Precarietà e giustizia sociale

1.

Il tema della giustizia sociale è il nodo cruciale in cui si è imbattuto lo sviluppo della nostra civiltà dalle sue antiche radici, che affondano nel regime schiavistico proprio del mondo romano. Di strada ne è stata fatta tanta se si confronta l'ordinamento democratico della società attuale con l'ordinamento schiavistico. Ciononostante, l'ideale di una società giusta, fatta a misura d'uomo, sembra ancora tanto lontano che molti sono indotti a considerare quell'ideale un'utopia alla quale sarebbe meglio rinunciare per tentare aggiustamenti che riducano le iniquità.

Tranne frange estreme di destra ultraliberista, che considerano le differenze sociali espressioni di una legge di natura, e frange estreme di sinistra, che le ritengono invece azzerabili in nome di un cambiamento radicale del sistema economico, sullo scopo ultimo di coniugare efficienza e equità convergono ormai quasi tutte le forze politiche secondo uno spettro che va dal liberalesimo al socialismo. Le differenze tra questi orientamenti vengono comunemente ricondotti ai mezzi diversi con cui si ritiene che esso possa essere realizzato. Il liberalesimo pensa che la massima efficienza assicurata da un mercato concorrenziale determini naturalmente una migliore redistribuzione della ricchezza. Il socialismo, viceversa, ritiene decisivo l'intervento dello Stato nella regolazione dei mercati e nell'uso, a fini sociali, di risorse che altrimenti risulterebbero sperequative.

Valutando questi due modelli, si riflette poco sul fatto che essi fanno capo ad una diversa concezione della natura umana.

Se è vero che il liberalesimo è nato dalla rivalutazione del lavoro, considerato in precedenza indizio di uno statuto servile, e che, in nome di tale rivalutazione, il ruolo dominante nella gerarchia sociale è stato assunto dalla classe produttiva borghese, non è affatto vero che esso abbia mai considerato il lavoro come espressione di un bisogno radicalmente umano. Nell'ottica liberale, l'uomo, per natura, è un essere pigro e tendenzialmente renitente nei confronti di qualsivoglia dovere. Gli esseri intraprendenti, il cui esempio più puro è l'imprenditore, rappresentano le eccezioni rispetto alla regola. Anche se si ritiene che l'etica del lavoro, che è un prodotto culturale, possa giungere a coinvolgere fasce sempre più ampie della popolazione, rimane fermo il principio che i più si arrendono a lavorare solo per necessità e per costrizione.

Il pessimismo di questo punto di vista, che ritiene giusta la penalizzazione dei "lavativi" e il primato assegnato agli "intraprendenti", è temperata dal fatto che esso non misconosce l'esistenza di una quota della popolazione che, per motivi diversi, dalla malattia ad una scarsa dotazione costituzionale, non può competere sul mercato. La giustizia sociale liberista, impietosa con i "lavativi", riconosce il diritto dei "deboli" ad essere assistiti dalla comunità. Essa però riduce la categoria dei "deboli" ad una situazione oggettiva che rende loro impossibile il darsi da fare sul mercato: in pratica all'essere malati o invalidi..

Il socialismo, che nasce per temperare l'iniquità del sistema capitalistico, si fonda sul presupposto che l'uomo ha necessità di lavorare non solo perchè deve procacciarsi i mezzi di sostentamento, ma anche perché attraverso il lavoro egli tende ad esprimere le sue potenzialità di sviluppo e di autorealizzazione. Da questo punto di vista, il lavoro è un bisogno radicalmente umano, un bisogno sociale. La renitenza nei confronti del dovere, diffusa in tutte le categorie di lavoratori dipendenti, non viene negata, ma ricondotta alla connotazione duplicemente alienata del lavoro, che viene pagato meno di quanto esso vale e per di più si realizza come attività finalizzata unicamente a produrre un reddito.

Per i socialisti, la giustizia sociale comporta il temperare le diverse capacità individuali in nome dei diritti e dei bisogni che vanno riconosciuti ad ogni uomo. Questo significa due cose. La prima è che le diverse capacità non vanno ricondotte immediatamente a un diverso potenziale genetico in quanto esse possono essere determinate anche dall'ambiente. Da questo punto di vista, il problema consiste nell'offrire a ciascuno adeguate possibilità di sviluppo e di autorealizzazione. La seconda è che, posta un'organizzazione sociale la quale permetta agli uomini di partire alla pari, le differenze naturali, vale a dire i meriti diversi conseguiti vanno socialmente tarati e compensati, distributivamente, in nome dell'esigenza etica di ripagare in qualche misura i meno dotati di una condizione che non è frutto della loro volontà bensì della sorte.

 

2.

Il banco di prova della fondatezza o meno di questi diversi presupposti ideologici è naturalmente la realtà sociale. L'ideologia liberale si fonda sulla presa d'atto che, nella società moderna, non appena si creano condizioni oggettive che soddisfano il bisogno di sicurezza, per esempio nell'ambito del lavoro pubblico o di quello privato in carenza di controlli, la produttività media dei lavoratori tende in genere a diminuire. Il socialismo non può opporre nessuna prova concreta in contrario. Il fenomeno della scarsa efficienza ha caratterizzato, infatti, anche le esperienze dei regimi comunisti che assicuravano a tutti un lavoro. Esso può ricondursi solo al fatto che, in altre società dove si è dato un regime comunitaristico (ma si tratta di risalire a comunità estremamente primitive, nelle quali la divisione del lavoro era pressoché inesistente), la partecipazione sociale al lavoro sembrava (e sembra, stando agli antropologi) fondarsi sul principio marxiano "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".

La renitenza al dovere, da questo punto di vista, sarebbe la conseguenza di cambiamenti intervenuti con la divisione sociale del lavoro e l'istituirsi delle classi sociali, e con una memoria storica di schiavitù e di sfruttamento, depositata a livello inconscio, che l'avvento del liberalesimo non sarebbe riuscita a dissolvere. Né è possibile che essa si dissolva finché il regime salariale non estinguerà l'intuizione di dare più di quanto si riceve e il lavoro sarà vissuto come uno scambio iniquo di merce anziché come una relazione sociale significativa. Quello che può accadere, tenendo conto di una memoria inconscia rabbiosa e rivendicativa e di un livello di coscienza frustrato, è che il lavoratore tenda, nella misura in cui può, vale a dire in assenza di controlli, a sabotare la produzione riducendo l'efficienza e, se riesce a collocarsi in ambito pubblico, a sentirsi autorizzato a fare il minimo possibile.

L'ideologia liberale ha una base empirica e può facilmente addurre a suo favore prove tratte dal mondo attuale. Nella sua cornice, l'unica motivazione che rimuove la tendenza naturale alla pigrizia è l'interesse privato. Il problema è che, non essendo concepibile una società di soli imprenditori, liberi professionisti, commercianti, il lavoro dipendente, per essere efficiente, richiede di operare una scelta tra gli aumenti salariali, che funzionano come incentivi, e la minaccia della precarietà, che fa leva sulla paura e sull'insicurezza.

Il paradosso è che un regime di precarietà si può conseguire in due modi opposti: mantenendo alti i salari, in maniera che un eventuale perdita del posto di lavoro configuri un danno elevato, o tentando di diminuirli in modo da aumentare la concorrenza tra i disoccupati. L'aumento dei salari caratterizza solitamente le fasi di espansioni del sistema economico, allorchè la domanda eccede sull'offerta; la diminuizione, viceversa, caratterizza le fasi di depressione o di recessione, allorché l'offerta eccede la domanda. Questo almeno è avvenuto sino a pochi anni fa. Da qualche tempo, sull'onda del neoliberismo, il sistema tende sempre più manifestamente a privilegiare un'organizzazione del mondo del lavoro dipendente fondata, per l'appunto, sulla paura e sull'insicurezza, vale a dire su di una perpetua precarietà. Il tema della flessibilità è la chiave di questa regressione (in termini di giustizia sociale). Se ne discute tanto, ma è difficile cogliere nei dibattiti il vero significato del termine.

Flessibilità è in antitesi a rigidità. Essa implica che, perché il mercato del lavoro funzioni, le leggi del mercato devono essere lasciate libere di procedere verso l'equilibrio tra la domanda e l'offerta. Tale equilibrio postula che, laddove la domanda si riduce, nei periodi di depressione o di recessione, il prezzo del lavoro, vale a dire il salario, debba diminuire sino a ristabilire l'equilibrio. Qualunque rigidità salariale, dovuta ai fattori più vari, che ostacoli questo processo, viene ritenuta causa di disoccupazione: insomma, un male sociale.

Il problema, da questo punto di vista, è di realizzare una situazione di mercato nella quale l'offerta di lavoro possa ridursi ad una merce. L'offerta di lavoro è però il bisogno di esseri umani in carne ed ossa di lavorare per avere un reddito che permetta di vivere. Nell'ottica neoliberistica, questo aspetto umano è una variabile insignificante.

 

3.

Ricondurre il conflitto storico tra capitale e lavoro ad un presupposto ideologico che verte sulla natura umana, e pone tra parentesi il fatto che le manifestazioni comportamentali attraverso cui si esprimerebbe tale natura possono essere determinate storicamente, e riconoscere valenze che fanno capo all'inconscio individuale e sociale, può sembrare inutile.

Di fatto, questo punto di vista spiega molte cose che altrimenti appaiono inspiegabili. Una di queste riguarda per l'appunto i paradossi legati al mercato del lavoro.

La teoria macroeconomica riconosce da sempre nella disoccupazione un indizio sistemico e un tema di particolare importanza. In quanto indizio, la disoccupazione attesta il grado di "salute" del sistema essendo inversamente proporzionale al PIL: cresce quando il prodotto diminuisce, diminuisce quando il prodotto cresce. In quanto tema, la disoccupazione è importante per il suo impatto economico - che comporta uno spreco di potenzialità - e per il suo impatto psicosociologico che, da quando il lavoro si è definito come una componente essenziale dello status di adulto indipendente, determina reazioni emozionali che vanno dall'avvilimento, dal senso di inutilità e dalla vergogna alla disperazione più nera.

Anche sotto il profilo teorico, però, la disoccupazione è un problema complesso. Posto infatti che il fondamento dell'economia capitalistica è la legge della domanda e dell'offerta, e che questa comporta come conseguenza, in un regime di perfetta concorrenza, un equilibrio definito dal giusto prezzo, la disoccupazione sembra un fenomeno che mina alla base tale fondamento. Se la forza-lavoro è una merce, perché il mercato del lavoro non raggiunge mai l'equilibrio? Perché i venditori della forza-lavoro non sono mai soddisfatti del prezzo a cui la vendono, vale a dire dal salario? Perché gli acquirenti, gli investitori, sono raramente soddisfatti della prestazione della "merce"?

E' facile azzerare il problema constatando immediatamente che la forza-lavoro non è una merce come le altre. Il fatto è che sul mercato, e nell'ottica dell'economia capitalistica, essa in tanto esiste in quanto può essere omologata ad una merce.

L'economia ha un linguaggio e una trama concettuale che non corrisponde puntualmente al senso comune. Nell'accezione corrente, disoccupato è chi, avendo superato una certa età, non essendo invalido e avendo bisogno di un reddito, non ha lavoro. L'economia distingue invece tra disoccupati involontari e disoccupati volontari, cioè tra coloro che cercano e quelli che non cercano lavoro. Solo i primi rientrano nella categoria economica della disoccupazione. Questa definizione è singolare ma non incomprensibile.

Dato che l'economia capitalistica si fonda sulla domanda e sull'offerta, vale a dire sulle componenti essenziali di un mercato che è definito appunto dallo scambio tra venditore e acquirente di beni o di servizi, se un soggetto, dotato di forza-lavoro, non offre questa "merce", egli, contravvenendo le regole del gioco, non è disoccupato.

Portando agli estremi questo singolare concetto, si configura sul piano teorico immediatamente una soluzione magica del problema della disoccupazione. Per azzerarla, infatti, sul piano statistico, basterebbe offrire ai lavoratori un salario tanto basso da scoraggiarli, vale a dire tale da rendere incommesurabile il rapporto tra costo delle prestazioni richieste e beneficio minimo in termini di reddito. In conseguenza di questo, i lavoratori non cercherebbero più lavoro e la categoria dei disoccupati risulterebbe un insieme vuoto.

Ovviamente, questa soluzione non può essere perseguita perché, per quanto nella nostra società l'offerta di lavoro si riduca costantemente, senza unità produttive il sistema andrebbe incontro ad un arresto.

Il salario minimo dunque deve essere per forza maggiore non solo del salario che non assicura la sussistenza ma anche del salario di riserva (o di sussistenza), termine con cui si definisce il salario che, riducendo i costi di produzione, massimizza il profitto. Di quanto, però, considerando il fatto che l'aumento del salario si traduce in una riduzione del profitto?

E' ovvio che si dà un limite massimo raggiunto il quale la riduzione del profitto scoraggerebbe gli investimenti e determinerebbe un azzeramento della domanda di lavoro.

In un'economia capitalistica il salario, dunque, oscilla tra quello di riserva, che scoraggia i lavoratori, e quello che, eliminando il markup (il profitto) scoraggia gli investitori. In termini psicosociologici, il conflitto tra lavoro e capitale non è solo un conflitto di interessi. Esso comporta anche il fatto che ciò che rassicura gli uni, scoraggia o spaventa gli altri e viceversa. In conseguenza di questo, l'equilibrio sul mercato del lavoro, tale per cui offerta e domanda coincidono su di un prezzo ritenuto reciprocamente giusto, non si realizza mai. Perché?

 

4.

La logica del sistema capitalistico, il cui funzionamento si basa sulla disponibilità all'impiego produttivo del risparmio (vale a dire sugli investimenti), comporta di necessità la tendenza al contenimento del salario che deve comunque rimanere al di sopra di quello di riserva. Poco al di sopra sarebbe l'ideale per gli investitori: quanto basta a non scoraggiare i lavoratori, inducendoli all'abbandono del posto, e ad assicurare il maggiore (ahimé non il massimo) profitto. Perseguire questo ideale non è facile.

Se il sistema infatti gira e aumenta la produzione, aumenta anche l'occupazione ma, senza incentivi salariali, la produttività del singolo lavoratore tende a diminuire. Egli non ha molto da perdere e, se perde un lavoro, può trovarne facilmente un altro alle stesse condizioni. Ancora peggio accade se lo Stato offre ai lavoratori dei sussidi di assistenza in caso di disoccupazione. La compressione del salario può indurre i disoccupati a valutare come insignificante il costo di svolgere un'attività produttiva in rapporto al beneficio del reddito.

La compressione dei salari comporta anche un altro fenomeno: la diminuzione dell'efficienza dei lavoratori, che si traduce in una diminuzione della produttività.

E' infatti in nome dell'inesorabile legge della domanda e dell'offerta che il lavoratore (come l'investitore) è incentivato dal guadagno: rende di più se riceve un salario maggiore. Il salario di efficienza, vale a dire il salario che assicura la massima produttività del lavoratore, è piuttosto elevato rispetto a quello minimo che assicurerebbe il maggiore profitto. Oltre a promuovere la produttività, il salario di efficienza serve anche a contrastare la tendenza alla pigrizia di una quota almeno dei lavoratori (i cosiddetti "lavativi"). Essi sanno infatti che, perdendo un buon lavoro, o non ne troverebbero un altro o ne troverebbero uno peggiore.

Il salario di efficienza è una variabile intervenuta nel corso dello sviluppo capitalistico. L'efficienza originaria dei lavoratori, all'epoca ottocentesca della manifattura, era assicurata dal controllo assiduo del padrone, dall'orario praticamente illimitato e dall'assenza di qualunque legislazione che tutelasse i lavoratori e offrisse loro una qualunque protezione in caso di disoccupazione. Essa si fondava dunque sul bisogno di sopravvivere, sulla paura e sull'insicurezza. All'epoca, inoltre, la miseria popolare legata all'avvio dell'industrializzazione era tale che l'esercito di riserva di disoccupati rappresentava un bacino al quale i capitalisti potevano facilmente attingere selezionando i lavoratori più efficienti e scartando i "lavativi".

Con l'organizzazione delle grandi fabbriche e l'avvento di una pur minima legislazione sul lavoro, le condizioni sono cambiate. In particolare, il controllo sulla produttività del singolo lavoratore è diminuita o è diventata costosa comportando la spesa per i controllori. Il salario di efficienza si è definito come un incentivo per aumentare la produttività dei lavoratori. Esso naturalmente viene quantificato in termini tali da risultare più vantaggioso, per i profitti, della spesa per i controlli. Cionondimeno, riduce i profitti.

Il problema che si è posto al capitalismo contemporaneo, giusta l'intuizione di Marx di una riduzione del saggio del profitto, è come assicurare la massima efficienza possibile dei lavoratori con il più basso salario. Tornare dietro, alle condizioni ottocentesche, che erano ideali per i capitali e assicuravano tassi di crescita a due cifre, non è più possibile. L'aspirazione, neppure tanto inconscia dei capitalisti, però è quella. Il problema è come realizzarla in un contesto socio-storico nuovo, caratterizzato dalla presa di coscienza dei lavoratori riguardo ai loro diritti e da un'organizzazione statale che non può, in qualche misura, misconoscerli.

Per superare queste contraddizioni, negli anni '80 il sistema ha tentato di applicare la soluzione della qualità totale, cioè di valorizzare lo spirito di squadra, l'identificazione con l'azienda, la soddisfazione legata ad un clima "familista", incentrato sul fatto che un buon andamento societario significava maggiori guadagni per tutti. La cosa (tranne che in Giappone per alcuni anni) non ha funzionato perché la psicologia dei lavoratori è risultata poco sensibile a questa nuova etica del lavoro, anzi dannatamente materialista, vale a dire incentrata sulla valutazione del rapporto tra costo umano del lavoro e beneficio in termini di reddito.

 

5.

Preso atto dello scacco del modello partecipativo, non rimaneva altra possibilità, per elevare la produttività, che restaurare un clima di precarietà, d'insicurezza e di paura. Ciò è regolarmente accaduto in virtù dell'attacco allo Stato sociale ritenuto responsabile di avere creato per i lavoratori un sistema di garanzie e di sicurezze che, sostanzialmente, li disincentiva. Questo spiega il fatto che sia stato assunto come modello quello statunitense, tradizionalmente spietato con i "lavativi".

Per un paradosso non privo d'ironia, però, per la prima volta nella storia del capitalismo, quel clima è giunto a coinvolgere anche i ceti manageriali. Ad essi infatti vengono assegnati degli obbiettivi economici da raggiungere ad ogni costo pena il licenziamento. La precarietà dei managers è ritenuta funzionale a promuovere, da parte loro, una pressione costante sui dipendenti, dato che il raggiungimento di quegli obbiettivi dipende dalla produttività di questi.

Quali sono le conseguenze psicosociologiche di questo stato di cose? La prima è che i lavoratori dipendenti vivono in una situazione costante di stress e di ricatto che ha pesanti ricadute sia a livello psicologico che psicosomatico. La seconda è che i managers, non appena possono, pensano piuttosto ad assicurarsi, anche con mezzi poco leciti (come è stato denunciato negli Stati Uniti), il futuro che non al bene dell'azienda e degli azionisti.

 Ma almeno questa situazione di angoscia della precarietà collettiva aumenta la produttività? Si sarebbe portati a dire di no se è vero che l'euforico sviluppo degli anni '90 è da ricondursi più al gioco delle tre carte del capitale finanziario che non ad una crescita della ricchezza reale.

Novembre 2002

 

P. S.

A gennaio, il governo italiano, con il solito blitz di una maggioranza blindata, ha approvato una riforma del mercato del lavoro ispirato ai principi del dottor Biagi. Si tratta di provvedimenti di ordine diverso che mirano a flessibilizzare e ad individualizzare i rapporti tra datori di lavoro e dipendenti. Gli intenti del governo mirano ad aumentare la domanda di lavoro, e quindi a ridurre la disoccupazione, che oscilla ancora intorno al 10%. Data la scarsa tutela che i vari provvedimenti offrono ai dipendenti, l'obbiettivo di un aumento dei posti di lavoro non è affatto utopistico. Ma si danno almeno due ragioni che portano a pensare che tale obbiettivo risulterà soddisfacente solo per il governo, che potrà dimostrare di avere corrisposto alle promesse fatte all'elettorato da Silvio Berlusconi, e per le imprese, che potranno disporre della forza-lavoro a misura dei loro bisogni.

La prima ragione è di ordine psicosociologico. Ammesso che sia tramontata l'epoca del posto fisso in nome dell'accettazione di un mercato dinamico in perenne cambiamento, che postula la flessibilità dei dipendenti, la precarietà che si configura in conseguenza della nuova legge sul lavoro, aggiungendosi a quella esistente, sembra tale da eccedere i limiti della tolleranza psicologica. Può darsi (ma non è detto) che la precarietà aumenti la produttività, ma ad un prezzo in termini di stress e d'incapacità di progettare il proprio futuro intollerabili.

La legge fa finta di non sapere come vanno le cose nelle aziende e nelle società private. C'è già in atto una richiesta di disponibilità totale che non tiene conto né delle mansioni né degli impegni temporali contrattuali. Posto che il lavoro viene erogato come un'elargizione, si richiede ai dipendenti una gratitudine totale sotto forma di prestazioni ad libitum. Il problema è particolarmente rilevante a livello giovanile, e perché riduce (e talora azzera) il tempo libero disponibile per la vita di relazione sociale o per un'ulteriore formazione, e perché, configurandosi il rapporto tra dare e avere come progressivamente squilibrato a favore del dare, quote sempre più rilevanti della popolazione giovanile, soprattutto a livello di periferia urbana, operano scelte di vita "alternative" fuori legge (spaccio di droga, totonero, racket, ecc.).

La seconda ragione è da ricondurre alla penalizzazione della manodopera intellettualmente qualificata. La generazione dei ventenni scarsamente qualificati potrà trovare vantaggio nello svolgere un lavoro che assicura un reddito utilizzabile per spese personali, che va necessariamente integrato con l'aiuto familiare. La generazione dei trentenni laureati, soprattutto in discipline umanistiche, si troverà invece in difficoltà. Se accetterà infatti un contratto che ignora l'investimento operato in termini di tempo, di denaro e di sacrifici per la formazione, si troverà a lavorare con uno stato d'animo di estrema frustrazione. Se rivendicherà i pèropri ditritti, si troverà semplicemente esclusa dai circuiti lavorativi.

Il verbo dell'adattamento, ritenuto sacro dai sostenitori del neoliberismo, è a direzione unica. Richiede che il tessuto umano si adegui alla follia del sistema capitalistico. Un'alternativa valida - si dice - non c'è. Via via che quel tessuto si lacera sarà necessario trovarla.

Febbraio 2003


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