in atto strategie miranti a scalzarlo. In un articolo precedente, ho fatto presente che anche la crisi petrolifera degli anni '70 si può ricondurre a tale intento. L'escalation è però avvenuta a partire dalla Presidenza Reagan, che il modello di liberismo puro lo ha rilanciato in grande stile. Il deprezzamento del dollaro rappresenta la conclusione di tale escalation.
Si può giungere a questa conclusione nel modo più semplice, leggendo un'intervista concessa ad un giornale italiano da Stephen Roach, capo economista di una delle banche più potenti degli Stati Uniti, la Morgan Stanley. Roach non è, un neocon. Egli definisce "mostruoso" e sommamente pericoloso il disavanzo federale statunitense, critica la riforma fiscale di Bush in quanto premia i grandi patrimoni, giudica "incosciente" la sfrenata corsa al consumismo dei cittadini americani, prevede una crisi che potrebbe avere un carattere epocale. Cionondimeno egli ritiene che il deprezzamento del dollaro non debba necessariamente essere una iattura per l'Europa. Essa potrebbe contribuire anche a modernizzare l'industria europea accrescendone la produttività e migliorandone la competitività. A tal fine però è necessario razionalizzare l'apparato industriale. Questo significa, secondo Roach, due cose: investire nelle alte tecnologie e flessibilizzare il mercato del lavoro.
Roach coglie in positivo un rapporto tra deprezzamento del dollaro e necessità per i paesi europei di rispondere ad esso attraverso una ristrutturazione dell'apparato industriale che, invece, è molto più insidioso. Soprattutto per quanto concerne la flessibilità, la ristrutturazione comporta cambiamenti sociali e politici: l'allentamento del potere dei sindacati, una legislazione che riduca la tutela dei diritti dei lavoratori, una cultura che assuma il lavoro come null'altro che un fattore produttivo, vale a dire una merce.
Dato che tali cambiamenti incidono sui presupposti su cui si fonda lo Stato sociale, riesce evidente che il deprezzamento del dollaro mira a costringere l'Europa ad abbandonare il suo modello specifico di sviluppo socioeconomico e ad adottare quello statunitense.
Ma quale vantaggio possono trarre gli Stati Uniti dall'americanizzazione dell'Europa? E' facile capirlo. Sul terreno della qualità della vita, il confronto tra il sogno europeo e quello statunitense, come ha argomentato Rifkin , è a tutto vantaggio del primo. Spostando il confronto sul terreno della flessibilità, l'egemonia americana è destinata a perdurare perché, in termini di mercificazione del lavoro, gli Stati Uniti non temono confronti.
3.
Sul terreno economico, l'egemonia monetaria statunitense ha una lunga storia. Dal 1944 al 1973 il regime monetario mondiale è stato dominato dal gold exchange standard, che implicava l'equiparazione del dollaro con l'oro e la sua convertibilità. Nel 1973, considerando i rischi potenziali che comportava l'accumulo di dollari all'estero (soprattutto nei paesi arabi). Il Presidente Nixon decide unilateralmente di por fine a quel regime, avviando la stagione dei cambi flessibili che, ovviamente, favoriscono la nazione economicamente più forte. Cionondimeno, il flusso del dollaro verso l'estero è continuato a salire per via dell'aumento continuo delle importazioni americane.
Con la Presidenza di Reagan si realizza un ulteriore salto di qualità. Il liberismo reaganiano, che punta sulla possibilità di accrescere la ricchezza e il tenore di vita dei cittadini statunitensi, postula il taglio delle tasse. In conseguenza di questo il deficit federale arriva a livelli stratosferici. L'America diventa il paese più indebitato del mondo.
Il rimedio a questo squilibrio è un trucco. Esso consiste, originariamente, nel tenere alti i tassi d'interesse in maniera tale da favorire l'acquisto di titoli del Tesoro americano. Data all'epoca la forza del dollaro e gli elevati rendimenti dei titoli statunitensi, l'afflusso di denaro nelle casse del Tesoro aumenta di continuo fino alla fine degli anni Novanta. L'America comincia a vivere sulla base del prestito. Ma questa è ancora una situazione "virtuosa": conviene agli Stati Uniti, che può permettersi di utilizzare i prestiti come se essi fossero una ricchezza propria, e ai paesi che investono i dollari, i quali ricavano interessi piuttosto consistenti.
Con il sopravvenire della crisi economica nel 2001, la situazione diventa progressivamente meno virtuosa. I tassi di interesse cominciano a calare fino all'un per cento, il deficit federale raggiunge una percentuale sul PIL "mostruosa" (5,7%), la moneta americana comincia a deprezzarsi. E' evidente che prestare denaro ad un paese indebitato con una moneta debole non è vantaggioso. In termini economici, ci si aspetterebbe non solo una diminuzione del prestito ma addirittura un disinvestimento dei titoli del Tesoro americano da parte dei paesi che li detengono: Giappone, Cina, paesi arabi, ecc. Questo però non avviene semplicemente perché non può avvenire. Tutti i paesi creditori, i cui titoli rappresentano il 40% del debito americano, hanno imponenti flussi di esportazione verso gli Stati Uniti. Se tentassero di ridurre la loro esposizione, la conseguenza inevitabile sarebbe una crisi dell'economia statunitense, che inesorabilmente si rifletterebbe a loro danno.
Consapevoli del rischio che corrono, essi si appellano alla ragionevolezza dell'Amministrazione americana perché essa si decida a fare ciò che essa impone di fare ai paesi indebitati: l'aumento della pressione fiscale e/o dei tassi di interesse. Il problema è che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di adottare questi provvedimenti. In alternativa, hanno scelto infatti il deprezzamento del dollaro che rende le importazioni sempre più vantaggiose. In pratica acquistano le merci di cui hanno bisogno a prezzi sempre più bassi pagano interessi minimi sui titoli del Tesoro.
Gli Stati Uniti insomma vivono sulle spalle degli altri. I paesi creditori possono protestare e mugugnare, ma di fatto non hanno alcuna arma per contrastare l'egemonia del dollaro, che, sul mercato mondiale, fa praticamente quello che vuole. La conseguenza di tale egemonia è che il debito pubblico continua a salire. Un giorno o l'altro - è chiaro - esso dovrà essere pagato. I tempi e i modi del pagamento li deciderà, però. Paradossalmente il debitore non il creditore.
Interpretare questa situazione come un prova ulteriore dell'arroganza dell'America conservatrice non è illecito. L'egemonia del dollaro statunitense si fonda però anche su un'argomentazione non priva di significato. Gli Stati Uniti rivendicano di essersi assunti, a partire dai primi anni Novanta, il ruolo di locomotiva trainante dell'economia mondiale. In conseguenza di questo ruolo, da cui gli altri paesi hanno tratto vantaggio, essi rivendicano che questi si sacrifichino un po' per essi: in pratica, che continuino a funzionare come risparmiatori virtuosi che vicariano la diminuzione continua del risparmio americano. La funzione trainante della locomotiva americana si fonda infatti sul ruolo che si sono assunti i consumatori americani di alimentare la domanda mondiale con una sfrenatezza consumistica che non ha uguali nel corso della storia.
Il deficit federale statunitense, i bassi tassi di interesse e la riduzione della pressione fiscale sono univocamente funzionali ad alimentare i consumi. Cionondimeno, questi hanno raggiunto un livello tale che al problema del debito pubblico si associa ormai, in termini preoccupanti, quello del debito privato.
La famiglia americana spende oggi il 13% del suo reddito medio per pagare debiti, la percentuale più alta dal 1986. La gran parte di questi soldi sono utilizzati per pagare le rate del muto e dell'auto, ma la famiglia americana media è anche oberata da oltre 6000 dollari di debito sulla carta di credito. Ogni quindici secondi, negli Stati Uniti, qualcuno fa bancarotta, un tasso cinque volte più alto rispetto al 1980.
Una conseguenza immediata del consumismo è che l'America non risparmia più: in ottobre, il tasso di risparmio personale ha toccato un nuovo record negativo con un misero 0,2% del reddito disponibile. L'assenza di risparmio incide sugli investimenti e sulla ricerca. La tecnologia americana perde continuamente terreno e, in difetto di sviluppo tecnologico, la produttività diminuisce. Questo però non sembra preoccupare gli Stati Uniti. La soluzione è infatti trasferire le attività produttive all'estero, laddove il costo del lavoro è basso.
L'unico obiettivo dell'Amministrazione americana è di difendere il tenore di vita dei cittadini (eccezion fatta per un sesto della popolazione che vive in povertà), assicurando ad essi di poter continuare a consumare sfrenatamente. In nome di questo, essa richiede ai paesi creditori di sacrificarsi, vale a dire di continuare a produrre molto, a consumare poco e a prestare soldi al Tesoro statunitense. Si tratta di una richiesta a cui nessuno può dire di no.
4.
E' evidente che un sistema economico mondiale fondato sull'egemonia di una moneta nazionale non può durare all'infinito, tanto più se il paese detentore di tale moneta pretende di far pagare agli altri il tenore di vita consumistico dei suoi cittadini. Come potranno cambiare le cose nessuno lo sa. Quello che è certo è che l'Europa non potrà smantellare lo Stato sociale nonostante gli attacchi statunitensi: primo, perché l'adozione di un modello socioeconomico liberista favorirebbe gli Stati Uniti; secondo, perché tale modello è incompatibile con la tradizione europea e rischierebbe di attivare insostenibili tensioni sociali. L'Europa, dunque, dovrà tendere ad espandere il mercato interno.
E' probabile che i paesi asiatici comincino a rivendicare di consumare in misura maggiore la ricchezza che essi producono. Ciò significa che i salari sono destinati, colà, ad aumentare.
Non meno probabile che, ancora prima che l'Europa si autonomizzi e l'Asia rivendichi un tenore di vita migliore, i consumatori americani cedano sotto il peso dell'indebitamento e della stasi dei redditi.
Tutto ciò configura, all'orizzonte, numerosi pericoli di turbolenza. Già contestata sotto il profilo politico, l'egemonia americana potrebbe andare in crisi anche da un punto di vista economico e monetario. Per evitare uno squilibrio di livello planetario, occorrerebbe che gli Stati Uniti riconoscessero che il tenore di vita dei suoi cittadini non potrà all'infinito essere pagato dal resto del mondo. Non c'è però alcun indizio che essi siano disposti a rinunciare ai loro privilegi.
Febbraio 2005