Il Gap tra ricchi e poveri. Il caso della Gran Bretagna

1.

Il divaricarsi della forbice tra ricchi e poveri a livello internazionale, che si è accentuato progressivamente negli anni '90, è ormai un dato noto a tutti. Altrettanto noto è il fatto che tale gap si è verificato anche all'interno degli Stati Uniti che, pur avendo prodotto in quegli anni una smisurata ricchezza, hanno visto aumentare i poveri alla quota record di 41 milioni (un sesto della popolazione). L'interpretazione di questi fenomeni non è difficile. Si tratta della "naturale" conseguenza dell'adozione di un modello di sviluppo liberistico, che privilegia i capitali rispetto ai bisogni sociali, nell'attesa, finora mai realizzatasi, che lo "sgocciolamento" della ricchezza giunga ad investire, come la manna dal cielo, i popoli e i ceti meno abbienti.

Sulla carta, il sistema dell'alternanza al governo tra forze conservatrici e liberali e forze progressiste e socialiste, adottato in tutti i paesi occidentali, sarebbe dovuto servire ad assicurare un certo equilibrio socioeconomico. I governi liberali s'interessano soprattutto di assicurare la crescita economica; quelli progressisti di redistribuire il reddito in maniera tale da temperare, se non azzerare, il gap tra ricchi e poveri.

Data la pressione egemonica che ha esercitato in questi anni il modello liberista, la ricetta dell'alternanza sembra cominciare a fare acqua. Un indizio significativo in questo senso viene dalla Gran Bretagna. Colà il liberismo selvaggio si è imposto,a partire dagli anni '80 con il primierato della signora Thatcher. La conseguenza di 14 anni di thatcherismo sono state una crescita rilevante della ricchezza e una distribuzione della stessa a tal punto iniqua che il governo successivo di John Major, conservatore egli stesso, si era proposto di temperare gli eccessi del liberismo. L'avvento di Tony Blair, laburista, doveva sulla carta servire a trovare la mediazione ottimale tra crescita e equità, che è l'obbiettivo proprio di ogni partito e governo che si richiama ai principi del socialismo.

Dati i tempi - il successo elettorale del laburismo risale al 1997 -, caratterizzati dal predominio del modello liberista, Blair non se l'è sentita però di varare un programma socialista. Con Clinton, egli ha portato avanti il progetto di una terza via, tra capitalismo e socialismo, che non ha mai assunto una definizione concettuale e programmatica tanto precisa da potere essere messa in discussione. Tutto ciò che si è riusciti a capire è che questa presunta terza via si sarebbe dovuta configurare nei termini di un liberalesimo democratico aperto alle istanze socialiste in tema di equità e capace di realizzarle senza interferire sui mercati, deputati a produrre richezza. L'accentuazione del carattere liberale della terza via, vantato come tale da ambire di portare a compimento la rivoluzione sociale avviatasi con l'avvento della borghesia, serviva a differenziare questo modello dalla socialdemocrazia.

Blair insomma si è assunto l'impegno, con gli elettori e, in una certa misura, con la storia, di dimostrare la realizzabilità di ciò che sino allora appariva impossibile: coniugare crescita e equità.

A distanza di sei anni, il bilancio del governo laburista appare, sotto questo profilo fallimentare. Il 12 maggio il quotidiano The Indipendent ha pubblicato un editoriale il cui titolo sintetizza il fallimento: "I livelli di povertà sono cresciuti sotto il laburismo". I dati su cui si basa questo giudizio sono inconfutabili poiché sono tratti da una fonte ufficiale - L'Ufficio nazionale delle Statistiche (l'equivalente britannico dell'ISTAT) . Utilizzando un metodo internazionale che misura l'inuguaglianza sociale tenendo conto del reddito medio disponibile una volta sottratte le tasse, quell'Ufficio ha scoperto che l'inuguaglianza è al suo massimo da tredici anni a questa parte: "Da una media di 29 punti sotto il governo conservatore della Thatcher, l'inuguaglianza è salita a 35 punti sotto Blair".

The Indipendent riassume anche l'andamento dell'indice nel corso del tempo: esso è rimasto stabile nei primi anni ottanta, aumentò verso la fine della decade, tornò a diminuire nei primi anni novanta sotto il governo Major e riprese a salire a partire dal 1995. Questa tendenza è continuata senza alcuna flessione sotto il governo Blair. Le conclusioni sono dunque inconfutabili: "Sotto i laburisti l'inuguaglianza media è più alta di un sesto rispetto dell'equivalente media nel corso degli undici anni in cui governò la Thatcher"; "l'inuguaglianza è del dieci per cento più alta dell'intero periodo di diciotto anni in cui governarono i tory". Che un governo laburista riesca a scavalcare un governo conservatore, e per giunta liberista all'estremo come quello della Thatcher, nell'iniquità è un fatto singolare e storicamente nuovo.

Tale fatto si può spiegare immediatamente riprendendo le critiche ricolte a Blair da numerosi laburisti, uno dei quali è giunto ad affermare che il blairismo è null'altro che "un'estensione del thatcherismo tramite l'uso di mezzi diversi". Tale critica si potrebbe estendere a tutti i riformisti europei (da Schroeder a D'Alema) che, pur dichiarandosi di sinistra, pretendono di competere con i liberisti spostandosi inesorabilemente sulle loro posizioni, vale a dire formulando un atto di fede assoluto nell'economia di mercato. Essa però non coglie il nocciolo del problema.

2.

Il nocciolo del problema non verte, come molti pensano, sulla crisi dello Stato sociale, i cui oneri sono divenuti insostenibili per la finanza pubblica soprattutto per il prolungarsi della sopravvivenza dei cittadini. Lo Stato sociale, almeno a livello europeo, è stata l'arma vincente della democrazia liberale contro la minaccia del comunismo, l'ammortizzatore che ha permesso di attenuare l'asprezza dei conflitti sociali, lo strumento che, attraverso alla redistribuzione del reddito, ha consentito alle classi meno abbienti di accedere al consumo e di alimentare, in virtù di questo, la crescita del sistema.

Il vero problema è la crisi del capitalismo.

Sembra quasi ridicolo parlare di crisi del capitalismo dopo l'euforia degli anni '90, nel corso della quale alcuni liberisti avevano diagnosticato, in riferimento agli Stati Uniti, la soluzione dell'ultimo problema ancora aperto del capitalismo: quello delle crisi periodiche. Crescita elevata, bassa disoccupazione, inflazione contenuta: questi sembravano gli indici dell'ultimo miracolo americano. Un modello tra l'altro che molti politici europei, anche di sinistra, adottarono entusiasticamente, identificando nella flessibilità del lavoro il nodo che ne avrebbe assicurato la realizzazione.

Paradossalmente, la crisi del capitalismo è l'altra faccia del suo trionfo. Questo è riconducibile al fatto che, dopo il crollo del comunismo, si è aperta la possibilità agognata da sempre di una mondializzazione del mercato.

La globalizzazione implica il fatto che i capitali possono spostarsi su tutto il pianeta alla ricerca delle condizioni che ne consentano il migliore impiego. Le condizioni privilegiate sono due: il basso costo del lavoro e un regime fiscale favorevole. Dato che i paesi sottosviluppati, per non precipitare nella miseria, devono offrire queste condizioni, i capitali tendono a defluire verso di essi. Ciò significa che gli Stati europei hanno sempre maggiore difficoltà a trattenerli, e devono necessariamente concorrere con i paesi sottosviluppati comprimendo i salari, flessibilizzando il lavoro e allentando gli oneri fiscali.

Il potere così raggiunto dei capitali sugli Stati nazionali significa che essi ne condizionano la politica, privilegiando gli orientamenti di centro-destra e costringendo le forze di sinistra ad adottare le ricette liberistiche. Questo trend significa che i governi di centro-sinistra o di sinistra, quali che siano i loro programmi, devono trovare un compromesso con i capitali, vale a dire cedere sull'essenziale: la tutela delle fasce sociali più deboli e la redistribuzione del reddito. Inesorabilmente, il compromesso determina un aumento dell'inuguaglianza sociale.

Ciò che è accaduto in Gran Bretagna è, dunque, solo il sintomo del fatto che l'alternanza tra conservatori e liberali per un verso e progressisti e socialisti per un altro è un'alternanza formale più che sostanziale. Il capitalismo impone ovunque le sue leggi al potere politico, utilizzando come arma di ricatto la possibilità di investirsi fuori del territorio nazionale.

Se le cose stanno così, se i capitali hanno assunto un potere tale da condizionare i governi, in che senso si può parlare di una crisi?

La crisi è riconducibile al fatto che esso sta raschiando il fondo del barile: nei paesi sottosviluppati il capitalismo realizza lo stesso grado di sfruttamento, delle risorse e della monodopera, verificatosi nei paesi occidentali per circa un secolo dall'avvio dell'industrializzazione. La resistenza contro la quale esso è già venuto e verrà ad urtare è legata al fatto che se quei paesi non decollano, divenendo consumatori, il rischio della sovraproduzione è inevitabile. Se essi decollano, la compressione dei salari non potrà essere mantenuta se non al rischio di forti tensioni sociali.

Nei paesi occidentali si realizzano altri rischi. La messa in gioco dello Stato sociale rischia di riattivare i conflitti sociali che sono stati ammortizzati. La flessibilizzazione del lavoro, che viene estesa a tutte le categorie dei lavoratori, fa sì che anche la classe impiegatizia sperimenta sulla pelle la durezza delle condizioni lavorative in passato sofferta solo dai ceti operai. Ciò significa alimentare anche in una parte della classe media forme di protesta e di rivolta, destinate un giorno o l'altro ad assumere una valenza politica. Le esenzioni e i privilegi fiscali, che vengono richiesti ricattatoriamente dai capitali, diminuiscono le entrate dello stato, impediscono una redistribuzione dei redditi minimamente equa, e rischiano di determinare un gap tra ricchi che arricchiscono e ceti meno abbienti che impoveriscono (in senso assoluto o relativo).

Ci si orienta, insomma, sempre sulla scia degli Stati Uniti verso un regime plutocratico. In questo i critici del sistema vedono la riprova della cupidigia del capitale che mira irrazionalemente sempre e solo al profitto. Ma forse neppure questo è del tutto vero. Forse, per capire quello che sta accadendo, occorreraà riprendere in esame con grande attenzione la legge della diminuzione del saggio del profitto analizzata da Marx. Una legge che egli stesso ha definito tendenziale, quindi non lineare, e che oggi comincerebbe a realizzarsi. In breve: può darsi che il capitalismo agisca come agisce semplicemente perché non ha altre possibilità per sussistere che entrare in conflitto con gli Stati nazionali, gli interessi collettivi e i bisogni sociali. Se ciò fosse vero, il suo trionfo coinciderebbe con una campana a morto che esso stesso fa risuonare.