Sull'ideologia della Flessibilitą

1.

Come ho avuto modo di dire in un articolo precedente con riferimento all'equità, quando un termine viene usato, dai politici e dagli economisti, dando per scontato il suo significato, è sempre lecito porsi qualche dubbio. La denotazione univoca copre infatti spesso uno spettro di significati diversi. Analogo discorso vale per il termine flessibilità, che si è diffuso rapidamente attraverso i mass-media. Nell'accezione comune, la flessibilità è una conseguenza inesorabile della globalizzazione, vale a dire dell'estensione a livello mondiale della legge della concorrenza sui mercati. Essa implica, più o meno, la rinuncia ad un posto fisso di lavoro, garantito a vita, e la necessità di accettare la sfida di una realtà in rapido cambiamento adeguando di continuo le proprie competenze, sviluppando la capacità di ricoprire ruoli diversi, ecc. Per capire meglio il significato del termine, occorre partire dai suoi fondamenti economici.

Flessibilità è un termine a tal punto nuovo che non se ne trova ancora traccia nei sacri testi di economia (Samuelson, Blanchard, Stiglitz, ecc.), nei quali invece si riscontra il suo opposto: rigidità. Quest'ultimo termine si riferisce essenzialmente al mercato del lavoro che, con il mercato dei beni e quello dei capitali, rappresenta il cuore dell'economia classica e neoclassica, incentrata sulla legge della domanda e dell'offerta. Esso serve a designare un fenomeno che, d'acchito, contrasta con questa legge: la "strana" tendenza dei salari a non diminuire proporzionalemte in conseguenza di una riduzione della domanda di lavoro.

L'applicazione al mercato del lavoro di questa legge coinciderebbe con una situazione di pieno impiego (fermo restando il tasso di disoccupazione "naturale"). In teoria, in seguito ad una contrazione della domanda di lavoro da parte delle imprese, il salario dovrebbe diminuire fino al punto in cui esso diventerebbe nuovamente conveniente per le imprese. L'abbattimento del costo di produzione stimolerebbe infatti le imprese ad assumere lavoratori fino al livello del pieno impiego. In quest'ottica, le crisi cicliche del sistema sarebbero facilmente sormontate: la diminuzione del salario individuale sarebbe compensata dalla disponibilità del reddito per nuovi consumatori, che funzionerebbe come stimolo alla produzione.

Nella realtà, questo non avviene. La rigidità dei salari, che rimangono stabili o diminuiscono solo di poco in rapporto ad una diminuzione della domanda di lavoro, è ritenuta la causa canonica della disoccupazione che eccede il tasso naturale. L'interpretazione di questo fenomeno da parte degli economisti verte sul fatto che deve darsi qualche fattore di resistenza che impedisce alla legge della domanda e dell'offerta di realizzarsi. I fattori di resistenza identificati sono molteplici, ma, nel complesso, riconducibili a contratti, collettivi o individuali, che, una volta concordati, tendono ad essere rivendicati dai lavoratori indipendentemente dalle fluttuazioni del mercato. Essi in pratica continuerebbero a pretendere il salario concordato anche laddove, diminuendo la domanda di lavoro, dovrebbero accettarne, in nome della legge della domanda e dell'offerta, una decurtazione.

In breve, sarebbe per colpa dei sindacati e dei lavoratori, ciecamente ossessionati dai "privilegi" acquisiti, che il mercato del lavoro non riesce quasi mai a raggiungere l'equilibrio.

In quest'ottica, la flessibilità, vale a dire l'adattamento del potere contrattuale alle leggi di mercato, si configura come una soluzione del problema. Accettare la fluttuazione dei salari, e in particolare la fluttuazione verso il basso quando la domanda di lavoro diminuisce, significa permettere l'accesso al mercato del lavoro a chi ne è escluso. La formula sindacale "lavorare meno, lavorare tutti", che comportava il riferimento ad un salario decente, viene riciclata nei termini del "lavorare tutti con il salario deciso dal mercato", vale a dire dalle leggi oggettive dell'economia.

Per amore di verità, occorre riconoscere che il termine flessibilità ha assunto, negli ultimi anni, un significato più complesso rispetto a quello semplicemente economico. Esso implica infatti anche un atteggiamento cooperativo e non conflittuale dei lavoratori nei confronti delle imprese, che consentono loro di procurarsi i mezzi di sussistenza, la disponibilità al lavoro di équipe, all'apprendimento, al cambiamento di mansioni secondo le necessità dell'azienda, la disponibilità a cambiare sede di lavoro per rispondere all'aumento locale della domanda, ecc. Il lavoratore flessibile insomma è un lavoratore consapevole che il suo destino s'intreccia con quello del sistema cui appartiene e con quello di tutti gli altri, che non oppone i suoi diritti individuali a quelli collettivi e al bene comune, che accetta, vita natural durante, di apprendere per aumentare le sue competenze e la sua produttività, che si dichiara pronto a qualunque sacrificio per mantenere il suo posto.

La flessibilità, da ultimo, è il rimedio ottimale alla conflittualità che, alimentata dalle forze di sinistra e dai sindacati, ha sempre impedito al sistema economico di raggiungere e mantenere il suo equilibrio anche sul registro del pieno impiego. Via via che questo rimedio si realizzerà, la psicologia stessa dei lavoratori è destinata a modificarsi. Essi abbandoneranno la rivendicazione del lavoro come un diritto e giungeranno a considerarlo come un umano bisogno la cui realizzazione non può prescindere dalle leggi del mercato, sulle quali lo Stato ha un potere limitato. Essi accetteranno la precarietà costitutiva dell'essere inseriti in un sistema la cui ciclicità tutti ormai sanno (dopo l'illusione degli anni '90) essere fisiologica. Essi infine accetteranno che il lavoro non cade dal cielo, è un prodotto delle imprese, la cui salute e la cui efficienza coincide con i loro stessi interessi.

Messa in questi termini, la flessibilità è una soluzione "corporativa" del conflitto tra datori di lavoro e lavoratori, che però non comporta l'intervento mediatore dello Stato. Questo si limita a definire le regole del gioco che consentono al mercato del lavoro di raggiungere il suo equilibrio. Questo fine però postula, da parte dei lavoratori, l'abbandono di sterili rivendicazioni di principio e il riconoscimento che, con i suoi limiti, il sistema capitalistico è il migliore dei sistemi possibili.

2.

L'assunzione del mercato del lavoro sotto l'egida della scienza economica comporta la riduzione del lavoro ad una merce. Di fatto il lavoro è una merce nella misura in cui c'è qualcuno che ha bisogno di acquistarlo pagando un prezzo e qualcun altro che ha bisogno di venderlo ricevendo un compenso. Certo, nessuno ignora la differenza che c'è, come merce, tra il petrolio, il grano, un'automobile, ecc. e un lavoratore. La differenza è che il proprietario della forza-lavoro, che deve cederla, è un soggetto umano. Il problema è che l'economia non può farsi carico della soggettività. Il lavoro come merce è la variabile indipendente di cui essa s'interessa, rispetto alla quale la soggettività si configura come una variabile dipendente.

Moralisticamente, si può stigmatizzare la mercificazione del lavoratore. Posto però che questa stigmatizzazione lascia il tempo che trova all'interno di un sistema economico che fa del lavoro uno dei fattori di produzione, è importante chiedersi quali siano le condizioni oggettive e quali siano le logiche che hanno presieduto e presiedono all'identificare nella flessibilità un problema essenziale ai fini dell'equilibrio del sistema economico.

Da questo punto di vista, il riferimento al modello americano, così come esso si è definito negli anni '90, è improprio. La flessibilità negli Stati Uniti, anche se riconosce tra i fattori che ne hanno consentito l'attecchimento la tradizionale debolezza dei sindacati e l'orientamento liberista dello stato, ha rappresentato un trapianto culturale. Il modello di riferimento, esaltato in quanto artefice di un sorprendente miracolo economico, si riconduce all'organizzazione lavorativa realizzatasi in Giappone a partire dagli anni '60. Colà, in effetti, il mercato del lavoro era flessibile, nel senso che i lavoratori accettavano una decurtazione del salario nei casi in cui i profitti dell'azienda da cui dipendevano diminuivano. Ma questa flessibilità era ampiamente compensata e resa possibile dal cosiddetto welfare corporatism praticato da tutte le aziende che comportava la sicurezza del posto, la cooperazione tra lavoratori e direzione, un processo decisionale decentrato con un alto grado di partecipazione del lavoratore, e il patrocinio delle aziende delle attività sociali e delle indennità di welfare dei dipendenti. Questa organizzazione non ha impedito, come noto, che il Giappone andasse incontro ad una grave crisi recessiva che dura ormai da dieci anni. Essa però era già divenuta oggetto di studio per gli economisti e i sociologi statunitensi che, mettendo tra parentesi l'incidenza dei fattori culturali, hanno pensato bene di trapiantarlo negli Stati Uniti. Il trapianto naturalmente ha conservato del modello originario solo due aspetti: il riferimento al lavoro di équipe, mirante a far sì che il lavoratore si sentisse partecipe dei destini dell'azienda, e, per l'appunto, la flessibilità del lavoratore al quale si richiedeva di accettare, in nome del bene comune, un controllo se non un decremento dei salari, la possibilità di essere licenziato, trasferimenti in altre sedi, cambiamenti di mansioni, ecc.

A questo trapianto e alle innovazioni tecnologiche si attribuisce la crescita straordinaria dell'economia statunitense negli anni '90. Tale crescita, esitata in una grave crisi ancora in atto a partire dai primi mesi del '2000, ha fatto sì che l'Europa importasse il tema della flessibilità, considerandolo essenziale ai fini di recuperare competitività a livello internazionale e di sormontare la rigidità dei salari intrinseca al modello di welfare ivi sviluppatosi.

Nato dunque in un contesto quale quello giapponese, che richiedeva ai lavoratori la massima disponibilità e partecipazione in nome di una massima sicurezza, attraverso la mediazione degli Stati Uniti, il principio della flessibilità è stato importato in Europa con l'intento paradossale di smantellare il potere dei sindacati e di attaccare il sistema delle garanzie del welfare state, ritenuto obsoleto. In conseguenza di questo, l'importazione ha cancellato del tutto il riferimento alla dignità del lavoratore come persona sostituendolo con il bisogno primario di svolgere una qualche attività lavorativa, anche non continuativa, con un salario deciso dal mercato. In questa versione, l'ideologia della flessibilità stigmatizza implicitamente la rigidità dei salari come una forma di egoismo della classe lavoratrice a danno soprattutto dei giovani disoccupati e come espressione di un potere sindacale che si basa e quindi difende solo i lavoratori garantiti.

3.

Se si mette tra parentesi il populismo implicito nell'ideologia della flessibilità, si rimane sorpresi della sua importazione in Europa per due motivi.

Il primo è da ricondurre all'esperienza degli Stati Uniti. Fino all'esplosione della crisi economica del 2000, assumere come vincente il modello di sviluppo statunitense e riconoscere, oltre che nell'innovazione tecnologica, nella flessibilità del mercato del lavoro una delle cause di una crescita economica straordinaria con una bassa inflazione e un tasso di disoccupazione minimo (il 2%), poteva sembrare per alcuni aspetti ragionevole, anche se non mancavano studi attestanti che la nuova occupazione era di fatto una sottocupazione e che le statistiche consideravano occupati anche giovani che lavoravano solo qualche ora ogni settimana. Dopo la crisi del 2000, ancora in atto, che ha riportato la disoccupazione al suo tasso "naturale" del 6%, e ha messo in luce che la crescita degli anni '90 è stata drogata da fenomeni molteplici di corruzione e di mistificazioni operate a danno dei piccoli investitori, continuare a riferirsi al modello americano è piuttosto discutibile.

Il secondo motivo ò legato alla specificità della storia europea, laddove, come riconosciuto da tutti, il Welfare State ha rappresentato un argine fondamentale contro l'inasprirsi di una conflittualità alimentata da una coscienza politica della classe operaia, da partiti di sinistra e da movimenti sindacali che, negli Stati Uniti, non hanno mai avuto un'incidenza analoga. Trapiantare in Italia l'ideologia della flessibilità riposa sulla fiducia di potere non solo sconfiggere i sindacati, ma soprattutto di poter favorire un cambiamento di mentalità per cui il lavoratore o l'aspirante lavoratore si rapporti al mercato come singolo che cura i suoi interessi individuali. Qualche indizio in questa direzione è già reperibile presso i giovani, ma, data la tradizione italiana, non ci vuole molto a capire che l'individualismo tipico della società statunitense non avrà mai buon gioco.

Se questo è vero, c'è da chiedersi perché s'insista, e con maggiore vivacità da parte del governo italiano, in una direzione che si può ritenere un vicolo cieco, desinato per un verso a riaccendere la conflittualità sociale e per un altro a non risolvere il problema se non sulla base di statistiche sull'occupazione che, come è accaduto negli Stati Uniti, non corrisponderanno ad una realtà fatta di sottocupazione, precariato, incapacità di progettazione (con esiti tra l'altro esiziali sullo sviluppo demografico).

Mettendo tra parentesi la smania del presidente del Consiglio di volere assimilare la realtà italiana a quella statunitense, che egli ammira incondizionatamente, occorre riconoscere che il problema della flessibilità in tanto si pone in quanto esso corrisponde ad un problema reale, che non riguarda solo l'Italia.

Il problema è che la concorrenza a livello mondiale richiede un continuo aumento della produttività. Ora la produttività può essere aumentata solo o in virtù di innovazioni tecnologiche o in virtù di una diminuzione del costo del lavoro. Le innovazioni tecnologiche costano, comportano il rischio, che si è realizzato negli Stati Uniti, dell'iperproduzione, e, in caso di crisi, diventano un peso morto che non produce nulla marichiede comunque una manutenzione. Se questo è vero, il lavoro flessibile diventa una soluzione ottimale: quando serve, la forza-lavoro può essere utilizzata con contratti individuali che mantengono bassi i salari, quando non serve essa può essere messa fuori della produzione senza alcun onere per le aziende. L'esercito di riserva dei disoccupati, perennemente pronti ad accettare lavori atipici a tempo determinato e con un salario determinato dal mercato, e chiaramente intenzionati ad inserirsi stabilmente nel sistema produttivo, rappresenta inoltre un fattore molto efficace di contenimento delle richieste di aumenti salariali dei lavoratori garantiti.

L'ideologia della flessibilità è dunque funzionale a valorizzare il gap tecnologico tuttora esistente tra paesi avanzati e paesi emergenti incidendo sui salari la cui rigidità nei paesi avanzati è un fattore non concorrenziale.

Alcuni sostengono che non si dà alcuna alternativa a quell'ideologia. Se ciò è vero, significa ammettere che il sistema capitalistico, affrancato dall'incubo del comunismo, che lo ha indotto a tenere conto in una certa misura dei diritti e dei bisogni dei lavoratori, riprende la sua marcia sulla base di una mercificazione della forza-lavoro, vale a dire di una riduzione del soggetto a oggetto. Il problema è quanto può durare una situazione del genere senza che l'oggetto in questione torni a rivendicare la sua dignità conflittualmente.

Giugno 2003