La nuova crisi economica che si prepara


1.

Nell’ultimo articolo sulla crisi economica, segnalavo in chiusura la possibilità che il sistema capitalistico riprendesse a fare i suoi giochi come se nulla fosse accaduto. I giochi del capitalismo, dacché esiste, sono stati sempre gli stessi: produrre beni, sfruttare il lavoro, drogare i consumi, speculare sul mercato finanziario. La produzione è l’unico aspetto del sistema percepito a livello sociale, dal cittadino comune, che si inebria della possibilità di operare scelte “libere” in rapporto ad un’offerta crescente di beni. E’ questo aspetto che definisce le società avanzate come società del “benessere”, vale a dire come società nelle quali la maggioranza dei cittadini hanno un reddito che consente loro di acquistare beni.

Si può ovviamente discutere una definizione così restrittiva del benessere. Ma non è questo che ora interessa, quanto piuttosto cercare di capire perché è praticamente impossibile venire a capo della crisi che si è avviata nel 2001 senza un cambiamento radicale che metta in discussione il sistema capitalistico.

A tal fine, occorre tenere conto della “degenerazione” cui esso è andato incontro negli ultimi decenni, mettendo tra parentesi le responsabilità personali (che pure ci sono) e tenendo conto, sulla base della lezione di Marx, della sua logica intrinseca.

Fino a venti anni fa, l’equilibrio economico era definito (dagli economisti) come incentrato sull’offerta, vale a dire sull’efficienza produttiva. Tale ideologia si fondava sul principio per cui produzione e occupazione andavano di pari passo, e, di conseguenza, il lavoratore era anche un consumatore.

Con l’avvento del thatcherismo e del reaganismo, l’ideologia dell’offerta è stata sostituita da quella della domanda, e il consumo è stato assunto come motore dell’equilibrio sistemico, in quanto in grado di stimolare la produzione. In conseguenza di questo cambiamento ideologico, l’attività dei governi è stata orientata a lasciare nelle tasche dei cittadini la maggiore quantità di denaro possibile, attraverso la riduzione delle tasse e la contrazione dei servizi sociali.

Questo intento, naturalmente, è stato meramente formale. Negli Stati Uniti, come ormai noto, il maggior vantaggio dalla riduzione delle tasse lo hanno ricavato i ricchi. Non bisogna, peraltro, essere grandi economisti per capire che la riduzione del 5% delle tasse significa qualcosa di profondamente diverso per chi ha ingenti capitali e per chi dispone di un reddito fisso.

La riduzione delle tasse è coincisa anche con una compressione dei redditi lavorativi e con un costo crescente di servizi dapprima erogati dallo Stato.

Al thatcherismo e la reaganismo va ricondotta l’origine dello squilibrio economico crescente che si è realizzato negli ultimi venti anni all’interno delle società avanzate.

Nell’ottica del neoliberismo, mettere più soldi a disposizione dei ricchi si fondava sul presupposto che essi sapessero, più del ceto meno abbiente o medio, come investirli produttivamente, vale a dire che li investissero nella direzione di impieghi produttivi.

Il problema è che, dalla metà degli anni Novanta, con la complicità del sistema bancario, i ricchi hanno scoperto che gli impieghi produttivi del capitale, oltre ad essere interferiti dalle rivendicazioni dei lavoratori, erano molto meno redditizi della speculazione finanziaria. Questa scoperta ha contribuito ad alimentare la bolla borsistica scoppiata nel 2001, prima dell’attentato alle Torri Gemelle.

Senza alcun riferimento ad ipotesi dietrologiche, si può affermare senza dubbio che quell’attentato è stato per il sistema capitalistico una panacea. Per sventare, infatti, il pericolo di un crollo del sistema, attribuito agli effetti di shock della popolazione statunitense piuttosto che alla bolla borsistica, la FED non ha trovato di meglio che abbattere con estrema decisione il costo del denaro, inondando il mercato di liquidità. Alcuni economisti “distratti” hanno identificato in questa strategia il capolavoro di Alan Greenspan, che sarebbe riuscito a scongiurare una riedizione della crisi del 1929.

In realtà, il “capolavoro” di Greenspan è consistito nel dare in pasto a famelici speculatori la preda che essi preferiscono: montagne di denaro a costo zero. In più, l’intervento di Greenspan ha convinto gli speculatori che il potere politico era ormai totalmente subordinato a quello economico, tal che se si fosse creata una situazione di pericolo sistemico, esso sarebbe intervenuto necessariamente per impedire la catastrofe.

Il denaro a costo zero non solo ha dato carta bianca agli speculatori, ma li ha convinti di potere correre (e di potere far correre all’economia mondiale) qualsiasi rischio certi di avvalersi, nel momento del bisogno, dell’ombrello dello Stato. Dato che questa certezza si fondava sul pericolo di un crollo del sistema capitalistico, gli speculatori hanno adottato una logica che, paradossalmente, si può ritenere razionale: quella di spingere l’acceleratore delle loro azzardate imprese il più possibile in maniera tale che, nel momento in cui si fosse configurato il pericolo di un crack sistemico, gli Stati si sarebbero trovati costretti a salvare il mondo da un terribile naufragio.

La previsione degli speculatori, con la sola eccezione della Lemhan Brothers, si è regolarmente avverata. Uno degli eventi più singolari, passati quasi inosservati agli occhi dell’opinione pubblica, è stata la riunione dei Capi di Stato di tutto il mondo, organizzata in fretta e furia in un week end di ottobre del 2008, dopo un periodo di calo dei valori azionari culminato in un venerdì terribile a livello mondiale, il cui intento era di scongiurare il crollo del regime capitalistico. Il crollo è stato scongiurato, ma al prezzo di un intervento massiccio degli Stati a sostegno dei mercati: con l’uso, insomma, di denaro pubblico al fine di turare la falla.

Nella stessa riunione si decise di mettere a punto provvedimenti che regolassero il mercato in maniera tale da impedire il ripetersi di ulteriori crisi legate alla speculazione “selvaggia”. Qualche tentativo c’è stato in questa direzione, soprattutto in riferimenti ai cosiddetti paradisi fiscali e al segreto bancario.

Ma si è trattato di tentativi rivolti più a soddisfare le esigenze di un’opinione pubblica orientata a demonizzare il cinismo dei ricchi e la tracotanza delle banche che non a risolvere il problema di fondo.

Quale sia questo problema si può arrivare a capire procedendo per gradi, vale a dire tenendo conto degli indizi che attestano che il sistema ha ripreso prontamente i suoi giochi.

Nouriel Roubini, su Repubblica del 3 novembre, scrive un articolo il cui titolo significativo è Le meravigliose bolle di sapone Carry Trade:

“Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere (azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e stabili.

Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività dovrebbero gradualmente crescere.

Ma se è vero che l'economia americana e mondiale è timidamente ripartita, i prezzi degli asset sono saliti alle stelle a partire da marzo con un rally consistente e sincronizzato. Nel 2008 erano calati bruscamente, quando era il dollaro a salire, ma da marzo in poi sono schizzati in alto mentre il dollaro colava a picco. I prezzi delle attività rischiose sono cresciuti troppo, troppo presto e troppo in fretta rispetto ai fondamentali dell'economia.

E allora che cosa c'è dietro a questo eccezionale recupero? Indubbiamente ha contribuito l'ondata di liquidità prodotta da tassi di interesse prossimi allo zero e politiche monetarie espansive. Ma all'origine di questa bolla c'è soprattutto la debolezza del dollaro, trainata dalla madre di tutti i carry trade. Il dollaro è diventato la moneta più utilizzata in queste operazioni speculative tra tassi e valute, perché la Fed ha tenuto sotto controllo i tassi d'interesse e si prevede che continuerà a farlo ancora per molto tempo. Gli investitori che puntano sul ribasso del dollaro per comprare, con effetto leva, attività a più alto rendimento, non stanno semplicemente prendendo in prestito a tasso di interesse zero rispetto al dollaro; stanno prendendo in prestito a tassi fortemente negativi - addirittura fino al 10% o 20% annualizzato - perché la caduta del dollaro garantisce cospicue plusvalenze.

Riassumiamo: gli operatori prendono in prestito a tassi del -20% per investire, con un forte effetto leva, su una massa di attività rischiose in tutto il mondo che stanno aumentando di prezzo, a causa di un surplus di liquidità e di un massiccio ricorso al carry trade. Qualsiasi investitore che si dedichi a questo gioco rischioso fa la figura del genio (anche se sta semplicemente cavalcando una colossale bolla finanziata da un costo del credito fortemente negativo), perché i rendimenti da marzo in poi sono stati nell'ordine del 50-70%.

La percezione da parte degli individui del valore a rischio del proprio portafoglio investimenti dovrebbe invece aumentare, per via della crescente correlazione dei rischi fra categorie di asset differenti, tutte trainate dalla politica monetaria comune e dalla pratica del carry trade. Anzi, è diventata un'unica, grande operazione comune: si vendono dollari per comprare qualunque asset a rischio a livello mondiale.

Al tempo stesso, però, la "rischiosità" percepita delle singole categorie di asset sta scemando, per via della minor volatilità frutto della politica della Fed di comprare tutto quello che le capita a tiro (si pensi alla sua proposta di acquistare 1800 miliardi di dollari di titoli di Stato, titoli garantiti da ipoteca - obbligazioni garantite da imprese semipubbliche come la Fannie Mae - e agency debt). Le singole categorie di asset quindi ora sono meno volatili e si comportano nello stesso modo, e dunque la diversificazione fra i mercati si è ridotta (e il Var è tornato ad apparire basso).

Dunque, l'effetto combinato della politica Fed (tasso zero, politiche espansive e acquisto su larga scala di strumenti di debito a lungo termine) apparentemente sta creando a livello mondiale- per ora - le condizioni per la madre di tutti i carry trades e la madre di tutte le bolle mondiali dei prezzi delle attività con effetto leva. Questa politica non alimenta sono una bolla globale, alimenta anche una nuova bolla negli Usa. Il denaro facile, le politiche di espansione quantitativa, l'espansione del credito e i consistenti afflussi di capitali negli Stati Uniti attraverso l'accumulazione di riserve in valuta estera da parte delle Banche centrali degli altri Paesi rende più facile finanziare i deficit di bilancio Usa e alimenta la bolla delle azioni e del credito Oltreoceano. Per concludere, un dollaro debole è positivo per le azioni Usa, perché può portare a una crescita più forte e può accrescere i profitti in valuta estera delle grandi aziende statunitensi all'estero, in termini di dollari.

La politica sconsiderata degli americani, che sta alimentando questi carry trades, obbliga altri Paesi a seguire le stesse politiche monetarie. Il Regno Unito, l'Eurozona, il Giappone, la Svezia e altre economie avanzate stavano già applicando politiche di tassi quasi a zero ed espansione quantitativa, ma la debolezza del dollaro sta aggravando ulteriormente questa politica monetaria espansiva globale. Le Banche centrali in Asia e in America Latina sono preoccupate per la debolezza del dollaro e stanno intervenendo in modo aggressivo per impedire che le loro valute si apprezzino eccessivamente. Questo mantiene i tassi di interesse a breve a un livello inferiore a quello auspicabile. Inoltre, le Banche centrali potrebbero essere costrette ad abbassare i tassi con operazioni a mercato aperto. Alcune Banche centrali, preoccupate per i capitali vaganti che spingono in alto le loro valute, come nel caso del Brasile, stanno imponendo controlli sui flussi di capitale in entrata. Nell'uno o nell'altro caso, la bolla del carry trade peggiorerà: se non ci sarà nessun intervento valutario e le valute straniere si apprezzeranno, il costo negativo del credito legato al carry trade crescerà ulteriormente. Se gli interventi valutari o le operazioni a mercato aperto terranno sotto controllo l'apprezzamento della valuta, le politiche monetarie quantitative che ne conseguiranno a livello nazionale alimenteranno una bolla dei prezzi delle attività in queste economie. E dunque la bolla globale, che interessa tutte le categorie di asset, si gonfierà giorno dopo giorno.

Ma un giorno questa bolla scoppierà, portando al crack coordinato dei prezzi degli asset più grande di sempre: se i fattori produrranno un'inversione di tendenza del dollaro, con improvviso rafforzamento (come abbiamo visto per lo yen), le operazioni di carry trade con effetto leva dovranno essere chiuse in fretta e furia, con gli investitori che coprono il loro scoperto in dollari. E si scatenerà un fuggi fuggi, perché la chiusura generalizzata di posizioni lunghe con effetto leva su asset di rischio finanziate dal dollaro basso innescherà un tracollo coordinato di tutti quegli asset (azioni, materie prime, asset dei mercati emergenti e strumenti creditizi). Perché dovrebbe andare a finire così? Innanzitutto, perché il dollaro non può continuare a scendere all'infinito, a un certo punto si stabilizzerà; quando questo succederà, il costo del credito in dollari diventerà improvvisamente zero, invece che fortemente al di sotto dello zero come prima, e la rischiosità di un'inversione dell'andamento del dollaro spingerà molti a coprire il loro scoperto. In secondo luogo, la Fed non potrà contenere la volatilità in eterno (il suo piano d'acquisto da 1.800 miliardi di dollari finirà la primavera prossima). In terzo luogo, se la crescita americana sarà più alta del previsto nel terzo e nel quarto trimestre, i mercati potrebbero cominciare ad aspettarsi, in anticipo sui tempi, una stretta della politica monetaria da parte della Fed. In quarto luogo, i timori di una recessione "a W" o rischi geopolitici, come un confronto militare fra gli Stati Uniti e Israele da una parte e l'Iran dall'altra, potrebbero rendere la gente meno incline al rischio. Come nel 2008, quando l'impennata dell'avversione al rischio fu accompagnata da una forte rivalutazione del dollaro perché gli investitori cercavano la sicurezza dei titoli di Stato Usa, questa nuova avversione al rischio innescherebbe un recupero del dollaro in un momento in cui dovranno essere chiuse posizioni "corte" cospicue.

Tutto ciò non è detto che succeda subito, perché il denaro a buon mercato e l'eccesso di liquidità a livello globale possono continuare a spingere in alto i prezzi delle attività per un certo periodo. Ma più andranno avanti e più si allargheranno questi carry trades, più crescerà la bolla e maggiore sarà il botto che farà quando scoppierà. La Fed e altri policymakers sembrano inconsapevoli della bolla-monstre che stanno creando. Più tardi se ne accorgeranno, più pesante sarà il tonfo che faranno i mercati.”

(Traduzione di Fabio Galimberti)

Vittorio Zucconi, su Repubblica del 3 novembre, rivela il retroscena psicologico che prepara una nuova crisi::

“«Siamo sempre noi, vi ricordate di noi, sì? Il popolo delle scatole di cartone cacciati dalla terra promessa di Wall Street. Beh, siamo tornati, le nostre scatole vuote si stanno di nuovo riempiendo di soldi e la bolla si rigonfia. Tutto doveva finire, remember September?, ricordate il settembre nero. E tutto è ricominciato». Dalle finestre a vetri, il traffico di passanti e delle poche auto strozzate nella strettoia di Times Square sotto i nostri piedi si coagula e si liquefa come se nulla fosse mai accaduto e il settembre nerissimo sembra, come un altro settembre, un incubo sfumato nel ricordo. L'uomo che guarda la strada dalla vetrata, uno dei pochi scampati ai giorni dei lunghi coltelli, quando nomi come Lehman Brothers, Bear & Sterns, Merryl Linch, Citibank, Bank of America, per non citare neppure i mega pataccari alla Bernie Madoff, sprofondavano o sbandavano, riesce persino a sorridere.

«Vedi la gente là sotto? Non sono cambiati loro, non siamo cambiati noi. Tutti vogliono fare soldi, tutti hanno paura di perderli quando li hanno. Fino a quando esisteranno gli uomini, esisteranno le bolle». Qui nella trading room, nel termitaio del salone scambi di questa grande maison finanziaria, come in tutte le altre che un anno fa dovevano morire e un anno dopo guardano il corso delle proprie azioni puntare di nuovo alla stratosfera, il vento, se potesse entrare dalle finestre sigillate, porterebbe non più la paura di andare a fondo, ma semmai il timore di volare troppo in alto. In ogni ufficio di Goldman Sachs, che in un anno ha visto il proprio «stock» passare dai 49 dollari del novembre 2008 ai quasi 180 di ieri, di Morgan Stanley (dagli 11 dollari di un anno fa ai 33), di Citigroup (da 1 dollaro e 11 centesimi all'inizio dell'anno ai 4 di ieri), blaterano all'unisono gli schermi piatti sintonizzati sulla network che fa e disfa il mercato, la CNBC, sparando messaggi e profezie contraddittorie. Ma tra annunci di prossime catastrofi portate dai pessimisti e l'ottimismo garrulo di Jim Cramer, seguitissimo miliardario da talk show che esorta tutti a buttarsi dentro la nuova bolla, la sola certezza è che 12 mesi dopo quell'epifania di cartone che fece gridare alla «fine del capitalismo» non è cambiato nulla. «Si è organizzata un po' di messinscena per dare alle gente l'impressione che fossero finalmente arrivati i governi a mettere ordine e regole, ma chi ha voluto speculare al ribasso, al rialzo, con i famosi derivati e con i fondi hedge lo ha continuato a fare» urla Jim Cramer.

Una ex managing director di Lehman Brothers cacciata con la scatola di cartone piena di merendine zuccherose e di pillole alla caffeina, che era arrivata a incassare un milione e mezzo di bonus a fine 2007 (più lo stipendio), si è concessa una vacanza di sei mesi e ha fatto il giro del mondo, dal Bangladesh a Londra, dalla Terra del Fuoco al Vietnam. E' tornata, ha telefonato ai suoi ex clienti e colleghi, ha creato una propria finanziaria e finirà il 2009 con un portfolio da 750 milioni di dollari. «Quello che i governi fanno finta di non capire è che i soldi veri, i miliardi, non sono mai scomparsi».

Scrive Fortune che le prime 100 corporation americane hanno complessivamente riserve liquide per 948 miliardi di dollari, che tengono stretti in attesa di avere la certezza che la buriana politica sia passata. E poi? «E poi li dovranno investire. Appena l'inflazione ripartirà, come ripartirà con il disavanzo pubblico creato per salvarci, non potranno tenerli nel materasso a perdere valore. Guardi la gente là sotto, a Broadway, a Times Square. Mangiano, bevono, spendono, comprano. Consumano. E quando si saranno convinti che l'Apocalisse non c'è stata, che non saranno spazzati via da un altro '29, i soldi ricominceranno a bruciare in tasca e vorranno rendimenti migliori di quello 0,5% all'anno che i buoni del Tesoro oggi gli offrono. E noi siamo qui, per accoglierli».

C'è un piccolo indice, in Borsa, che racconta meglio di tutti perché si stia riformando la "bolla". Si chiama "Vix" e non è un prodotto per il raffreddore. Sta per "Volatility Index" e segnala appunto la volatilità, la violenza degli sbalzi nelle quotazioni. E' tornato ai massimi dell'anno, spinto dal Dow Jones capace di perdere e di guadagnare il 2% in 48 ore e garantisce che il mare di soldi sciabordanti nella stiva dell'economia tornerà a cercare quegli strumenti di vera, o illusoria, protezione finanziaria che si chiamano "derivate" e "hedge funds". Proprio quei prodotti che furono accusati di avere causato il giudizio universale del settembre 2008 e avrebbero dovuto essere spazzati via.

Si era sparso il panico delle retribuzioni e della fine dell'età dell'oro, i "bonus" di fine anno, quelle mostruosità che avevano regalato al presidente della Morgan Stanley, John Mack, soprannominato "Big Mac" come la polpetta a due piani della McDonald's, 40 milioni di dollari a fine 2006. Un record che aveva resistito appena due giorni, fino a quando la rivale Goldman Sachs attribuì al proprio leader maximo, Lloyd Blankfein, 53,4 milioni di dollari. Ma nessuna delle grandi banche ha atteso che la ghigliottina delle famose "nuove regole" immaginate per rabbonire le folle, cadesse sui loro manager. «Ci siamo semplicemente aumentati gli stipendi, per compensare il fatto che per un po' di tempo avremmo dovuto limitare i bonus di fine anno» sorride l'uomo che guarda Times Square.

Anche la mongolfiera che da sempre fa volare o precipitare nel proprio cestello l'economia americana prende quota: la casa. A San Francisco per prima, ma addirittura anche a Miami, la terra del disastro immobiliare, le case si ricominciano a vendere, sia pure a prezzi di saldo. Le banche, con i miliardi di profitti e di liquido pompati dalla Fed a tasso zero nelle loro casseforti, devono tornare a prestarli al 5%, perché le banche per questo esistono, per lucrare fra il costo e il rendimento del danaro, e il governo estende per altri tre mesi l'abbuono fiscale di 8 mila dollari sull'acquisto. Il vento della nuova speculazione non soffia ancora nelle case dei senza lavoro, che sono ormai quasi il 10%. Ma l'occupazione è sempre l'ultima a svegliarsi dal coma della recessione, perché le aziende aspettano prima di riassumere.

«Siamo rimasti in meno, noi delle scatole di cartone, e un terzo di quelli che sparecchiavano bonus nel 2007 hanno cambiato lavoro o città» dice l'uomo che guarda la bolla gonfiarsi dalla vetrata su Times Square. «Per ora, chi di noi è sopravvissuto vive alla giornata, sapendo che tutto può finire domattina, come il 15 settembre del 2008, perché niente è cambiato e il danaro non sta mai fermo, si riversa oggi sull'oro, poi sul petrolio, poi sulle Borse, poi sui derivati, poi sull'immobiliare e anche i governi più sinceri sono come i bagnanti che vogliono vuotare il mare con il cucchiaio delle loro regole. La lezione del fallimento delle Lehman Brothers non ha insegnato a noi, ma ai governi, il rischio di voler fare i duri davvero. Usano i loro soldi per salvarci, quando si accorgono che siamo ormai diventati troppo grandi per lasciarci fallire». Come sempre? «Come sempre»”

Maurizio Ricci, su Repubblica del 4 novembre, illustra il pericolo della nuova bolla:

“Wall Street, pericolo "bolla"

A Natale, il re degli gnomi di Wall Street - Goldman Sachs - metterà sotto l'albero dei suoi 30 mila dipendenti una busta che contiene, in media, poco meno di 800 mila dollari a testa. Il premio per un anno di superlavoro: i mercati, infatti - tutti i mercati: borse, petrolio, oro, materie prime, valute - stanno andando a mille. Eppure, l'economia reale è in affanno: la disoccupazione cresce, le famiglie tirano la cinghia, le imprese tagliano, tutti in attesa di una ripresa che stenta a materializzarsi nitidamente. Qualcosa non torna.

Dopo il grande tsunami di un anno fa, che ha quasi riportato il mondo ai tempi della Grande Depressione, doveva essere un'era di pentimento e cilicio, di ravvedimento e virtù, di regole stringenti e appetiti misurati. Castigate e imbrigliate, banche e finanziarie dovevano tornare all'umile compito di alimentare l'ordinato sviluppo dell'economia. Beh, riaprite gli occhi: di tutto questo non c'è traccia. Le regole non sono arrivate, i soldi - un fiume di soldi, sotto forma di prestiti, garanzie, tassi stracciati - sì. E la finanza da corsa ha ripreso il largo: i suoi uomini sono tornati a spartirsi un ricco bottino - sotto forma di bonus - e a puntare i soldi in cassa, negati a famiglie e imprese, su scommesse sempre più rischiose nei mercati. Il risultato è che, probabilmente, siamo seduti di nuovo su un'unica gigantesca bolla, che potrebbe esplodere in qualsiasi momento.

La madre di tutte le bolle: nel senso che, invece delle singole bolle (della casa, dei subprime, dei derivati, del credito, del petrolio) del passato appena trascorso, questa è un'unica bolla che le riassume tutte: la bolla del dollaro. Il fatto che sia una bolla al contrario (il dollaro scende) non deve trarre in inganno: è proprio la discesa del dollaro che gonfia, tutte insieme, le altre bolle.

Prendete il bilancio di una grande banca internazionale, come Barclays. Nel secondo trimestre, il settore prestiti alle famiglie ha visto i profitti ridursi del 61 per cento, quello commerciale del 42 per cento. Il ramo affari, Barclays Capital, li ha raddoppiati. Ancora una volta, l'esempio Goldman Sachs vale per tutti: quasi 14 miliardi di dollari di ricavi nel secondo trimestre. Due terzi di questi ricavi vengono dal settore "trading", cioè le transazioni/speculazioni, spesso condotte in proprio. Metà dal solo settore reddito fisso, materie prime, valute, cioè, in concreto, per la grande banca di Wall Street, petrolio e derivati. E' la controprova della frenetica attività dei mercati, dopo il grande gelo dell'autunno 2008. La borsa di Wall Street che, un anno fa, guardava agghiacciata l'abisso di quota 7.000, oscilla, oggi, intorno a 10.000 e molti ritengono possibile che l'indice Dow Jones tocchi presto 11.000. Il petrolio che, a febbraio, era appena sopra i 30 dollari al barile, oggi è vicino agli 80 dollari: ha guadagnato il 25 per cento solo negli ultimi 3 mesi. L'oro, a 1.055 dollari l'oncia, balla intorno ad un record storico. Rame, granturco, gomma hanno messo a segno rialzi cospicui. L'indice Reuters-Jefferies dei metalli è tornato ai livelli di settembre 2008 ed è salito del 50 per cento, rispetto ad inizio anno. Lo stesso indice, per il totale delle materie prime, che era a 211 a febbraio, è arrivato a 260 questa estate.

Molto poco, nell'economia reale, nel rapporto fondamentale fra domanda e offerta, sembra giustificare questa corsa dei mercati. L'economia cinese ha ripreso a camminare e anche in Occidente ci sono segnali di risveglio, ma l'impulso è troppo modesto per giustificare queste tensioni sul mercato delle materie prime. L'Agenzia internazionale dell'energia ha appena rivisto al rialzo le sue previsioni sulla domanda di greggio, ma l'incremento - appena di qualche centinaio di migliaia di barili al giorno - può essere tranquillamente assorbito dall'offerta dei paesi produttori. Anche le borse appaiono largamente sopravalutate. Andrew Smithers, un analista di borsa, ha calcolato che il rapporto fra prezzo dell'azione e utile dell'azienda che l'ha emessa è schizzato a livelli inimmaginabili. Nell'indice S&P 500 di Wall Street questo rapporto è a quota 142. Ovvero l'azione viene trattata ad un prezzo pari a 142 volte gli utili. Non solo è un record, ma quello precedente è un terzo dell'attuale. Anche aggiustando il calcolo per l'attuale situazione di recessione, Smithers conclude che le azioni sono sopravalutate di circa il 40 per cento, rispetto alla media storica.

C'è un elemento inedito in questa corsa dei mercati: stanno salendo tutti insieme. O, se preferite, tutte le bolle si stanno gonfiando contemporaneamente. Gli esperti la chiamano "correlazione". Osserva Olivier Jakob, analista a Petromatrix, che i suoi colleghi che si occupano di borse sostengono che i loro mercati sono condizionati dal petrolio, mentre i colleghi che si occupano di petrolio dichiarano che a muovere il petrolio sono le borse. In effetti, se mettete, come fa Jakob, su un grafico le oscillazioni dei futures sul petrolio e dei futures sul Dow Jones, vedete che i due valori si muovono all'unisono, con scostamenti appena percettibili. Questa correlazione, sottolinea Jakob, "non ha senso, ma se non comprate e vendete seguendola, state solo fornendo liquidità a chi la segue". In altre parole, l'effetto-gregge, per cui tutti gli operatori si muovono nella stessa direzione, è ancora un motore vitale dei mercati. La novità è che agisce contemporaneamente sui diversi mercati e questo può essere molto pericoloso. "Il problema - secondo Jakob - è che l'economia reale funziona su principi diversi dai giochini degli operatori al computer e questa correlazione non consentirebbe ad una ripresa economica di materializzarsi".

Per esempio, un indice Dow Jones a 11.000, calcola Jakob, in base a questa correlazione corrisponde al petrolio a 100 dollari al barile e, allora, addio ripresa. "E' una bomba a tempo - conclude - come era una bomba a tempo quella dei subprime".

In realtà, è possibile che la bomba di Jakob non arrivi ad esplodere, perché ne esplode un'altra - più grossa - prima. Cos'è, infatti, che sta gonfiando i mercati tutti insieme? Anzitutto, l'enorme massa di liquidità pompata, praticamente a costo zero, dalle banche centrali verso banche e finanziarie. Ma non ci sono solo tanti soldi a tasso zero. Per rianimare i mercati, le banche centrali comprano anche titoli di ogni genere. La Fed ha appena annunciato un programma di 1.800 miliardi di dollari, per comprare titoli di Stato e altri titoli semi-pubblici. Questi acquisti riducono la volatilità dei prezzi di questi titoli. In breve: banche e finanziarie possono finanziare, gratis, gli acquisti di titoli a rischio praticamente nullo.

L'altro elemento è la costante discesa del dollaro. Di suo, la discesa del dollaro, la valuta in cui sono quotati oro, petrolio e materie prime in genere, spinge naturalmente in alto, per contrappeso, le quotazioni. Ma, osserva Nouriel Roubini, oggi questa discesa del dollaro si incrocia in una miscela micidiale con la politica del denaro facile della Fed. Le banche che si indebitano (a breve) a tasso zero in dollari per poi reinvestirli sui mercati internazionali si trovano, grazie alla contemporanea svalutazione della moneta americana, a godere di tassi negativi anche del 10- 20 per cento, visto che poi dovranno restituire dollari che valgono meno. E questo le spinge ad indebitarsi sempre di più, per investimenti sempre più arrischiati.

Il problema, osserva Roubini, è che prima o poi, la Fed dovrà stringere i cordoni della liquidità. Allo stesso tempo, la discesa del dollaro non può continuare all'infinito. Basta che il costo di finanziarsi in dollari torni a zero, invece che vantaggioso del 10-20 per cento, perché banche e finanziarie debbano precipitosamente liquidare i loro rischiosi investimenti.

E proprio perché le bolle si sono gonfiate tutte insieme, si sgonfieranno tutte contemporaneamente. Sarà, dice Roubini, "il più grosso coordinato crac mai visto". Più si gonfia la bolla, più violento sarà lo scoppio.”

Su L’Espresso del 5. 11 Maurizio Maggi e Stefano Vergine insistono sul percolo che si profila di un nuovo crac:

“Qui scoppia un'altra bolla Ma com'è possibile che le Borse stiano correndo da oltre sette mesi, le emissioni di obbligazioni statali e private vadano a ruba, i famigerati "derivati" siano tornati ai livelli record del 2008, l'oro abbia il vento in poppa e, intanto, l'economia reale continui a boccheggiare e la gente non fa altro che parlare di aziende che chiudono o licenziano dipendenti? A un anno di distanza dal grande crac, mentre i messaggi sulla fine della caduta si fanno sempre più tiepidi e si avverte una sempre più eclatante divaricazione tra finanza e vita quotidiana, cresce il partito dei pessimisti, di quelli che prevedono una crisi a "W", con un nuovo, fatale scivolone nel prossimo futuro.

Le bolle, di solito, esplodono dopo i boom: in Borsa è successo con le azioni dopo la volata della new economy, così come dopo la galoppata delle cosiddette Tigri asiatiche. E la tempesta che si è abbattuta sul globo a cominciare dalla seconda metà del 2007 s'è scatenata perché i prezzi delle case in America erano impazziti insieme alla concessione dei prestiti facili. Adesso succede che, in numero crescente, banchieri centrali e ministri del Tesoro, opinionisti e autorevoli economisti invocano prudenza e dicono: «Occhio alla prossima bolla».

Le banche hanno già ripreso a macinare utili e a distribuire superbonus, sebbene secondo il Fondo monetario internazionale abbiano ancora in pancia titoli tossici per ben 1.500 miliardi di dollari a livello globale. Grazie ai colossali aiuti pubblici e soprattutto senza che, ancora, le cospicue inondazioni di denaro statale abbiano dato una mano ai bilanci familiari e delle imprese industriali e commerciali. Nella prima metà del 2009, scrive il "Wall Street Journal", nelle 23 principali banche d'investimento, hedge fund, finanziarie e società di trading, si è guadagnato di più che nello stesso periodo del 2007, anno di picco dei listini azionari. Non basta: trader e manager di Wall Street porteranno a casa per l'intero 2009 la bellezza di 140 miliardi di dollari, il miglior "incasso" di sempre. Il gigante Goldman Sachs, per esempio, è pronta a sganciare 16,7 miliardi di dollari di premi ai propri manager: oltre il 46 per cento in più rispetto al 2008.

Allibite, magari pure un po' arrabbiate, le persone comuni sono così passate in pochi mesi dalla paura che istituti di credito grandi e piccoli fallissero a raffica, trascinandosi all'inferno risparmi di una vita (ricordate gli impauriti correntisti in fila davanti alle filiali della britannica Northern Rock, che evocarono gli spettri della Grande Depressione?) alla sorprendente scoperta che le banche, magari guidate dalle stesse persone, godono oggi di eccellente salute. Per Mario Draghi, che è il governatore della Banca d'Italia ma pure il presidente del Financial Stability Board, sarebbe assai opportuno che gli istituti di credito, sostenuti da banche centrali, governi e autorità internazionali, s'impegnassero a rafforzare il proprio capitale piuttosto che studiare gratifiche d'oro per i manager e ghiotti dividendi per gli azionisti.

Il contrasto tra gli eccessi della finanza e la vita di ogni giorno delle persone normali è stridente. Specie in Europa, il rilancio dell'economia stenta, l'occupazione cala e il prodotto interno lordo langue mentre le Borse si sono rimesse in carreggiata in grande stile. A lanciare appassionate grida d'allarme non sono le incallite Cassandre, i pessimisti di professione. Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve (la Banca centrale degli Stati Uniti), ascoltato consigliere economico del presidente Barack Obama, ha detto di essere assai preoccupato. «La crisi non è finita e c'è un sacco di gente che fa i soldi con la finanza». E "Il Sole 24 Ore", non "il manifesto", ha scritto, con tono nient'affatto compiaciuto: «Le banche mondiali assomigliano oggi più a fondi che a istituzioni creditizie: più che finanziare imprese e famiglie, speculano sui mercati». A supporto di una presa di posizione piuttosto drastica, il quotidiano della Confindustria sottolinea come, dall'analisi dei dati delle prime 12 banche europee e statunitensi, emerge che nel secondo trimestre del 2009, il 59 per cento dei ricavi sono arrivati da attività di trading, da dividendi e da commissioni.

Kenneth Feinberg, il cosiddetto zar dei bonus, l'uomo che per conto di Obama deve limare i compensi dei dirigenti delle società finanziarie che hanno ricevuto aiuti pubblici nell'inverno scorso, ha elaborato un piano che potrebbe ridurre fino al 90 per cento i premi dei top manager di big come Citigroup, Bank of America e Aig. Una riduzione che vale solo per gli ultimi due mesi di quest'anno e che ha sollevato parecchie critiche, lasciando l'amaro in bocca a un'opinione pubblica sempre più irritata dalla lentezza con cui avanzano le attese riforme in campo finanziario. A giorni è atteso anche il progetto di legge che consentirà al governo degli Stati Uniti di intervenire - cacciando i dirigenti, rivedendo i termini dei prestiti, commissariando la società in tempi rapidi - sui grandi gruppi finanziari. Anche in questo caso non sono mancati rilievi per un approccio che sarebbe comunque troppo morbido. Dal fallimento della Lehman Brothers e dalla nazionalizzazione della Royal Bank of Scotland è passato ormai parecchio tempo e la sensazione condivisa sulle due sponde dell'Atlantico è che si sia fatto troppo poco.

Prendiamo il caso dei derivati, quegli strumenti finanziari divenuti tristemente celebri con lo scoppio della crisi. Non tutti gli usi dei derivati sono diabolici, ci mancherebbe. In parecchie situazioni si tratta di "costruzioni" finanziarie utili alla copertura contro i rischi di sbalzi nei costi delle materie prime, e quindi sono funzionali all'attività di molte aziende. Però la finanza creativa assatanata aveva finito per impacchettare prodotti sempre più complicati e con dentro di tutto, trasparenti come muri di cemento. Era logico prevedere che, essendo stati alla base del crollo globale avviato nel 2007, i derivati sarebbero finiti alla svelta nel mirino dei regolatori. Non è andata così, almeno per ora. Gli sforzi per introdurre nuove regole sul tema, rendendo obbligatori gli scambi sui mercati regolamentati, e costringendo chi li impiega ad aumentare le garanzie patrimoniali a copertura dei rischi, si sono scontrati - perdendo - con le resistenze delle lobby interessate a mantenere lo status quo. Aumentando gli accantonamenti necessari per operare sul mercato dei derivati, spiega un articolo di "Business Week", diminuiranno i quattrini da destinare agli investimenti. Secondo il settimanale, società quotate come la tedesca Siemens dovrebbero destinare a riserve un miliardo di dollari in più all'anno. E potrebbero essere danneggiati pure i piccoli investitori, visto che la società ha meno soldi per il proprio business. Ecco come si tagliano le unghie alle riforme che, all'apparenza, piacciono a tutti.

Intanto, la vituperata industria del derivato ha il vento in poppa: forse il 2009 non sarà da primato come l'anno scorso, quando il valore nominale di tutti i derivati aveva sfiorato il milione di miliardi di dollari, però già nella prima metà dell'anno eravamo a quota 445 mila miliardi, secondo l'International swaps and derivates association. Per Riccardo Bellofiore, docente di politica monetaria all'Università di Bergamo, il rischio di una nuova bolla finanziaria esiste per due motivi apparentemente semplici e sotto gli occhi di tutti: «Primo, la salute delle banche americane non è buona come appare, perché grazie alle garanzie pubbliche del piano Geithner sui titoli tossici, questi non sono iscritti a bilancio al loro effettivo valore di mercato; secondo perché la ripresa delle economie occidentali è stata sovradimensionata e si basa soprattutto sugli aiuti pubblici, cosicché molti soldi prestati a tassi molto bassi alle banche vengono usati per investimenti finanziari di tipo speculativo». A favorire le performance dei listini azionari, dunque, non è stata solo l'aspettativa di una ripresa economica, peraltro ancora difficile da pronosticare, specie in Europa: a pompare i rally che hanno fatto schizzare le quotazioni ha sicuramente contribuito la straordinaria dose di liquidità iniettata nel sistema dai governi e dalle banche centrali.

E si può ben immaginare che una buona parte di questi sussidi siano alla base di un'altra euforica categoria, quella dei prestiti obbligazionari, gli ormai famosi corporate bond. A ogni emissione, le richieste fioccano. A emettere sono società solide ma sull'esaltato mercato ci sono già almeno 114 miliardi di obbligazioni ad alto rendimento e basso rating, e dunque piuttosto rischiose. Ed è preoccupante la coincidenza del boom di emissioni di corporate bond proprio nell'anno in cui il tasso d'insolvenza cresce al galoppo. Secondo l'agenzia di rating Moody's, nel primo trimestre del 2010 l'incapacità di restituire il debito potrebbe schizzare al 12 per cento. L'anno scorso era solo allo 0,7 per cento. Numeri da tenere d'occhio, e che intanto ingrossano le fila del partito degli allarmisti.”

Vito Loops, sul Sole 24 ore del 6 novembre, fornisce un’analisi tecnica del rischio che il sistema va correndo:

“Il rischio di una crisi a W è possibile”. A paventare questa possibilità è stato, una settimana fa, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, secondo cui per evitarlo “non devono essere interrotte troppo presto le politiche anticrisi, di stimolo all'economia”.

A ciò si aggiunge che nelle stanze dei mercati finanziari aleggia il rumor di una nuova scossa di terremoto, la seconda in due anni dopo quella dei derivati sui mutui subprime.

Come mai? Ci sono almeno tre ragioni per vestire i panni di Cassandra.

1)  La crisi scoppiata nell’agosto del 2007 – ma che ha avuto l’epicentro nel settembre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers – è stata causata da uno sconsiderato impacchettamento degli strumenti derivati in stile matrioska. Ebbene, a quanto pare, la lezione non è servita. Il mercato dei derivati – scambiati nei circuiti over-the-counter  (quindi non regolamentati) – va a gonfie vele. Dalle ultime indicazioni dell'International swaps and derivates association si evince che se nel secondo semestre del 2009 il valore nominale dei derivati dovesse mantenere il trend della prima parte dell’anno (445mila miliardi di dollari) si superebbe la soglia raggiunta del 2007 (857mila miliardi) e ci si avvicinerebbe al record del 2008 (981mila miliardi). 

2)   Le banche stanno riportando bilanci positivi e utili in crescita. Ma le imprese che chiudono – a causa della chiusura del credito – sono in preoccupante aumento. Come si spiega tutto ciò? Semplice: gli istituti di credito non stanno dando il loro contributo per curare l’economia ma preferiscono fare i soldi da attività “non core”, in particolare dalle operazioni di trading (che diventano tanto più remunerative quanto più è sofisticato il sistema algoritmico su cui si basano). Allo stesso tempo nei bilanci delle banche sono stati attualmente “congelati” i titoli tossici nella speranza che acquistino valore in futuro. Quindi i numeri pubblicati potrebbero essere in parte anche “viziati”.

3)   Allo stesso tempo per evitare il collasso delle banche, molti Stati hanno aumentato esponenzialmente la leva del debito pubblico. Per restare in Europa, si stima che in tre anni tutti gli Stati più sviluppati avranno un rapporto debito pubblico/pil superiore al 120%.

4)  Questo dato si collega al preoccupante nuovo rincaro del prezzo del petrolio (che viaggia intorno agli 80 dollari al barile) che potrebbe far balzare l’inflazione al 2-2,5%  nel 2010. A quel punto per le banche centrali si porrebbe un dilemma. Alzare i tassi (contenendo le spinte inflazionistiche ma facendo impennare gli interessi da pagare sull’imponente debito) oppure rinunciare al comportamento di rigore sul fronte inflazionistico (che è il primo obiettivo statutario per gli istituti di credito all’ingrosso) dando una spallata alla ripresa economica in atto.”

Sul Sole 24 ore del 24 novembre (Finanza & Mercati) è riportata, infine, la confessione della banca centrale americana, che rivela la trappola nella quale essa si è andata a cacciare in seguito alla strategia inaugurata da Greenspan:

“Fino ad oggi lo avevano detto soltanto gli economisti, gli addetti ai lavori o le autorità monetarie di paesi stranieri come la Cina. Ora anche la Banca centrale americana lo ammette: i tassi d'interesse a zero «possono alimentare la speculazione nei mercati finanziari» e falsare le aspettative sull'andamento dell'inflazione. Nel «minute» delle riunioni del Fomc, il braccio di politica monetaria della Federal Reserve, tenutesi gli scorsi 3-4 novembre, si fa esplicito riferimento a questo rischio.

Questo non significa che la banca centrale americana intenda rialzare il costo del denaro che - si legge nel documento - rimarrà al livello attuale ancora a lungo. Almeno fintanto che le aspettative di inflazione rimarranno stabili e la disoccupazione continuerà ad aumentare. Ma con queste parole la Banca centrale Usa ha fatto chiaramente capire che è consapevole dei rischi.

La Fed, come la Bce, la Banca d'Inghilterra e le altre principali banche centrali in tutto il mondo, per far fronte alla stretta creditizia originatasi in conseguenza della crisi finanziaria, hanno messo in atto una politica di progressiva riduzione del costo del denaro. Una scelta obbligata quando i mercati crollavano e nessuno sapeva più che pesci pigliare.

Ma dopo che la tempesta è passata e i mercati hanno ripreso a crescere, in molti hanno iniziato ad approfittare di questa situazione. Con i tassi d'interesse a zero - è la tesi dell'economista Nouriel Roubini - gli investitori hanno preso in prestito denaro dove i tassi sono bassi (come negli Usa) per reinvestirli altrove. Sfruttando ad esempio il rally dei mercati emergenti (come quello cinese) o delle commodity (come l'oro e il petrolio). Questo, secondo l'economista, ha dato origine a una bolla nei mercati e ha contemporaneamente avviato la svalutazione del dollaro.”

2.

Se ci si chiede com’è possibile che, a distanza di poco tempo da un collasso le cui conseguenze sono state scongiurate solo dall’intervento massiccio, e per alcuni aspetti iniquo (nei confronti dei contribuenti), degli Stati, si stia configurando una nuova recidiva, basta tenere conto delle difficoltà che essi stanno incontrando nel realizzare la promessa fatta nel febbraio del 2008 di una regolazione dei mercati.

Su Affari&Finanza del 9 novembre 2009 Luigi Spaventa illustra il problema in questi termini:

“Mercati in bilico grandi bolle piccole riforme

Il Securities Act, all’origine della moderna regolazione dei mercati finanziari, annunciato da Roosevelt nel marzo 1933, fu approvato a fine maggio. Nel 2001, in reazione a grandiosi scandali societari come Enron e Worldcom, il Congresso varò in pochi mesi una legge di radicale riforma (e forse di inutile complessità). Oggi, a due anni e mezzo dall’inizio di una crisi che è stata di intensità e diffusione non minori di quella degli anni ‘30, e che ha costretto gli Stati di due continenti a sostenere le istituzioni finanziarie con erogazioni e affidamenti per migliaia di miliardi, non si saprebbero indicare interventi riformatori di pari portata.

Dopo l’urgenza iniziale, si ripetono elencazioni di routine delle cose che si dovrebbero fare (i Global Legal Standards di fattura domestica si sono lost in translation, come nel film); il Financial Stability Board si dedica a un impeccabile lavoro tecnico; il comitato di Basilea attende silenziosamente al rifacimento del precedente accordo che ha rivelato i suoi difetti. Il progetto di riforma dell’amministrazione, già incompleto alla nascita, si è arenato sulle secche del Congresso Usa. L’Europa riuscirà forse a varare un regolamento che riguarda non le regole ma l’assetto della supervisione. Con il superamento della fase acuta della crisi la forza delle cose ha esaurito la sua spinta: si respira aria di normalizzazione se non di restaurazione. Eppure al di là delle apparenze, qualcosa si è fatto. Il più da farsi trova ostacoli politici e suscita questioni irrisolte.

Qualcosa dunque si è fatto. Le stesse autorità il cui sonno aveva contribuito a creare le condizioni per la crisi si sono in parte redente con una gestione tempestiva del pronto soccorso impedendo il meltdown finanziario. Nell’emergenza l’azione di vigilanza è stata condotta con criteri e strumenti nuovi. Il rafforzamento del Financial Stability Board come organo del G20 pone la premessa per una sorveglianza collettiva sulla finanza globale. Si è finalmente intrapresa un’azione più decisa contro i paradisi fiscali e regolamentari. Tuttavia, per disegnare "un sistema finanziario più prudente, più stabile, meglio in grado di sostenere l’economia" (Draghi) il più resta da fare, e farlo non sarà né facile né immediato: servono da esempio tre questioni in cui interagiscono problemi tecnici e difficoltà politiche. Fra i contratti derivati, alcuni vengono scambiati su un mercato in cui le transazioni vengono compensate e poi regolate nei confronti di una controparte centrale. Altri vengono confezionati dalle banche "su misura" e sono negoziati con transazioni bilaterali. Nel secondo caso si accumulano ingenti posizioni lorde, che pongono a rischio la stabilità nel caso di fallimento di una delle parti (come avvenne per Aig, divenuta controparte di una enorme quantità di credit default swap, strumenti di assicurazione ma più spesso di scommessa sul rischio di fallimento di una società). Chiede il G20 che nella misura del possibile i derivati siano standardizzati e trattati su mercati ove operi una controparte centrale, o assoggettati a obblighi regolamentari più penetranti. L’attuazione di tali proposte ha sinora incontrato resistenza da parte delle maggiori banche per una ragione: la confezione su misura consente ricavi e profitti, che sarebbero cancellati da obblighi di produzione in serie; quei profitti intanto consentono negli Stati Uniti di conservare la benevolenza del legislatore.

Per assicurare una maggiore stabilità del sistema è necessario che i requisiti di capitalizzazione delle istituzioni finanziarie siano più esigenti per quantità e qualità del capitale, con riferimento alla leva finanziaria complessiva, alla struttura per scadenze di attivo e passivo, alla fase ciclica. Ma anche se i nuovi criteri fossero già definiti, non si potrebbe imporli da subito senza accentuare la stretta creditizia. Ma se non ora, quando verrà il momento giusto? Vi è poi una questione di fondo. Nel caso di una istituzione finanziaria, la dimensione rileva non solo sotto il profilo di tutela della concorrenza, ma a motivo delle conseguenze dirompenti sull’intero sistema finanziario che si verificherebbero se un’entità di grandi dimensioni fallisse. Come abbiamo verificato nel corso della crisi (in negativo con Lehman, in positivo in tanti altri casi) esistono in effetti banche TBTF, too big to fail. Ma per evitarne il fallimento deve intervenire la mano pubblica, con i soldi dei contribuenti. D’altra parte, i manager di una banca TBTF, nella virtuale certezza che vi sarà una rete di protezione, saranno indotti ad assumere maggiori rischi in vista di maggiori profitti: rischi tanto grandi da creare a volte quelle condizioni prefallimentari che richiedono infine l’intervento pubblico. Il problema non si pone nel caso di esercizio della tradizionale attività bancaria di operazione nel sistema dei pagamenti e di intermediazione del risparmio fra raccolta e impieghi, perché la regolazione e l’assicurazione dei depositi offrono un presidio valido di stabilità. Si pone invece quando la banca affianca all’attività tradizionale quella di investment banking, operando in proprio sui mercati e finanziandosi con raccolta a breve termine sui mercati all’ingrosso del credito e della moneta: in quest’attività risiede il pericolo per la stabilità finanziaria e le tasche dei contribuenti.

Come intervenire per prevenire i rischi e i costi delle banche TBTF, anche considerando che gli interventi operati durante la crisi hanno ridotto il numero e aumentato le dimensioni degli istituti sopravvissuti? Si ritiene a Basilea che bastino acconce misure prudenziali, come maggiori requisiti di capitale in relazione alla rischiosità delle operazioni o adeguate forme indirette di assicurazione. A giudizio del Governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn King quest’impostazione è insufficiente. "L’esistenza di istituzioni TBTF [non è coerente] con la loro appartenenza al settore privato", che presuppone la possibilità di fallimento. L’incoerenza può essere risolta solo con qualche forma di separazione, più o meno drastica, fra l’attività bancaria tradizionale, regolata e garantita dal potere pubblico, e attività di investment banking e negoziazione proprietaria, priva di qualsiasi garanzia pubblica in caso di liquidazione e lasciata alla disciplina del mercato. Gli argomenti di King sono sorretti dalle migliaia di miliardi che le banche TBTF sono sinora costate, anche se le obiezioni mosse alla sua tesi non sono trascurabili. Il nuovo disegno che si sta tracciando a Basilea sarà valutato in base all’efficacia della soluzione offerta al problema. Ma le vie del Signore sono tante, almeno in Europa. Mentre i banchieri ponderano, l’ottima Commissaria alla concorrenza Kroes ha ottenuto una drastica riduzione della dimensione di una banca olandese e di due banche inglesi ricorrendo ai suoi poteri in materia di aiuti di Stato e di tutela della concorrenza. Sono forse tempi più difficili di quelli di Roosevelt, quando vi era un deserto di regole, o di quelli di Enron, quando si trattò di sanzionare e prevenire fenomeni di delinquenza economica. Si tratta di decidere se un sistema finanziario divenuto di straordinaria complessità abbisogna solo di un penetrante restauro conservativo o richiede piuttosto interventi drastici e di difficile attuazione.”

Meno tecnico, ma forse più esplicito è Arturo Zampaglione, in un articolo pubblicato su Affari&Finanza alla metà di novembre:

“Wall Street, una corsa senza rete

Così le lobby stanno bloccando la riregulation della finanza

Sembra una corsa contro il tempo: da un lato ci sono i redivivi della speculazione finanziaria che, dimenticata la grande paura del settembre 2008, approfittano della debolezza del dollaro e dei tassi di interesse zero voluti dalla Fed per comprare asset rischiosi azioni, petrolio, commodity – i cui prezzi si stanno gonfiando rapidamente come una bolla. Quest’anno l’oro è aumentato del 44%, lo zinco del 50. L’economista Nouriel Roubini, che aveva previsto il collasso legato ai mutui subprime, torna all’attacco: denuncia la "madre di tutti i carry trade" (come vengono chiamate le operazioni che sfruttano il differenziale tra dollaro e altre valute) e avverte dei pericoli di uno scoppio fragoroso di questa bollabis quando la moneta americana tornerà a rafforzarsi.

Dall’altro lato si intensificano gli sforzi politici per mettere le briglie al potere finanziario ed evitare un altro incontro ravvicinato con la "crisi sistemica": il Congresso americano è al lavoro per una legge di riforma che dovrebbe, secondo gli orientamenti suggeriti dalla Casa Bianca, proteggere i piccoli investitori e imporre nuove regole per le banche troppo grandi per poter fallire. In cambio della garanzia di un aiuto pubblico, questi istituti sarebbero sottoposti a vincoli più severi, sia in termini di riserve di capitale che di assunzione di rischi. Chi vincerà la gara, gli speculatori o la politica? E come impedire che la formazione ed esplosione di un’altra bolla vanifichi gli sforzi (e gli investimenti pubblici) per la ripresa?

Sono interrogativi legittimi ma è inutile cercare una risposta a Wall Street, dove l’attività sembra tornata alla normalità, cioè agli eccessi di una volta (basta vedere le proiezioni dei bonus milionari di fine anno per rendersene conto). La comunità finanziaria ha un approccio diverso alla tematica delle bolle. Come ricorda George Soros, l’uomosimbolo della speculazione finanziaria, "i mercati tendono sempre a creare bolle": «Semmai sono le autorità finanziarie che devono assumersi la responsabilità di evitare che le bolle crescano a dismisura». La realtà è che, per definizione, la bolla garantisce ottimi risultati, almeno fino a quando continua a crescere. Proprio per questo nel passato Wall Street non ha mai prestato attenzione agli avvertimenti di Alan Greenspan sulla "esuberanza irrazionale" dei mercati, né ai pericoli di un crac immobiliare. Anche ora la maggioranza degli operatori sulla piazza americana è restia ad ammettere la presenza di una bolla. Perché? A differenza di pochi anni fa, il momento euforico del Dow Jones (che la settimana scorsa ha superato quota 10mila), dell’oro e di molti altri asset, non sarebbe alimentato da un ricorso eccessivo all’indebitamento. Il processo di deleveraging, riduzione della leva creditizia, continua a ritmi sostenuti, soprattutto nelle grandi banche, si può constatare dai bilanci trimestrali.

La seconda ragione per cui Wall Street è scettica sulla bollabis riguarda la posizione psicologica dei mercati. Il presidente di un gruppo di hedge funds newyorkesi spiega così quel che sta accadendo nel suo mondo: «Dopo la tempesta del 2008 immense masse di capitali a livello internazionale sono rimaste in disparte: spaventati dalla possibilità di perdere tutto, gli investitori si sono accontentati di impieghi tranquilli e a bassi tassi, come ad esempio il money market. Ma avendo visto quel che è accaduto in borsa dal marzo di quest’anno e soprattutto i primi, timidi segni di una ripresa, gli investitori cominciano ad essere attratti da operazioni con rendimenti e rischi più elevati. Però la paura non è passata del tutto. Tutt’altro: il nervosismo si taglia con il coltello, può bastare una increspatura per provocare un rientro tumultuoso dalle collocazioni poco tranquille». Si vive sulle falde di un vulcano attivo, la cui eruzione non è esclusa.

Resta il dubbio: cosa si aspetta per varare una riforma dei meccanismi della finanza capace di rasserenare gli animi e minimizzare le bolle? Non è già passato un anno dal primo incontro washingtoniano del G20 quando i venti leader mondiali promisero in coro una nuova "architettura" della finanza? Perché tanti ritardi? Soros avverte che per una riforma profonda e permanente, che limiti o metta al bando i prodotti derivati troppo rischiosi, bisogna aspettare che la situazione economica globale si normalizzi. Un passo avventato, aggiunge, potrebbe ritardare i tempi della ripresa. Ma i ritardi sono soprattutto legati alle polemiche e divisioni sulle misure da adottare. Due personaggichiave dell’economia mondiale – l’expresidente della Fed Paul Volcker, tra i consiglieri di Obama, e il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King – sono convinti che bisogna tornare alla separazione delle banche per tipo di attività: quelle commerciali, che prendono i depositi della gente e concedono prestiti, non dovrebbero avventurarsi in speculazioni rischiose, come è accaduto ai tempi dei subprime; le banche di investimento avrebbero invece mano libera, ma non potrebbero contare, in caso di difficoltà, sulla ciambella di salvataggio del governo. Volker e King (cui si è aggiunto Greenspan) auspicano il ritorno alla GlassSteagall, la legge che nel 1935 impose la divisione tra istituti finanziari, abolita alla fine degli anni 90.

Rafforzati dal voto della settimana scorsa, i repubblicani non hanno intenzione di seguire la strada indicata dai due banchieri: sostengono che il mondo è cambiato e che la concorrenza internazionale impone alle banche un approccio più flessibile e dinamico. Anche la Casa Bianca e il ministro del tesoro Tim Geithner sono sostanzialmente su questa linea. Non chiedono la separazione, ma pretendono regole più severe per le banche "too big to fail". Ed è questo il senso di due progetti di legge che procedono alla Camera, su iniziativa del presidente democratico della commissione bancaria Barney Frank, e al Senato su iniziativa dell’omologo Chris Dodds. Nei prossimi giorni si conosceranno ulteriori dettagli sui due piani. Tra i punti centrali ci saranno la creazione di una agenzia finanziaria per la protezione dei consumatori (osteggiata dai repubblicani) e l’imposizione di norme più rigide per le banche in termini di capitali di riserva, di disincentivi per speculazioni troppo rischiose e di poteri governativi in caso di crisi. Il Tesoro dovrebbe essere in grado (a differenza di quanto accadde con Lehman) di commissariare una banca in difficoltà, evitando un fallimento disordinato e con la possibilità di venderne gli asset.

A sentire le vecchie volpi del Congresso ci vorranno molte settimane prima che una riforma simile venga approvata. Obama avrebbe voluto ratificare la legge entro la fine del 2009, ma le pressioni dei lobbyisti, le divisioni interne e l’accavallamento di altri progetti (come quello della sanità), faranno slittare la data all’inizio dell’anno prossimo. Sarà troppo tardi per evitare lo scoppio della bollabis alimentata dal "carry trade" del dollaro? Forse sì, rispondono molti analisti, ma non per l’assenza di una riforma: perché in questa fase la speculazione non è trainata da Citigroup, Bank of America e dalle altre grandi banche: è invece la politica della Fed ad alimentare l’euforia dei mercati. Fin tanto che i tassi rimarranno quasi a zero (e la Fed ha promesso la settimana scorsa di lasciarli così fino al consolidamento della ripresa), l’indebitamento in dollari sarà conveniente e favorirà il "carry trade" paventato da Nouriel Roubini.”

Il problema è che la forza degli Stati urta contro il gigantismo delle Banche e delle Industrie, che sono troppo grandi per fallire, ma anche troppo grandi per essere assoggettate ad una regolazione ragionevole delle loro attività.

Rony Hamaui, su Affari&Finanza di metà novembre, illustra nei seguenti termini la situazione

“Il mito del gigantismo costruito sui debiti

Gran parte delle analisi concernenti la recente crisi economica, così come i rimedi proposti, hanno riguardato il sistema finanziario ed in particolare le banche, mentre le imprese industriali sono state, il più delle volte, considerate vittime sacrificali. A ben guardare, tuttavia, molti dei problemi emersi hanno interessato, seppure in maniera più marginale, anche le imprese non finanziarie. Così la distinzione fra vittime e carnefici risulta meno evidente di quel che a prima vista può apparire. Vediamo perché.

In primo luogo anche le imprese non finanziarie negli ultimi anni hanno vissuto nel mito del gigantismo e della globalizzazione a tutti i costi, il più delle volte, perseguito a colpi di fusioni e acquisizioni. Così anch’esse in alcuni casi sono diventate "too big to fail", troppo grandi per fallire, ed hanno goduto della protezione e degli aiuti pubblici.

Tipico, a questo proposito, il caso dell’industria automobilistica, dove ragioni sociali hanno indotto i governi di tutti i paesi a sostenere in qualche modo la loro sopravvivenza. Questo crea ovviamente un problema di azzardo morale giacché il sistema finanziario tende a finanziare più volentieri le grandi imprese per le quali la probabilità di default risulta più bassa. In altre parole la crescita delle banche è andata di pari passo con la crescita delle principali imprese multinazionali ed anzi è risultata ad essa sinergica. Quante volte, anche in Italia, abbiamo sentito dire che le banche avrebbero dovuto accompagnare le imprese nel loro processo di internazionalizzazione.

In secondo luogo anche le imprese hanno negli anni aumentato il loro indebitamento e quindi la loro leva finanziaria. Operazioni di pay back e distribuzioni di dividendi si sono accompagnate ad acquisizioni finanziate a debito, mentre i fondi private equity hanno fatto aumentare notevolmente il grado di leva di molte aziende che oggi si trovano in difficoltà. Da questo punto di vista anche la teoria economica ha favorito la cultura del debito, poiché molti autori hanno sostenuto che l’indebitamento accresce la pressione sui manager e riduce le tentazione ad una scorretta allocazione delle risorse. Pertanto il grado di leva del sistema finanziario è andato di pari passo con il grado di leva del sistema industriale ed è risultato ad esso sinergico: le banche prestavano molto a chi voleva indebitarsi molto.

Per quanto riguarda poi l’ammontare ed il sistema di remunerazione dei manager, il settore non finanziario, soprattutto delle grandi imprese, non ha nulla da invidiare a quello finanziario. Short terminis ed incentivi ad assumere troppi rischi sono tratti comuni ad entrambi i settori. La cosa dall’altra parte appare piuttosto logica se si pensa che il mercato del lavoro dei manager delle grandi imprese è diventato anch’esso sempre più globalizzato ed intergrato.

Infine, appare interessante osservare quello che sta accadendo sul fronte dei derivati over the counter, cioè non negoziati in un mercato regolamentato. Infatti, tutti i tentativi che le autorità stanno facendo per regolamentarli, ad esempio istituendo una controparte centrale che attenui i rischi sistemici, sta trovando una compatta resistenza sia da parte delle principali banche che delle più importati società finanziarie. Le prime, preoccupate di perdere gli ingenti profitti che queste attività producono e le secondo che temono i costi finanziari che saranno costrette a sopportare nel caso dovessero versare margini giornalieri alle "clearing house" a seguito dei movimenti dei prezzi delle attività sottostanti. Anche in questo caso grandi banche e imprese non finanziaria si trovano sullo stesso lato della barricata.

In conclusione ritenere che le grandi banche siano la principale se non l’unica causa dell’attuale crisi finanziaria risulta riduttivo e forse fuorviante. Grandi imprese finanziarie e non hanno invece giocato un gioco cooperativo spesso ai danni degli Stati. Questi d’altra parte hanno sempre difeso i campioni nazionali di tutti i settori. Forse in cambio i governi ricevono benefici di ordine finanziario e soprattutto non finanziario che sarebbe interessante qualificare ed eventualmente quantificare.

Pertanto come recita l’ultima aria dell’opera di Mozart "Fortunato l’uom che prende ogni cosa pel buon verso e tra i casi e le vicende da ragion guidar si fa".

(il testo integrale su www.lavoce.info)

A fine novembre, Luigi Spaventa torna sulla sua analisi per confermarla dopo lo scoppio della bolla di Dubai:

“La bolla di Bengodi

È opportuno riallacciare le cinture di sicurezza: si stanno manifestando condizioni favorevoli a rinnovate turbolenze, che porranno problemi difficili alla politica monetaria.

Superata l´emergenza massima della crisi finanziaria, grazie a un´azione decisa ed eterodossa delle banche centrali, si confidava nella possibilità di perseguire un cammino difficile, ma sicuro: graduale riduzione dell´indebitamento delle famiglie nei paesi affetti da bolla immobiliare; graduale riduzione della dimensione dei bilanci bancari, purgati dall´eccesso di finanza e di leva finanziaria; graduale riduzione della somministrazione illimitata di ossigeno da parte delle autorità monetarie; e poi (ma solo poi) le Grandi Riforme, a cui intanto si lavora. A tavolino questo percorso lo si disegna bene; nella realtà pare assai meno lineare, deviato forse proprio dalla persistenza delle misure che hanno impedito il collasso.

Non avendo ancora le banche centrali iniziato una "strategia d´uscita" dalla provvista illimitata di liquidità, per il timore di strozzare una ancor timida ripresa, oggi le istituzioni bancarie possono approvvigionarsi di mezzi a un costo fra lo zero e l´uno per cento. Senza doversi impegnare in prestiti al settore reale, di cui vi è poca domanda e che sono comunque più rischiosi, vi è la possibilità di impieghi in attività finanziarie con rendimenti ben più alti di quelli della provvista: non solo obbligazioni societarie, ma anche titoli pubblici di massimi emittenti, quelli timbrati con tripla A, che, pur se cari, assicurano un margine di tutto rispetto. I profitti crescenti delle banche, che suscitano tanto scandalo, sono garantiti proprio dalle politiche economiche. È un articolo di fede (e anche un articolo del Trattato di Maastricht) che il debito pubblico non debba essere finanziato con moneta. Ma che altro stanno facendo governi e banche centrali? I primi, in conseguenza della recessione e per pagare i provvedimenti di stimolo, stanno indebitandosi a ritmi superiori finanche all´Italia dei tempi più bui e in dimensioni assolute ben maggiori; le seconde danno soldi quasi gratis alle banche affinché queste, con un buon guadagno, si comprino il debito emesso dai governi. Ma il buon guadagno di oggi, e quello su altri titoli di reddito fisso, diverrà una perdita in conto capitale se per l´una o per l´altra di molte ottime ragioni i tassi di interesse cominceranno a salire.

Notano compiaciuti gli operatori che torna finalmente quel che essi chiamano "appetito per il rischio" (quello che, divenuto bulimia, indusse gli investitori a mangiare quantità spropositate di funghi velenosi). E così, si tirano fuori i soldi dal materasso spingendo al rialzo al tempo stesso il mercato obbligazionario e anche quello azionario, pur se non è affatto certo che la ripresa sia qualche cosa di più di un rimbalzo. Ma in Asia si fa di più. Come notava con grande preoccupazione Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, in Cina soprattutto, ma anche in altre economie del Sud Est, insieme alle quotazioni delle azioni, si sono impennati di nuovo i prezzi delle proprietà immobiliari. Sale il prezzo dell´oro. Persistendo condizioni monetarie permissive, potranno seguire anche le materie prime e i prodotti alimentari.

Questi sintomi di rinnovata fragilità sono oggi più preoccupanti, perché le probabilità di shock avversi sono ancora alte. Non tutte le banche hanno eliminato i veleni passati; alcune stanno accumulando posizioni di gravi sofferenze sui nuovi crediti concessi. Come mostra l´esempio della quasi-insolvenza del Dubai (uno di quei ridenti emirati esaltati dal nostro Presidente del Consiglio per la loro capacità di costruire isole ed erigere grattaceli in un anno, ma che con pari velocità hanno accumulato debito), gli effetti della sbornia immobiliare non sono ancora smaltiti. Qualche botta così e l´appetito tornerà anoressia, con conseguenze pericolose sul sistema.

È tempo, da subito, che le grandi banche centrali cambino spartito e comincino a stringere le condizioni monetarie, operando direttamente sulle quantità oppure sui tassi d´interesse, o disciplinando alcuni segmenti del credito. Dovrebbero farlo insieme, e in stretto coordinamento nella fissazione degli obiettivi e nell´uso degli strumenti. Altrimenti si aggraverebbero le condizioni di turbolenza valutaria che già si manifestano: una maggiore stretta in Europa a cui non se ne accompagnasse una negli Stati Uniti rischierebbe di provocare un collasso del dollaro.

In questa situazione, il compito delle autorità monetarie si fa più difficile. Durante la crisi era evidente in quale direzione si dovessero muovere; e lo hanno fatto ottimamente. Oggi la navigazione si fa più complicata.”

Esiste una possibilità di porre fine all’egemonia del potere economico su quello politico? Esiste, ma essa comporta una decisione drastica che è stata avanzata da un insospettabile capitalista. La illustra, su Affari&Finanza di fine novembre, Enrico Franceschini:

“Il j’accuse di Turner, l’eretico della City

Socialmente inutile. Due parole calate come bombe sulla City, provocando una deflagrazione di cui si raccolgono ancora i cocci. Non le ha pronunciate un nemico del maggiore (insieme a New York) centro finanziario del mondo, bensì uno dei suoi bramini: lord Adair Turner, presidente della Financial Services Authority, l’agenzia governativa che controlla il settore. Un cavaliere del libero mercato che si definisce "un capitalista liberale socialmente impegnato". Tre mesi dopo la sparata di Lord Turner contro lo Square Mile, la tempesta non è passata. Il governo continua a indebitare i contribuenti per salvare le banche e rilanciare l’economia, con un pensierino alle elezioni legislative della primavera prossima.

Tutti concordano sulla necessità di una riregulation, dal cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling al suo possibile successore, il conservatore George Osborne. Sir David Walker, l’exbanchiere d’investimenti incaricato da Downing street di riesaminare i compensi dei banchieri, promette di mettere fine alla "cultura da club per vecchi gentiluomini" che pervade la cittadella della finanza. Dove, come a Wall Street, bonus, caviale e champagne hanno ripreso a scorrere. Nulla però ha scosso le fondamenta la City come il "j’accuse" di lord Turner. Il capo della Fsa ha detto due cose: il settore finanziario è stato "gonfiato" da decenni di deregulation e cultura del rischio; per sgonfiarlo bisogna imporre alle banche una nuova tassa. Tassare banche e banchieri sul loro giro d’affari? I banchieri hanno tremato come se un redivivo Karl Marx fosse calato sulla City alla testa di colonne di bolscevichi. Il secondo ragionamento di lord Turner ha confermato l’impressione: la City è cresciuta troppo rispetto alle dimensioni dell’economia risucchiando le delle menti più brillanti della nazione verso lavori "socialmente inutili". Altro che lord, solo un comunista potrebbe parlare così! Ma il Financial Times, non certo un covo di comunisti, dà ragione a Turner. La City è un pilastro della Gran Bretagna, osserva il quotidiano, e aiuta il paese a mantenere una supremazia mondiale nell’era della globalizzazione. Ma è innegabile che le banche «stavano usando denaro per fare soldi con un sistema da casinò che non ha obiettivi socialmente utili. Londra non può affidare la propria sopravvivenza come centro finanziario alla disponibilità dei contribuenti di indebitarsi per tenere a galla le sue banche».

2.

In questo panorama, già sufficientemente inquietante, si iscrive la “crisi” del dollaro, moneta che ha retto l’economia mondiale dal dopoguerra in poi. Si tratta in realtà di una crisi pilotata dagli Usa, come risulta chiaro dal seguente articolo di Paolo Pontoniere, pubblicato su Repubblica ai primi di novembre:

“Re dollaro non comanda più

Negli ambienti monetari internazionali circola un nuovo neologismo: 'dollar declinism', il declinismo del dollaro. Lo hanno coniato gli esperti valutari per descrivere la tendenza al ribasso della moneta statunitense dall'inizio della ripresa. Valuta di riferimento indiscussa a livello internazionale, e giusto qualche mese fa rifugio prediletto di coloro che cercavano di sfuggire alle incertezze della Grande Recessione, il 'greenback' è diventato il paria dei mercati valutari internazionali. In meno di sei mesi si è deprezzato del 12 per cento, scendendo del 40 per cento rispetto ai valori che esprimeva nel 2002, anno in cui registrò il massimo storico contro l'euro. Oggi un euro vale quasi un dollaro e 50 centesimi, e secondo Steve Englanders, stratega monetario della Barcalys Capital, entro la fine dell'anno ne varrà uno e 55. E questo a dispetto delle dichiarazioni a favore di un dollaro forte proferite dalla Casa Bianca.

La velocità con la quale sono mutate le fortune della valuta statunitense spinge alcuni economisti a pronosticare una prossima destabilizzazione degli equilibri monetari internazionali. C'è anche chi, come il Nobel per l'economia Paul Samuelson, teme che ci si trovi di fronte ad una manovra speculativa diretta a causare l'abbandono precipitoso e sregolato della moneta statunitense da parte dei maggiori operatori finanziari mondiali. "Potrebbe trattarsi di un assalto al dollaro", sintetizza Samuelson. E a osservare i dati, ci sarebbe quasi da dargli ragione. Il greenback, che ormai rappresenta il 63 per cento delle riserve valutarie mondiali, sembra aver perso il lustro di moneta di riserva per antonomasia che deteneva dalla fine della Prima guerra mondiale. "Allora il dollaro era preferito all'oro", ricorda Samuelson: "Non solo era più richiesto, ma pagava anche gli interessi".

Secondo Gary Schlossberg, manager dei Wells Capital Fund, uno dei principali fondi di investimento Usa, il problema del greenback è proprio quello: non paga praticamente interessi. Come se non bastasse poi l'amministrazione Usa continua a stamparne a miliardi per finanziare il suo piano di rilancio economico, incrementando così le tendenze inflazionistiche del mercato e spingendo paesi come la Cina, che tra le sue riserve annovera oltre 800 miliardi di valuta statunitense, e le altre economie emergenti a rivedere la loro relazione con la moneta americana.

"La fuga dal dollaro è un effetto diretto della politica economica americana", spiega Schlossberg: "Tassi di interesse inesistenti e un crescente disavanzo della spesa pubblica non creano certamente un clima di fiducia nei confronti della nostra moneta. I partner commerciali non sono disposti a sostenere all'infinito il nostro deficit mettendo a rischio le loro esportazioni e il valore delle loro riserve, e così hanno cominciato a diversificare. Stanno acquistando più euro, più yen e anche più dollari australiani".

Nell'ultimo trimestre la quota delle riserve valutarie denominate in dollari è diminuita del 2,2 per cento, il calo più significativo dal 2002, quando scesero per la prima volta al di sotto della soglia del 70 per cento. Oggi un mero 37 per cento delle nuove riserve monetarie via via accantonate è in dollari (nel 1999 la quota superava il 63 per cento).

Secondo dati resi noti dalla Merrill Lynch, da marzo di quest'anno i paesi emergenti hanno trasformato una media mensile di 30 miliardi di dollari in euro e yen. "Siamo di fronte a una compressione valutaria di lunga durata, determinata soprattutto dall'enormità del deficit pubblico statunitense", afferma Stephen Roach, numero uno della Morgan Stanley Asia: "Per finanziare la ripresa, gli Usa dovranno continuare a stampare denaro, e così il dollaro rimarrà debole per anni a venire".

Un'eventualità questa che preoccupa non poco paesi come il Giappone, la Germania e le altre nazioni europee i cui prodotti perdono terreno nei confronti di quelli americani che, grazie al deprezzamento del dollaro, adesso sono meno costosi.

Ne sanno qualcosa per esempio aziende come la Toyota e la Airbus, i cui prodotti dallo scorso aprile costano in media un 11 per cento in più. "L'apprezzamento dello yen è un evento doloroso", ha dichiarato di recente Yukitoshi Funo, amministratore delegato della compagnia giapponese, mentre Fabrice Bregier, che guida la società aeronautica europea, ha definito 'difficoltoso' il clima commerciale creato dall'apprezzamento dell'euro.

Anche i cinesi, che sono tra i maggiori finanziatori del deficit Usa, non hanno mancato di rimarcare la loro scontentezza con la politica di grandi spese pubbliche e di tassi di interesse inesistenti promossa dall'amministrazione Obama. "I paesi che emettono le valute di maggior peso internazionale dovrebbero considerare le implicazioni della loro politica monetaria, sia sul piano interno che su quello internazionale", ha ammonito il presidente cinese Hu Jintao al recente G20 di Pittsburg. "Dovrebbero tenere conto della necessità di stabilizzare i mercati finanziari internazionali", ha concluso Jintao, accusando implicitamente gli Usa di perseguire solo il proprio tornaconto.

E infatti, sostenuto dal rafforzamento delle esportazioni, il disavanzo della bilancia commerciale statunitense si è ridotto nell'ultimo trimestre del 2,9 per cento. Anche il recente rally di Wall Street, con l'indice Dow Jones che ha superato la soglia dei 10 mila punti, e il rilancio dell'industria manifatturiera americana, possono essere fatti risalire all'indebolimento del dollaro.

"Basta guardarsi attorno nei centri commerciali per capire che ai negozianti americani il deprezzamento del dollaro fa bene", dichiara Colin Healy, analista della HighTower Advisors, un fondo di investimento dal valore di 15 miliardi di dollari: "Sono pieni di canadesi ed europei che spendono a man bassa". Healy nota inoltre che, dal momento che le più grandi imprese Usa realizzano oltre il 40 per cento dei loro fatturati all'estero, il crescente divario che corre tra il valore del dollaro e le principali monete internazionali si trasforma in un moltiplicatore di guadagni. Una volta riportati negli Stati Uniti, i ricavi realizzati all'estero sono infatti automaticamente incrementati dalla conversione in dollari. Così, dalla Caterpillar alla Trw Automotive Holdings, dalla Intel alla Walt Disney - tutte aziende con una forte presenza estera - le grandi multinazionali stanno superando le aspettative degli analisti proprio grazie alle rimesse estere.

Tutto questo fa ingrossare le fila di coloro che vogliono trovare un'alternativa al dollaro. A marzo il premier cinese Wen Jiabao aveva suggerito di sostituire il dollaro con gli 'Sdr', gli special drawing rights, l'unità valutaria nella quale sono denominate le obbligazioni emesse dal Fondo monetario internazionale. Un misto di dollaro, euro, sterlina e yen, gli Sdr sono più un escamotage amministrativo che una moneta vera e propria. All'inizio di ottobre aveva poi fatto scalpore la notizia (smentita dagli interessati), che arabi, cinesi, russi, giapponesi e francesi avevano approntato un piano segreto per sostituire il dollaro nelle transazioni petrolifere con un paniere di monete che oltre all'euro e allo yen avrebbe incluso anche lo yuan, l'oro e infine una futura moneta unica degli Stati del Golfo Persico.

Di recente anche il presidente della Banca mondiale, lo statunitense Robert Zoellick, ha espresso una certa impazienza verso la politica monetaria Usa. "Gli Stati Uniti fanno male a comportarsi come se il predominio del dollaro fosse un fatto inevitabile", ha ammonito Zoellick.

Ma la caduta della valuta americana non presenta solo aspetti negativi. Anzi, alcuni sostengono che si tratti di un fattore positivo per l'economia internazionale. Tra questi figura George Koo, consigliere della Las Vegas Sands Corp, multinazionale da 10 miliardi di dollari di fatturato e sostanziosi investimenti in Asia. "Il declino del dollaro costringe l'economia globale a riallinearsi e spinge quella statunitense verso la produzione di beni per l'export e per la riduzione delle importazioni", afferma Koo: "Del resto, dalla recessione internazionale non si esce cambiando semplicemente moneta di riferimento".

Una massima popolare americana sostiene che bisogna badare a quello che si desidera, perché c'è il rischio che lo si possa ottenere. Il declino del dollaro sembra appartenere a questo genere di eventi. Favoleggiato a lungo da detrattori e speculatori adesso è alle porte, ma il mondo non dispone di un'alternativa credibile.”

Basta aggiungere un altro fatto per rendere la crisi compensibile: l’apprezzamento dell’oro, direttamente proporzionale al deprezzamento del dollaro. Ne parla, con il consueto tono garbato ed acuto, Giorgio Ruffolo su Repubblica del 12. 11. 09

“Il prezzo di un simbolo

È vero che tutto tende all' oro, come dice Goethe, «possente e risplendente»? Oppure l' oro è «lo sterco del diavolo» come pretende Lutero? La sua è un' «empia ed esecrabil fame», come è bollata nell' Eneide di Virgilio ( auri sacra fames )? Oppure, quando l' oro parla, come dice Erasmo da Rotterdam, l' eloquenza è priva di forza? Sta tornando nelle viscere della terra, come prevedeva Maynard Keynes, «dopo essere assurto nell' alto dei cieli, come il sole e la luna»? Oppure circola impetuosamente, come oggi capita, alla luce del sole, nell' ordine dei trilioni di dollari al giorno? Osannato o maledetto, l' oro sembra imprescindibile. È stato sempre così? Certamente no. Ci sarà stato pure un tempo in cui il selvaggio giocava a pepite con i suoi piccoli. Ma per quanto noi spingiamo lo sguardo nel fondo della storia scorgiamo il bagliore dell' oro su qualche altare o in qualche collana preziosa. E ce n' è ancora sotto terra, forse, venti o trenta miliardi di tonnellate, che aspettano di passare dai forzieri della crosta nelle caverne delle banche. Quel che è certo è che solo di recente, insomma, al tempo di Creso, l' oro ha cominciato ad essere usato come moneta. La sua sacralità è molto più antica. E, a quanto pare, le sopravviverà. Perché l' oro snobba la moneta, anche se quest' ultima si è fatta di carta per avvolgerlo. Fu quel tale scozzese che si macchiò di quello sgarbo, quel John Law, economista spadaccino. I cinesi l' avevano fatto prima di lui, ma erano ancora lontani. E allora avvenne il miracolo. Avvenne che la carta, che avrebbe dovuto sostituirsi all' oro come unità di conto e mezzo di pagamento, gli subentrò anche come riserva di valore. La carta? Ma, dicevano, non vale niente! Eppure: stampaci su la Regina d' Inghilterra e varrà tanto oro quanto non pesa. Ecco il gioco di prestigio.

Questo è il peccato originale della moneta moderna: la promessa dell' oro, il debito di un intero paese, in oro. Ma chi ci casca? Tutti. E tutti si mettono a tesoreggiare pezzi di carta: quando si dice che l' economia è una cosa seria! Così si ritira moneta dalla circolazione. E si ha sempre bisogno di nuova moneta da immettervi. Si chiama liquidità. La forniscono le banche. La fornisce lo Stato. Tutto si fa in nome dell' oro. E in effetti, per lungo tempo si emetterà moneta di carta ma sulla base di una certa proporzione aurea. Poi, quando la moneta dominante, per tante ragioni, diventa il dollaro, gli americani si rifiutano di convertirlo in oro. L' oro, dicono: fateci un po' quel che volete. Ma allora su che cosa si regge la moneta? Fiat money: sulla volontà di Dio? Piuttosto, sulla fiducia: che è tutto e niente. C' è qualcuno, un piccolo uomo d' affari tedesco, si chiama Silvio Gesell, che avverte: non potete accumulare ciò che non ha alcun valore. Bisogna impedire questa truffa. Bisogna apporre sulle monete di carta, ogni anno, un bollo che le svaluta. In tal caso nessuno le accumulerà e si accumuleranno invece beni reali, investimenti veri, ricchezza autentica. Ma nessuno lo sta a sentire. Così, si stampa sempre più moneta finanziaria, cioè debiti: moneta che sta per oro; titoli che stanno per moneta, derivati che stanno per titoli. Si instaura la legge Ponzi.

I debiti si pagano con i debiti. Dice un economista francese: il capitalismo è diventato il solo sistema in cui i debiti non si rimborsano mai. Un po' come le onde presso la riva. Si accavallano l' una sull' altra. Finché però appare la riva. Inevitabile. E le onde vanno a sbatterci sopra. E il denaro va restituito. E gli sciocchi si devono separare dal loro denaro. E i poveri disgraziati dal loro lavoro. Ma che c' entra l' oro? C' entra, perché è in quei momenti che l' economia ha bisogno di aggrapparsi a qualche cosa che non siano le scommesse delle banche. Se non ci si fida più della Regina, o dell' impegno politico della democrazia, ci si rifugia nel rassicurante splendore dell' oro. Avranno ragione l' Ocse e il Fondo Monetario. Avrà anche ragione Berlusconi: la ripresa è lì alle porte: ma vuoi mettere un bel gruzzolo di monete gialle? Sulle monete d' oro ci sarà pure il ritratto della Regina. Ma sul verso c' è scritto: non mi fido. La potenza vera dell' oro è la sfiducia. È la sua riserva aurea. Quando ancora la guerra non era finita e tutto l' oro si era rifugiato nelle cave del Forte Knox, in America, Maynard Keynes, il nemico dell' oro, propose di farne a meno realmente: altro che gold standard: un political standard, un accordo mondiale che generasse una moneta mondiale, fatta di puro spirito, di volontà politica. Forse per sfottere un po' i banchieri, la chiamò Bancor. Non era una moneta vera, era una moneta di conto. Non doveva vederla nessuno. E infatti nessuno la vide. La moneta ben visibile era diventata il dollaro, il vincitore. Che ben presto si sbarazzò dell' oro. E tutto sembrò finito e Lutero pacificato. Ma non era così. Gli americani, per troppa avidità, persero il controllo della liquidità, prestarono soldi a tutti, soprattutto a sé stessi. E ai cinesi, che cominciarono a dubitare del dollaro e a ricordarsi di Keynes e della sua proposta. Intanto, ci sono i cinesini di casa nostra, che non si fidano e ammucchiano lo sterco del diavolo. L' ho fatta un po' troppo semplice? Può darsi.”

No, Ruffolo non l’ha fatta semplice. L’oro che vola sembra una panacea, come illustra Angelo Aquaro su Repubblica dell’11 novembre 2009:

“Oro sempre più su e la Cina accelera

L'oro vola e le Borse chiudono in rialzo, tira la Cina ormai fuori dalla crisi e in Europa respira la Gran Bretagna che vede crescere i consumi (+3,8%) e rallentare la disoccupazione (12.900 in più, il minor aumento dall'aprile 2008). Ma mentre Barack Obama vola in Asia, l'incognita numero uno dell'economia mondiale continua a essere l'America. Proprio quando da Tokyo il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner ribadisce la necessità di «conservare un dollaro forte», premessa «importante» per attuare «politiche negli Usa che possano sostenere l'economia globale», il biglietto verde torna ai minimi degli ultimi 15 mesi sull'euro, scambiato a 1,5027. Non bastano le promesse di Pechino, confortata dalla crescita di produzione (+16,1%) e vendite al dettaglio (+16,2%), di rendere col tempo la propria moneta più flessibile sganciandola dal dollaro per tornare al meccanismo del paniere di divise. Geithner ha detto di «apprezzare» l'apertura cinese, ma con l'oro che a New York tocca il massimo di 1.119,10 e a Londra tocca il prezzo massimo di 1.117,82 dollari l'oncia, è il bene rifugio a tenere ancora banco. La Fed insiste, i tassi resteranno bassi ancora per molto, Wall Street apre in rialzo e le Borse europee (spinte anche dai buoni dati delle trimestrali) colgono il segnale (Milano +1,1%, Londra +0,69%, Francoforte +0,98%, Parigi +0,76%). Ma se sulla carta la ripresa si intravede, negli Usa l'allarme resta alto. Mentre il paese è mortificato dalla disoccupazione record, i colossi di Wall Street stanno rapidamente recuperando terreno innescando nuove polemiche sui superbonus dei manager. Proprio sbandierando a pretesto la scure dello zar degli stipendi Kenneth Feinberg, ieri Bob Benosche, il Ceo di Aig, ha minacciato di lasciare: sarebbe il quinto manager del colosso - ormai a furia di aiuti statalizzato all'80 per cento - a gettare la spugna. Il clima è pessimo. Il processo intentato dallo Stato contro due ex manager di Bear Sterns, accusati di aver mentito agli investitori nascondendo il baratro che stava per aprirsi, si è concluso con due assoluzioni: i conti con la recessione non si faranno, per ora, per via giudiziaria. Ma è l'intero sistema sotto choc dopo che il capo della commissione al Senato, Christopher J. Dodd, ha svelato il piano di riforma: un vero benservito alla Federal Reserve, esautorata dai compiti di supervisor del sistema bancario, affidati a un organismo di nomina governativa. Una mossa radicale e populista (la Fed è accusata di non aver dato l'allarme-recessione per tempo) con cui il senatore cerca di farsi bello in vista delle elezioni di midterm in cui i democratici rischiano. Un piano che scavalca, e di molto, a sinistra il disegno di revisione obamiano del sistema (il presidente pensa soprattutto a un meccanismo di difesa dei consumatori). Il telefono di Ben Bernanke si è fatto incandescente, l'uomo riconfermato da Barack ha fatto il giro del Congresso (alla Camera il piano stilato da Barney Frank sembra più favorevole) per cercare una via d'uscita. Ma la partita che deciderà le sorti dell'economia mondiale è appena cominciata.”

Nessuno può capire dove il mondo sta andando a livello mondiale. Una sola cosa è certa. Gli Stati Uniti, che sono stati l’epicentro sciagurato della crisi, sono decisi a conservare la loro egemonia economica a qualunque costo, quindi anche al costo di fare indebolire ulteriormente il dollaro e di continuare ad inondare il sistema di liquidità, mantenendo i tassi di interesse praticamente a zero.

Possono farlo perché la Cina è una riserva formidabile di dollari, e dovrà sostenere in ogni modo il biglietto verde, e perché i Paesi europei, oltre alla Cina, pur trovando delle difficoltà, identificano ancora nel mercato statunitense il maggiore importatore.

Si potrebbe ritenere lecito che una nazione in crisi come gli Usa, che rischia di precipitare sotto il peso del debito pubblico, aggravato dai consistenti aiuti forniti alle Banche e alle Assicurazioni, cerchi di proteggersi come può. Il problema, però, non è questo. Oltre che difendere se stessa, l’America difende il sistema economico capitalistico che ha adottato da sempre, su cui si è fondata la sua egemonia, e che essa ha contribuito ad avviare verso una crisi che ha qualcosa di irreversibile.

La verità è che si tratta di un sistema ormai “drogato”: se si cerca di regolarlo, rischia di collassare; se, viceversa, lo si asseconda, produce bolle sempre più pericolose.

Su che cosa confida l’America? Sul fatto che il resto del mondo adotti la stessa logica che essa ha adottato per fronteggiare la crisi. La logica è che laddove un’istituzione economica sull’orlo del collasso è troppo grande per fallire, nessuno può permettersi di farla fallire senza pagarne le conseguenze. In questo caso, però, l’istituzione in questione non è una banca, ma una nazione la più potente al mondo.”

4.

I termini del problema sono chiari. L’America non accetta il suo declino e, dato che la sua egemonia negli ultimi trent’anni si è fondata sul modello neoliberista del Capitalismo, non intende rinunciare ad esso, a qualunque costo. Non ci si può meravigliare di questo. Fin dalle sue origini, l’America ha identificato se stessa con il Capitalismo. Essa non ha mai avuto alcuna suggestione per il Socialismo, che ancora oggi colà suona come un termine ignominioso, e non ha un modello di riserva. Il New Deal è stato imposto da circostanze storiche e, di fatto, è finito con il rilanciare lo sviluppo del capitalismo.

Occorrerà vedere se il mondo intero accetterà la logica statunitense del muoia Sansone con tutti i Filistei, laddove la morte di Sansone rappresenta la perdita dell’egemonia degli Usa e i Filistei i Paesi che l’hanno avallata “sfruttandola (secondo gli americani), o se esso sarà in grado di opporre al liberismo un modello di sviluppo alternativo.