La crisi della Borsa, soprattutto per quanto riguarda i titoli tecnologici, ha da tempo dimensioni tali da impegnare tutti gli studiosi - economisti e commentatori economici - ad analizzare le ragioni del fenomeno. L'entità di questo fenomeno è restituito impietosamente dalle cifre. Il NASDAQ, l'indice dei titoli tecnologici statunitense, raggiunse tre anni fa la quota stratosferica di 5048 punti. Che si trattasse di una valutazione per nulla corrispondente ai bilanci e alle previsioni di profitto delle società tecnologiche, dunque di una bolla speculativa era noto, a tutti. Cionondimeno molti esperti prevedevano, piuttosto che la catastrofica caduta dei titoli che è avvenuta, un lento, graduale ridimensionamento che avrebbe comunque, con i suoi margini di guadagno, soddisfatto gli investitori. Chi aveva raccolto il trecento per cento sul capitale investito sarebbe rimasto, forse, deluso ma non traumatizzato dalla riduzione del profitto al cento per cento.
E' difficile dire se, all'epoca, siano stati più irrazionali gli investitori o gli esperti e gli analisti finanziari. Fatto si è che, pochi mesi dopo il passaggio del millennio e alcuni mesi prima dell'11 settembre, il NASDAQ è andato incontro ad un ribasso che, in alcuni periodi, ha assunto dimensioni catastrofiche. Attualmente, e ormai da parecchio tempo, esso oscilla su valori tra i 1200 e i 1300 punti. Questo significa, né più né meno, che nel volgere di poco tempo sono stati "bruciati" 7000 miliardi di dollari, vale a dire una cifra vertiginosa in vecchie lire (14000000 milioni di miliardi!).
Nessuno degli economisti, nel commentare questa catastrofe che non ha riscontri nella storia dell'economia, osa fare ricorso alla consueta spiegazione del panico. Tentativi da parte del Governo americano di indurre gli investitori a non uscire dalla Borsa ce ne sono stati, soprattutto dopo l'11 settembre. Essi però non hanno avuto effetto perché, dopo lo scandalo della Enron che ha lasciato nelle mani degli azionisti un pugno di mosche, è prevalso il timore di una perdita totale dei capitali investiti. Dato ciò che è venuto fuori sulla falsificazione dei bilanci societari, è difficile ricondurre tale timore ad un panico irrazionale.
Ancora oggi, la spiegazione del panico urta contro un dato reale. Analizzando i valori attuali delle azioni tecnologiche alla luce del rapporto tra prezzi e bilanci delle società (compresi i guadagni futuri), molti esperti ritengono che, nonostante il calo realizzatosi, i prezzi siano ancora un 20% al di sopra del valore reale. Ciò significa che i titoli in questione, tre anni fa, erano gonfiati nella misura del 500 %! Se i prezzi delle azioni tecnologiche sono ancora superiori al valore reale, è difficile ricondurre al panico il fatto che gli investitori, preso atto di questo, se ne siano liberati e continuino a tentare di liberarsene.
Il crollo del NASDAQ ha indotto una serie di riflessioni sullo stato del capitalismo, che è risultato affetto da varie "malattie": la tendenza sistematica alla falsificazione dei bilanci, l'asimmetria delle informazioni tra investitori e managers, la tendenza di quest'ultimi a curare i propri interessi (anche illegalemnte) più che quelli degli azionisti, la scarsa preparazione economica dei piccoli investitori che hanno ceduto alla sirena del guadagno facile, fondata sul principio per cui il denaro autoriproduce se stesso, ecc. Difetti di crescita, secondo alcuni, quindi correggibili; difetti strutturali, secondo altri, che impongono di progettare un cambiamento radicale del sistema.
Sul significato reale della crisi delle Borse, e soprattutto dei titoli tecnologici ci sarebbe molto da dire. Quest'articolo però non intende fornire un'analisi esauriente di ciò che è accaduto, quanto piuttosto soffermarsi sul fatto che la mistificazione ideologica che ha governato gli anni '90, traducendosi nell'enfatizzazione del modello statunitense che, all'epoca, sembrava avere risolto il problema dei cicli economici, in qualche misura prosegue.
La bolla nella bolla cui fa cenno il titolo riguarda gli artifici retorici che continuano ad essere utilizzati in riferimento alla crisi della Borsa i quali servono a celare, agli occhi del pubblico, una verità sgradevole. Uno di tali artifici fa riferimento al fatto che la perdita di valore delle azioni, avendo "bruciato" una quantità immensa di capitali, avrebbe comportato di fatto la diminuzione della ricchezza di tutti.
Per capire un po' meglio il significato di questa metafora, che allude alla possibilità che il denaro si vanifichi, complementare a quella già citata per cui esso autoriproduce se stesso, occorre considerare con un minimo di attenzione quello che avviene a livello di mercato borsistico.
La Borsa, come noto, è il mercato ove si vendono e si acquistano titoli (azioni, obbligazioni, ecc.) emessi dalle società, il cui acquisto dà diritto a partecipare nel bene e nel male alle vicissitudini delle società: in pratica a guadagnare, attraverso l'aumento del valore delle azioni e eventuali dividendi sui profitti se le cose vanno bene, a perdere denaro se le cose vanno male. Si tratta dunque di un mercato a rischio, governato dalla legge della domanda e dell'offerta: i titoli più richiesti aumentano di valore, quelli meno richiesti lo perdono anche perché gli azionisti tendono a disfarsene.
La contrattazione avviene sulla base di uno scambio: titoli contro denaro. Chi acquista delle azioni, deve versare il valore corrispondente a chi le vende. Questo denaro può essere denaro vivo, denaro preso a prestito o denaro vincolato all'aspettativa di futuri guadagni dei titoli. In ogni caso di denaro si tratta.
Procediamo con un esempio. Un gruppo di investitori acquistano, pagando una determinata somma, una quota di titoli che, dopo un certo periodo di tempo, aumentano il loro valore del 15%. Essi si ritrovano dunque un capitale magicamente aumentato di tale valore. Coloro che, attratti dall'aumento, li seguono nell'acquisto del titolo, lo pagano il 15% in più rispetto al valore originario. Ora, poniamo per ipotesi che il titolo diminuisca del 10%. Il primo gruppo di investitori si ritrova tra le mani un capitale maggiorato del 5%. Il loro guadagno corrisponde alla differenza tra questa quota e l'inflazione. Gli altri, viceversa, si ritrovano tra le mani un capitale decurtato del 10% (più l'inflazione). Essi hanno dunque perduto questa quota maggiorata dell'inflazione. Ma dov'è finito il denaro che hanno versato per l'acquisto delle azioni? Esso non risulta più nelle loro tasche, ma neppure in quello della società azionaria in questione, che ha visto diminuire la sua capitalizzazione del 10%.
Se la diminuzione è del 20%, i primi investitori perdono il 5% del loro capitale (più l'inflazione), gli altri il 20%. La perdita reale di denaro complessiva corrisponde dunque alla differenza tra il valore raggiunto dalle azioni e il denaro virtuale, che non è stato versato a nessuno. In questo caso, il denaro virtuale è il 10% che il primo gruppo di investitori si è ritrovato nelle tasche senza averlo versato.
Per quanto riguarda la società azionaria in questione, essa perde di fatto il 20% della sua capitalizzazione.
Sommando i due effetti, vale a dire l'impoverimento degli azionisti e della società, gli esperti parlano di ricchezza "bruciata", lasciando intendere che essa sia svanita nel nulla. In realtà, il denaro effettivamente versato, che non comprende quello virtuale, deve essere finito per forza nelle tasche di qualcuno.
In breve l'impoverimento degli azionisti e delle società, deve per forza corrispondere all'arricchimento di qualcuno. Tale arricchimento è minore della perdita netta che risulta dalla svalutazione delle azioni, ma, se si tiene conto del volume degli scambi borsistici, è pur sempre una quota rilevante.
In riferimento al NASDAQ i conti sono difficili da fare perché i rialzi dei valori dei titoli azionari sono stati in molti casi sorprendenti e irrazionali (fino al 300% in un solo giorno). Si può ammettere che una quota di denaro sia rimasta sempre virtuale, e che essa sia stata semplicemente perduta dai possessori delle azioni. Un'altra quota deve essere stata però di denaro reale che si è trasferito dalle tasche di qualcuno alle tasche di qualcun altro. Poniamo conto che questa quota sia semplicemente il 50% del capitale circolato in Borsa. E' un'ipotesi. Ma essa significa che, dei 7000 miliardi di dollari "bruciati", 3500 (vale a dire 7000000 milioni di miliardi di vecchie lire) sono stati trasferiti dai portafogli degli investitori ad altri portafogli (banche, grandi investitori, managers, speculatori, ecc.).
Ciò che di fatto dunque è avvenuto negli Stati Uniti è stato dunque il più massiccio trasferimento di denaro che sia mai accaduto nella storia. Un trasferimento assolutamente legale, perché si è realizzato sulla base della legge della domanda e dell'offerta. Il suo effetto è però che la società americana nel suo complesso si è impoverita, mentra una quota della popolazione, presumibilmente già ricca, si è straordinariamente arricchita.
Utilizzando la metafora del denaro bruciato, che si è vanificato sul serio nelle anni dei piccoli investitori, gli esperti rimuovono il problema di questo enorme trasferimento di denaro. Lo fanno sulla base del fatto che, essendo l'investimento azionario un investimento a rischio, la perdita va messa nel conto del rischio stesso. Ciò che essi non dicono è che quel rischio non è lo stesso per tutti, e che l'impoverimento della ricchezza nazionale seguita al crollo del NASDAQ non riguarda nella stessa misura tutti gli investitori, alcuni dei quali habnno guadagnato montagne di milardi di dollari.
Il significato di questa rimozione è ovvio. Si tratterebbe di rivelare al pubblico la verità su quanto è accaduto. Non si intende fare in nome del fatto che questa verità porrebbe di fronte alla necessità di un cambiamento strutturale di un sistema che illude tutti, ma alla fine privilegia un numero riostretto della popolazione che specula sulle debolezze dei più.
Tra i più attenti commentatori della Borsa, Federico Rampini ha assunto riguardo a questi problemi, cui ha dedicato un libro, un atteggiamento singolare. Egli sostiene che il dramma della new economy va esaminato sotto due profili. Sotto il profilo finanziario, è stata per molti investitori una catastrofe netta. Esso però avrebbe prodotto dei cambiamenti teconologici, attestati dall'uso dei computers e dalla diffusione dei cellulari, che rimarranno come cambiamenti culturali permanenti e, alla lunga, produrranno effetti benefici a livello mondiale. Il discorso non fa una piega. C'è da chiedersi però: primo, se quei cambiamenti non sarebbero potuti avvenire in maniera meno turbolenta e irrazionale, vale a dire se era necessaria la bolla speculativa per produrli; secondo, se è lecito moralmente che i cambiamenti tecnologici comportino, nell'immediato, danni gravi per quote consistenti della popolazione, o non si tratti di sacrifici inutili che, con un minimo di programmazione sociale, si sarebbero potuti evitare; terzo, se la crisi della Borsa sia uno dei tanti episodi critici che contrassegnano la storia del capitalismo, destinato ad essere sormontato in virtù di qualche correzione o se, viceversa, esso non possa diventare un fatto epocale che mette in discussione la fiducia dei cittadini nei confronti di un sistema che, razionale quanto si voglia sul piano dell'efficienza, progredisce di fatto sulla base dell'irrazionalità.
Vedremo.
Marzo 2003