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La fatuità dell'Economia, "scienza" impura 1

1.

Nulla dà più il senso di un mondo che corre in fretta, sfiorando vertiginosi burroni, del rapido invecchiamento dei libri di economia. Dal 1996 al 2001, vale a dire nel periodo dell’apparente trionfo del neoliberismo, Laterza ha pubblicato un’imponente Storia dell’Economia, a cura di Valerio Castronuovo, che di recente Il Sole 24 ore ha rieditato, con una nuova Introduzione e alcuni aggiornamenti, in dodici volumi.

E’ quasi superfluo affermare che i volumi più importanti sono gli ultimi due: l’undicesimo e il dodicesimo, dedicati entrambi ai Nuovi equilibri in un mercato globale, il primo dei quali analizza il processo della globalizzazione, mentre il secondo giunge ad interessarsi delle tempeste del turbocapitalismo finanziario.

La lettura è oltremodo interessante. L’undicesimo volume è una sorta di peana intonato a favore della globalizzazione e del modello anglosassone, esaltato come vincente sull’onda della rivoluzione reaganiana e tatcheriana avviatasi negli anni ‘80 del secolo scorso. Il penultimo capitolo, a firma di Andrew Gamble, è intitolato significativamente La rivincita del neoliberismo. L’ultimo capitolo ha come titolo Capitalismo contro capitalismo: I modelli in questione sono quello americano, all’epoca ancora vincente, e quello europeo, renano, fondato sullo Stato sociale, descritto in grande affanno.

Sono passati meno di dieci anni, ma gli articoli hanno una valenza “preistorica”, in quanto descrivono uno stato di cose immediatamente precedente l’esplosione della crisi della Borsa nel 2001, che si è perpetuata e approfondita con la crisi del sistema capitalistico nel 2008.

Mi riprometto di recensire l’ultimo volume, che sta per uscire, sulle tempeste del trubocapitalismo finanziario, anche se non mi aspetto gran che. Per ora, è opportuno soffermarsi sui due articoli citati dell’undicesimo volume per prendere atto di una verità poco gradevole per gli economisti “borghesi”. La verità è che la “scienza” economica esiste quasi solo sotto forma di economia positiva. Essa descrive i fatti di un sistema economico nonché il suo comportamento. Continua ad essere insomma un’analisi pedissequa (anche se non priva di interesse) dello status quo, sottesa da presupposti ideologici che fanno riferimento al sistema capitalistico come approdo definitivo della storia.

In questo frangente storico, il pedissequo emerge con maggiore chiarezza in conseguenza di una crisi che molti ritengono destinata ad avviare non solo la scienza economica ma l’amministrazione dell’economia su di una via normativa, che comporta giusdizi valutativi sull’esistente e precetti di carattere etico.

Riporto integralmente i due capitoli in questione per poi analizzarli.

2.

Storia dell’economia

a cura di Valerio Castronuovo

Il Sole 24 ore Milano 2009 vol. 11

 

Andrew Gamble

La rivincita del neoliberismo

Traduzione di Rosaria Giuliani Gusman.

Nel XIX secolo il termine laissez faire divenne l'espressione che meglio esprimeva il trionfo della dottrina economica liberista, con ciò intendendosi che il governo migliore è quello che governa meno. Si sosteneva che compito del governo fosse fornire un contesto di regole generali a tutela della proprietà, assicurare il rispetto degli obblighi contrattuali, garantire la stabilità della moneta e favorire lo sviluppo di mercati liberi e aperti. Si riteneva che un tale contesto fosse la chiave della prosperità in quanto massimizzava le possibilità che gli individui avevano di acquistare, vendere e produrre, liberi da strette regolamentazioni e dal controllo dello Stato.

Il successo del keynesismo dopo il 1945 era basato su un esplicito rifiuto del laissez faire e sull'auspicio di una politica economica alternativa, secondo cui alle carenze del capitalismo si doveva rimediare con interventi attivi dello Stato. Le politiche di laissez faire erano ritenute responsabili della grande depressione degli anni Trenta, e Keynes sosteneva che, per quanto valido potesse essere stato il laissez faire in passato, esso non era più adatto a gestire le complesse economie moderne; sebbene di idee politiche progressiste, Keynes riconosceva che, per sopravvivere, il capitalismo doveva cambiare, in particolare occorrevano interventi più attivi dello Stato nel combattere la disoccupazione e si dovevano accettare le nuove limitazioni alla gestione economica derivanti dalle principali caratteristiche delle economie capitalistiche: la crescente dimensione e dominio dello Stato, la forza contrattuale dei sindacati e il potere economico del capitale concentrato e accentrato nella moderna impresa.

In termini di politica economica, quello che Keynes e i suoi seguaci auspicavano, era un nuovo equilibrio di potere fra capitale e lavoro nelle economie capitalistiche. Come notato da Michal Kalecki, la politica economica keynesiana, proponendosi di gestire la domanda, creava un capitalismo di pieno impiego in cui la disciplina della disoccupazione e della bancarotta erano abolite, mentre era grandemente aumentata la forza contrattuale dei lavoratori nei confronti del capitale. Di conseguenza i governi non solo si videro costretti a promuovere la piena occupazione, ma divennero anche oggetto di pressioni da parte degli elettori e di speciali gruppi di interesse che richiedevano aumenti della spesa per programmi pubblici di ogni tipo. In pratica quindi il keynesismo si trovò a operare con livelli di spesa governativa e di tassazione molto più alti rispetto al passato. Questi più elevati livelli di spesa erano imputabili soprattutto a spese per lo Stato sociale in Europa e per la difesa negli Stati Uniti, ma l'effetto era simile: in entrambi i casi veniva gonfiata la percentuale della spesa governativa sul Pii, e aumentava grandemente il ruolo dello Stato nell'economia e la necessità di inasprire la tassazione.

Il keynesismo sembrò conseguire enormi successi negli anni Cinquanta e Sessanta perché era associato a un lungo periodo di sviluppo ininterrotto e di crescente prosperità, in presenza di una situazione di pressoché pieno impiego e di bassa inflazione. Il contrasto con le cattive condizioni economiche degli anni Trenta era marcato. All'epoca si sostenne spesso che il capitalismo era stato trasformato irreversibilmente dalla rivoluzione keynesiana, che aveva fornito i mezzi e le conoscenze per eliminare in modo definitivo il pericolo di cicli economici estremizzati e della disoccupazione di massa. Negli anni Settanta vi fu però un drastico cambiamento nell'economia mondiale, che innescò una rapida reazione politica e ideologica sia nella sinistra sia nella destra. Il keynesismo, almeno nella sua versione post-1945, cominciò a essere screditato e riemersero dottrine economiche ritenute da tempo morte e sepolte.

La causa di questo netto cambiamento era la palese inadeguatezza del keynesismo a risolvere una nuova serie di problemi. Il keynesismo aveva creduto a lungo che vi fosse una precisa correlazione inversa (trade-off) fra inflazione e disoccupazione, di modo che i governi potevano scegliere se avere un grado leggermente superiore di disoccupazione o di inflazione. Negli anni Settanta tuttavia, in seguito alla fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods, che aveva assicurato la stabilità dei cambi per venticinque anni, e agli aumenti dei prezzi del petrolio da parte dei paesi Opec, l'inflazione accelerò, raggiungendo le due cifre in molti paesi industriali avanzati, ma nello stesso tempo si intensificarono le tendenze alla recessione e l'economia mondiale incorse nella sua prima flessione economica generalizzata dagli anni Trenta. I Politici furono improvvisamente costretti ad affrontare un'inflazione che accelerava e una disoccupazione in rapido aumento, mentre la crescita cadeva precipitosamente.

Questa impasse incoraggiò l'attivismo dei sindacati nel tentativo di proteggere i salari il cui valore veniva rapidamente eroso, e anche l'azione da parte delle imprese per proteggere i profitti, creando una situazione di disagio crescente fra l'elettorato e i contribuenti. I governi sembravano incapaci di riprendere il controllo della situazione e furono costretti a inasprire le tasse per finanziare una spesa pubblica fortemente aumentata. Un prolungato periodo di confusione politica e di stasi condusse alla polarizzazione delle posizioni politiche e all'emergere di nuove dottrine e credi politici. Negli Stati Uniti si diffuse il reaganismo e in Gran Bretagna il thatcherismo, due importanti progetti politici il cui fine dichiarato era rompere con il keynesismo e ristabilire quelli che le due nuove correnti consideravano i sani principi di politica economica.

La controrivoluzione contro Keynes

Il revival delle dottrine classiche liberiste fu da attribuire soprattutto al paziente lavoro preparatorio di numerose associazioni, thinktanks e individui nel corso di molti decenni. Fra queste spiccava la Mont Pèlerin Society, fondata nel 1947 da Friedrich A. von Hayek e così denominata dall'hotel svizzero dove si tenevano le riunioni. Essa raggruppava i principali pensatori liberal europei e nord-americani per discutere in qual modo preservare il liberismo e respingere qualsiasi forma di collettivismo. Molti personaggi di spicco della Mont Pèlerin Society come Hayek e Milton Friedman avrebbero poi avuto un ruolo fondamentale nella ripresa del pensiero economico liberista da parte di centri prestigiosi come l'Institute of Economic Affairs, il Centre for Policy Studies e l'Adam Smith Institute in Gran Bretagna; l'Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute e lo Hoover Institute negli Stati Uniti. Questi centri di pensiero contribuirono ad articolare e collegare le differenti correnti ideologiche che componevano il nuovo laissez faire negli anni Ottanta, correnti che andavano dal monetarismo e dalla scuola economica austriaca, alla teoria economica della supply-side, al libertarianismo e alla teoria delle scelte pubbliche.

Moneta sana

Il principale stimolo della controrivoluzione nei confronti del keynesismo proveniva dal monetarismo e dalla preoccupazione crescente per l'inflazione. Fu la chiara necessità di trovare una nuova via che assicurasse la stabilità finanziaria a screditare le dottrine keynesiane e conferisse al monetarismo il suo fascino come dottrina per la gestione macroeconomica. Il monetarismo prometteva di porre il controllo dell'inflazione al primo posto della politica economica, negando che vi fosse alcun trade-off tra inflazione e disoccupazione, considerando invece la disoccupazione risultato di altre politiche, non un obiettivo di politiche economiche di per sé. Secondo i monetaristi, bastava che i governi assicurassero la stabilità finanziaria perché ne derivasse il pieno impiego. Il keynesismo sbagliava perché, di fronte all'aumento della disoccupazione, la ricetta della politica keynesiana era quella di potenziare la domanda; ciò poteva accrescere l'occupazione nel breve termine, ma al prezzo di un aumento dell'inflazione. Nel lungo periodo l'inflazione poteva essere arrestata solo con una disoccupazione molto più alta.

Il problema del keynesismo, secondo i suoi critici, era la sua natura essenzialmente inflazionistica. Esso consentiva un'espansione dell'offerta di moneta in presenza di risorse non utilizzate e ciò significava che non vi erano regole severe per resistere all'accelerazione del processo inflazionistico. Il primo principio del nuovo laissez faire era quindi quello di ripristinare una moneta solida, stabilendo norme monetarie per controllare l'offerta di moneta dalle quali il governo non doveva deviare. Il monetarismo assunse forme differenti nei diversi paesi, ma fu particolarmente importante a livello internazionale. Le nuove norme monetane per contenere l'inflazione furono concordate da enti internazionali quali il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale e poi imposte a tutti i paesi come condizione per rimanere membri solvibili del sistema del commercio internazionale. La piena occupazione non era più considerata un obiettivo cui i governi potessero o dovessero mirare.

La politica della «supply-side»

Tuttavia la politica della solidità monetaria era solo l'inizio: si richiedevano anche politiche che ripristinassero gli incentivi e contribuissero alla prosperità di un libero mercato. In contrasto con l'enfasi attribuita alla domanda dalla teoria keynesiana, il monetarismo comportava e incoraggiava una gestione della politica economica dal lato dell'offerta. La politica economica doveva essere diretta non alla gestione macroeconomica della domanda a livello di economia nazionale, ma ad assicurare che i mercati funzionassero bene rendendo tutti i prezzi flessibili e creando gli opportuni incentivi. La politica della supply-side (offerta) era quindi associata in particolare con la deregolamentazione dei mercati e la rimozione delle protezioni godute da gruppi particolari, per esempio quelli che beneficiavano dei salari contrattuali minimi. Si mirava a realizzare mercati flessibili in tutti i settori.

Al centro dell'economia dell'offerta vi era anche la famosa tesi del «rivolo»: i sostenitori dell'economia dell'offerta affermavano che una politica di forti sgravi fiscali alle famiglie era il modo migliore per accrescere gli incentivi e l'aumento degli incentivi era il modo migliore per incrementare la ricchezza. Il prezzo da pagare per un miglioramento generalizzato negli standard di vita era un livello molto più elevato di disparità sociale. La ricchezza si sarebbe progressivamente propagata dai ricchi alle altre classi sociali in parte perché questi avrebbero speso di più e in parte perché avrebbero ideato innovazioni e nuovi prodotti con vantaggi per tutti e aumenti della produttività e delle possibilità di scelta. L'illustrazione più famosa di questo principio era data dalla curva di Laffer, con la quale si intendeva mostrare che una riduzione della tassazione per le classi di reddito superiori avrebbe finito col generare un maggior gettito fiscale perché avrebbe portato alla creazione di maggiore ricchezza e anche a una minore evasione fiscale.

L'economia dell'offerta, all'interno della nuova dottrina del laissez faire, poteva essere ritenuta favorevole a un intervento attivo dello Stato, ma il suo obiettivo primario era sempre quello di conseguire un maggior grado di libertà e di apertura dei mercati, piuttosto che limitare o controllare i mercati nel più ampio interesse della legittimazione politica e della coesione sociale. Il ruolo dello Stato - e in particolare le sue spese - doveva essere ridotto in modo da alleggerire l'onere fiscale, considerato deleterio per un'economia di successo.

Lo Stato allargato

Comunque il nuovo laissez faire, nel tentativo di trovare una nuova via che minimizzasse il ruolo dello Stato, attinse in varia misura, insieme alle dottrine della supply-side, anche ai principi della scuola austriaca, alle idee libertarie e alla cosiddetta «teoria delle scelte pubbliche». Tutte queste dottrine avevano in comune la convinzione che il monetarismo da solo non fosse sufficiente; in via di principio, una moneta stabile poteva essere conseguita seguendo le norme tecniche prescritte dal monetarismo per il controllo dell'offerta di moneta, ma in tal modo non venivano affrontate le sottostanti cause politiche, economiche e sociali alla base dell'espansione iniziale dell'offerta di moneta. Milton Friedman a volte dava l'impressione che la gestione economica fosse semplicemente una questione di buoni o cattivi interventi di politica economica, i primi rispecchianti idee valide e i secondi cattive idee. Ma Hayek e altri economisti austriaci erano sempre stati molto più sofisticati nel diagnosticare i problemi fondamentali di politica economica. Per costoro le radici dell'inflazione non erano da ricercare nelle «idee sbagliate» dei politici, ma nelle pressioni istituzionali e organizzative che obbligavano i governi a tollerare una politica monetaria permissiva. I principali problemi alla base di questa situazione erano: la struttura del welfare state keynesiano che era cresciuto costantemente durante molti decenni e il potere della manodopera organizzata che, in una situazione di pieno impiego, era in grado di richiedere aumenti salariali insostenibili. Il fatto che speciali gruppi di interesse potessero interferire nel processo decisionale ed esercitare una pressione politica sufficiente a mantenere e accrescere il livello della spesa pubblica aveva creato uno Stato di dimensioni sproporzionate, sovraccarico, che imponeva troppe tasse e spendeva troppo.

Quindi il nuovo laissez faire cercò di liberare l'economia capitalistica dalle spire dei programmi di democrazia sociale e di welfare, apportando forti riduzioni ai programmi di politica sociale e ad altre forme di spesa pubblica. Ciò aveva il vantaggio di migliorare simultaneamente gli incentivi per i ricchi con spirito d'intrapresa mediante una riduzione delle tasse, oltre a ridurre il potere politico e l'importanza di gruppi di interessi speciali, inclusi i sindacati. Era di fondamentale importanza aumentare l'indipendenza dello Stato e il grado di isolamento dai gruppi di interessi speciali che si formavano naturalmente intorno ai programmi di spesa governativi. Solo se il governo fosse stato ridimensionato, si poteva sperare di attuare una politica economica tendente soprattutto alla stabilità finanziaria e non a mantenere il pieno impiego espandendo costantemente l'offerta di moneta. L'ampliamento dello Stato di democrazia sociale significava sempre che vi erano numerosi gruppi di pressione che richiedevano il potenziamento di questo o quel servizio, mentre i politici erano incentivati a competere tra loro nel promettere di aumentare i compiti dello Stato. Le conseguenze economiche della democrazia erano considerate inflazionistiche, e l'unico modo per evitare tali conseguenze era quello di aumentare l'isolamento della politica economica dalle richieste dei politici democratici.

Questo filone fortemente elitario e antidemocratico del neoliberismo teorico è certo presente nel nuovo laissez faire, ma in esso convergevano anche filoni soprattutto libertari e populisti che auspicavano il totale smantellamento dello Stato - in quanto inutile forza coercitiva tendente a distorcere e minare le basi di una valida economia di mercato - o una drastica riduzione del ruolo statale a poche funzioni basilari. A sostegno di forti movimenti antitassazione furono addotte argomentazioni libertarie che screditavano i principi base della tassazione, sostenendo che qualsiasi forma di tassazione è coercitiva e quindi anche bassi livelli di imposizione fiscale costituiscono una limitazione della libertà. Secondo il credo libertario, se si è soggetti a una tassazione del 40 per cento, si è liberi solo per il 60 per cento.

Una notevole influenza hanno esercitato anche le teorie delle scelte pubbliche riferite allo Stato. Queste teorie respingono il presupposto che lo Stato sia in grado di agire come un benevolo difensore dell'interesse pubblico: secondo i teorici della public choice, lo Stato non è né onnisciente, né onnipotente, e deve essere analizzato con gli strumenti propri dell'economia come qualsiasi altra organizzazione. Essi sostengono che lo Stato è fatto di politici e di burocrati, ciascuno con i propri interessi e priorità, i propri calcoli di costi e benefici, in grado e desiderosi di massimizzare i vantaggi personali. Lo Stato quindi non solo è afflitto da rivalità e conflitti fra i vari ministeri, ma soprattutto non è in grado di formulare un punto di vista razionale e disinteressato. I processi decisionali pubblici risentono della forza di particolari gruppi di interesse e dell'influenza di norme e procedure prefissate.

Gli analisti della teoria della public choice ribaltano l'ortodossia keynesiana secondo cui il problema del capitalismo del XX secolo era il fallimento del mercato che richiedeva l'intervento dello Stato e l'applicazione di principi razionali e delle conoscenze da parte di un'élite disinteressata; il vero problema era invece il fallimento dello Stato causato proprio dall'intervento statale che impediva il libero funzionamento del mercato. Per i teorici della public choice, i processi decisionali statali sarebbero irrazionali, mentre sarebbero razionali quelli di mercato. La concorrenza entro un contesto legale assicurerebbe un'efficiente, e quindi razionale, allocazione delle risorse in un mercato, ma non vi sarebbe una struttura razionale equivalente per i vari ministeri: in assenza di un vincolo di bilancio, non vi sarebbero ostacoli alla loro espansione e quindi la concorrenza fra ministeri rischia sempre di distorcere l'allocazione delle risorse e, lungi dal condurre a risultati ottimali, porta piuttosto a risultati perversi. I teorici della public choice sostengono che questa è una costante e non una conseguenza accidentale del modo in cui gli Stati moderni operano: non è possibile conferire alle scelte pubbliche la razionalità propria delle scelte private nell'ambito del mercato. La soluzione è un drastico ridimensionamento delle attività statali e il ripristino del mercato come istituzione paradigmatica di tutte le attività economiche e sociali.

Lo Stato sociale

Una caratteristica importante del nuovo laissez faire era l'attacco allo Stato sociale: la crescita del welfare oltre ad avere reso la spesa per il welfare una forte componente della spesa pubblica in tutte le principali economie capitalistiche durante il XX secolo, aveva inoltre importanti conseguenze sotto il profilo degli incentivi, della flessibilità dei mercati, del lavoro, dell'aumento della dipendenza ed era anche alla base dei molti degli interessi speciali che influenzavano lo Stato ed erano quindi responsabili della tendenza istituzionale all'inflazione e all'aumento della spesa pubblica. La riduzione del contributo dello Stato al welfare era quindi considerata presupposto indispensabile al ripristino della disciplina monetaria e fiscale e di una cultura ed economia di mercato intraprendente e autosufficiente.

Sebbene tutti gli aderenti al nuovo laissez faire auspicassero una netta riduzione della spesa per il welfare e rifiutassero i programmi di welfare universale, vi erano divergenze di opinioni sull'entità delle riduzioni e sui fatto che si dovesse abolire addirittura anche un minimo di protezione sociale. Il vecchio laissez faire non prevedeva che lo Stato dovesse fornire una rete di sicurezza sotto il profilo del welfare; i privati erano certo liberi di aiutare spontaneamente i poveri, ma non era compito dello Stato valersi del suo potere coercitivo per redistribuire risorse a quanti non avessero mezzi di sostentamento. Nel corso del XX secolo i conservatori e gli economisti liberisti erano divenuti gradualmente meno intransigenti, tanto che i principali architetti del nuovo laissez faire, incluso Hayek, sostenevano che si dovesse garantire un minimo sociale, soprattutto per ragioni prudenziali, in modo da assicurare legittimità e stabilità sociale. Ma doveva trattarsi appunto di un minimo, strettamente correlato ai bisogni e accuratamente mirato. Si dovevano evitare programmi universali senza un preciso limite di spesa, comportanti impegni crescenti per i fondi pubblici.

Negli Stati Uniti l'amministrazione Reagan si divise fra quanti auspicavano programmi federali ridotti che garantissero però un minimo sociale in materia di assicurazione malattie e sostegno al reddito, e quanti auspicavano l'abbandono dei programmi federali relativi al welfare e il deferimento delle decisioni ai singoli Stati. Comunque, entrambe le parti concordavano sul fatto che, per consentire sgravi fiscali e ridurre la dimensione del governo federale, si dovessero tagliare drasticamente i prorammj della Great Society lanciati negli anni Sessanta per ridurre la poertà. La differenza fra i due gruppi riguardava soprattutto il modo più fficace per realizzare questo obiettivo: se accentrando il potere o deentrandolo. Questa tensione era evidente anche in Gran Bretagna duante il governo Thatcher. Il ripristino delle condizioni che consentissero un'economia libera richiedeva la presenza di uno Stato forte, in grado di spazzare via gli oppositori al suo programma e creare nuove istituzion, ridisegnando il confine fra il settore pubblico e privato.

Il nuovo laissez faire variava in conseguenza delle differenti istituzioni e tradizioni esistenti nei paesi in cui era introdotto. Ad esempio, in Gran Bretagna i sindacati erano decisamente più potenti rispetto agli tati Uniti, il settore industriale pubblico era molto più ampio, e il sistema di assistenza sociale, in particolare il National Health Service, era molto più vasto. Negli Stati Uniti l'attacco allo Stato sociale riguardava in gran parte le forme di sostegno al reddito e il sistema di Medicaid. In Gran Bretagna il sostegno al reddito era un punto chiave, ma lo erano anche le pensioni statali. Uno dei primi interventi del governo Thatcher fu quello di spezzare il vincolo fra pensioni e stipendi statali, cosicché nell'ultimo ventennio il valore delle pensioni statali si è progressivamente ridotto, divenendo sempre più inadeguato al sostentamento. Il governo Thatcherintrodusse anche molte riforme organizzative nel sistema sanitario nazionale, ma non riuscì a intaccare direttamente il principio di un sistema sanitario universale. Si trattava di un problema troppo difficile politicamente, data la forza del sostegno popolare al sistema sanitario nazionale. Negli Stati Uniti fu più facile effettuare forti riduzioni nel welfare, essendo molto minore il livello dello Stato sociale e il sostegno in favore di programmi universali. Anche in questo caso, tuttavia, le riduzioni furono decisamente minori di quanto auspicato da molti ideologi del nuovo laissez faire.

Sindacati e gruppi speciali di interesse

Un'importante caratteristica del nuovo laissez faire è stato il deciso assalto ai privilegi legali di gruppi ritenuti responsabili di impedire il libero funzionamento del mercato. In Gran Bretagna principale obiettivo di questi gruppi sono stati i sindacati. Il loro forte legame organizzativo con uno dei due principali interlocutori dello Stato e il loro peso e forza contrattuale in settori chiave dell'economia ne avevano fatto un'organizzazione governativa insieme agli imprenditori e ai ministeri. Questa crescita del corporativismo in Gran Bretagna era caratterizzata dall'istituzione di organi tripartiti con funzioni consultive in merito alla produttività, l'addestramento e gli investimenti, oltre che sui prezzi e sui redditi e su problemi di politica macroeconomica. Nelle ultime fasi del keynesismo, questi accordi corporativi aumentarono d'importanza, dato che i governi cercavano di accelerare la crescita dell'economia e di contenere, nello stesso tempo, quella dei prezzi e dei redditi.

Secondo i sostenitori del nuovo laissez faire, il ricorso ad accordi corporativi per contenere l'inflazione non farebbe che rafforzare l'influenza di interessi particolari sul processo di formazione delle scelte politiche, e condurre a ulteriori interferenze dello Stato nel funzionamento del mercato, sostituendo decisioni amministrative ai risultati spontanei del mercato. Nel caso britannico, esso era considerato parte della scierosi istituzionale che aveva colpito l'economia, ostacolando i rapporti fra capitale e lavoro in molti settori, e quindi impedendo costantemente l'innovazione e la riorganizzazione necessarie alla sopravvivenza competitiva e al potenziamento della produttività. Il governo Thatcher fece della riforma della legge sulle relazioni industriali una delle sue priorità fondamentali, in modo da cambiare decisamente l'equilibrio di potere fra capitale e lavoro. Ciò avvenne nel corso degli anni Ottanta mediante quattro importanti provvedimenti legali che limitarono fortemente il diritto di sciopero, resero obbligatori i referendum prima degli scioperi, vietarono la pratica del picchettaggio e, cosa più significativa di tutte, eliminarono gran parte delle immunità legali per danni che la legge inglese assicurava ai sindacati con il Trade Dispute Act del 1906.

L'organizzazione sindacale degli Stati Uniti era storicamente molto più debole, ma l'effetto del nuovo laissez faire fu quello di indebolirla ulteriormente. Sia negli Stati Uniti, sia in Gran Bretagna si registrò una netta flessione nella percentuale dei lavoratori iscritti ai sindacati. La massima aspirazione di molti sostenitori del nuovo laissez faire era che i sindacati scomparissero del tutto. Essi non avevano posto in un'economia moderna, essendo retrogradi e d'impaccio, contrari al cambiamento. Potevano solo riuscire a elevare permanentemente i redditi dei loro membri limitando la concorrenza sui mercati del lavoro, il che significava che i benefici che assicuravano erano a spese dei disoccupati. Ancora una volta, questo ragionamento ribaltava il credo politico dell'era keynesiana. Invece di considerarli il necessario contrappeso del capitale e i protettori degli standard di vita dei lavoratori, il nuovo laissez faire dipingeva i sindacati come i nemici della prosperità nel lungo periodo e gli agenti di un solo segmento della forza di lavoro (quanti avevano lavori stabili a tempo indeterminato) contro il resto dei lavoratori.

La campagna in favore di mercati del lavoro flessibili comportava una loro deregolamentazione che eliminasse le protezioni all'occupazione venutesi. a creare nel corso di molti decenni. I salari minimi, le norme di igiene e sicurezza, la durata massima dell'orario di lavoro, erano tutti oggetto di forti critiche. Ai datori di lavoro doveva essere consentito assumere manodopera con restrizioni e costi addizionali minimi. Poiché i sindacati tutelavano dette restrizioni, era necessario ridurre drasticamente o addirittura eliminare i sindacati perché i mercati del lavoro divenissero effettivamente flessibili. Alcune fra le più feroci vertenze industriali degli anni della Thatcher riguardarono il riconoscimento dei sindacati, dato che un certo numero di datori di lavoro, pienamente appoggiati dal governo, cercarono di eliminare del tutto la presenza dei sindacati sul posto di lavoro. La stessa tendenza, ancor più accentuata, si ebbe negli Stati Uniti.

Il modello ideale cui il nuovo laissez faire aspirava era un'economia in cui tutti gli operatori economici fossero indipendenti e autosufficienti e agissero individualmente, piuttosto che collettivamente, nel perseguimento dei loro interessi. L'unione dei lavoratori, come quella dei datori di lavoro, era considerata pericolosa per l'efficienza economica e si riteneva fosse compito dello Stato impedirla e sradicarla, anche con la forza se necessario. Il governo Thatcher si distinse per la sua intransigenza nei confronti dei sindacati che la Thatcher giunse perfino a definire come nemici interni, dichiarando che il paese doveva fare loro guerra come l'aveva fatta per le isole Falkland. Questa è l'altra faccia della medaglia del laissez faire, che non significò mai libertà assoluta d'azione: i comportamenti in contrasto con il funzionamento del mercato dovevano essere soppressi. I sindacati erano considerati una forma illegittima di potere monopolistico, per la quale non c'era posto in un'economia capitalistica dinamica.

Privatizzazione e deregolamentazione

Un'altra area fondamentale del nuovo laissez faire riguardava la politica governativa nei confronti dell'attività imprenditoriale. L'era keynesiana aveva assistito alla proliferazione di varie forme di regolamentazione dell'attività imprenditoriale nel pubblico interesse e inoltre, in molti paesi, a un sostanziale ampliamento della sfera dell'economia direttamente posseduta o controllata dallo Stato. Alla separazione della proprietà e del controllo nelle grandi società si era accompagnata la diffusione di ideologie manageriali che tendevano a enfatizzare le responsabilità pubbliche delle imprese, estendendole a un'ampia gamma di partecipanti (stakeholders) piuttosto che ai soli azionisti (shareholders). Ciò aveva portato a una più stretta collaborazione fra grosse imprese e governo nel formulare e attuare le politiche economiche nazionali.

Il nuovo laissez faire auspicava il completo smantellamento della proprietà statale e del controllo delle industrie e delle public utilities. Il gigantesco settore pubblico formatosi nel corso del XX secolo divenne il principale obiettivo degli attacchi e in Gran Bretagna, durante il governo Thatcher, fu avviato un importante programma di privatizzazione che portò al trasferimento di quasi tutte le società pubbliche al settore privato. Va notato però che in alcuni casi il cambiamento fu simbolico piuttosto che reale, dato che già da tempo molte imprese operavano in base a criteri strettamente commerciali ben distanti dalle direttive del Tesoro. Ma il valore simbolico fu comunque molto potente, perché la privatizzazione significò il ripudio della tesi seguita agli inizi del XX secolo, secondo cui solo se possedute e controllate dallo Stato, le imprese potevano assicurare di servire l'interesse pubblico. Il nuovo laissez faire escludeva decisamente che si potesse servire l'interesse pubblico in modo diverso dalla concorrenza di mercato fra imprese private.

La stessa logica era applicata alla regolamentazione e alla corporate governance. Il nuovo laissez faire si basava soprattutto sulla dottrina dello shareholder value, secondo la quale fine delle imprese era massimizzare il valore delle loro attività a beneficio degli azionisti. Molti sostenevano che questo è il loro unico compito, criticando qualsiasi tentativo dei manager e dei politici di affermare il contrario. In base ai principi del laissez faire i manager di un'impresa non possono essere obbligati a farsi promotori di principi di responsabilità sociale: essi servono l'interesse pubblico massimizzando i profitti dei loro azionisti. Secondo questa dottrina, a parte le norme fondamentali regolanti i contratti e i diritti di proprietà e che impongono la concorrenza, lo Stato non dovrebbe interferire nell'imporre standard di comportamento alle società, o cercare di far loro rispettare un'idea politicamente determinata dell'interesse pubblico.

In pratica, questa dottrina significava fra l'altro che lo Stato non doveva cercare di impedire le fusioni e le concentrazioni di capitale tranne nei casi in cui vi fosse un chiaro rischio di monopolio. Ciò aveva particolare rilevanza negli Stati Uniti, dove uno dei principali aspetti del nuovo laissez faire era l'ostilità alle azioni legali antitrust e il ripudio di una tradizione che aveva sempre visto con sospetto il formarsi di concentrazioni di potere in grandi società. Il principio del laissez faire era sempre contrario all'esercizio della sovranità popolare e della democrazia per correggere i risultati del funzionamento del mercato. Una volta che i mercati fossero stati propriamente costituiti, li si doveva lasciare funzionare liberamente e accettarne i risultati. L'applicazione di questo principio alle scalate societarie significò che l'amministrazione Reagan scelse di non intervenire; quello che andava bene per il capitale societario andava bene per l'America.

Democrazia e società civile

Un tratto caratteristico del nuovo laissez faire è la sua ostilità alla democrazia; lo si nota particolarmente negli scritti di Hayek e della scuola austriaca, ma l'ostilità è presente anche nelle altre correnti liberiste. La democrazia è concepita come la strada che porta alla diffusione di dottrine economiche false e dannose come quella keynesiana. L'ordinato funzionamento del mercato e la presenza minima dello Stato richiedono una filosofia della gestione pubblica contraria alle promesse di sicurezza sociale e prosperità per tutti offerte dai programmi collettivistici dei partiti democratici di massa. Il trionfo del keynesismo e del welfare state sono considerati da Hayek e da altri economisti liberisti come i primi passi sulla «via della servitù», la distruzione della libertà economica che potrebbe portare anche all'estinzione della libertà politica. Per sopravvivere, il mercato deve essere isolato, protetto, non esposto alle pressioni delle politiche democratiche. I suoi principi devono essere inseriti in disposizioni costituzionali e norme non soggette ai ribaltamenti temporanei di maggioranze democratiche.

Negli Stati Uniti ciò ha condotto a proporre emendamenti alla Costituzione tendenti ad obbligare i governi americani al pareggio di bilancio e a rifiutare alcune forme di tassazione che avessero natura redistributiva. Analogamente, si è auspicata la creazione di enti indipendenti dai politici che amministrassero gli aspetti fondamentali della politica economica come la politica monetaria e la politica della concorrenza. Con ciò si voleva creare una gestione economica impermeabile alla politica, soggetta a norme generali piuttosto che alla discrezionalità dei politici e dei burocrati. Il keynesismo era basato sui principio opposto: cioè che la discrezionalità e il pragmatismo dovevano essere esercitati per evitare rigidità e calamità.

Il nuovo laissez faire cerca anche di stimolare una rivoluzione culturale, un ripristino dei valori che sostengono i mercati e sono essenziali alloro successo. Si ritiene in parte che questi valori sorgerebbero spontaneamente una volta reintrodotti gli opportuni incentivi e i diritti di proprietà necessari ai mercati. Ma si ritiene altresì che si debbano combattere le idee false contrarie ai mercati e alla libertà. Occorre esaltare il ruolo degli imprenditori e reintrodurre il rispetto per il lavoro e lo spirito d'intrapresa, in parte eliminando la cultura dello Stato assistenziale, favorita dai programmi di welfare totale. Al centro del nuovo laissez faire vi è l'idea della libertà, non quella della giustizia sociale. In effetti, molti dei suoi principali teorici disprezzano l'idea della giustizia sociale, sostenendo che non ha significato applicarla alla complessa economia di mercato i cui risultati non sono né giusti né ingiusti: gli individui non ottengono quello che meritano, ma ricevono il valore di mercato dei loro servizi e delle loro attività. Il criterio della giustizia riguarda solo le norme che governano il mercato, non i risultati del suo funzionamento. Quindi il grado di diseguaglianza che può derivare dal funzionamento dei mercati non è qualcosa di cui la gestione pubblica debba occuparsi e tantomeno preoccuparsi.

Le conseguenze del nuovo «laissezfaire»

Il nuovo laissez faire ha avuto il suo maggiore impatto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma i suoi effetti si sono fatti sentire in tutta l'economia mondiale, dato che molte delle politiche sono state diffuse attraverso organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. È emersa una nuova ortodossia economica che riflette gran parte delle idee politiche del nuovo laissez faire così come esse erano state sperimentate negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. La ripresa economica degli Stati Uniti negli anni Novanta, accompagnata da recessione e lenta crescita in Europa e dalla crisi finanziaria in Asia orientale, hanno allontanato per un certo tempo i discorsi di un declino americano. All'opposto, osservando gli eventi dalla prospettiva del 2000, sembra che vi sia stato un progressivo convergere di tutte le economie capitalistiche verso i principi del nuovo laissez faire proclamati in America. Si è sostenuto che la possibilità di modelli alternativi di capitalismo stia assottigliandosi, dato che l'economia mondiale diviene sempre più interdipendente e la concorrenza si intensifica.

I principi incorporati nel nuovo laissez faire, con la loro enfasi sulla stabilità finanziaria, la flessibilità dei mercati del lavoro, lo shareholder value e la deregulation, vengono considerati i più rispondenti alla realtà del nuovo mercato globale. Per i critici invece, il nuovo laissez faire ha distrutto le garanzie create dal welfare capitalism nelle sue varie forme, accentuato le diseguaglianze del reddito e della ricchezza sia all'interno dei vari paesi, sia fra di essi, e ristabilito l'assoluta supremazia del mercato come istituzione sociale che colonizza e invade tutte le altre sfere.

I successi del nuovo laissez faire sono visibili soprattutto per quanto riguarda i cambiamenti sui mercati del lavoro, la minore forza dei sindacati e lo smantellamento di molte forme di regolamentazione dell'industria, la riduzione della proprietà pubblica e la priorità data alla stabilità finanziaria rispetto al pieno impiego. Vi è stato un marcato allontanamento dal keynesismo a livello nazionale e in particolare dal credo che i governi possano gestire le rispettive economie secondo propri criteri nazionali liberamente scelti. La sovranità del mercato globale è stata. riaffermata come il contesto in cui avvengono le decisioni economche nazionali e il ruolo dello Stato è stato corrispondentemente ridotto.

Ma, nonostante l'influenza del laissez faire negli anni Ottanta, esso non ha modificato completamente la situazione. Il ruolo del settore statale e il livello della tassazione sono rimasti elevati; i paesi che hanno adottato il nuovo laissez faire sono riusciti al massimo a contenere la crescita della spesa pubblica, ma non a ridurla. Va sottolineato in particolare come i governi abbiano conseguito maggiori successi nell'accrescere la flessibilità dei mercati del lavoro e nell'eliminare le garanzie al mantenimento del posto di lavoro, piuttosto che nel ridurre i programmi di welfare. L'inerzia istituzionale e la forza degli interessi opposti alla riforma significa che i progressi sono stati molto lenti e che, nella maggior parte dei casi, i governi si sono limitati a riforme interne della gestione dei servizi pubblici piuttosto che effettuare forti tagli sui servizi stessi.

Molti teorici del nuovo laissez faire considerano un fallimento le riforme, anni Ottanta, soprattutto perché il ruolo dello Stato è rimasto così ampio e refrattario a qualsiasi tentativo di ridimensionamento. Questa critica è stata particolarmente forte negli Stati Uniti perché l'amministrazione Reagan ha sacrificato la stabilità finanziaria al desiderio di realizzare un massiccio potenziamento della capacità militare americana. Si sperava di finanziare l'aumento della spesa militare e i forti sgravi fiscali con riduzioni nelle prestazioni previdenziali e altre spese relative al welfare. Il governo ha avuto successi nelle prime due voci, ma non è riuscito a far passare in Congresso molti dei tagli in materia previdenziale. Di conseguenza vi è stata un'iniezione di domanda ben superiore a quella prevista dai modesti programmi keynesiani del passato, con una fase di boom incontrollato, alimentato da un disavanzo del settore pubblico in piena espansione, che si è concluso con una severa recessione.

Nonostante questo involontario keynesismo fiscale, il vero significato dell'amministrazione Reagan è stato nello stimolo che gli sgravi fiscali hanno dato alla flessibile, intraprendente economia degli anni Novanta e nella maggiore importanza assunta dal mercato azionario su tutti gli altri rami dell'attività economica. Insieme allo smantellamento del potere sindacale e all'accelerazione del suo declino, questo è stato il vero significato del nuovo laissez faire. Lo Stato è rimasto forte e decisamente intervenzionista in aree fondamentali della tecnologia e dell'industria, continuando a garantire un minimo di assistenza sociale, ma si è teso a ridurne progressivamente il ruolo nel welfare, riducendo anche al minimo i controlli e la regolamentazione del settore industriale.

Per alcuni aspetti, il nuovo laissez faire è stato il pendant ideologico all'impulso che la globalizzazione ha ricevuto dalla fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods nel 1971. L'equilibrio fra Stati-nazione e mercato globale, che nell'era di protezionismo nazionale fra il 1914 e il 1971 aveva favorito gli Stati nazionali, adesso favoriva il mercato globale e i suoi agenti, le società transnazionali. Ma la dimensione dello Stato non ha mostrato segni di riduzione: in alcune aree essa è stata ridotta e in altre se ne è arrestata la crescita, ma gli Stati sono rimasti forti impositori e spenditori e molto attivi nel regolare e controllare l'economia. E cambiato invece il contenuto e la direzione di molte attività statali, cosicché i risultati delle politiche del governo Thatcher e di quello Reagan sono stati decisamente sperequativi, ostili a programmi di welfare universale, alla manodopera organizzata e alla tutela dell'occupazione. Il capitale doveva essere di nuovo libero da vincoli e per garantire che ciò avvenisse lo Stato doveva essere rimodellato. Questa teoria si contrappone nettamente ad altri modelli di capitalismo, esprimenti valori differenti e organizzati con istituzioni e secondo principi diversi, e giunti al 2000 li ha spinti su posizioni difensive contro il capitalismo angloamericano in ascesa. La durata di questa ascesa è comunque incerta. Il ritorno al laissez faire ha cominciato a generare nuove forme di resistenza al predominio del mercato e continuano ad affiorare dubbi sul fatto che la new economy ereditata dalle politiche degli anni Ottanta sia un valido mezzo per conseguire la prosperità a lungo termine.

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Michel Albert

Capitalismo contro capitalismo

Traduzione di Maria Paola Arena.

Per quasi un secolo il capitalismo è stato opposto al comunismo. E per quasi mezzo secolo questo confronto, che ha contrapposto principalmente gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, ha dominato la totalità delle relazioni internazionali. Nel novembre 1989, i giovani tedeschi dell'Est che osarono scavalcare il muro di Berlino senza essere abbattuti dai comunisti furono gli araldi di oltre 300 milioni di persone frustrate dei paesi comunisti. Frustrate per assenza di libertà ma anche di supermercati, ossia di capitalismo. Questa vittoria del capitalismo getta ormai una luce nuova sulla storia economica del mondo.

In precedenza, l'opposizione tra il mondo comunista e il mondo capitalista era a tal punto assoluta, onnipresente, che ciascuno dei due «blocchi» sembrava fondamentalmente omogeneo, se non unitario.

Forse allora, osservato dall'esterno, il capitalismo, in posizione di monopolio, appariva come un monolite, un blocco del nuovo determinismo subentrato al determinismo marxista. Ma è sufficiente un approccio più concreto per constatare, al contrario, che il capitalismo reale, nei modi in cui è vissuto nei diversi paesi, non fornisce di per sé una risposta univoca, una one best way ai grandi temi della società. Infatti il capitalismo è multiplo, complesso come la vita. Non è un'ideologia, ma una pratica.

Questa diversità tende comunque al bipolarismo fra due grandi tipologie di capitalismo paragonabili per importanza. Tale circostanza può apparire sorprendente in rapporto alla teoria liberale, secondo la quale non può che esservi un'unica logica pura ed efficace dell'economia di mercato; tutto il resto, tutto ciò che mescola alla razionalità dei prezzi considerazioni di carattere istituzionale, politico o sociale non è altro che una degenerazione. Per questo pensiero accademico gli Stati Uniti costituiscono, in linea di massima, il solo modello di riferimento e di efficienza.

In realtà le cose non sono tanto semplici e l'osservazione dei fatti consente di distinguere un'opposizione tra due modelli di capitalismo. Da un lato, il modello «neoamericano» che risale alla nuova rivoluzione conservatrice introdotta da Reagan. Si tratta di un modello fondato sul successo individuale, il profitto finanziario a breve termine e la loro mediatizzazione. Dall'altro, il modello «renano», praticato in Germania, in Svizzera, nel Benelux, con varianti nell'Europa settentrionale, valorizza il successo collettivo, il consenso, l'impegno a lungo termine. Al principio degli anni Novanta il primo appariva più seducente, sebbene il secondo potesse essere definito il più efficace. Nondimeno, da allora, i successi del modello neoamericano non hanno cessato di stupire.

Il trionfo del capitalismo ha quindi rivelato il suo dualismo e se oggi la vittoria del modello neoamericano può ritenersi completa, dev'essere presa in considerazione l'ipotesi di una convergenza dei due modelli.

Il trionfo del capitalismo ha rivelato il suo dualismo

Nel 1979 l'avvento al potere di Margaret Thatcher si è tradotto nella scelta di una politica liberista per combattere gli eccessi del sindacalismo e dello Stato assistenziale. Anche negli Stati Uniti, nel 1980, la reaganomics rompe con le tendenze socializzanti dei democratici americani, quella grande tradizione che dal New Deal di Roosevelt approda a Clinton passando per la «Nuova Frontiera» di Kennedy, la «Grande Società» di Johnson e le ambizioni di Carter. Dunque Thatcher in Inghilterra e Reagan negli Stati Uniti hanno voluto reagire diffondendo una nuova morale secondo cui il povero, il debole, è più un irresponsabile da spronare che una vittima da assistere. Anche l'opposizione tra modello renano e modello anglosassone è recente nella storia dei due capitalismi. Si tratta di un fenomeno che risale soltanto al 1980, mentre in precedenza, da quasi un secolo, vigeva una sorta di convergenza tra una sponda e l'altra dell'Atlantico.

Questo dualismo tuttavia è reale, in quanto si estende simultaneamente agli ambiti macroeconomico mesoeconomico e rnicroeconomico. Ma in nessuno di questi settori esiste un'autentica unità europea: l'Europa rimane il continente della diversità, non solo storica, geografica e culturale, ma anche economica e sociale. Di conseguenza è chiaro che il Regno Unito post-thatcheriano si ispira a un modello di capitalismo molto più vicino a quello statunitense che al tedesco, in particolare per quanto concerne le strutture di finanziamento dell'economia, come si vedrà in seguito.

Il dualismo sotto l'aspetto macroeconomico

Prendendo le mosse dall'approccio macroeconomico e semplificando al massimo, consideriamo che il volume delle spese pubbliche in rapporto al Pil nel 1999 è stimato al 48,2 per cento per la media dei quindici paesi membri dell'Unione europea contro il 32,3 per cento degli Stati Uniti. La considerevole differenza sintetizza il contrasto fra i rispettivi ruoli delle amministrazioni pubbliche sulle due sponde dell'Atlantico. Ma il Regno Unito, con il 39,9 per cento, è a metà strada fra i due, sebbene il tasso tedesco sia pari al 48 per cento. La differenza scaturisce essenzialmente dall'estensione dello Stato assistenziale, molto diversa nei due casi: sotto questo profilo appaiono assai significativi gli esempi del finanziamento delle pensioni e dell'assunzione delle spese sanitarie. In effetti, il finanziamento delle pensioni nei paesi anglosassoni è legato principalmente alla capitalizzazione, mentre i paesi dell'Europa continentale (fuorché i Paesi Bassi e la Svizzera) nel loro complesso ricorrono soprattutto alla ripartizione, vale a dire a finanziamenti tramite prelevamenti obbligatori.

Quanto alle spese per la sanità, due diverse concezioni si fronteggiano. Da un lato si ritiene che la sicurezza sociale favorisca uno spirito assistenziale che incoraggia l'indolenza e l'irresponsabilità, dall'altro essa è giudicata tradizionalmente da tutti la giusta conseguenza del progresso economico. Su questo piano la Gran Bretagna aderisce al modello renano, in cui esiste da lungo tempo un sistema di sicurezza sociale, a fronte degli Stati Uniti che non dispongono di alcun sistema generalizzato di assicurazione contro le malattie: quaranta milioni di americani non hanno accesso a un'assicurazione malattie e metà dei dipendenti della piccola e media impresa non beneficia di alcuna protezione sociale.

Il dualismo sotto l'aspetto mesoeconomico

L'opposizione mesoeconomica riguarda le strutture e il funzionamento del settore finanziario, con il prevalere dei finanziamenti bancari da un lato, e dei mercati borsistici dall'altro. La differenza fondamentale consiste nel fatto che i mercati di capitali sono molto più importanti, in generale, nei paesi di cultura anglosassone rispetto alle aree germanica e scandinava, per non parlare dei paesi latini: la borsa è molto più sviluppata nella Repubblica sud-africana che in Messico, in India e a Hong Kong piuttosto che in Brasile o in Venezuela, in Nuova Zelanda più che in Argentina.

Nel 1992 le banche tedesche detenevano l'80 per cento dei diritti di voto in un terzo delle 200 più grandi società tedesche. La sola Deutsche Bank era rappresentata nei consigli d'amministrazione di 35 società. In queste condizioni l'equità nelle informazioni era palesemente mal garantita a scapito dei piccoli azionisti che di conseguenza si disinteressavano delle azioni.

La Germania ha una tradizione di finanziamento delle imprese tramite la rete delle banche «universali»: il banchiere fornisce il capitale, i crediti a lunga e media scadenza per finanziare gli investimenti come pure il credito fornitore.

Il dualismo sotto l'aspetto microeconomico

A livello microeconomico si nota come l'organizzazione interna delle imprese sia molto diversa negli Stati Uniti e in Germania.

L'impresa americana è un'organizzazione economica di esclusiva proprietà dei suoi azionisti: è il principio della corporate governance. Costoro possono fare quel che vogliono, secondo l'antica norma del diritto romano uti et abuti. Di conseguenza l'obiettivo dell'impresa consiste nel massimizzare il proprio valore per gli azionisti. Si tratta di un fenomeno nuovo per gli Stati Uniti: non era così negli anni Sessanta e questa evoluzione è il prodotto della «nuova rivoluzione conservatrice».

In Germania l'impresa è un'istituzione. Non è soltanto una proprietà privata, ma un'istituzione pubblica la cui missione consiste nel soddisfare simultaneamente e in modo ottimale gli interessi di - in ordine di priorità - clienti, fornitori, personale, azionisti e, infine, della comunità sociale in cui è inserita. Gli azionisti si collocano soltanto in quarta posizione. Per questa ragione le imprese tedesche finora sono state difficilmente «opabili», in quanto esercitano anche una funzione di servizio pubblico in collegamento con le scuole pubbliche per la formazione gratuita degli apprendisti.

Di conseguenza, in Germania l'azionariato è stabilizzato. Il potere manageriale è suddiviso all'interno dell'esecutivo per la presenza di un direttivo i cui membri, da cinque a sette, detengono gli stessi poteri. Analogamente, il consiglio di vigilanza, nelle grandi imprese in cui vige la regola della cogestione, è diviso (la metà degli amministratori è composta da rappresentanti del personale e dei sindacati). In queste condizioni la forza del consiglio di vigilanza e del management in rapporto agli azionisti è molto rilevante. Il modello renano, in larga misura, è la prosecuzione dell'«era dei manager».

E importante precisare che si tratta di «prosecuzione» in quanto, prima del 1980, anche i paesi anglosassoni hanno conosciuto l'«era dei manager». Alla fine degli anni Sessanta, nella sua celebre opera sul Nuovo Stato industriale, John K. Galbraith constatava che da quasi trent'anni negli Stati Uniti si erano accumulate prove da cui emergeva con chiarezza il trasferimento del potere dai proprietari ai manager all'interno della grande impresa, mentre il potere azionario diventava sempre più esiguo. «In effetti tutti sanno che il loro diritto è limitato all'incasso delle cedole e quello dei consigli d'amministrazione alla ratifica delle decisioni prese dal management». Oggi si stenta a credere che sia stata effettivamente questa la situazione nei paesi anglosassoni prima della «nuova rivoluzione conservatrice» degli anni Ottanta.

Ma per comprendere la posizione rispettiva dei due grandi modelli di capitalismo intorno al 1990, è ancora più importante risalire avent'anni prima. Nel 1967 la Sfida americana di Jean-Jacques Servan-Schreiber era un best seller mondiale. Si prefiggeva l'obiettivo di allertare l'opinione pubblica, soprattutto in Europa, sul potere crescente del sistema economico americano. All'epoca si trattava di un'idea nuova perché - ricordiamolo - all'inizio degli anni Sessanta erano i paesi del mercato comune a passare da un successo all'altro, un po' come è accaduto in seguito con i «Dragoni» e i mercati emergenti.

Al principio degli anni Novanta la sfida americana era ormai da tempo obsoleta. Al contrario, all'epoca si parlava volentieri del «declino americano». La rivista «Fortune» pubblicava un lungo articolo dal titolo stupefacente: Verso la scomparsa del made in Usa. Il Rockefeller Center veniva acquistato dai giapponesi e il Massachusetts Institute of Technology (Mit), nel suo ampio rapporto Made in America, proponeva una fosca analisi delle ragioni del forte regresso del dominio statunitense. Gli autori del rapporto sottolineavano in particolare la fine della supremazia tecnologica americana e la sottoqualificazione degli operai, e addirittura dei manager, a paragone dei concorrenti giapponesi o europei degli Stati Uniti.

E altrettanto arduo credere che Felix Rohatyn, ex socio-amministratore di Lazard Frères, il celebre banchiere che salvò le finanze della città di New York prima di diventare ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, ricordasse nella rivista «Le Débat», nel 1998: «Dieci anni fa tutto il mondo ci diceva: gli Stati Uniti sono finiti. I vostri deficit finiranno per rovinarvi. Le vostre banche sono sull'orlo del fallimento, come la vostra industria automobilistica. La Germania e il Giappone prenderanno il controllo del mondo. Del resto, è questo ad aver permesso l'elezione del presidente Clinton. E stato sorretto dal rifiuto di questo declino economico».

Inoltre il grande progetto di Bill Clinton, all'epoca della sua prima campagna elettorale nel 1992, consisteva - non dimentichiamolo - nell'estendere la sicurezza sociale alla totalità della popolazione, sul modello di quanto è praticato in Europa.

Proprio in quel momento, in Capitalismo contro capitalismo, veniva dispiegato l'elogio del modello renano, caratterizzato da una duplice superiorità in rapporto al modello anglosassone: era economicamente più efficace (all'epoca i costi salariali, al tasso di cambio corrente, erano più alti del 20-60 per cento rispetto agli Stati Uniti, eppure la Germania produceva una forte eccedenza esterna malgrado l'elevato tasso di cambio del marco) e più equo sul piano sociale, non solo grazie alla migliore protezione sociale ma anche perché gli scarti salariali erano molto più modesti rispetto agli Stati Uniti, mentre la durata media degli impieghi - dunque la loro stabilità - a quel tempo era doppia. Certo, all'epoca si poteva supporre che ciononostante, come «la cattiva moneta scaccia la buona», «il cattivo capitalismo» avrebbe avuto la meglio su quello «buono». Ma eravamo ben lungi dal concepire l'idea di un simile prodigioso ribaltamento che nel confronto con l'Europa, e in particolare con i paesi renani, avrebbe prodotto lo spettacolare trionfo dell'economia americana, la nuova, odierna, «sfida americana».

2000: vittoria del modello americano e requiem renano

La vittoria del modello americano si manifesta in modo eclatante nelle cifre relative all'occupazione, ma al di là di questa costante gli stessi fondamenti del capitalismo neoamericano hanno preso il sopravvento sui principi del capitalismo renano: la banca si piega alla borsa, gli azionisti onnipotenti dominano i manager e, in un simile contesto, il capitalismo europeo stenta a crescere realmente.

Nel 1990 i tassi di disoccupazione americano e tedesco erano quasi equivalenti (7 per cento). All'inizio del 2000 erano, rispettivamente, pari al 4 per cento per gli Stati Uniti e al 10 per cento per la Germania, ossia più del doppio. Gli Stati Uniti hanno riconquistato la piena occupazione. Ormai secondo il buon senso e l'opinione pubblica si ritiene che sia meglio un'occupazione mal pagata nello stile anglosassone piuttosto che la disoccupazione, per quanto possa essere meglio indennizzata, com'è il caso dell'Europa. In Europa continentale ci troviamo sempre più in presenza di un'economia sociale che approda in misura crescente a esclusioni. In compenso, gli Stati Uniti praticano una politica relativamente asociale nella creazione di impieghi e ricchezze, che determina una società meno dualista: non è casuale che l'espressione «frattura» sia stata inventata in Francia nel 1995 e non negli Stati Uniti.

Quali sono le ragioni di un simile divario, che ormai è al centro di tanti dibattiti? La risposta è complessa e non può certamente prescindere dai fattori strutturali che l'Ocse continua a sottolineare e che sono il risultato della rigidità delle condizioni occupazionali, nell'Europa continentale e soprattutto in Germania, con conseguenze aggravate dall'accelerazione del progresso tecnologico e dal rafforzarsi della concorrenza internazionale, il tutto a profitto degli Stati Uniti.

La banca si piega alla borsa

Ormai in tutta l'Europa continentale, e in particolare nei paesi renani, la banca si piega alla borsa.

Una generazione fa, le banche americane finanziavano le imprese nell'ordine dell'80 per cento circa, contro il 20 per cento soltanto di oggi. Questa trasformazione è molto importante: significa che negli Stati Uniti i finanziamenti passano essenzialmente attraverso i mercati, mentre in Europa le banche hanno mantenuto circa i due terzi dei finanziamenti delle imprese.

Nel capitalismo renano il finanziamento bancario simboleggia l'esistenza di una Hausbank, una banca di casa, che conosce tutte le esigenze di finanziamento dei suoi clienti ed è legata al capitale alle imprese. Questi finanziamenti si adattano molto alle imprese che si sviluppano progressivamente con continuità e regolarità. Il ruolo del banchiere consiste nell'accompagnare il cliente nella sua evoluzione. All'opposto, in presenza di una nuova economia, quando i nuovi attori hanno bisogno di rastrellare capitali, il mercato si rivela di gran lunga superiore alla banca in termini di finanziamento.

Anche sotto quest'aspetto gli europei si americanizzano, con ripercussioni sul piano sociale: è l'individualizzazione e «demutualizzazione» del finanziamento. In Europa la banca si comporta alla stregua di una società di mutuo soccorso: tende a non fare troppa differenza nel trattamento riservato ai suoi clienti. La piccola impresa non paga molto più della grande impresa il denaro che prende a prestito. L'impresa molto redditizia non paga molto meno rispetto a quella non redditizia.

In un certo senso, vi è una mutualità incorporata al sistema. Al contrario, tutti i mercati sono per loro natura selettivi. Funzionano secondo il rating, la graduatoria, il voto, e, per fare un esempio, negli Stati Uniti gli spreads relativi al finanziamento delle imprese - ossia le differenze tra i migliori e i meno buoni nell'economia disintermediarizzata - sono in media tre volte più elevati rispetto all'Europa.

Anche in Europa si è innescato un processo analogo a quello verificatosi trent'anni fa negli Stati Uniti. E’ già accelerato dalla creazione dell'euro, che favorisce la liquidità dei mercati e la titolarizzazione dei crediti. Questa evoluzione è di immensa portata, poiché a paragone dell'agilità della borsa la banca è un'istituzione irrigidita, ritualizzata, talvolta sclerotizzata, che invece di valorizzare le imprese più valide con condizioni di credito molto più vantaggiose tende a mutualizzare le sue operazioni. Per questa ragione, nel caso di start-up, del rischio di investimento, in particolare nelle attività connesse all'alta tecnologia, non esiste alternativa al finanziamento borsistico.

Nell'aprile 1998, un rapporto sulla gestione d'impresa realizzato per conto dell'Ocse da un gruppo consultivo, dal titolo Migliorare la competitività delle imprese e agevolare il loro accesso ai mercatifinanziari mondiali, ha sottolineato come in tutte le economie dell'Ocse il nuovo contesto concorrenziale metta le imprese in competizione reciproca, non solo per la vendita dei loro prodotti ma anche per l'accesso al capitale necessario alloro sviluppo. La globalizzazione del mercato dei capitali consente alle imprese più promettenti, a prescindere dal loro «colore nazionale», di finanziarsi nelle condizioni migliori.

Questa attrazione dei mercati è forte a tal punto da costringere le istituzioni finanziarie a specializzarsi e a concentrarsi alla massima velocità possibile. Non è più un fenomeno congiunturale ma strutturale, che investe l'Europa ancor più violentemente degli Stati Uniti. Prima dell'euro le grandi fusioni erano limitate a Germania, Francia e Gran Bretagna, paesi che hanno importanti mercati di capitali. Dalla creazione dell'euro, il 10 gennaio 1999, i paesi latini beneficiano ancora di più dell'allargamento dei mercati finanziari. L'italiana Olivetti, come la spagnola Repsol, ne hanno approfittato per procedere a enormi acquisizioni che in precedenza non sarebbero state alla loro portata.

E’ in Germania che il boom borsistico ha assunto il carattere più spettacolare. La riorganizzazione delle sette borse tedesche in una società di borsa unica, a partire dal 1996, è stata determinante per fare di Francoforte una piazza di prim'ordine, con un'accelerazione sorprendente del volume di emissioni, raddoppiato nel 1999 in rapporto al 1998.

Questa evoluzione spiega anche la grande battaglia borsistica ingaggiata in Francia, dal gennaio all'agosto 1999, con il progetto della Banque Nationale de Paris diretto a creare, con l'apporto della Société Générale e di Paribas, la più grande banca mondiale. Si comprende meglio l'audacia del progetto (che alla fine non è andato in porto) considerando che fra le 20 capitalizzazioni borsistiche di banche in Europa, la Francia era rappresentata solo dalla Société Générale contro 6 banche per il Regno Unito, 3 per la Germania e 2 per ognuno dei seguenti paesi: Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Italia e Svizzera. Inoltre, la Société Générale era in sedicesima posizione su venti.

Indipendentemente dalla sua portata, il movimento di concentrazione bancaria in Europa non potrà impedire che la banca, nelle sue attività di assunzione dei rischi diretti, sia destinata a piegarsi alla borsa.

Il manager si piega all'azionista

Ormai, in tutta Europa, sull'esempio del modello americano il manager si piega sempre più all'azionista.

Il Roe (return on equity), concetto ignoto nell'Europa continentale fino a dieci anni fa, ha assunto un carattere simbolico nell'attualità finanziaria, in quanto permette di misurare il successo dello shareholder value, della creazione di valore per gli azionisti, che rappresenta l'obiettivo chiave della corporate governance.

E preferibile non tradurre corporate governance con «governo d'impresa» per mantenere intatta tutta la forza originale e stimolante di questo neologismo anglosassone. In realtà, si tratta di un'autentica nuova cultura che rende obsoleta la cultura tradizionale della separazione fra la proprietà e il controllo delle imprese, com'era stata descritta nel 1932 da Berle e Means. Questo ribaltamento culturale, questo nuovo paradigma non è stato creato dall'alto, da teorici o da politici, ma si è sviluppato in modo empirico a partire dalla base, e in primo tempo dai vincoli imposti dai più importanti fondi pensione, il cui portafoglio è a tal punto considerevole che è loro difficile arbitrare qualche titolo azionario senza farne variare il corso.

Oggi il modello renano è costretto a cedere alla potenza logica e finanziaria dello shareholder value. Questo comporta due cambiamenti per i manager delle imprese europee.

Da una parte, essi sono ormai costretti ad applicare regole di trasparenza e di diffusione delle informazioni sempre più simili alle regole americane fissate dalla Securities Exchange Commission (Sec). Si tratta delle tre «C»: «clear, consistent (from year to year) and comparable (from company to company)». E delle due «D»: «detailed and descriptive». La sola applicazione di queste regole finisce per rimettere in discussione i poteri degli investitori istituzionali nel capitalismo renano, come pure le regole di differenziazione dei diritti di voto che, per esempio, permettono agli azionisti di ottenere un doppio diritto di voto al termine di due anni di detenzione, circostanza di cui gli azionisti operai sono spesso i principali beneficiari.

D'altra parte, se i manager devono rinunciare a gran parte di queste prerogative per mettersi al servizio degli azionisti, in compenso possono sperare di fare fortuna. Chi riuscirà a svelare le prodigiose conquiste del modello neoamericano in Europa grazie ai favolosi tesori promessi dallo sviluppo delle stock options? Una decina d'anni fa queste ultime erano quasi sconosciute in Europa. Negli Stati Uniti assolvevano una funzione incomparabile di coinvolgimento dei dirigenti e del personale nei risultati dell'impresa: i piani d'opzione rappresentano oltre il 10 per cento del capitale dei grandi gruppi contro 1,1 o 2 per cento nell'Europa continentale. La politica delle «opzioni per tutti», adottata dai gruppi più diversi, fra cui DuPont PepsiCo o Chase Manhattan, comincia a fare scuola in Europa, dove assume una coloritura specificamente sociale. Così Aegon ne assegna al complesso del suo personale, per evitare che alcuni soffrano di essere trattati come «dipendenti di seconda classe».

Lo straordinario potere di attrazione dei mercati borsistici, il cui valore si è triplicato negli ultimi cinque anni, produce un effetto shock sui paesi dell'«economia sociale di mercato». Un esempio: dopo l'acquisizione di Chrysler da parte di Daimler-Benz si è appreso che Schremp, presidente della compagnia tedesca, nel 1997 aveva guadagnato 2,5 milioni di dollari contro 116 milioni del suo partner Bob Eaton, presidente di Chrysler...

Il capitalismo europeo stenta a decollare

L'Europa cerca un equilibrio fra i tre lati di un triangolo: la democrazia, l'economia di mercato e la coesione sociale. Gli altri continenti sono interessati soltanto a due dei tre lati: in America la democrazia e il mercato, eventualmente a scapito della coesione sociale, in Asia la coesione sociale e il progresso del mercato, sacrificando magari la democrazia.

Le due principali forze della costruzione europea sono, da una parte, il mercato unico, ovvero le quattro libertà di circolazione, di prodotti, servizi, capitali e persone, dall'altra la creazione della moneta unica, l'euro, che ha già cominciato a indurre un significativo miglioramento del ritmo di crescita in Europa.

Tuttavia, non sempre siamo in presenza di quello che potrebbe essere definito un vero capitalismo europeo, ed è questa una delle grandi debolezze dell'Europa odierna.

Nel Regno Unito, la City di Londra ha mantenuto di britannico soltanto l'ubicazione. La maggior parte dei protagonisti più importanti è sotto il controllo americano o tedesco. Al contrario, nessuna grande impresa finanziaria tedesca è stata ancora acquistata da una società straniera. Il capitalismo italiano, essenzialmente familiare, rimasto a lungo chiuso verso l'esterno quasi come il capitalismo tedesco, è in piena trasformazione, ma su basi soprattutto nazionali. Quanto alla Francia, paradossalmente, i fondi pensione stranieri possiedono dal 30 al 40 per cento del capitale delle società quotate a Parigi, ossia un tasso due o tre volte più rilevante rispetto agli altri grandi paesi industrializzati. Allo stesso tempo i lavoratori francesi detengono solo il 2 per cento circa del capitale delle società del Cac 40, vale a dire dieci volte meno dei pensionati americani! A causa del sistema pensionistico basato sulla ripartizione, la Francia, come molti altri paesi dell'Europa continentale, rientra in «un capitalismo senza capitali».

I casi sono due: se in Europa persisterà questa situazione, finiremo per diventare una sorta di subcontinente americano, se invece saranno registrati progressi di ordine politico, si potrà procedere in direzione del coordinamento fiscale e finanziario, dell'organizzazione di un livello minimo di solidarietà fra i paesi europei, almeno nella zona dell'euro. In tal caso, è probabile che in Europa, per l'impresa del XXI secolo, possa crearsi un clima più confacente alle leggi dell'efficienza, perché per essere efficienti dobbiamo avere l'impressione di essere realmente utili alla società in cui lavoriamo. Questo fa parte della tradizione imprenditoriale europea.

Per tutte queste ragioni, siamo in presenza di un'irresistibile corrente che rimette in discussione certe caratteristiche essenziali del modello renano. Tanto più che per motivi di efficienza interna e di concorrenza internazionale, anche lo Stato si piega al mercato. Nell'ordine interno due dinamiche nuove provocano l'arretramento dello Stato: da un lato, l'eccesso di prelevamenti obbligatori in Europa, dall'altro la consapevolezza dell'inefficacia di gran parte dei monopoli pubblici. Per esempio in Francia, nel 1997, esisteva solo un monopolio pubblico per il telefono, nel 2000 operano una decina di compagnie.

«Americanizzazione» è la parola che riassume tutto. Nel giugno 1999 «The Economist» ha pubblicato un supplemento annuale di 22 pagine sulla Francia, in cui è esposta la tesi che il paese si americanizza a ritmi accelerati, mentre lo Stato era sempre stato il motore trainante dell'economia. La stessa opinione è stata espressa dal «Wall Street Journal» (27 luglio 1999) a proposito dell'«americanizzazione degli affari in Europa». L'autore, Geoffrey Owen, ricorda che in Gran Bretagna si ritiene non di rado che l'integrazione europea possa condurre inesorabilmente a una regolamentazione più forte dell'economia e dimostra come invece accada il contrario: i paesi europei riconoscono sempre più che il loro nazionalismo tradizionale in materia industriale è incompatibile con la competitività globale. Infine «Le Monde», il 15 agosto 1999, intitolava: Ritratto di una nuova Francia A sinistra si accetta il mercato.

L'ipotesi di una convergenza dei modelli

Questo trionfo segna la fine della storia? Non conviene considerare l'ipotesi di un nuovo equilibrio, addirittura di una convergenza dei due modelli? Porre la questione equivale a constatare tre tendenze fondamentali: un'evoluzione del rispettivo approccio al ruolo dello Stato, lo sviluppo di un capitalismo popolare e il rinnovamento del concetto di economia sociale di mercato.

Un'evoluzione del rispettivo approccio al ruolo dello Stato

Negli Stati Uniti, come pure in Gran Bretagna, la concezione del ruolo dello Stato si è notevolmente evoluta dopo il riflusso dell'ondata liberale degli anni Thatcher-Reagan. In tempi recenti si è creato consenso intorno alla concezione di uno «Stato attivo» caldeggiata da Clinton e Tony Blair. Questa visione si distingue sia dal big government della sinistra tradizionale - spese pubbliche e fiscalità troppo elevate, politica di redistribuzione - sia dallo Stato minimalista neoliberale Il rifiuto delle retoriche troppo ostentatamente antistataliste e antiredistrjbutive si è accentuato ulteriormente. Negli Stati Uniti questa fase è stata raggiunta nel 1995, allorché i conservatori repubblicani del Congresso hanno cercato di far passare una legislazione che riduceva nettamente le spese del medicare (copertura medica dei pensionati) e dell'istruzione e il conflitto sul bilancio con il presidente Clinton è sfociato nella chiusura dei servizi pubblici per 21 giorni. Nel Regno Unito la svolta ha coinciso con eventi come la catastrofe ferroviaria di Paddington o la congestione del sistema sanitario in seguito a un'epidemia di influenza, circostanze che hanno messo in risalto il sottoinvestjmento cronico nei servizi pubblici. L'incremento delle spese pubbliche conquista tanti più fautori in quanto i bilanci, in questi paesi, registrano delle eccedenze. Il presidente Clinton ha proposto di usare i surplus del bilancio per finanziare il medicare o l'istruzione, e Al Gore di recente ha fatto propaganda sul tema «più spese pubbliche nella sanità e nell'istruzione». Quanto a Tony Blair, ha annunciato l'attivazione di un importante programma di rilancio delle spese pubbliche fino al 2004, a favore dell'istruzione, del sistema sanitario e dei trasporti pubblici.

Sul versante dei paesi europei continentali, questo movimento di convergenza si traduce nell'adozione di alcuni elementi del modello anglosassone. In Germania, per esempio, il governo Schröder ha accelerato le privatizzazioni e la deregolamentazione di certi settori, ha avviato la diminuzione delle spese pubbliche e adottato una riforma fiscale di fondo nel luglio 2000: il tasso massimo dell'imposta sul reddito e il tasso d'imposta degli utili non distribuiti dalle società saranno riportati, rispettivamente, al 42 e al 25 per cento, ossia a livelli più vicini a quelli del Regno Unito che della Francia. L'imminente soppressione della tassazione delle plusvalenze derivanti da cessione delle partecipazioni in possesso delle imprese tedesche ha portato fin d'ora al moltiplicarsi delle operazioni di fusione, per tacere della prima Opa ostile di successo su una grande impresa tedesca (Vodaphone su Mannesmann).

Anche in paesi dal «modello sociale» molto avanzato, come la Svezia o la Danimarca, sono stati compiuti analoghi sforzi di adattamento alla mondializzazione, favorendo la flessibilità del mercato attraverso la deregolamentazione di diversi settori, senza peraltro smantellare lo Stato assistenziale o rimettere troppo in discussione il consenso sociale.

Un capitalismo popolare in evoluzione

Oggi, nell'Europa continentale, è d'importanza cruciale sapere come creare ricchezza evitando che questo si traduca in un fattore di alterazione dei legami sociali. Uno dei metodi, com'è evidente, consiste nell'associare in maniera più sistematica i lavoratori alla proprietà del capitale. Anche su questo punto l'America rappresenta un modello, perché, come afferma F. Rohatyn: «Allargando la partecipazione dei dipendenti al capitale, abbiamo creato una sorta di capitalismo popolare, a tal punto che l'americano medio si sente proprietario dell'America». Dunque gli americani possono dare lezioni all'Europa in materia di azionanato popolare, di equity culture (cultura dell'azionariato), che malauguratamente è assente nei paesi europei. In Europa, tutt'al più il 20 per cento dei nuclei familiari possiede azioni, mentre negli Stati Uniti questi ammontano al 48 per cento. Tuttavia la situazione comincia a evolversi. In Germania il numero degli azionisti si è triplicato in cinque anni. In Francia, alla fine del 2000, l'azionariato operaio sarà istituito in tutte le società quotate al Cac 40. Questo decollo dell'azionariato operaio è un movimento sociale multiforme prodotto non tanto dall'applicazione delle leggi quanto piuttosto dalle iniziative sul campo. Ed è nel quotidiano, in modo impercettibile, che contribuisce a rinsaldare una classe salariale minacciata, se non di andare in pezzi, almeno di «essere dislocata».

L'azionariato operaio permette di conciliare la flessibilità e la sicurezza, di tollerare le variazioni nella remunerazione e nell'occupazione. Dato che oggi il capitale fa ricadere sui dipendente una parte del rischio causato dall'instabilità, o addirittura dalla volatilità di numerosi investimenti, e dato che tutto il valore dell'impresa dev'essere creato dagli azionisti, anche il personale deve diventare azionista!

Malgrado la democratizzazione dell'azionariato, si accelera la rotazione dei portafogli e degli impieghi. Negli anni Sessanta, il turnover delle azioni quotate alla borsa di New York era del 14 per cento, ossia un possesso medio di sette anni. Già alla fine degli anni Ottanta la durata media di detenzione era scesa a un anno soltanto, e oggi è tanto più breve quanto più cresce il ruolo degli investitori istituzionali.

Quanto ai posti di lavoro, la durata d'esercizio di una funzione era considerata tradizionalmente un fattore di qualificazione. Oggi viene spesso interpretata come una dequalificazione. La conseguenza e una precarietà crescente delle occupazioni che si diffonde a partire dall'America nel resto del mondo, compreso il Giappone, patria dell'«impiego a vita». Sotto questo aspetto il caso di Toyota, il primo costruttore d'automobili giapponese, è particolarmente interessante. Dieci anni fa le performances tecnologiche di Toyota erano ditale livello che General Motors aveva chiesto di associarsi all'azienda per beneficiare del suo know-how, allestendo una filiale comune che costruisse una fabbrica modello in California. Oggi il gruppo realizza il 70 per cento dei suoi profitti negli Stati Uniti. Nondimeno, per accelerare la sua internazionalizzazione, Toyota ha deciso di farsi quotare a Londra e a New York. D'altra parte, il suo presidente Hiroshi Okuda, divenuto presidente degli industriali giapponesi, ha lanciato lo slogan «per un'economia di mercato dal volto umano», proposito che non gli impedisce di mettere in atto un'americanizzazione del suo management ponendo fine alle carriere per anzianità, di dare promozioni per merito e di creare anche stock options, per non parlare del declino dell'impiego a vita, istituzione - come già si è detto - emblematica in Giappone, tradizionale in Europa e quasi sconosciuta negli Stati Uniti.

Ora, nel 1999, si sono verificate due avanzate significative del modello renano nel gruppo Daimler-Benz. In primo luogo, è stato consentito a un sindacalista americano dell'Uaw di diventare membro del suo consiglio di sorveglianza in forza dell'applicazione della legge tedesca di cogestione. Poi, qualche mese più tardi, Daimler-Chrysler, seguita da General Motors, ha proposto ai sindacati americani dei lavoratori delle aziende automobilistiche (l'Uaw) una garanzia senza precedenti negli Stati Uniti, ma tradizionale in Giappone e consueta nel modello renano: l'impiego a vita per i dipendenti che hanno oltre dieci anni di anzianità. Nulla di tutto ciò, comunque, ha evitato a Chrysler di registrare pessimi risultati sul piano finanziario.

Questo intreccio delle pratiche di gestione del personale e di politica finanziaria potrebbe essere la premessa di un'evoluzione in cui il capitalismo neoamericano, dopo aver rotto sia con il suo passato sia con le concezioni renane, potrebbe muoversi in questa direzione, mentre i paesi dell'Europa continentale, e anche il Giappone, potrebbero avvalersi delle tecniche più dinamizzanti di questo stesso modello neoamericano.

Verso un rinnovamento dell'economia sociale di mercato?

Non inganniamoci: i paesi dell'Europa continentale non sono pronti ad abbandonare una filosofia politica la cui espressione più forte è la regola aurea fissata dalla Costituzione tedesca, secondo cui la Repubblica è uno Stato sociale. Presentando davanti al Bundestag il suo programma d'azione per l'innovazione e l'occupazione, l'8 febbraio 1996, il cancelliere Kohl dichiarava: «Rifiuto categoricamente di trasferire il modello americano alle condizioni esistenti in Germania, perché la situazione negli Stati Uniti è differente sotto molti aspetti. Lo si vede già nella scelta delle parole. Noi parliamo a buon diritto di economia sociale di mercato e non solo di economia di mercato. Abbiamo anche una concezione completamente diversa della responsabilità sociale. Siamo segnati dall'etica sociale della Chiesa evangelica e dalle encicliche sociali. E la via che abbiamo sempre seguito e alla quale resteremo fedeli».

L'ex presidente della Bundesbank, il famoso Hans Tietmeyer, ha pubblicato un libro-testamento che appare di particolare interesse sotto questo profilo: «un'economia che funziona bene è la prima condizione per poter creare benessere. Ma non è sufficiente. Sono necessari anche sistemi di sicurezza sociale, di protezione, di redistribuzione […]. Imporre da noi il sistema anglosassone solleverebbe numerosi problemi. Anche se dovremmo trarne alcune lezioni. Non esiste un sistema valido per tutti».

E noto che «l'economia sociale di mercato» deve molto alla dottrina sociale della Chiesa protestante e cattolica. Tietmeyer è noto anche per le sue convinzioni religiose cattoliche, messe alla prova in una forma singolare: l'apertura dei negozi è proibita dalla legge tedesca per salvaguardare «il giorno del Signore». Ora, durante l'estate del 1999, molti grandi magazzini nel centro di Berlino hanno sfidato il divieto aprendo le porte anche la domenica. Si tratta di un vero conflitto di civiltà che oppone il gioco del mercato, sollecitato dalla società dei consumi, a un'alleanza delle Chiese e dei sindacati, che si battono insieme perché sia rispettato il giorno del Signore in nome di una legge tipicamente sociale trattata dal nuovo spirito del liberalismo come una reliquia del passato. Malgrado il successo dell'apertura dei negozi fra il pubblico e i turisti, il divieto domenicale in Germania non sarà rimesso in discussione. L'opposizione dei lavoratori e della Chiesa, più influenti in Germania che altrove, ha permesso la creazione di un fronte comune contro qualsiasi deregolamentazione che potrebbe pregiudicare il riposo domenicale. Uno degli aspetti del «modello renano» è questo tipo di alleanza fra Chiese e sindacati.

L'aneddoto può sembrare folkloristico. Ma non ritengo che sia tale, nella misura in cui assistiamo ormai a incipienti evoluzioni multiformi che procedono verso uno sviluppo etico all'interno delle imprese.

L'investimento etico in senso lato riguarda il 12 per cento degli investimenti collettivi, ossia 2.000 miliardi di dollari negli Stati Uniti, e sta prendendo avvio in Europa. E un fenomeno che poggia su una selezione delle imprese secondo criteri sociali e ambientali per lanciare segnali al mercato e incoraggiare l'esemplarità. I criteri principali di selezione sono: la qualità dei rapporti con i collaboratori, il rispetto dei clienti e delle regole di gestione imprenditoriale, il rispetto della collettività nel suo insieme. Di conseguenza, le imprese che hanno aderito all'Eben (European Business Ethic Network) si sono raggruppate per migliorare il loro coinvolgimento nell'ambiente sociale in cui operano (community involvement).

Nello stessa ottica, si può interpretare come un altro segno dei tempi la gigantesca «ola planetaria» lanciata da Axa, che ha chiesto ai lavoratori di tutte le sue filiali mondiali di mobilitarsi in progetti di inserimento sociale, di lotta contro gli handicap, l'Aids o la droga, con una serietà e un entusiasmo che meritano attenzione, tanto più che Axa, oltre a queste iniziative, conduce una politica molto attiva di azionariato operaio.

Altre imprese come Hewlett Packard, sorrette da ricerche universitarie sempre più numerose, si adoperano per rendere più sociale e umana la loro politica di relazioni umane.

In questa stessa logica, è opportuno notare il nuovo impegno dimostrato da certe imprese per battersi contro i rischi della frattura numerica: Ford, Delta Air Lines, Vivendi, per esempio, hanno deciso di dotare di computer ognuno dei loro lavoratori. Alla General Electric, dopo che molti esperti di Internet avevano rivendicato gli utili del loro lavoro, il presidente jack Welch ha ribadito che non intendeva creare due categorie di dipendenti: gli esperti si sono dimessi ma Welch ha vinto.

Nel modello renano, vale a dire nell'«economia sociale di mercato» - mi preme tornare su questo punto - è centrale l'idea che l'economia di libera impresa e concorrenziale non costituisce un fine ma un mezzo al servizio di una migliore equità sociale, di un'umanizzazione del capitalismo. Mi pare che quest'idea, sempre viva in Europa, rinasca negli Stati Uniti.

D'altronde, è opportuno notare che gli scarti nel reddito e nelle remunerazioni si sono enormemente accresciuti negli Stati Uniti in epoca recente, una circostanza di cui la società americana sta acquistando gradualmente consapevolezza. La Federal Reserve ha prodotto uno studio in cui si mostra che questi scarti nel reddito presentano aspetti preoccupanti, m particolare la continua riduzione del potere d'acquisto dei più poveri. E uno degli elementi che ha ispirato la formula di Bill Clinton al vertice di Davos: viviamo in un mondo che genera nuove vulnerabilità e impone nuove solidarietà.

Conclusione

Se indubbiamente il dualismo dei due modelli di capitalismo persiste, si notano tuttavia elementi di avvicinamento, mentre fino a questo momento erano stati considerati per lo più antinomici. La mondializzazione, la trasformazione industriale e l'avvento di una nuova economia contribuiscono a determinare questo avvicinamento.

La vecchia Europa degli Stati «materni» continua a rafforzare la sua competitività attraverso le iniziative sociali. In Francia, è nel momento in cui viene istituita la copertura malattie universale (Cmu), che i valori del liberalismo economico diventano relativamente popolari: l'economia di mercato è accettata da quasi i due terzi della popolazione, in proporzioni simili all'interno della sinistra (62 per cento) e della destra moderata. Non è un caso che anche la «terza via» del New Labour britannico consista nel salvaguardare l'opzione liberale ereditata da Margaret Thatcher, ma associandole obiettivi sociali: lo prova la creazione del salario minimo oltremanica. In Germania il numero degli azionisti ha ormai superato quello dei sindacalizzati, senza che ne risulti alterata la fedeltà ai principi dell'economia sociale di mercato. Nell'intera Europa, l'idea secondo cui gli oneri sociali rischiano di diventare antieconomici nei risultati, pur essendo i loro obiettivi sociali, si diffonde e diviene un'idea chiave dei progressi del social-liberalismo.

Sul fronte americano, quando cesserà «l'esuberanza irrazionale» dei mercati finanziari denunciata da Alan Greenspan da più di tre anni, sarà possibile che alla visione liberale e antisociale che si è diffusa nel mondo da una ventina d'anni subentri, come negli anni Trenta, una via nuova in cui il liberalismo non potrà riconquistare la sua efficacia e legittimità se non a condizione di farsi carico dell'esigenza sociale fondamentale, per cui l'arricchimento degli uni sia giustificato solo nella misura in cui non comporti l'impoverimento degli altri. Ma il problema può essere inquadrato da un'angolazione più ampia. Maurice Allais, premio Nobel per l'economia, lo riassume così: «un'economia di mercato non può funzionare correttamente se non in un quadro istituzionale, politico ed etico che ne assicuri la stabilità e la regolazione». Ora, l'eredità più temibile lasciata dal XX secolo al XXI, in questo campo, è l'incoerenza totale fra un mercato sempre più mondializzato e l'immenso deficit del diritto mondiale. Per questo il vertice dei quattordici capi di Stato e di governo orientati a sinistra, riuniti a Berlino nel giugno 2000, ha tanto insistito sulla necessità di creare un «patto sociale internazionale».

Comunque vada, la dinamica dell'evoluzione dei due capitalismi dipende essenzialmente da due fattori: da un lato, la capacità dell'Europa di passare dall'unione monetaria all'unione politica per poter procedere alla rifondazione del patto sociale; dall'altro, la sostenibilità di quel che si potrebbe definire «il miracolo economico» dell'America di fine millennio, caratterizzato da un nuovo triangolo magico: la piena occupazione senza inflazione, l'investimento senza risparmio e il deficit esterno senza deprezzamento monetario.

Riferimenti bibliografici

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3.

Entrambi gli articoli, al di là di qualche spunto di analisi storica di indubbio interesse, sono ricchi di solenni stupidaggini. La conclusione dell’articolo di Albert, scritto nel 2001, è però memorabile. Pure avanzando un dubbio implicito sulla sua sostenibilità, egli fa riferimento al “miracolo economico dell'America di fine millennio, caratterizzato da un nuovo triangolo magico: la piena occupazione senza inflazione, l'investimento senza risparmio e il deficit esterno senza deprezzamento monetario.”

Questo “miracolo” non è mai esistito o meglio è esistito solo nella testa degli economisti. La catastrofe degli Usa, che è stata scambiata per alcuni anni per un miracolo, si è avviata nel 1996 con la seconda Presidenza di Bill Clinton che, in minoranza al Senato, ha dovuto cedere ai programmi di liberalizzazione dei mercati e delle finanze messi a punto dai repubblicani. Tali programmi, che portavano avanti la deregulation reaganiana, sono stati applicati alla lettera e addirittura radicalizzati nel corso dei due mandati di Bush.

Ammirato per lo sviluppo statunitense che, verso la fine degli anni ‘90, sembrava inarrestabile, l’Occidente, seguito da gran parte del mondo, si è accodato, cadendo nella trappola del denaro che produce denaro mascherata dai cosiddetti derivati, che hanno convinto istituzioni e investitori comuni che fosse ormai possibile correre rischi elevati ma controllati sul piano finanziario.

Si sa come sono andate le cose. Il Capitalismo ha sfiorato la catastrofe (come ormai tutti ammettono), è stato salvato dall’intervento massiccio dello Stato (che bon gré mal gré è stato costretto a "socializzare le perdite", vale a dire a far pagare ai cittadini gli illeciti profitti dei privati), e, forse, ce la farà a riavviarsi sulla base, però, di un debito pubblico che potrebbe risultare poco o punto sostenibile per i governi.

Per quanto mi riguarda, non ho alcun motivo di sciogliere la “prognosi” né sulla crisi in atto, che a livello sociale è molto più grave di quanto i politici vogliono far pensare, né tanto meno sul destino del sistema capitalistico che, per ora, ha costretto lo Stato a capitolare “per il bene comune” (da esso messo seriamente in gioco), ma che un giorno o l’altro, se e quando gli esseri umani usciranno dal tunnel del "mondo stregato", dovrà capitolare in nome del bene comune.

Per ora mi limito a prendere atto che gli economisti e i fautori del sistema, non paghi delle loro recenti mediocri prestazioni (da lacché, direbbe il velenoso Marx), già hanno ricominciato a tessere la loro trama per recuperare il prestigio (giustamente) perduto.

I quattro articoli seguenti, tutti pubblicati su Il Sole 24 ore, sono esemplari dello sciocchezzaio economico, con una progressione che, nell’ultimo, arriva al vertice del ridicolo

Il mondo dopo la prima crisi globale

di Guido Tabellini

7 maggio 2009

"A quasi due anni di distanza dall'inizio della crisi finanziaria che ha travolto l'economia mondiale, può essere il momento di tirare le somme e inquadrare le principali lezioni per il futuro. È davvero un punto di svolta per le economie di mercato, una crisi sistemica che cambierà radicalmente la divisione dei compiti tra Stato e mercato? Oppure, corretti alcuni importanti problemi tecnici riguardanti la regolamentazione finanziaria, tutto tornerà presto come prima?

Cominciamo dal fallimento del mercato. Non c'è dubbio che la crisi abbia rivelato un grave fallimento dei mercati più sofisticati al mondo, i moderni mercati finanziari. Un compito cruciale dei mercati finanziari è l'allocazione del rischio. In questo la finanza ha fallito clamorosamente. Il rischio è stato sottovalutato, e molti intermediari ne hanno assunto una dose eccessiva. Quali siano le ragioni del fallimento, e quali le implicazioni di politica economica, tuttavia, è meno scontato.

Una spiegazione non implausibile è che si sia trattato di un banale errore di valutazione. L'innovazione finanziaria è stata così rapida che anche operatori sofisticati non sempre erano in grado di comprendere a fondo la rischiosità degli strumenti finanziari che venivano costruiti. Le implicazioni sistemiche di questi strumenti erano ancora meno chiare. Di conseguenza, molti investitori hanno sovrastimato la capacità di resistenza dei mercati finanziari globali, trascurando il rischio sistemico e il rischio di illiquidità, che invece si sono rivelati cruciali in questa crisi.

L'errore è in parte spiegabile anche con la difficoltà di valutare correttamente la probabilità di eventi rari e poco frequenti. Se fosse tutto qui, potremmo stare tranquilli. Questa crisi non sarà dimenticata, e sicuramente lascerà il segno nei comportamenti e nei modelli organizzativi preposti alla gestione dei rischi degli intermediari finanziari. C'è anche una spiegazione meno benevola del fallimento dei mercati finanziari, che sottolinea la distorsione sistematica degli incentivi individuali, anziché errori di valutazione. Innanzitutto il modello originate and distribute, che separa la concessione del prestito dalla decisione di investimento finanziario, comporta ovvi problemi di azzardo morale. In secondo luogo, le agenzie di rating, pagate da chi emette i titoli oggetto di valutazione, hanno un ovvio conflitto di interesse.

Terzo, gli schemi di remunerazione dei manager incoraggiano comportamenti miopi e l'eccessiva assunzione di rischi: se il bonus dipende da indicatori di performance di breve periodo, il singolo gestore è indotto a esporsi a rischi grandi ma rari. Se tutto ciò è vero, vuol dire che non possiamo fidarci della capacità di apprendimento dei mercati.

Occorre anche correggere gli incentivi distorti, con una nuova e più severa regolamentazione, anche al prezzo di rallentare significativamente l'innovazione finanziaria o rinunciare ad alcuni dei suoi effetti benefici.

Gli errori nella gestione del rischio non possono essere imputati solo agli operatori privati. Anche la supervisione ha sbagliato clamorosamente, consentendo alle banche di accumulare passività implicite fuori bilancio e tollerando una crescita eccessiva della leva finanziaria (cioè del rapporto tra l'attivo di bilancio e il capitale) e quindi del debito. Ciò può essere dovuto alla cattura dei supervisori da parte delle banche sottoposte alla regolamentazione, a fenomeni di arbitraggio e competizione internazionale tra agenzie di supervisione, e a carenze nell'attuazione. Ma vi è stato soprattutto un errore di tipo concettuale: la scelta di monitorare ogni istituzione finanziaria su una base esclusivamente individuale, considerando quale parametro di valutazione il value at risk del singolo intermediario, senza tenere conto in alcun modo del rischio sistemico. È lo stesso errore che hanno commesso i singoli operatori all'interno delle banche.

Il fallimento della regolamentazione

Una crisi di queste proporzioni non può essere scaturita esclusivamente da errori nella gestione del rischio. La ragione è che gli investimenti ad alto rischio erano relativamente piccoli rispetto alla dimensione complessiva dei mercati finanziari mondiali. In molti si aspettavano che la bolla immobiliare americana prima o poi sarebbe scoppiata. Ma ben pochi immaginavano che ciò avrebbe travolto i mercati finanziari di tutto il mondo. Se ciò è successo, è perché hanno operato importanti meccanismi di amplificazione degli shock. Questa amplificazione è in gran parte riconducibile all'impostazione della regolamentazione finanziaria. In altre parole, più ancora che da un fallimento del mercato, la crisi è stata scatenata da un fallimento della regolamentazione. Non tanto nel senso che la regolamentazione fosse troppo blanda, o che la de-regolamentazione si fosse spinta troppo avanti. Bensì nel senso che l'impostazione stessa della regolamentazione ha amplificato gli effetti di uno shock di dimensioni tutto sommato contenute.

I mutui subprime, i prodotti finanziari la cui insolvenza ha dato origine alla crisi attuale, ammontano a un po' più di un trilione di dollari. È una cifra grande in assoluto, ma modesta rispetto al totale di circa 80 trilioni di dollari di attività finanziarie del sistema bancario mondiale. Come termine di paragone, le perdite originariamente stimate nel 1990 durante la crisi delle casse di risparmio americano (la cosiddetta savings and loans crisis) erano circa 600-800 milioni di dollari, meno rispetto al totale dei mutui subprime, ma allora anche il totale delle attività finanziarie era molto più piccolo. Eppure quella crisi fu superata in fretta e senza sconvolgimenti rilevanti. Perché invece questa volta è stato così diverso?

Vi sono due aspetti della regolamentazione che hanno amplificato gli effetti dello shock iniziale: innanzitutto la pro-ciclicità della leva finanziaria, indotta dai vincoli imposti sul capitale delle banche. In secondo luogo, i principi contabili che impongono di valutare i titoli secondo i valori di mercato. A fronte di una perdita sugli investimenti, che erode il capitale degli intermediari finanziari, i vincoli di Basilea impongono di ridurre la leva finanziaria (cioè il debito), e dunque costringono le banche a vendere i titoli in attivo per fare cassa. Il problema viene in questo modo esacerbato: le vendite forzate riducono il prezzo di mercato dei titoli, peggiorando i bilanci di altri investitori ed inducendo ulteriori vendite forzate di titoli, in una spirale involutiva. Esattamente l'opposto succede in una fase di boom: i guadagni di capitale sui titoli in portafoglio consentono di accrescere la leva finanziaria, cioè di indebitarsi per finanziare nuovi acquisti di titoli, spingendone al rialzo il prezzo e inducendo altri intermediari a indebitarsi per inseguire prezzi sempre più elevati. Insomma, la regolamentazione delle banche ha creato un meccanismo che amplifica gli effetti degli shock e accentua le fluttuazioni cicliche dell'indebitamento degli intermediari finanziari.

Una delle principali lezioni da trarre dalla crisi è che occorre ripensare a fondo la regolamentazione finanziaria, e chiedersi quale debba essere in ultima analisi il suo obiettivo: correggere gli incentivi distorti degli operatori, creare dei cuscinetti che riducano la prociclicità della leva finanziaria, oppure contenere i rischi, e se sì quali rischi? Una regolamentazione correttamente impostata dovrebbe rispondere a due esigenze: primo, correggere gli incentivi distorti dei singoli intermediari o operatori finanziari; secondo, ridurre le esternalità negative ed il rischio sistemico, nella consapevolezza che valutare le procedure di gestione del rischio all'interno del singolo intermediario non è sufficiente. E alla fine, inevitabilmente, questa impostazione dovrà tradursi in regole che riducano la dimensione assoluta della leva finanziaria e la sua pro-ciclicità.

Gli errori nella gestione della crisi

È opinione diffusa che l'attuale situazione sia soprattutto il risultato di errori di politica economica (nella regolamentazione, nella supervisione e secondo alcuni anche nella politica monetaria) compiuti prima dello scoppio della crisi. Il corollario di questa tesi è che basti correggere questi errori per scongiurare la prossima crisi. Ma in realtà, alcuni tra gli errori più gravi sono stati compiuti durante la gestione della crisi stessa, e hanno contributo significativamente a far precipitare la situazione.

Forse perché si è stentato a capirne le cause, fin dal suo primo momento la crisi è stata gestita con improvvisazione e senza un'idea chiara di quale sarebbe stato il prossimo passo. Si è scelto di salvare Bear Stearns, di far fallire Lehman Brothers, di salvare Aig. Ogni volta si improvvisava, senza essere guidati da una strategia coerente e da criteri prestabiliti. Il risultato è stato che, anziché dare fiducia, gli interventi delle autorità di politica economica hanno contribuito ad aggravare lo sconcerto e a diffondere panico e paura. Al centro di qualunque crisi finanziaria vi è la perdita della fiducia. Le aspettative circa il comportamento delle autorità e degli altri operatori hanno un ruolo fondamentale nel determinare se vi sarà contagio o se lo shock sarà riassorbito. Ma per influire sulle aspettative e ridare fiducia, le autorità di politica economica devono agire secondo procedure e criteri ben noti e condivisi, sapendo quali sono gli obiettivi ultimi da perseguire e i punti di sbocco della crisi. Questa chiarezza è assolutamente mancata, fin dall'inizio.

È un'altra delle lezioni importanti da trarre dalla crisi. Per evitare il ripetersi di simili errori, sarà necessario elaborare nuove e dettagliate procedure per gestire fenomeni complessi quali il fallimento delle grandi banche e, più in generale, politiche tese ad evitare l'aggravarsi di crisi sistemiche.

Poiché le grandi banche con implicazioni sistemiche sono tipicamente multinazionali, tali procedure dovranno essere coordinate a livello internazionale. Ciò non è facile, poiché in ultima analisi l'unico soggetto che può coprire il rischio sistemico è lo Stato, dunque i contribuenti; sono questi ultimi, infatti, a doversi far carico dei debiti delle istituzioni in crisi, sia pure temporaneamente. Ma quale Stato, e quali contribuenti, quando l'istituzione finanziaria in crisi è una grande banca multinazionale?

Per quanto di difficile soluzione, tuttavia, il problema non è nuovo. Le crisi finanziarie dei paesi emergenti, che avevano una frequenza quasi annuale nel corso degli anni 90, sono diventate meno frequenti e meno devastanti anche grazie alle procedure di gestione della crisi elaborate in seno al Fondo monetario internazionale. Si tratta ora di mettere a frutto quelle esperienze, adattandole ai problemi specifici delle grandi banche multinazionali.

Come gestire il dopo crisi

Anche se gli eventi recenti non posso essere interpretati come una crisi sistemica, ma scaturiscono da alcuni importanti problemi tecnici nell'ambito dei mercati finanziari, essi potrebbero diventare un punto di svolta storico se l'uscita dalla crisi fosse gestita con la stessa improvvisazione dimostrata nei mesi precedenti.

Per sostenere gli intermediari in difficoltà, le banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità. Nel giro di pochi mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, il bilancio della Federal Reserve è quasi triplicato, e secondo le proiezioni delle stessa banca centrale americana potrebbe quasi raddoppiare ancora un volta nel prossimo futuro, raggiungendo quasi un terzo del reddito nazionale americano. Questa enorme massa di liquidità è stata subito riassorbita senza generare inflazione, perché oggi l'avversione al rischio è così alta che tutti vogliono solo detenere attività liquide e poche rischiose. Anzi, nell'immediato il rischio è l'opposto; che la domanda di liquidità sia ancora più elevata della creazione di moneta, e che ciò possa produrre deflazione.

Man mano che si avvicinerà l'uscita dalla crisi, tuttavia, la domanda di liquidità tornerà a scendere su livelli normali, e il timore della deflazione lascerà il posto al rischio di inflazione. Per evitarlo, la liquidità dovrà essere tempestivamente ritirata. Ciò è più facile a dirsi che a farsi. Una svolta di politica monetaria troppo rapida potrebbe causare perdite sui titoli in circolazione e far precipitare di nuova la crisi. Ma una svolta tardiva non riuscirebbe a contrastare l'avvio di una spirale inflazionistica. Le difficoltà sono acuite dalla fragilità del mercato dei cambi, dove la supremazia del dollaro come bene rifugio per molti paesi asiatici potrebbe di colpo essere messa in discussione. Per avere successo, sarà fondamentale riuscire a indirizzare le aspettative, rassicurando gli agenti economici che la stabilità dei prezzi è un obiettivo prioritario.

Analoghe e forse maggiori difficoltà riguarderanno la politica fiscale. Il Fondo monetario internazionale stima che in media il debito pubblico nei paesi avanzati del G-20 raggiungerà il 110% del reddito nazionale entro il 2014. E questo è lo scenario favorevole; nell'ipotesi peggiore, il debito pubblico in media potrebbe raggiungere il 140% del reddito. Di nuovo, gli Stati Uniti sono tra i paesi più esposti, e secondo le proiezioni dello stesso Congresso il disavanzo americano continuerà restare intorno al 6% del reddito nazionale ancora nel 2019, pur nell'ipotesi di un ritorno rapido a ritmi di crescita molto sostenuti (sopra il 3,6% in media tra il 2011 e il 2015). Per evitare instabilità finanziaria, sarà inevitabile far salire significativamente la pressione fiscale e avviare un percorso credibile e rigoroso di rientro dal debito pubblico.

Ma qui vi è un'incognita in più. Mentre la politica monetaria è gestita da una burocrazia indipendente secondo criteri tecnici, la politica fiscale scaturisce da processi politici dagli esiti più difficilmente prevedibili. Non si può escludere che l'espansione del ruolo dello Stato, nata per contrastare temporaneamente la crisi, duri a lungo e porti a cambiamenti significativi nella divisione dei compiti tra Stato e mercato anche nei paesi in cui tradizionalmente il settore pubblico aveva un ruolo più contenuto che non in Europa continentale.

La via d'uscita

Come sarà ricordata questa crisi nei libri di storia economica? Come una crisi sistemica e un punto di svolta, oppure come un incidente temporaneo e presto riassorbito dovuto ad una crescita troppo rapida dell'innovazione finanziaria?

Se guardiamo alle cause delle crisi, e alle lezioni da trarne, la risposta è senz'altro la seconda. In estrema sintesi, la crisi è scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti il funzionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari, ed è stata acuita da una serie di errori commessi durante la gestione della crisi. Sebbene si tratti di problemi complessi, essi possono essere affrontati e risolti con adeguate seppure profonde riforme della regolamentazione finanziaria. Se sapremo imparare da questi errori e gestire bene l'uscita dalla crisi, il mondo dell'economia tornerà a essere come prima, anzi meglio di prima, con meno eccessi e più stabilità. Parlare di crisi del capitalismo, di fine della globalizzazione, di crisi di un sistema e di un modo di pensare, sarebbe una solenne stupidaggine.

Ciò non vuol dire che questo esito sia scontato, tuttavia. La crisi non è ancora finita, e soprattutto non sappiamo ancora come saranno affrontate le difficoltà legate all'uscita dalla crisi. Eventuali errori tecnici o politici in questa seconda fase potrebbero avere conseguenze durature sugli scenari economici, sulla distribuzione del potere economico tra diverse parti del mondo e sulla divisione dei compiti tra Stato e mercato.”

Ammettiamolo: abbiamo capito ancora poco

di Pietro Modiano

9 Maggio 2009

"Si sta formando una sorta di senso comune sulle origini della crisi, di cui il dibattito sul Sole dà molto bene conto. Il professor Tabellini giovedì ha indicato alcune cause: «Un banale errore di valutazione» da parte di operatori incapaci di stimare correttamente i rischi; il modello che separa erogazioni dei prestiti da detenzione del relativo rischio, che comporta «ovvi problemi di azzardo morale»; le agenzie di rating, che «hanno un ovvio conflitto di interesse». E poi la remunerazione dei manager. E gli errori della regolamentazione, che hanno amplificato la pro-ciclicità delle banche, quanto all'erogazione dei prestiti (nella fase positiva, per Basilea) e alla vendita dei titoli (in quella di crisi, per il mark to market). Come non essere d'accordo.

Eppure - lo dico spinto dal bisogno di capire fino in fondo i nostri errori, e il futuro della comunità finanziaria – c'è ancora qualcosa di non chiaro. Quello che risulta alla fine, è che per un motivo o per l'altro abbiamo sbagliato tutti a dare un prezzo corretto ai rischi. Ma se è così, non è affatto banale, tutt'altro.

Il rischio - di credito - è in sé l'asset class più importante di cui vive il mercato finanziario. Non sono i bond argentini, o russi, o le azioni internet. È l'intero rischio di credito che è collassato, la materia prima di ogni scelta finanziaria, non una parte "eccentrica" di quel mercato. E questa è forse la novità vera della crisi. Un bel problema.

La possibilità di misurare il rischio, si dice, è ciò che ha portato l'umanità fuori dalle superstizioni e dal dominio degli aruspici. E il mercato finanziario mai come oggi è stato dotato di strumenti, intelligenze, organizzazioni di mercato, tecnologie di trasmissione di dati e di informazioni in grado di misurarli bene, i rischi, e di ridurre gli spazi dell'incertezza. È un mercato organizzato in modo tale che chi sbaglia il prezzo di un asset è punito prontamente da chi usa meglio di lui le informazioni.

E poi, non è forse vero che questo sistema finanziario è, per come è organizzato, quello che più di ogni altro si avvicina a quei modelli di concorrenza perfetta – libertà di entrata e uscita, informazione diffusa, pluralità di operatori - che ci insegnavano a Economia Uno? E allora non è più vero che la concorrenza porta ad adeguare sistematicamente i prezzi ai valori sottostanti, e a evitare l'instabilità?

Sono domande che mi sembrano non irrilevanti, ma a cui non trovo risposte del tutto convincenti nelle spiegazioni di senso comune. Per questo, mi rimane il dubbio che, al senso comune che si sta formando, sfugga - talvolta capita - qualcosa di grosso e complicato. Perché, per esempio, in realtà non siamo sicuri che il prezzo dei titoli oggi tossici fosse "sbagliato" per l'intrinseca tossicità di quei titoli. Se guardiamo i grafici, il valore (troppo alto) dei derivati di credito, formulati nelle investment banks, è andato esattamente in linea con i tassi (troppo bassi?) praticati dalle banche commerciali ai loro clienti.

E allora? Vuol dire che l'errore l'hanno fatto tutti, tutti insieme, e quindi bisogna capire se l'origine era nel mercato - secondario - dei derivati e delle cartolarizzazioni piuttosto che in quello - primario - del banale credito alle famiglie e alle imprese. Certo, quei prestiti finivano impacchettati, e quindi uscivano dai portafogli e dai rischi delle banche. Da qui il moral hazard. Ma anche qui non tutto è chiaro: perché, per esempio, le investment bank che li acquistavano, questi titoli poi tossici, non pretendevano un premio legato alle asimmetrie informative, di cui - sospettose come sono - erano ben al corrente, un premio di cui si parla peraltro nei manuali di finanza dagli anni 70? Davvero nelle sale operative delle banche americane e nei comitati crediti di quelle europee tutti insieme si sono fatti prendere, così a lungo, da comportamenti così non razionali, diciamo così autolesionistici?: le banche commerciali sbagliano sistematicamente i prezzi ai clienti sui loro prestiti (anche su quelli non cartolarizzati, si badi bene) e le investment banks se li comprano sottocosto?, su un mercato così concorrenziale?, su un mercato così sofisticato? È una spiegazione che spiega? In realtà apre altre domande, ancora più complicate di quelle a cui risponde.

Va ancora verificato bene, d'altra parte, quanto i tassi d'interesse e i prezzi dei derivati di credito fossero davvero "sbagliati". Oggi lo diamo per scontato, e ci affanniamo a capirne le ragioni giacché si sono corretti "per catastrofe", da fine 2007, e i titoli correlati sono diventati famosi per essere tossici. Gli spread delle banche commerciali - il sottostante dei titoli tossici - sono passati, sui crediti a qualità medio-bassa da meno di 100 punti base a quasi 2000. Sbagliati anche loro? Non è così chiaro - non lo era allora - quando i tassi bancari mostravano comunque una correlazione fortissima con tassi di default di imprese e famiglie stabilmente, dal 2003, ai minimi storici (sotto lo 0,5%, per la medesima categoria di prestiti), che sembravano convalidarli in pieno. Le banche, così, ne escono un po' meglio.

E forse allora l'origine della crisi va trovata non in tassi "troppo bassi", ma - più banalmente - nella discontinuità creata nell'economia reale dall'aumento dei prezzi di greggio e materie prime, che ha prodotto un'impennata dell'incertezza sui profitti delle imprese. E allora l'origine della crisi sarebbe di vecchio tipo (come il 1973?) amplificata sì dal mercato finanziario globale, ma di vecchio tipo.

E poi, se invece crediamo che i prezzi fossero davvero "sbagliati", bisognerebbe proseguire la ricerca anche teorica: perché non è eludibile la questione dell'effettiva efficienza, e quindi stabilità, "da concorrenza perfetta" dei mercati del credito, primario (che è pro-ciclico, e forse non efficiente) e secondario (che è efficiente ma pieno di imperfezioni). E forse qualcuno dovrebbe riprendere - volendo - la questione annosa e dimenticata del rapporto non univoco di valore e prezzi anche in concorrenza perfetta (rileggere Sraffa...).

Insomma, bene che si formi un senso comune della crisi, serve a evitare l'horror vacui. Ma resta molto da capire.”

Nuove regole per volare non per legare

di Gianni Toniolo

Sole 10 maggio

"Ogni crisi finanziaria ha mutato in qualche modo l'economia e la società del proprio tempo, non fosse altro che attraverso un cambiamento delle aspettative e, dunque, dei comportamenti di chi investe e consuma. Sovente il mutamento è stato codificato in nuova legislazione. La bolla speculativa del 1720 sui titoli delle Compagnia dei Mari del Sud si tradusse in una legge (Bubble Act) che sottoponeva la creazione di società a responsabilità limitata all'autorizzazione del Parlamento. La legge restò in vigore fino al 1854. In Italia, la crisi del 1893 portò, con la nascita della Banca d'Italia, a una forte regolazione della circolazione monetaria. La crisi del 1907 indusse gli Stati Uniti a dotarsi finalmente di una banca centrale. Si è trattato di conseguenze importanti, spesso di lungo periodo, ma limitate al settore bancario e finanziario. Non hanno mutato l'organizzazione della produzione, il ruolo dei mercati.

Diverso è il caso di quella che resta la Grande Depressione per antonomasia. Esplosa nel mezzo della fragile tregua interposta tra i due momenti caldi della "seconda guerra dei trent'anni", la crisi iniziata nel 1929 è uno spartiacque della storia sociale e politica, oltre che economica, del ventesimo secolo. Insieme alla seconda guerra mondiale, delle cui origini la crisi non fu innocente, definì i rapporti tra Stato e mercato almeno fino agli anni 70.

È, dunque, alle analogie e differenze rispetto a quella crisi che dobbiamo guardare per orientarci rispetto alla domanda di Tabellini se quella attuale sia «davvero una crisi sistemica che cambierà radicalmente la divisione dei rapporti tra Stato e mercato».

La lunghezza, la profondità della caduta dei redditi e dell'occupazione, il carattere per la prima volta globale della crisi fecero negli anni 30 dubitare della validità stessa del sistema capitalistico. La Terza Internazionale poteva vantare la crescita robusta dell'Unione Sovietica rispetto al crollo del resto del mondo, Hitler la buona ripresa della Germania con la sua "terza via". Le riforme nacquero in questo contesto. E furono profonde. Lo Stato non si limitò a un nuovo ruolo di regolatore dei mercati finanziari, si assunse il compito di promuovere la piena occupazione, non solo con inediti interventi monetari e fiscali ma, in molti paesi, addossandosi direttamente il ruolo di produttore.

Nacque l'idea dello stato sociale, giunta a maturazione nel dopoguerra. La riforma del sistema monetario internazionale, codificata a Bretton Woods nel 1944, si fonda sulle lezioni apprese dalla crisi: in assenza di forte cooperazione tra paesi, gold standard e piena mobilità dei capitali a breve si erano rivelati miscela esplosiva. Dalla crisi degli anni 30 e dalla guerra, il capitalismo mondiale non uscì distrutto, come molti temevano e alcuni si auguravano, ma profondamente cambiato.

Alcuni tratti di quel cambiamento sopravvivono in Europa, nel cosiddetto capitalismo renano, anche dopo la "seconda globalizzazione". I nuovi equilibri tra stato e mercato nati negli anni 30 e rafforzati nel dopoguerra presiedettero, per oltre un ventennio, a quello straordinario sviluppo dell'economia europea che ricordiamo come una specie di età dell'oro prima di mostrare i propri limiti e la lenta capacità di adattarsi a mutate condizioni.

Per cercare d'intuire quanto anche la crisi che stiamo vivendo possa rappresentare un punto di svolta per le economie di mercato, è utile chiedersi quali siano le analogie e quali le differenze con quella del 1929. Il calo della produzione e del commercio internazionale nel primo anno della crisi attuale è simile a quello dell'analogo dramma vissuto dai nostri nonni. Il suo carattere è altrettanto globale. Il ruolo della finanza nell'originare e diffondere la crisi è molto maggiore oggi che negli anni 30. Se queste tendenze dovessero continuare, come allora, per altri due anni le conseguenze sociali e quindi politiche potrebbero essere enormi. Un piccolo assaggio si intravede nella sistemazione della Chrysler dove la Fiat siederà, in posizione minoritaria, in un consiglio a maggioranza governativa e sindacale.

Ma, accanto ad analogie, esistono grandi differenze tra ieri e oggi. La crisi attuale è stata affrontata - almeno negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Cina - con interventi di qualità, quantità e soprattutto tempestività molto maggiori a quelle di allora. Alcuni di essi sono criticabili ma non v'è dubbio che il consiglio dato da Keynes nel 1931 di «fare qualcosa purchessia» sia stato oggi seguito.

L'altra grande differenza rispetto agli anni 30 è nelle relazioni internazionali, più favorevoli alla cooperazione sia nell'aggiustamento degli squilibri macroeconomici sia nel rifiuto del protezionismo, grande propagatore della crisi negli anni 30. Su questi due pilastri poggia la ragionevole speranza che si possa uscire prima e meglio dalla crisi attuale rispetto a quella di allora.

La crisi del 2007-2009 è scoppiata alla fine di un quindicennio durante il quale la diffusione dello sviluppo economico ha prodotto a livello mondiale una rivoluzione con effetti benefici senza precedenti. Non furono certo così gli anni 20. La sfida delle riforme che certamente usciranno anche dalla crisi attuale è quella di creare condizioni che riportino i mercati finanziari al servizio dell'economia reale, nel loro ruolo di allocatori efficienti delle risorse e del rischio, evitando tuttavia che queste riforme tarpino le ali dell'innovazione e del progresso tecnico cha da secoli rendono vitale il sistema capitalistico.

Se, negli anni recenti, la finanza ha clamorosamente fallito, i mercati dei beni e dei servizi sono stati capaci come non mai di creare e diffondere ricchezza su scala planetaria. Salvaguardare questa vitalità nel rapporto tra Stato e mercato è il compito difficile di chi lavorerà a costruire il mondo del "dopo la crisi".”

Il prematuro necrologio del capitalismo

di Alessandro Merli

10 maggio 2009

"Nulla sarà più come prima, è diventato il mantra delle analisi sulla crisi più grave dalla Grande Depressione. Il suo impatto su economia e finanza è stato così pesante da generare una furia revisionista su molti dei pilastri degli ultimi decenni, dalle basi ideologiche, a più limitate questioni tecniche. È stata proclamata di volta in volta la fine del capitalismo, la chiusura della trentennale era del thatcherismo, la morte delle politiche economiche predicate dal Washington Consensus, il fallimento dell'inflation targeting.

Le prime tre questioni, più di fondo, ruotano tutto sommato attorno alla domanda di Guido Tabellini, nell'avviare il dibattito del Sole 24 Ore, se la crisi abbia una valenza sistemica, tale da cambiare radicalmente la divisione dei compiti fra Stato e mercato. La quarta, sui meriti delle strategie anti-inflazione, andrà esaminata in un contesto più tecnico.

I fautori della fine del capitalismo sono una folla eterogenea: comprende le abituali voci anti-sistema, come i no-global e gli altri manifestanti assortiti che si radunano nelle piazze ormai a ogni vertice internazionale e salutano con soddisfazione l'implosione del capitalismo; ma anche diversi leader politici europei, che sostengono che a crollare è stata in realtà la versione anglosassone, "selvaggia" e "dopata dalla finanza", del capitalismo (salvo poi scoprire, a scoppio ritardato, che l'Europa è investita in modo altrettanto violento dalla crisi); e la destra populista americana, secondo la quale la presidenza di Barack Obama e le sue misure anti- crisi rispondono a un disegno di trasformazione degli Stati Uniti in un'economia socialista.

A sollevare la questione del tramonto dell'era Thatcher,nel trentesimo anniversario della sua prima vittoria elettorale, è stato tra gli altri Gideon Rachman, editorialista del Financial Times. La chiave del thatcherismo, poi esportato con successo nel resto del mondo, era proprio - come affermava in un celebre saggio Patrick Minford, il monetarista di Liverpool che fu uno degli economisti più influenti della Gran Bretagna thatcheriana - la riduzione del ruolo dello Stato nell'economia, attraverso la riduzione delle tasse, le privatizzazioni, la liberalizzazione dei movimenti di capitale, il Big Bang della finanza. Oggi, su molti di questi punti, è in atto una marcia indietro, così come sui principi, che ruotano attorno alla stessa filosofia, del Washington Consensus, teorizzato da John Williamson, che è stato il credo della politica economica degli ultimi due decenni e che al G-20 il premier inglese Gordon Brown ha dichiarato, forse prematuramente, morto: economia di mercato, globalizzazione, disciplina fiscale.

Certo, in molti paesi, a partire dalla Gran Bretagna stessa, e compresi gli Stati Uniti, le tasse, almeno sui redditi più alti, sono state aumentate, i sistemi bancari parzialmente nazionalizzati o sostenuti, come altri settori, a partire dall'auto, con massicce iniezioni di denaro pubblico, la finanza, sotto accusa, sta per essere sottoposta a regole molto più stringenti, la disciplina fiscale è stata abbandonata in favore di stimoli anti-recessione di stampo keynesiano.

Ma quanto di queste misure può essere considerato un'inversione permanente delle convinzioni prevalenti nel recente passato e quanto il frutto della reazione, spesso affannata, a un'emergenza epocale? Un'analisi che guardi al di là della fase più concitata della crisi - e forse ci stiamo arrivando - dovrebbe riconoscere che, nel lungo periodo, se il retaggio più importante della risposta alla crisi sarà una regolamentazione che si spera più efficiente sulla finanza, dove il mercato dovrà fare un passo indietro, nessuno invece vorrà a tempo indeterminato banche a controllo pubblico o dipendenti dalle casse statali, tasse più alte, debito dello Stato su una traiettoria esplosiva tanto da minacciare la solvibilità stessa dei paesi.

Oppure c'è qualcuno che pensa che siamo entrati davvero in un "nuovo paradigma", come andava di moda dire qualche anno fa, e il sistema economico possa funzionare indefinitamente con il credito sotto il controllo, più o meno diretto, dei politici, banche centrali che stampano moneta, Stati che si indebitano sempre di più? Che l'economia mondiale possa progredire senza la spinta del commercio internazionale o bloccandoi movimenti di capitale, in una parola negando la globalizzazione? O la normalizzazione che speriamo si avvicini non dovrà riportare ad abbracciare alcuni principi che oggi vengono ripudiati?

Il che non significa naturalmente evitare la disamina degli errori e degli eccessi. Ma, come ammette lo stesso Rachman e sostiene l'Economist, nelle parole della stessa Margaret Thatcher, ai principi del libero mercato «there is no alternative», per ora non c'è alternativa. La crisi non ha provato il contrario.”

L’alternativa di fatto c’è, anche se è destinata a non realizzarsi. Il denaro con cui lo Stato ha salvato le Banche, le Assicurazioni, ecc. sono dei cittadini, i quali dunque hanno acquisito un diritto di proprietà su di esse. Basterebbe mantenere questo diritto, esercitarlo ed estenderlo per giungere al controllo dell’economia da parte della società. Questo, che configurerebbe la riappropriazione del privato senza esproprio preconizzata da Marx negli ultimi suoi anni di vita, richiederebbe però una cittadinanza consapevole dei propri diritti, affrancata dall’individualismo e protesa veramente verso il bene comune. In difetto di tale cittadinanza, ciò che accadrà è prevedibile. Lo Stato risanerà le aziende e poi le restituirà ai privati. Certo, con nuove regole atte ad impedire che si ripeta ciò che è accaduto.

Chi pensa che questo sia possibile non ha capito la logica intrinseca al Capitalismo, il cui sviluppo “illimitato” postula necessariamente la violazione delle regole o, al limite, come è accaduto di recente, la connivenza con i controllori che, corrotti, chiudono gli occhi.

Tanta gente che si affanna a capire quello che è accaduto, perché e come è accaduto e cosa fare perché non accada più, di fatto non intende capire. I più ovviamente in “buona fede”.