Il mito della concorrenza

1.

L'economia classica si fonda sul mito della concorrenza. Nella sua forma più pura, tale mito comporta che, dato un libero mercato, uno "spazio" cioè nel quale produttori e consumatori possano confrontare le reciproche esigenze, e posto che il numero dei produttori sia tale che nessuno di essi può influenzare i prezzi, questi, in virtù della legge della domanda e dell'offerta, tendono verso un punto di equilibrio, che è il migliore tra quelli possibili. Il prezzo migliore non è il più alto possibile, come desiderebbero i produttori, e neppure il più basso possibile, come desiderebbero gli acquirenti. Esso prescinde dai desideri e dalla volontà dei singoli: ha una sua oggettività, determinata per un verso dai costi di produzione e per un altro dal reddito disponibile.

La concorrenza dunque calmiera i prezzi, almeno nel senso che impedisce ai produttori di perseguire l'obbiettivo del massimo profitto assoluto.

In nome di questo mito, si è avviata venti anni fa la "rivoluzione" liberista, incentrata sul principio di ridurre al minimo l'intervento dello Stato sul mercato, assegnando ad esso solo una funzione di regolazione della liquidità monetaria. Essa si è tradotta in pratica nel verbo delle privatizzazioni, vale a dire nel trasferimento ai privati della produzione di beni e servizi dapprima gestiti dallo Stato, direttamente o con una partecipazione.

Dalle privatizzazioni ci si attendeva, in nome della concorrenza, un migliore utilizzo delle risorse e un vantaggio netto per i consumatori.

Il verbo delle privatizzazioni, che ha contrassegnato l'epoca del reaganismo e del thatcherismo, ha fatto presa tardivamente in Italia. Esso si è avviato solo da poco più di dieci anni con la nascita dell'Autorità Antitrust e l'avvio della vendita delle aziende statali.

La necessità di un'Autorità Antitrust già di per sé demistifica il mito della libera concorrenza. La sua necessità, infatti, è legata al fatto, documentato storicamente, che, laddove il mercato è affidato a se stesso, la tentazione dei produttori di coalizzarsi in cartelli che, se non giungono al monopolio, possono influenzare decisamente i prezzi di mercato, è incoercibile. L'antitrust, scongiurando questo pericolo, mantiene il mercato in regime di libera concorrenza.

Dopo dieci anni, è possibile stilare un primo bilancio in Italia della liberalizzazione dei mercati. Ad onta della teoria classica e delle aspettative dei liberisti, si tratta di un bilancio fallimentare. Tranne il settore della telefonia, laddove si sono verificate diminuzione dell'ordine del 30%, in tutti gli altri la liberalizzazione ha prodotto per ora un aumento netto. Considerando i beni e i servizi indispensabili a qualunque individuo e a qualunque famiglia, gli aumenti sono consistenti: 16% le case in affitto, 30% in media per i generi alimentari (eccezion fatta per la pasta, rimasta stabile), 25% la benzina, 20% il gasolio da riscaldamento, 22% l'elettricità, 4% il gas, 47% i medicinali, 30% i servizi bancoposta, addirittura 130% le assicurazioni RC auto.

L'inflazione, secondo le stime ufficiali del governo, è ancora inferiore al 3%. Prendendola per buona, occorre pensare che il paniere dei beni e dei servizi utilizzato per calcolarla coincida molto poco con l'esperienza quotidiana dei cittadini.

Il problema sta nello spiegare questo clamoroso fallimento delle liberalizzazioni.

2.

L'analisi ovviamente andrebbe fatta settore per settore. Ma sarebbe un'impresa troppo complessa, e, nel caso in questione, inutile. Se il trend dell'aumento dei prezzi a due cifre investe la maggioranza dei settori, è evidente, al di là di ragioni particolari che possono spiegare questo o quell'aumento, che deve esserci una ragione comune a tutti i settori.

Secondo i liberisti, questa ragione è ovvia: c'è ancora poca concorrenza, per cui i vantaggi delle privatizzazioni sono ancora di là da venire. Ce n'è sicuramente di più rispetto a dieci anni fa, quando lo Stato controllava ancora molte aziende. Ma il mercato è in una fase di ristrutturazione per cui non v'è da sorprendersi se si verificano degli effetti anomali. Via via che entrerà in vigore un regime concorrenziale in senso proprio, i prezzi sono destinati a scendere.

Ai liberisti non dice nulla il fatto che, solo negli ultimi cinque anni, l'Antitrust sia dovuta intervenire ben sei volte (farmaceutici, telecomunicazioni, trasporto aereo, carburanti, assicurazioni auto, tabacchi) con pesanti sanzioni economiche per impedire la formazione di "cartelli".

Questo in realtà è il dato più importante, poiché esso porta al cuore del problema irrisolto (e irrisolvibile) del capitalismo liberistico: la tendenza alla concentrazione. Se si esclude la banalità di ricondurre questa tendenza alla incoercibile sete di profitto dei capitalisti, occorre riconoscere che essa è una conseguenza inevitabile della concorrenza.

Il modello di concorrenza pura prevede la diminuzione dei prezzi come naturale conseguenza della crescita dell'offerta rispetto alla domanda. Il problema è che coloro che subentrano nel mercato in qualità di produttori per concorrere con la speranza di conquistare quote di mercato devono aumentare la produttività, vale a dire ridurre i costi dei prodotti. Ora si dà un limite al di là del quale l'aumento della produttività non è possibile. Tale limite non è segnato dal costo delle materie prime e da quello del lavoro, bensì dall'interesse sui capitali, vale a dire dal profitto, che, se diventa minore dei tassi di interesse porta gli investitori a disinvestire i capitali.

Se l'aumento della produttività non è possibile al di là di un certo livello, l'unica alternativa è l'economia di scala, vale a dire la possibilità di diminuire i costi attraverso l'accorpamento delle aziende o di diversificare la produzione. L'economia di scala richiede per forza la concentrazione dei capitali. Questa concentrazione può non essere intenzionalmente orientata al monopolio. E inevitabile però che essa graviti naturalmente verso situazioni monopolistiche.

In breve: se la produttività non può essere aumentata al di là di un limite critico, la concorrenza si riduce al fatto che, come accade tra i pesci, le aziende grandi devono divorare quelle piccole per ridurre i costi. Via via però che ciò accade è inevitabile che esse assumano un orientamento monopolistico, se non nel senso di determinare i prezzi di mercato, nel senso di tentare di impedire in ogni modo che altre aziende invadano il loro campo.

3.

A ciò occorre aggiungere un altro fattore. Più le aziende si ingrandiscono, più, alla riduzione dei costi, si associa la necessità di un'intermediazione sempre più ampia tra produttori e consumatori (ponendo nell'ambito dell'intermediazione anche la pubblicità). Questa catena d'intermediatori non solo vanifica l'effetto della riduzione dei costi alla produzione, essa comporta un ricarico che inesorabilmente fa aumentare i prezzi dei prodotti. Questo è quanto è avvenuto, per esempio, a livello di generi alimentari e soprattutto di medicine.

La crescita dei prezzi degli alimentari, che incide pesantemente sul bilancio delle famiglie italiane, ha una genesi un po' particolare. Essa va ricondotta, tra l'altro, alla privatizzazzione del comparto alimentare dell'IRI, che ancora oggi è al centro dell'attenzione politica e giudiziaria. Si tratta della famigerata faccenda SME, per la quale il Presidente del Consiglio Berlusconi è imputato di fronte alla corte di Milano. Egli sostiene di essere intervenuto, nel 1983, per impedire la svendita di quel comparto, che è stato poi venduto nel 1991 ad un prezzo nettamente superiore, con un utile netto per lo Stato. E' per questo che il Presidente del Consiglio ritiene di meritare una medaglia piuttosto che una condanna. Mettendo da parte il fatto che, all'epoca della vendita, quel comparto era stato ampiamente risanato, per cui il suo valore di mercato era cresciuto, rimane il fatto che, a differenza del contratto del 1983, quello del 1991 è avvenuto in termini selvaggi, frazionando il comparto stesso e vendendo molte aziende a società straniere.

Questo non è l'unico fattore che spiega l'aumento dei prezzi dei generi alimentari, ma di sicuro è uno di essi. Se si fa il conto dell'utile ricavato dallo Stato e del danno per i consumatori, la richiesta da parte del Presidente del Consiglio di una medaglia è almeno discutibile: Egli di fatto ha tutelato gli interessi dei capitali piuttosto che quelli collettivi.

Riguardo alle medicine, il discorso è complesso. Basterà per ora dire che, oltre ai fenomeni di concentrazione, a questo livello incide soprattutto il brevetto dei farmaci, originariamente orientato a tutelare i capitali investiti nelle ricerche sotto forma di "diritti d'autore". L'estensione del brevetto a venti anni - periodo che non appare per nulla giustificato - introduce di fatto nel mercato una forma di "monopolio".

Si dirà che non c'è alcuna alternativa a questo sistema. Può darsi. Se non c'è, occorrerà convivere, oltre che con i suoi pregi (identificabili con l'immane quantità di beni e di servizi che esso produce), anche con i suoi difetti.

Maggio 2003