Lo spettro della fame globale

1.

Lo spettro della fame non è mai scomparso dall’orizzonte dell’umanità, tranne forse nelle epoche più remote della specie allorché il rapporto tra popolazione e territorio consentiva ai gruppi di provvedere ai loro bisogni alimentari attraverso la caccia e la raccolta dedicando a tali attività un tempo relativamente limitato. Qualcuno, tra cui mi annovero anch’io, ritiene che questa sia stata l’età dell’oro cui fanno riferimento tutti i miti delle origini. Età dell’oro adombrata forse dalla consapevolezza della precarietà e della vulnerabilità degli esseri umani, poco provveduti in rapporto ai pericoli ambientali (predatori, siccità, catastrofi naturali, ecc.), ma liberi di esplorare territori vergini.

L’eta dell’oro è durata decine di migliaia di anni e, come ha intuito Rousseau, è finita con la nascita dell’agricoltura che ha inaugurato l’era della proprietà privata giunta ad estendersi agli esseri umani, gli schiavi. Sono occorsi più di cinquemila anni perché l’umanità rinunciasse definitivamente alla schiavitù. In questo lunghissimo periodo, la grande proprietà agraria ha rappresentato l’infrastruttura della società e ha determinato la distribuzione del potere, accentrato nelle mani dei monarchi e delle classi nobiliari.

Data la scarsa produttività, il regime latifondista ha prodotto sempre uno squilibrio tra la domanda e l’offerta alimentare, generatrice di fame per una parte cospicua della popolazione e di crisi ulteriori dovute a carestie e aumenti dei prezzi alimentari.

Con la sua sostanziale irrazionalità economica, il latifondo non poteva reggere il confronto con la crescita demografica e l’avvento del capitalismo, che si è avviato a livello manifatturiero e industriale, ma si è esteso rapidamente all’agricoltura. Tale estensione, realizzatasi in Occidente, ha prodotto lo sfruttamento “razionale” delle terre in loco e lo sfruttamento delle colonie. Una promessa costante del capitalismo è stata quella di risolvere definitivamente il problema della fame. Di fatto, l’assicurare ai cittadini occidentali un apporto costante di beni alimentari è stato uno dei motivi del suo trionfo sul comunismo sovietico, che non ha mai risolto il problema agricolo.

Anche l’avvio della globalizzazione negli anni 80 del secolo scorso è avvenuta all’insegna dell’obiettivo di un generale aumento del tenore di vita per tutti gli abitanti del Pianeta, che, per una parte consistente di essi, ancora oggi significa avere di che sfamarsi.

Tale obiettivo è venuto però ad urtare contro due difficoltà strutturali.

La prima è il protezionismo. Un regime di libero mercato dei prodotti alimentari comporterebbe in pratica la fine dell’agricoltura nei paesi occidentali e una dipendenza dai paesi produttori del resto del mondo ancora più pericolosa della dipendenza dal petrolio. Il libero mercato, pertanto, è rimasto sulla carta. I trattati del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) hanno sempre privilegiato i paesi occidentali, assoggettando i prodotti del resto del mondo a dazi piuttosto pesanti. I governi occidentali, per loro conto, hanno mantenuto la competitività dei loro prodotti alimentari con sovvenzioni continue agli agricoltori.

La seconda difficoltà è più recente. La crescente richiesta di alimenti da parte dei paesi emergenti (India, Cina) ha convogliato sui prodotti alimentari i capitali speculativi in precedenza investiti nelle bolle speculative della tecnologia e degli immobili. Al tempo stesso, la crescente richiesta di petrolio ha smistato una parte dei capitali sulle bioenergie, determinando un accaparramento di prodotti agricoli utilizzabili come sostituti del petrolio.

In conseguenza di queste strategie, lo squilibrio tra domanda e offerta di prodotti alimentari ha determinato una crescita dei prezzi dei cereali che soddisfa le esigenze del capitale al prezzo di una quota crescente della popolazione mondiale ridotta alla fame.

Di cibo ce n’è ancora per tutti, ma, di fatto, possono permetterselo solo coloro che hanno un reddito minimo adeguato. Gli altri ricadono nell’ambito della selezione culturale intrinseca al capitalismo.

Il problema è che, nel caso in questione, è in gioco né più né meno il diritto alla vita, vale a dire il valore che la civiltà occidentale ha sempre proposto come primario. Evidentemente, esso vale meno del diritto di proprietà e del diritto del Capitale.

Come si è giunti a questa situazione potenzialmente e per alcuni aspetti già di fatto catastrofica? I dati sono poco equivocabili, ma la loro interpretazione, al solito, è controversa.

Prima di illustrare i dati, però, occorre tenere conto che la recente convergenza di vari fattori, la cui somma rischia di produrre un effetto catastrofico, corrisponde ad un trend di lunga durata, il cui avvio va ricondotto all'avvento del neo-liberismo negli anni '80 del secolo scorso.

Nel 1999 compare un libro di Jean Ziegler che denuncia lo "scandalo indecente" della fame nel mondo. Riporto l'intervista di Ziegler rilasciata a Leonardo Coen su Repubblica (9 dicembre 1999):

"Esce un nuovo e polemico libro di Jean Ziegler, irriducibile e battagliero sociologo di Ginevra che non si arrende alle ingiustizie e alle ipocrisie delle nazioni opulente, soprattutto della sua ricca ed egoista Svizzera. Si intitola La fame nel mondo spiegata a mio figlio (Pratiche Editrice, pagg. 138, lire 16.000) e lo possiamo collocare nel filone in voga che affronta, sotto forma di colloquio tra padre (famoso intellettuale) e figlio, temi epocali come il razzismo, la violenza, l' emarginazione.

"La fame arriva per ultima, in questo triste elenco, pur essendo la gran madre di tutte le tragedie contemporanee. Un tempo era stato cavallo di battaglia della sinistra terzomondista. Oggi è rimasto territorio d' impegno e di lotta delle istituzioni Onu e delle organizzazioni di solidarietà, soprattutto cattoliche: i trenta milioni di morti l' anno, quelli però, non conoscono né mode politiche né dibattiti. Muoiono e basta".

L' ostinazione nel riproporre alle coscienze dei ricchi la tragedia dei poveri dimostra che lei Ziegler è, in fondo, da un lato un tenace sopravvissuto ai tanti Sessantotto e revisionismi della nostra epoca, e che dall' altro abbia anticipato, con questo suo libro, la rabbia esplosa a Seattle. Penso alla citazione che precede il primo capitolo: "Il ricco è un bruto inesorabile che si è costretti a fermare con la falce o una mitragliata nel ventre... Per la ragione è intollerabile che un uomo nasca colmo di beni e che un altro veda la luce in un letamaio" (Léon Bloy).

""La cultura arma le coscienze". I miei libri sono stati fiele per il sistema finanziario del mio paese. A cominciare da Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto (1976) per finire con La Svizzera, l' oro e i morti (1998), a proposito dell' Olocausto e del denaro degli ebrei incamerato dalle banche elvetiche".

Il potere elvetico si è però vendicato querelando a ripetizione. Per metterle il bavaglio.

"Non essendo più deputato, ho perso ogni immunità. Oggi come oggi ho ancora cinque processi sulle spalle, se venissi condannato dovrei pagare qualcosa come 8 miliardi e mezzo di lire, già mi viene trattenuto il 42 per cento dello stipendio di professore universitario, i conti bancari sono stati bloccati: a casa nostra diciamo che si colpisce il messaggero dello scandalo pensando di cancellare così lo scandalo".

La fame è lo scandalo più indecente, scrive nel suo libro. A suo figlio Karim lei dice che per battere la fame bisogna cambiare l' ordine omicida del mondo.

"Perché la fame è un problema terribile di cui l' Occidente è il primo responsabile. E questo non si può più gridarlo ai quattro venti. La fame è prodotta dall' uomo, non dalla Natura. La stessa Fao ha dichiarato che sulla Terra vi sono risorse disponibili per sfamare dodici miliardi di persone. E noi siamo la metà. Il fatto è che a determinare i flussi alimentari e le politiche di approvvigionamento sono le oligarchie finanziarie che ci governano. Loro non sono organizzazioni caritatevoli. Vogliono solo profitti. I prezzi delle materie prime, come il grano, sono fissati speculativamente allo Stock Market della Borsa di Chicago. Lì operano in regime di monopolio globale le sette sorelle dei prodotti cerealicoli. La logica del mercato mondiale impone regole criminali obbligando di fatto le nazioni povere a sviluppare monoculture utili soltanto all' esportazione e non alle popolazioni locali. A mantenere la situazione ci pensano la corruzione e i governi fantoccio".

Una visione pessimista.

"Realistica. Questo libro è concepito proprio per provocare il risveglio delle coscienze. Troppo comoda la solidarietà di facciata. Di chi guarda in tv le immagini della sofferenza - carestie, cataclismi naturali, siccità - pensa "poverini!" e poi tutto finisce lì. Le domande che mi rivolge Karim, un espediente stilistico e puramente didattico, sono quelle che i giovani dovrebbero porre quando si trovano di fronte a tali immagini. L' indifferenza dell' Occidente che prende la distruzione di un sesto dell' umanità (quella colpita dalla sottoalimentazione) come un fatto naturale è orribile. Dietro l' indifferenza c' è spesso il razzismo, implicito, incosciente, ma pur sempre razzismo".

Perché si parla sempre meno della fame, specie nelle scuole?

"Un mistero. Non conosco programmi d' insegnamento che analizzino le radici di questo problema, né che lo esaminino discutendo le possibili misure per debellarlo. La scuola è muta, non compie il suo lavoro. Come se ci fosse una sorta di tabù della fame. Forse per evitare che si risalga all' origine, alle motivazioni economiche, alle politiche delle nazioni più potenti...".

Una censura ideologica.

"Certo: dire che la fame è un evento ineluttabile, naturale, fatale e legittimare questa teoria fasulla è proprio della cultura razzista e neoliberista, molto di moda tra le oligarchie geoeconomiche che predicano la totale libertà del mercato, la deregulation sfrenata e lo smantellamento dello Stato sociale. Le ultime elezioni in Svizzera hanno portato alla luce il legame che c' è tra i grandi capitali internazionali e l' estrema destra".

In che senso?

"L' Udc, il movimento populista, antieuropeista e xenofobo guidato da Christoph Blocher, ha ottenuto il 22,6 per cento dei voti. Blocher non è Bossi, Le Pen e nemmeno Haider. E' uno dei più grandi industriali della chimica avanzata, è un signore della Borsa, proprietario della Alusuisse, della Lonza e della banca Bz. Ed è anche antisemita: il tribunale lo ha condannato perché in una lettera ha dato ragione a chi negava l' esistenza delle camere a gas. E' contro l' Onu, contro l' Europa, è favorevole alla globalizzazione della tutela dei brevetti. Significa far pagare ai Paesi del Terzo Mondo le royalties che proteggono le produzioni mediche ed agricole (pesticidi, sementi, biogenetici). Un altro modo per affamare. E per strangolare ogni tentativo di sviluppo". "

2.

Nella crudezza di una sintesi estrema, i dati sono i seguenti.

Le scorte mondiali di cereali sono passate dal 26% del 2004 al 18% attuale (livello più basso dal 1980), quelle di riso dal 30% del 2004 al 23% del 2008.

Alla diminuzione critica delle scorte corrisponde un parallelo aumento dei prezzi degli alimentari, cresciuti del 48% a livello mondiale dalla fine del 2006, mentre nello stesso periodo gli aiuti stanziati dai Paesi ricchi a quelli poveri sono diminuiti dell’8,4%.

Tra il 2006 e il 2007 il prezzo dei cereali per i Paesi poveri ha subito un’impennata del 36% e addirittura del 56% tra il 2007 e il 2008.

Il prezzo del riso è quello che ha registrato l’aumento maggiore, addirittura raddoppiandosi nel corso dell’ultimo anno. Sono aumentati di oltre un terzo anche i prezzi del mais e della soia.

I dati recenti sono ancora più inquietanti.

Nell’ultimo anno - marzo 2007-2008, il prezzo del riso è aumentato del 70 per cento (International Rice Research Institute di Manila), con impennate nei paesi importatori anche del 141 per cento da gennaio a aprile 2008; quello del Mais del 31 per cento (Fonte Fao); quello del Grano del 130 per cento (fonte Bloomberg), con tendenza al ribasso da febbraio ad aprile 2008; quello della Soia dell’87 per cento (fonte Bloomberg).

La produzione di etanolo ricavato da piante per uso alimentare negli Usa, in miliardi di litri è stata, nel 1995, di 5 miliardi, nel 2004 di 12 miliardi, nel 2007 di 35 miliardi.

La sottonutrizione riguarda 854 milioni di persone (stima Fao 2006), cioè il 12,6 per cento dei 6 miliardi di abitanti del pianeta. Erano 824 milioni nel 1992, e 820 milioni nel 2002.

Il potere d'acquisto di 982 milioni di persone è di un dollaro al giorno (stima 2008 Banca mondiale).

Se si tiene conto che, per molti Paesi poveri, i cerali rappresentano l’alimento principale nella dieta della popolazione comune, e che il 75% del reddito medio è speso nell’acquisto di cibo, non c’è da sorprendersi che l’aumento dei prezzi degli alimentari abbia innescato rivolte in numerosi di quei Paesi: Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine, Haiti. In Pakistan e in Thailandia, addirittura, si è ricorsi all’esercito per evitare assalti al cibo nei campi e nei magazzini.

Secondo la Banca mondiale, 48 paesi (su 58 monitorati) hanno imposto controlli sui prezzi, restrizioni all'export, tariffe di favore per i consumatori poveri. India, secondo produttore mondiale di riso, Cina e Vietnam hanno bloccato le esportazioni.

Questi dati giustificano l’allarme delle autorità internazionali, a partire naturalmente dalla FAO:

“L'inflazione dei prezzi alimentari colpisce maggiormente le popolazioni povere, poiché la spesa per procurarsi il cibo rappresenta una quota molto più alta del totale del loro budget - ha detto Henri Josserand, della Fao -. La spesa per il cibo rappresenta solo il 10-20% della spesa complessiva del consumatore dei Paesi industrializzati, mentre per il consumatore dei Paesi in via di sviluppo può arrivare a rappresentare sino al 60-80% del totale». Secondo le previsioni, la produzione cerealicola mondiale nel 2008 è destinata a crescere del 2,6%, per attestarsi intorno alla quantità record di 2.164 milioni di tonnellate. «Se l'aumento di produzione previsto per il 2008 si materializzerà - si legge nel rapporto - potrebbe attenuarsi l'attuale situazione di scarsità dell'offerta cerealicola mondiale ma molto dipenderà dalle condizioni climatiche». Ma nonostante questo le scorte mondiali di cereali dovrebbero raggiungere nel 2007/2008 i 405 milioni di tonnellate, il valore minimo negli ultimi 25 anni, 21 milioni di tonnellate in meno rispetto al livello già assai ridotto dell'anno precedente.

«È necessario mettere in atto un enorme piano di trasferimento di sementi, fertilizzanti e mezzi di produzione nei Paesi in via di sviluppo - ha spiegato il direttore generale della Fao, Jaques Diouf, presentando il rapporto trimestrale -. Non è più possibile contare sulle scorte mondiali di cereali, sono al livello minimo dal 1980 e sono diminuite del 5% rispetto all'anno scorso».

La gravità della crisi è, dunque, ufficialmente riconosciuta. Per quanto riguarda le sue cause si fa ormai universalmente riferimento alle seguenti:

- la sottrazione al mercato alimentare dei cereali destinati ai biocarburanti

- l’aumento dei costi dei fertilizzanti e del gasolio

- le trasformazioni climatiche che hanno causato la siccità maggiore da cento anni a questa parte

- l’aumento di consumi di carne che ha fatto lievitare la domanda di mangimi

- la speculazione dei future di beni alimentari.

Naturalmente questo elenco nulla dice riguardo al peso dei singoli fattori, ed è su questo peso che verte il dibattito degli esperti. La loro somma fa capire però che il problema appare complesso e difficile da risolvere. Che esso sia drammaticamente avvertito dalle popolazione è attestato dalle rivolte e dagli assalti verificatisi di recente in numerosi paesi.

Su Repubblica (11. 04) Federico Rampini fornisce un bilancio delle sommosse in Asia, il cui fabbisogno di riso è ben noto:

“I primi tumulti da penuria sono scoppiati nelle Filippine e in Indonesia, i focolai di protesta sono stati segnalati nelle metropoli sovrappopolate di Manila e Giacarta. Perfino in una città opulenta come Hong Kong il segretario al Commercio Ma Si-hang ha dovuto sguinzagliare i suoi ispettori nei supermercati, per combattere i fenomeni di accaparramento: da qualche settimana le casalinghe dell´isola cinese si precipitano a svuotare gli scaffali per farsi le scorte in casa come alla vigilia di un cataclisma. Dilaga la crisi del riso, da millenni un simbolo dell´Oriente, il cibo ancestrale per la sopravvivenza. In Asia 2,5 miliardi di persone dipendono ancora in modo soverchiante da questo alimento di base per la loro dieta quotidiana.

Ma il prezzo del riso è impazzito. A gennaio sui mercati mondiali si scambiava a 380 dollari la tonnellata. La settimana scorsa è schizzato a 760 dollari. Ieri ha sfondato i 1.009 dollari a tonnellata. È una febbre inflazionistica incontrollabile, che nessuno aveva visto arrivare. Ora le accuse puntano contro i soliti sospetti: gli hedge fund, la speculazione internazionale.

In parte è vero, il riso è l´ennesima «commodity» agricola su cui si sono avventati grossi investitori in cerca di rapidi profitti. È anche questa una «coda» perversa della crisi bancaria americana. Con il crollo di fiducia nel mercato del credito, la fuga dai titoli obbligazionari, la caduta del dollaro, le materie prime diventano il bene-rifugio per eccellenza su cui si riversano i capitali internazionali.

Ma speculazione stavolta è saltata su un treno già in corsa. Esaspera un fenomeno reale, non è lei la vera causa di questa crisi. Il Dipartimento dell´Agricoltura degli Stati Uniti ha lanciato l´allarme: «Le riserve mondiali di riso sono cadute ai minimi storici da 25 anni». Nell’era di Internet e dei telefonini queste notizie volano alla velocità della luce.

Raggiungono le campagne più remote della Tailandia, primo produttore mondiale di riso. I contadini tailandesi hanno smesso di portare i raccolti al mercato, accumulano le scorte in attesa che le quotazioni salgano ancora, sempre più in alto. Chookiat Ophaswongse, presidente della Thai Rice Exporters Association, rivela che molti contratti di vendita già firmati non vengono più onorati: «I contadini ci negano il riso, lo tengono ben nascosto nelle campagne». Robert Zeigler, direttore generale dell´Istituto di ricerca sul riso nelle Filippine, avverte la possibilità di una catastrofe: «Tutto il mercato è sull´orlo della paralisi».

L´incidente iniziale che è all´origine di questa spirale è una notizia di pochi mesi, un´epidemia di parassiti che ha decurtato i raccolti delle risaie nel Vietnam, terzo esportatore mondiale del prezioso alimento. E´ bastato l´allarme vietnamita per scatenare reazioni a catena, e rivelare una precarietà che ha cause più profonde. Il lungo boom delle economie asiatiche ha generato una pressione formidabile sui raccolti agricoli. Paesi come la Cina e l´India hanno visto raddoppiare i consumi di generi alimentari in meno di un ventennio. L´urbanizzazione ha moltiplicato dappertutto l´uso del riso, che si conserva facilmente nei magazzini, nei negozi e nelle case, è meno deperibile di molti cereali. Ma la produzione agricola non ha retto il passo con la crescita economica. La «rivoluzione verde» di trent´anni fa introdusse nuove tecniche di coltivazione, diffuse la meccanizzazione e i concimi chimici, salvò l´India e altri paesi asiatici dallo spettro delle antiche carestie. Dopo quel benefico balzo in avanti in molti paesi il progresso nell´agricoltura si è quasi fermato.

La modernizzazione nei campi è passata in secon'ordine rispetto agli investimenti in altri settori trainanti dell´industria e dei servizi. In tutta l´Asia dal 2000 a oggi il miglioramento della produttività agricola è stato impercettibile, appena l´1% all´anno, un´inezia rispetto alle spettacolari avanzate nella produzione manifatturiera. Intanto la superficie coltivabile continua a diminuire inesorabilmente, assediata dalla costruzione di nuove fabbriche, di nuove città, dall´inquinamento e dalla desertificazione. Già oggi la superficie agricola disponibile è ridotta: 650 metri quadri per abitante in India, 600 in Cina, contro 1.900 negli Stati Uniti. Per effetto del semplice aumento della popolazione - senza neppure contare l´ulteriore perdita di terreni arabili per l´urbanizzazione o l´industrializzazione - tra meno di vent´anni questa superficie agricola sarà scesa a 530 metri quadri pro capite in Cina e 520 in India.

Kamal Nath, il ministro del Commercio indiano, ammette che «l´approvvigionamento alimentare è tornato a essere il nostro problema numero uno, le scorte a disposizione non sono mai state così basse». Sembra impossibile: le nuove superpotenze dell´economia mondiale sono tutte in Asia, accumulano attivi commerciali giganteschi invadendo il mondo dei loro prodotti, dal tessile-abbigliamento ai computer e telefonini. Ai colossi asiatici non mancano certo i mezzi finanziari per comprare alimenti sui mercati mondiali. Ma a una condizione: che ci sia qualcuno in grado di venderli. L´aspetto patologico della crisi del riso è proprio il prosciugarsi del commercio internazionale. Ha cominciato il Vietnam: ha imposto un taglio netto dell´11% alle sue esportazioni per dare la priorità all´approvvigionamento domestico. L´India a sua volta ha messo l´embargo alle vendite di riso all´estero, per tenersi in casa tutto quello che produce. Ora perfino il governo della Tailandia ha deciso di contingentare le sue esportazioni, per timore di «disordini sociali» se il prezzo del riso sul mercato interno sale troppo. E´ un circolo vizioso che allarga le dimensioni della crisi. Antoine Bouet, ricercatore all´International Food Policy Research Institute di Washington, ha denunciato gli effetti di queste politiche: «Ogni volta che un grosso produttore di riso come il Vietnam decide di tagliare le sue esportazioni, è uno choc che genera onde concentriche in tutto il resto del mondo».

La logica che spinge i governi è implacabile. L´iperinflazione sul prezzo del riso migliora i redditi dei contadini ma taglieggia il potere d´acquisto delle immense popolazioni urbane. Ed è lì, nelle megalopoli asiatiche, che si rischiano proteste di massa e rivolte violente. Proprio perché il riso ha un valore simbolico così forte nella tradizione asiatica, dover ridurre gli acquisti per molte famiglie è il segnale di un regresso inaccettabile. Il formidabile decollo economico degli ultimi decenni ha sottratto alla miseria centinaia di milioni di persone; tuttavia in Asia vivono ancora 640 milioni di «poveri assoluti», con un reddito sotto la soglia minima di sussistenza. Grandi paesi come l´Indonesia, le Filippine e perfino l´Iran, pur non essendo più sottosviluppati, sono lontani dall´autosufficienza agricola e devono importare la maggior parte del fabbisogno di riso.

La situazione è ancora più drammatica per le nazioni africane che si sono convertite al consumo di riso nei decenni in cui abbondava e costava poco, e oggi sono improvvisamente tagliate fuori dai rifornimenti. La presidente delle Filippine, Gloria Macapagal Arroyo, è stata la prima a trarre la lezione di questa crisi con misure drastiche. Ha imposto una moratoria nazionale a tutte le licenze edilizie, per arrestare la trasformazione di terre coltivabili in centri urbani. e campi da golf. Poi ha lanciato un appello alle popolari catene di fast-food: «Dimezzate tutte le porzioni di riso». Sembra un gesto da economia di guerra, e riporta in Asia i ricordi di un passato che sembrava lontano.”

La grande fame e la sua geografia è confermata nel seguente articolo, pubblicato sull’Espresso (25. 04) a firma di Raimondo Bultrini e Satya Sivaraman

“Dal Messico al Bengala occidentale, dall'Egitto all'Indonesia. E poi Haiti, il Burkina Faso, il Camerun, la Costa d'Avorio, gli Stati del Golfo e di nuovo in Asia, nelle Filippine. Non c'è stato un continente senza proteste, disperazione, perfino rivolte. L'aumento negli ultimi sei mesi del prezzo di generi di prima necessità come il riso e il grano ha scatenato una crisi epocale, ancora distante dalle cifre della carestia nel Bengala del 1943 con i suoi tre milioni e mezzo di morti, ma di cui non si intravedono spiragli di ottimismo a breve.

Bilaspur è famosa in lingua hindi come Dhaan Ka Katora, la scodella di riso, e le fertili pianure che si estendono in molti distretti attorno a questa importante città del nuovo Stato indiano di Chhattisgarh sono l'orgoglio di un continente al terzo posto nel mondo tra gli esportatori e i consumatori del prezioso prodotto. Nei suoi 50 slum di catapecchie, gli abitanti mangiano tra i miasmi delle fogne a cielo aperto la porzione sufficiente per sopravvivere. Ma è oltre la sua periferia estrema, nella cittadina di Ganiyari, 20 chilometri a nord, che si cela il lato nascosto di uno Stato presentato dai dépliant turistici come una delle terre più ricche di tradizioni del Continente.

Qui c'è l'unica grande clinica dove i contadini e gli adivasi (i tribali) dalle foreste dei remoti distretti lontani anche 200, 300 chilometri, possono permettersi di farsi curare le molte malattie derivate da un unico ceppo sempre più contagioso: la fame. L'ha fondata nel 2000 un gruppo di giovani dottori laureati nella più prestigiosa università medica dell'India (Aiims), rinunciando ai principeschi salari delle strutture private.

Tra i letti delle stanze spartane allineati lungo gli stanzoni dell'ospedale giacciono dozzine di pazienti in gran parte giunti qui in condizioni estreme. Le cartelle cliniche di 244 uomini, donne e bambini ricoverati negli ultimi mesi, presentano un sintomo comune: malnutrizione. Il dottor Anurag Bhargav, uno dei fondatori dell'ospedale JSS, spiega che la media dei pazienti adulti non supera i 35 chilogrammi di peso, con il caso estremo di un uomo di 19 chili: "Mentre il resto del mondo parla della sindrome di immunodeficenza acquisita col virus dell'Hiv, noi siamo testimoni nel Chhattisgarh di una drammatica sindrome acquisita nutrizionale, che noi chiamiamo N-Aids".

Il dottor Bhargav preferirebbe non parlare con la stampa. Uno dei suoi colleghi diventati celebri sulle cronache indiane dell'ultimo anno, Binayak Sen, è ancora in carcere con l'accusa di avere collaborato con i maoisti naxaliti, nonostante una campagna nazionale per proclamare la sua innocenza e una petizione firmata da migliaia di poveri curati col lavoro semi-volontario di Sen e dei suoi colleghi. Ma di fronte all'evidenza degli uomini-scheletro allineati su lettini, materassi e tappeti del JSS, Bhargav non se la sente di girare attorno al problema che tormenta lui e gli altri medici ben prima della crisi dei prezzi: "È impossibile per degli estranei immaginare ciò che avviene qui, la fame fa più vittime che in Etiopia", sbotta.

I pazienti arrivano al JSS su carri tirati da buoi, su autorisciò, dentro pullman stracolmi e su treni dove la gente sale fin sopra i tetti come ai tempi dei viaggi di Gandhi. Qualcuno muore lungo il tragitto, altri subito dopo l'arrivo, altri riescono a riprendersi e tornare nei loro villaggi, dove però la situazione diventa sempre più problematica, soprattutto da quando la vertigine dei costi ha creato anche in India paradossali speculazioni sulle spalle dei più poveri.

Per evitare rivolte, e con l'occhio alle prossime elezioni, i governi nazionale e locale implementano programmi per la distribuzione di grano e riso a prezzi bassi. Dopo che il Bjp, il partito degli ultraortodossi hindu, ha annunciato per la festa religiosa del Makar Sankranti riso a 3 rupie al chilogrammo, contro i 15 del mercato, per 340 mila famiglie sotto la soglia della povertà, il progressista Congresso lo ha promesso a 2, sempre che riceva voti sufficienti.

Ma il vero problema, che non riguarda solo le quote calmierate, bensì gli stessi coupon, le carte delle razioni per anziani e disoccupati, i pasti gratuiti di mezzogiorno chiamati Anganwadi per i bambini delle scuole dei villaggi, è quello della distribuzione. Spesso gli abitati dove tribali e dalit (la casta più bassa del sistema hindu) si nutrono di radici, foglie, frutta, dei proventi di piccolo artigianato e, se va bene, pollame, sono poche case di fango o bambù sparse in regioni ricoperte da fitte foreste, senza elettricità, acqua potabile e strade degne di questo nome. Il viaggio verso i distretti dell'estremo sud di Chhattisgarh, Kanker, Bastar, Dantewada, è un inferno che solo gruppi di volontari noti come Mitanin si azzardano a percorrere per portare forme minime di assistenza, selezionare i casi più gravi da ricoverare negli ospedali delle città, dare consigli di igiene, distribuire vitamine e proteine ai più piccoli. Ne incontriamo numerosi, spesso semplici madri di famiglia che dedicano a questo lavoro per conto di ong locali parte del loro tempo dopo essere state a loro volta aiutate in passato.

Nonostante il loro impegno e i notevoli passi in avanti rispetto a un passato ancora più tragico, Chhattisgarh mantiene il più alto tasso di mortalità infantile e materno: 70 bambini deceduti ogni mille contro i 63 della media nazionale - record mondiale - per un totale di due milioni di piccoli (fonte Unicef) uccisi ogni anno da malattie prevenibili. Tra la sola tribù dei Kamar che vive a sud-est della capitale Raipur nel distretto Dhamtary, una équipe universitaria ha scoperto che nell'età tra i 4 e i 6 anni 90 soggetti su 100 sono gravemente sottopeso.

Per secoli i Kamar e le altre tribù della zona hanno vissuto dei prodotti dei boschi e dei piccoli allevamenti di animali domestici, ma la globalizzazione, che ha portato all'India un lusinghiero 9 per cento di crescita annua, ha spinto a sacrificare le grandi foreste e i fiumi, affidando a grandi compagnie private, anche straniere, vaste fette di territorio demaniale per industrie, dighe e miniere. Chhattisgarh è uno degli Stati più ricchi di risorse del sottosuolo, e gli adivasi hanno dovuto cedere alle imprese di estrazioni fasce sempre più vaste di terre ancestrali.

Escluse le città che non offrono facile asilo a popolazioni che parlano spesso solo antichi dialetti e sono vissute isolate per secoli, nemmeno la campagna offre un'alternativa valida. Il costo dei semi, dei fertilizzanti, dei pesticidi e dell'elettricità, senza contare i trasporti e la benzina, oltre alle dissennate stagioni dell'effetto serra, hanno reso proibitiva quella che era un tempo la base di sussistenza del 70 per cento della popolazione indiana, a cominciare dai contadini senza terra delle caste basse. Per sviluppare l'industria e l'alta tecnologia, l'India - e Chhattisgarh non ha fatto eccezione - ha lasciato indietro l'agricoltura. Non solo. La grande varietà di semi di grano e di riso di cui disponeva è stata sostituita da stock in gran parte importati da grandi compagnie multinazionali come la Monsanto, buoni per il cosiddetto cash crop, raccolto monetizzabile, ma spesso sterili dopo un anno di utilizzo e a basso potere proteico.

I contadini che avevano un minimo di capitale da spendere si sono indebitati fino al collo, nel Chhattisgarh come in Maharashtra, Madhya e Andra Pradesh, portando in queste regioni il numero dei suicidi per debiti alla impressionante cifra di 17 mila nel solo 2006. Il dato sconvolgente, rilevato dal National Crime Records Bureau del ministero degli Interni, ma a lungo negato da stampa e autorità (tanto che il primo ministro Singh ha offerto ricompense solo ai contadini delle altre regioni), fissa la statistica di Chhattisgarh a ben quattro contadini morti ogni giorno. Un altro record negativo assoluto rispetto al resto dell'India.

A rendere ancor più paradossale la situazione c'è stato l'effetto perverso della liberalizzazione dei mercati, con l'autorizzazione da parte del governo indiano alla vendita di grossi quantitativi di prodotti agricoli che in tempi di crisi come questi avrebbero permesso di salvare milioni di vite. Paesi stranieri come l'Australia continuano ad acquistare sul mercato indiano grano a prezzi incredibilmente bassi, 3 mila rupie contro le 10 mila dello standard internazionale. Ma allo stesso tempo l'India ha acquistato per la prima volta nel 2006 e nel 2007 grandi quantitativi di grano e riso all'estero, contribuendo all'impennata dei prezzi sul mercato globale. Non a caso adesso il prodotto viene accumulato nei magazzini in attesa degli inevitabili rialzi (sono già più che raddoppiati negli ultimi dieci mesi) e non può essere soddisfatta l'enorme richiesta di intere popolazioni senza risorse alimentari.

Ad ammettere candidamente al settimanale indiano 'Business Standard' che "non esiste un meccanismo statale per limitare l'impennata dei prezzi", è stato pochi giorni fa il segretario generale delle Finanze di Chhattisgarh D. S. Misra: "L'unica cosa che lo Stato può fare è cercare le quantità necessarie al mercato nero". Ma lo stesso capo dei ministri di Chhattisgarh, Raman Singh, nel marzo scorso ha messo il dito su una ulteriore piaga. Ha chiesto al governo centrale di ridefinire i parametri della soglia di povertà: "Qual è la razionalità dei dati accettati della commissione di Pianificazione che parlano del 27 per cento di popolazione sotto la soglia di povertà, quando la malnutrizione supera il 50 per cento?".

Nonostante i possibili interessi elettorali dietro la dichiarazione del ministro, i suoi dati non si discostano dalle scoperte dell'Unione popolare per le libertà civili, una delle organizzazioni fondate dal medico Binayak Sen imprigionato per 'maoismo' e collegata all'ospedale JSS. In una ricerca condotta nei distretti meridionali di Bastar e Dantewada ha enumerato le cause delle repentine e innumerevoli morti tra i tribali dei villaggi di Burgum e Hirpal: febbri, malattie della pelle, tubercolosi, diarree, vomito inarrestabile, perdita di peso. Le conseguenze di una severa e prolungata malnutrizione, cominciata nel grembo materno.

Il Nobel Amartya Sen aveva detto a gennaio che in fatto di fame l'India è messa peggio delle regioni dell'Africa sub-sahariana, con il doppio di casi di malnutrizione da mancanza di proteine energetiche, la metà dei suoi bambini cronicamente sottonutriti e più di metà delle donne sofferenti di anemia. E poi ha aggiunto: "Parte dei motivi vanno cercati nel fatto che i sussidi sono andati gran parte ai produttori per tenere i prezzi alti, invece che aiutare a mantenerli bassi per gli acquirenti".”

Moises Naim, direttore del bimestrale Foreign Policy e studioso delle dinamiche globali, fornisce su Repubblica (27. 4) un primo bilancio globale:

“Né Wall Street, né il settore immobiliare. Il problema è il riso, i cui prezzi internazionali sono esplosi: in un solo giorno l'aumento è stato del 10 per cento, e nelle ultime due settimane addirittura del 50. Neppure in tempi di guerra aveva raggiunto livelli così alti. Basterà ricordare che il riso è un elemento fondamentale della dieta quotidiana di 3 miliardi di persone. A far impennare il prezzo del riso è stata la diffusione del panico, sia tra i paesi produttori che tra i consumatori. Nel timore di una strozzatura nei rifornimenti i paesi importatori hanno aumentato drasticamente i loro acquisti; e dal canto loro i produttori, preoccupati di non poter soddisfare il fabbisogno della popolazione locale, hanno limitato le esportazioni. Così il nervosismo degli acquirenti ha coinciso con le pratiche di accaparramento preventivo, portando i prezzi a livelli stratosferici. E non è solo questione di riso. Stanno crescendo i prezzi delle derrate alimentari in genere.

I rincari colpiscono tutti, ma i più poveri ne risentono tragicamente. In Egitto il pane non basta più.

La quotazione internazionale del grano è raddoppiata in quest'ultimo anno, e per un effetto perverso i controlli i prezzi e i sussidi governativi fanno sì che il pane non arrivi sulle tavole dei poveri, ma venga venduto al mercato nero a prezzi maggiorati. I parapiglia delle code per il pane hanno già causato sei vittime, morte per asfissia o accoltellate. Ancora una volta la fame generalizzata incombe sulla vita di milioni di africani.

Ma oggi, più che le popolazioni rurali delle zone isolate, colpisce le folle ammassate nelle città.

In Argentina, dove la bistecca è importante quanto il pane in Egitto o il riso in Asia, c'è carenza di carne bovina. Dovunque i rincari dei generi alimentari, l'accaparramento e la speculazione provocano duri scontri politici, conflitti tra produttori e consumatori, tra regioni rurali e urbane e tra paesi esportatori e importatori. E la crisi non risparmia neppure i ceti medi dei paesi ricchi.

Ci troviamo evidentemente in presenza di un fenomeno globale grave, con caratteristiche senza precedenti.

La fame è un'esperienza umana antichissima. Le storie di carestie si trovano nella narrativa di tutte le religioni. Ma l'attuale precarietà del sistema alimentare mondiale ha cause molto moderne, dovute tanto ai maggiori successi quanto a gravi insuccessi dell'azione dei governi. Progressi scientifici miracolosi e ritardi tecnologici, ricorso al mercato per risolvere i problemi e incapacità di intervenire adeguatamente laddove il mercato fallisce.

In parte, il rincaro dei generi alimentari è dovuto a un recente, favoloso trionfo dell'umanità: mai prima d'ora tanta gente ha potuto permettersi di mangiare tre volte al giorno.

Il Brasile, il Vietnam, la Turchia, la Cina e l'India sono solo alcuni dei Paesi dove milioni di persone hanno oggi la possibilità di nutrirsi meglio, quantitativamente e qualitativamente. Grazie alle rivoluzioni scientifiche, la produttività dell'agricoltura è aumentata notevolmente, e sono in vista ulteriori incrementi. Ma per quanto rapida sia stata la crescita della produzione alimentare, il suo ritmo non riesce a stare al passo con l'aumento dei consumi. Da qui i rincari. Ma a inibire la crescita della produzione intervengono altri fattori, e in particolare, in questi ultimi tempi, il cambiamento climatico.

In Asia i raccolti di riso sono stati compromessi da un'inedita alternanza di periodi di siccità e di piogge torrenziali. In altri paesi i cicli dei raccolti si stanno abbreviando e i cambiamenti climatici causano nuove calamità. L'alto prezzo del petrolio ha dato origine alla moda dei biocombustibili: per i coltivatori oggi è più redditizio produrre mais per riempire i serbatoi delle auto che per saziare la fame degli esseri umani. L'aumento del prezzo del mais stimola la domanda, spingendo verso l'alto anche i prezzi degli altri cereali. Con la conseguenza che in Messico la gente scende in piazza a protestare. Ma a influenzare la produzione mondiale di generi alimentari sono soprattutto le politiche dei governi, che dimostrano una netta propensione a favorire i produttori, scaricando i costi sui consumatori. In tutti i Paesi, le lobbies dell'agricoltura hanno più mezzi, più influenza e sono meglio organizzate di quelle dei consumatori di generi alimentari. Che paradossalmente siamo noi tutti. Si spiega così il groviglio surreale di tariffe, sussidi, controlli, incentivi e regolamenti, fonte di inefficienza e di corruzione nel settore agricolo e nel commercio internazionale delle derrate alimentari. La buona notizia è che in conseguenza della crisi alimentare mondiale, molte delle distorsioni e degli ostacoli oggi esistenti diverranno sempre più onerosi, tanto da risultare insostenibili.

traduzione di Elisabetta Horvat”

4.

I dati drammatici vanno interpretati. Le analisi più lucide del fenomeno sono state fornite, a mio avviso, da Paul Krugman, Luciano Gallino e Jean Ziegler.

Su Repubblica (9. 04) Paul Grugman scrive:

“Che cosa c' è dietro la crisi mondiale alimentare? Di questi tempi sentiamo molto parlare di crisi finanziaria mondiale. Tuttavia, c' è un'altra crisi in atto, che sta nuocendo ad ancora più persone: mi riferisco alla crisi alimentare. Nel corso degli ultimi anni i prezzi di grano, mais, riso e altri ingredienti di base della dieta umana sono raddoppiati se non triplicati, e il grosso di tale aumento si è verificato negli ultimissimi mesi. Gli alti prezzi dei generi alimentari sgomentano perfino gli americani relativamente benestanti. Ma sono a dir poco devastanti nei Paesi poveri, dove il cibo costituisce molto spesso oltre la metà della spesa di un nucleo famigliare. Nel mondo sono già scoppiati disordini per la crisi alimentare. I Paesi che esportano cereali - dall' Ucraina all' Argentina - stanno ponendo un limite alle esportazioni nel tentativo di tutelare i loro consumatori, suscitando così le forti e irate proteste dei coltivatori e peggiorando la situazione nei Paesi costretti necessariamente a importare i generi alimentari di cui hanno bisogno. Come si è arrivati a tanto?

Troviamo risposta a questo interrogativo nel convergere di trend a lungo termine, calamità naturali e pessime politiche. Iniziando a esaminare i fattori non imputabili a nessuno, dobbiamo prima di ogni altra cosa tener conto dell'"avanzare" della massa di cinesi che consumano carne, ovvero del crescente numero di individui delle economie emergenti che per la prima volta sono abbastanza ricchi da potersi nutrire come gli occidentali. Poiché per produrre una bistecca che fornisce 100 calorie occorre una quantità di mangimi animali pari a 700 calorie, questo semplice cambiamento nel regime alimentare umano comporta un aumento della domanda complessiva di cereali.

Secondo: il prezzo del petrolio. Le moderne tecniche agricole richiedono un notevole dispendio energetico: si utilizzano molte Btu (British Termal Unit, unità di misura dell' energia usata nei Paesi anglosassoni che non adottano il nostro Joule; una Btu è la quantità di calore necessaria ad alzare la temperatura di 454 grammi di acqua da 60 a 61 gradi Fahrenheit, NdT) per produrre i fertilizzanti, far funzionare i trattori e, non ultimo, trasportare ai consumatori i prodotti agricoli. Con il petrolio che rimane costantemente sopra ai 100 dollari al barile, i costi energetici sono diventati una delle cause principali dell'aumento delle spese agricole. L' alto costo del petrolio - a proposito - ha molto a che vedere con la crescita della Cina e di altre economie emergenti: direttamente e indirettamente queste potenze economiche in ascesa si stanno mettendo in concorrenza con noi per accaparrarsi risorse ormai scarse, compresi il petrolio e la terra coltivabile, e ciò incide sui prezzi delle materie prime di ogni tipo che naturalmente aumentano.

Terzo, nelle principali aree di produzione dei cereali si è registrato un susseguirsi di calamità naturali. In particolare l' Australia, di norma il secondo Paese al mondo per le esportazioni di grano, sta vivendo una siccità spaventosa.

Pur avendo premesso che questi fattori alle radici della crisi alimentare non sono imputabili a nessuno, non è proprio così: l'ascesa della Cina e di altre economie emergenti è sì la causa primaria dell'aumento del prezzo del petrolio, ma l'invasione dell'Iraq - che secondo chi la volle avrebbe dovuto al contrario portare a un abbassamento notevole del costo del petrolio - ha oltretutto ridotto significativamente le scorte di greggio, molto più di quanto non sarebbe avvenuto altrimenti. Le avverse condizioni climatiche, specialmente la siccità in Australia, probabilmente sono in relazione al cambiamento del clima, pertanto le leadership politiche e i governi che hanno intralciato le iniziative miranti a ridurre le emissioni di gas serra sono in effetti responsabili quanto meno in parte delle penurie alimentari.

Dove sono quanto mai evidenti le pessime politiche, tuttavia, è nella crescita del "demone" etanolo e di altri biocarburanti. Si presumeva che la conversione delle colture in combustibile, promossa tramite i sussidi, dovesse favorire l' indipendenza energetica e contribuire a ridurre il riscaldamento globale. Invece questa promessa - per dirla con le parole categoriche di Time Magazine - era "una truffa". Ciò è quanto mai vero per l' etanolo ottenuto dal mais: perfino dalle stime più ottimistiche risulta che per produrre dal mais un gallone di etanolo è necessaria una quantità di energia pari alla maggior parte di quella che il gallone stesso assicura. Si è anche scoperto che le politiche apparentemente "buone" di sussidi ai biocarburanti - quali l' uso da parte del Brasile di etanolo ottenuto dalla canna da zucchero, per esempio - accelera il ritmo col quale si determina il cambiamento climatico perché incentiva la deforestazione. Nel frattempo, la terra utilizzata per coltivare la materia prima dei biocarburanti non è ovviamente utilizzabile per coltivare prodotti destinati all'alimentazione umana e di conseguenza i sussidi ai carburanti sono un fattore determinante nella crisi alimentare.

Possiamo anche metterla in questi termini: in Africa la gente muore di fame affinché i politici americani possano andare in cerca di voti negli Stati agricoli americani. Nel caso ve lo stiate domandando: tutti i candidati rimasti che aspirano alla presidenza degli Stati Uniti sono tremendi, da questo punto di vista.

Un' altra cosa ancora: una delle ragioni per le quali la crisi alimentare è diventata così grave, in così poco tempo e con tale rapidità, è che i principali attori del mercato dei cereali sono diventati compiacenti. I governi e i rivenditori indipendenti di cereali erano soliti in tempi normali tenere da parte ingenti scorte, nel caso in cui un cattivo raccolto avesse provocato una penuria improvvisa. Nel corso degli anni, però, tali scorte precauzionali poco alla volta si sono rimpicciolite, soprattutto perché tutti erano ormai pervenuti a ritenere che i Paesi colpiti da un'insufficienza di raccolti potessero in ogni caso importare gli alimenti di cui avevano bisogno. Ciò ha reso l' equilibrio alimentare mondiale quanto mai vulnerabile nei confronti di una crisi che colpisce molti Paesi a uno stesso tempo - nell'identico modo in cui la vendita di complessi titoli finanziari che si presumeva dovessero allontanare i rischi diversificandoli, ha conciato male i mercati finanziari globali, rendendoli fortemente vulnerabili a un grande shock di sistema.

Che fare, adesso? La necessità più impellente è aiutare le popolazioni colpite dalla crisi alimentare: il Programma Alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha lanciato un disperato appello per reperire maggiori finanziamenti. Dobbiamo altresì ripudiare i biocarburanti che si sono rivelati un errore madornale. Non è chiaro, nondimeno, quanto si possa concretamente fare in merito. Forse gli alimenti a buon mercato sono una cosa del passato, ormai, proprio come il petrolio a buon mercato."

2008 The New York Times Traduzione di Anna Bissanti

Concordante con Krugman, ma addirittura più incisivo, è Luciano Gallino su Repubblica (5. 05) il cui titolo è inequivocabile - Così l´occidente produce la fame nel mondo - :.

“Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.

Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee. L´intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone. Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.

Dall´India all´America Latina, dall´Africa all´Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttività per ettaro è aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l´unica non americana del gruppo. Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta. Oppure si uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle corporation dell´agro-business. Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.

È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l´imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l´Organizzazione mondiale per il commercio. Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l´Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell´Africa, dei prodotti locali. Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.

Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall´altro Paese il prodotto che quello fa meglio. Ma l´onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un´unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunità locale.

Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito per vie naturali. Le grandi società dell´agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall´idea d´un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.

Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.

Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent´anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l´hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.

Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare. Può spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all´ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell´immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell´agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza finanziaria. Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.”

La conferma dell’analisi di Krugman e Gallino viene da Jean Ziegler, che, rinunciando al suo mandato di inviato speciale per le nazioni Unite per la crisi alimentare mondiale, risponde nei seguenti termini alle domande di Vittorio Malagutti (Repubblica 22. 04):

"Un rapporto della Banca mondiale prevede che i prezzi agricoli non diminuiranno almeno fino al 2015. È d'accordo? E nel frattempo, come si può affrontare il problema?

"Mi sembra chiaro che la corsa dei prezzi non rallenterà ancora per un lungo periodo. Vanno adottate al più presto alcune misure di emergenza. Tanto per cominciare, la comunità internazionale dovrebbe al più presto dichiarare una moratoria mondiale di cinque anni sui biocarburanti. Bisogna inoltre imporre nuove regole per bloccare la speculazione sulle materie prime agricole. Gli hedge fund devono smetterla di speculare su questi prodotti".

In che modo la produzione di biocarburanti contribuisce ad alimentare le tensioni sui prezzi internazionali dei prodotti agricoli?

"I biocarburanti destabilizzano i mercati mondiali. I governi dovrebbero vietare la produzione di benzine alternative ottenute da materie prime alimentari come il mais o la soia. Altrimenti la fame nel mondo aumenterà".

Perché?

"Faccio due esempi. Per rispettare l'obiettivo di coprire entro il 2020 il 10 per cento del fabbisogno europeo di benzina con il bioetanolo, l'Unione europea sarà costretta a produrre questi carburanti in Africa, aumentando i problemi di alimentazione di quei Paesi. Quando gli Stati Uniti, grazie a 6 miliardi di dollari di sovvenzioni pubbliche, finanziano una politica a favore dei biocarburanti che toglie dal mercato 138 milioni di tonnellate di mais, si gettano le basi di un crimine contro l'umanità con l'unica motivazione di soddisfare la sete smodata di carburanti degli americani. È giusto promuovere l'uso dei biocarburanti, a condizione che siano prodotti con residui vegetali come i trucioli di legno o gli scarti della canna da zucchero utilizzati in Brasile. Ma il processo di lavorazione di questi materiali è molto complesso e costoso. Difficilmente, quindi, queste benzine alternative potranno diffondersi molto".

Qual è il ruolo della speculazione sull'aumento dei prezzi delle materie prime?

"Con la crisi delle Borse gli investitori si sono riversati sui mercati delle materie prime agricole, che sono molto meno regolamentati rispetto a quelli azionari. Alla Borsa di Chicago si può comprare un contatto future su tutta la raccolta di soia in Brasile versando solo il 5 per cento del valore del contratto. Fissare un livello minimo d'investimento molto più alto, per esempio il 30 per cento, può contribuire a frenare considerevolmente la speculazione sui cereali".

Diversi Paesi, per esempio Argentina, Egitto e Vietnam, hanno bloccato le loro esportazioni di cereali e riso per soddisfare la domanda interna. Queste decisioni finiscono per contribuire all'aumento dei prezzi perché diminuisce la disponibilità di materie prime agricole sui mercati internazionali. Come si può interrompere questa spirale?

"Questi paesi hanno tutto il diritto di imporre queste misure per ridurre le conseguenze della crisi mondiale sui propri cittadini. Ricordiamoci che molto spesso è la fame a causare le rivoluzioni. A mio parere i blocchi all'export sono giustificati anche se causano un ulteriore aumento dei prezzi internazionali. Non tocca certo a questi paesi farsi carico del problema".

Il presidente Usa George Bush ha appena sbloccato 200 milioni di dollari per rispondere all'appello della Banca mondiale che ha chiesto 500 milioni di dollari per affrontare l'emergenza alimentare. A suo parere questo è il segnale di un cambio di rotta nella politica americana in tema di lotta alla povertà?

"È semplicemente fumo negli occhi. Bush reagisce a livello umanitario nel tentativo di distogliere l'attenzione dalle conseguenze della politica. È una semplice mossa tattica e invece servirebbe un nuovo approccio di lungo periodo".

Prevede che sarà possibile raggiungere il primo dei cosiddetti Millennium Goals fissati dalle Nazioni Unite, e cioè diminuire della metà il numero delle persone che nel mondo vivono al di sotto della soglia di povertà, meno di un dollaro di reddito al giorno?

"No, si può dire fin d'ora che questo obiettivo non potrà essere raggiunto. Siamo al disastro totale. Un insuccesso completo".

Il 30. 05, infine, il Manifesto riporta un articolo di Ziegler che stigmatizza senza mezzi termini la violazione del diritto al cibo e quantifica le cause della crisi attuale:

“Le cause che hanno scatenato l'attuale crisi della produzione alimentare hanno, per molti versi, generato una violazione del diritto alla nutrizione.

Lo scorso anno, dal febbraio 2007 al febbraio 2008, il prezzo del frumento sul mercato internazionale è cresciuto del 130%, quello del riso del 74%, quello della soia dell'87%, quello del granoturco del 31%. In media, in questo periodo, il prezzo dei prodotti di prima necessità è cresciuto di oltre il 40%. Le cause che hanno scatenato l'attuale crisi della produzione alimentare hanno, per molti versi, generato una violazione del diritto alla nutrizione.

Lo scorso anno, dal febbraio 2007 al febbraio 2008, il prezzo del frumento sul mercato internazionale è cresciuto del 130%, quello del riso del 74%, quello della soia dell'87%, quello del granoturco del 31%. In media, in questo periodo, il prezzo dei prodotti di prima necessità è cresciuto di oltre il 40%.

Ci sono tre importanti aspetti preliminari da considerare. Innanzitutto, paesi forti come l'India, la Cina, l'Egitto e altri sono attualmente in grado di fornire alla loro popolazione gli alimenti di primaria necessità, anche se questo non sarà un processo a lungo termine. Ma la maggior parte dei paesi più poveri non ha la stessa capacità. Haiti consuma in genere annualmente 200 mila tonnellate di farina e 320 mila di riso. Il 100% della farina consumata è d'importazione, e così il 75% del riso. Tra il gennaio del 2007 e il gennaio del 2008 il prezzo della farina a Haiti è salito dell'83% e quello del riso del 69%. Sei dei nove milioni di haitiani vivono in condizioni di estrema povertà. Molti di loro sono ridotti a cibarsi di focacce impastate col fango.

In seconda analisi, gli accordi per l'esportazione prevedono che circa il 90% dei prodotti di prima necessità siano venduti «free on board» (Fob) - con costi di trasporto a spese dell'acquirente. Alcuni, ma solo una minoranza, vengono venduti «Cost, insurance and freight» (Cif) - con costi di trasporto a carico del venditore. Ciò significa che generalmente si deve aggiungere il costo del trasporto al già altissimo prezzo che i prodotti alimentari hanno raggiunto nel mondo, cosa che peggiora la situazione considerato il prezzo del petrolio. Ad esempio molti paesi dell'Africa occidentale come il Mali, il Senegal e altri, importano fino all'80% dei generi alimentari dall'estero, soprattutto il riso dalla Thailandia e dal Vietnam.

Terzo punto, la tragedia incombente dell'aumento dei prezzi acutizza una tragedia già in atto, quella della fame, che nel 2007 ha ucciso sei milioni di bambini al di sotto dei dieci anni. Mentre parliamo delle cause che determinano la nuova crisi dei prodotti alimentari, una crisi già consolidata continua il suo cammino. Le statistiche della World Bank (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, o Birs) dicono che 2.200 miliardi di persone vivono in condizioni di estrema povertà e che i costi di nutrizione si prendono l'80-90% del reddito familiare. In Europa la proporzione cambia: solo il 10-15% del reddito viene utilizzato a scopo nutrizionale. La situazione dei poveri, molti dei quali vivono nei centri urbani, è dunque questa: per colpa dell'abnorme aumento dei prezzi, essi stanno via via scivolando nell'abisso della fame.

Quali sono le cause principali delle gravi violazioni dei diritti alla nutrizione conseguenti all'aumento dei prezzi? E qual'è la causa di tale aumento? Una delle principali è la speculazione, che avviene soprattutto alla Chicago commodity stock exchange (Borsa delle materie prime agricole di Chicago), dove vengono stabiliti i prezzi di quasi tutti i prodotti alimentari del mondo. Tra il novembre e il dicembre dello scorso anno il mercato finanziario mondiale è crollato e più di mille miliardi di dollari investiti sono andati in fumo. Di conseguenza la maggioranza dei grandi speculatori, come quelli che investivano in hedge funds, hanno finito per investire in options e futures sui prodotti agricoli grezzi e sui generi di prima necessità.

Nel 2000 il volume commerciale dei prodotti agricoli alle varie Borse ammontava approssimativamente a dieci miliardi di dollari. A maggio del 2008 ha raggiunto i 175 miliardi di dollari. Solo nel mese di gennaio 2008, quando è iniziata questa inversione di tendenza, 3 miliardi di nuovi dollari sono stati investiti alla Chicago commodity stock exchange. Tutti i generi di prima necessità sono per lo più controllati da almeno otto grandi multinazionali. La più grande società che commercia grano è la Cargill, nel Minnesota, che l'anno scorso controllava il 25% di tutti i cereali prodotti nel mondo. I profitti della Cargill nel primo trimestre del 2007 hanno raggiunto i 553 milioni di dollari. Nel primo trimestre del 2008 sono arrivati a un miliardo e 300 milioni.

E' difficile calcolare esattamente quanto la speculazione abbia influito sull'aumento dei prezzi. La World Bank fa una stima che si aggira intorno al 37%. Heiner Flassbeck, Direttore della Divisione strategie globalizzazione e sviluppo dell'Unctad (United nations conference on trade and development), sostiene che questa percentuale si possa tranquillamente raddoppiare. La seconda causa dell'esplosione dei prezzi è la massiccia distruzione di prodotti quali cereali e granoturco, finalizzata alla produzione di bioetanolo e biodiesel (agrocarburanti). Solo nello scorso anno gli Stati Uniti d'America hanno incenerito 138 milioni di tonnellate di granoturco, cioè un terzo della raccolta annuale, per trasformarlo in bioetanolo. E la Comunità europea si sta muovendo nella stessa direzione. John Lipsky, il secondo al vertice del Fondo monetario internazionale, sostiene che l'utilizzo dei prodotti agricoli nella produzione del bioetanolo, in particolar modo il granoturco, sia responsabile dell'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari almeno al 40%.

Ma di questo nefasto aumento non sono certo meno responsabili i programmi di revisione del Fondo monetario mondiale e le politiche della Organizzazione mondiale del commercio. Per molti anni queste organizzazioni hanno dato priorità all'esportazione di prodotti quali cotone, zucchero di canna, caffè, tè, arachidi, e questo ha generato pericolose negligenze di fondo a scapito della «food security», la sicurezza alimentare. Lo scorso anno, ad esempio, il Mali esportava 380mila tonnellate di cotone e importava l'82% dei suoi prodotti alimentari. Questa politica agricola sbagliata imposta ai paesi in via di sviluppo è oggi per gran parte responsabile della catastrofe, poiché le popolazioni interessate non sono in grado di permettersi gli altissimi costi dei generi alimentari.

Detto questo, è evidente che il Consiglio dei diritti umani dell'Onu può farsi avanti e giocare un ruolo essenziale nella soluzione di un problema tanto grave che negli anni a venire non potrà far altro che peggiorare.

Per risolvere la crisi alcuni suggeriscono le seguenti soluzioni:

1. La speculazione va regolata. L'Unctad sostiene che i prezzi dei prodotti di primaria necessità non debbono essere soggetti alle speculazioni di Borsa, ma che andrebbero stabiliti da accordi internazionali fra paesi produttori e paesi consumatori. Il metodo dell'Unctad di regolare tali accordi attraverso buffer stocks (scorte cuscinetto) e stabex (system for the stabilisation of export, fondo di stabilizzazione dei proventi alle esportazioni a favore dei paesi Africa-Caraibi-Pacifico) potrebbe essere una soluzione. La soluzione complementare è quella di riformare drasticamente le regole dei futures e delle options attraverso norme che permettano di controllare gli abusi più gravi.

2. Un'altra soluzione al problema sta nel vietare in modo assoluto la trasformazione dei prodotti agricoli in biocarburanti. La facilità di movimento concessa al Nord del mondo dall'uso di centinaia di milioni di automobili non si può far scontare alle popolazioni affamate e prive del più basilare sostentamento solo perché abitano la parte più bassa dello stesso mondo.

3. Le istituzioni di Bretton Woods e l'Organizzazione mondiale per il commercio potrebbero cambiare i parametri della loro politica nell'agricoltura e dare assoluta priorità agli investimenti nei prodotti di prima necessità e nella produzione locale, compresi i sistemi di irrigazione, le infrastrutture, le semenze, i pesticidi eccetera. I lavoratori della terra e i suoi prodotti sono stati trascurati per troppo tempo. La situazione che ha visto gli agricoltori emarginati dai processi di sviluppo e discriminati nei diritti va cambiata al più presto. Le nazioni, le organizzazioni internazionali e le agenzie per lo sviluppo bilaterale devono dare assoluta priorità agli investimenti sui prodotti agricoli primari e sulla produzione locale.

4. C'è poi un problema di coerenza. Molti dei paesi che fanno parte della International covenant on economic, social and cultural rights (Convenzione internazionale dei diritti economici, sociali e culturali) sono anche membri delle istituzioni di Bretton Woods e dell'Organizzazione mondiale per il commercio. Quando i loro rappresentanti votano, nel Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale e nel Consiglio governativo della Banca mondiale, dovrebbero dare priorità assoluta ai diritti dell'alimentazione e tenere conto dei predetti suggerimenti. E allo scopo di esaminarli a fondo, sarebbe anche utile che il Consiglio stabilisse di dare un mandato al Consultivo della Commissione.

Traduzione di Silvana Pedrini"

5.

E’ evidente che i fenomeni prodotti dalla globalizzazione sono difficili da analizzare perché coinvolgono indefinite variabili. Anche in rapporto al problema della crisi agroalimentare si vanno pertanto definendo due schieramenti di esperti: i conservatori e fautori del sistema capitalistico tendono a sottolineare il peso delle richieste di consumo (energetico e alimentare) dei paesi emergenti, vale a dire di una conseguenza positiva della globalizzazione che, nell’immediato, ha effetti negativi; i progressisti e i critici del sistema valorizzano, invece, la sottrazione ai bisogni alimentari umani di prodotti da trasformare in energia per le macchine e la speculazione che investe contemporaneamente il petrolio e gli alimentari.

Qual è il peso reale di questi due fattori?

Sul mercato dei biocarburanti scrive su Repubblica Luigi Dell’Oglio (Affari&Finanze 26. 2):

“I derivati sulle biomasse sono l' ultima frontiera degli investimenti finanziari in energie alternative. Le preoccupazioni relative alle disponibilità future di petrolio e le politiche a favore delle fonti rinnovabili hanno cambiato negli ultimi mesi le prospettive del mercato. Favorendo la domanda di prodotti evoluti per chi vuole investire in energia pulita. Le biomasse utilizzabili per produrre energia (categoria che comprende, tra gli altri, residui del legno, colture zuccherine, cereali, canna, patate, eucalipto e scarti degli allevamenti) rappresentano il principale fattore di novità perché sono utilizzabili per i più svariati impieghi: dai combustibili solidi per riscaldamento ed energia elettrica, a quelli liquidi per riscaldamento, fino ai combustibili gassosi per generazione di energia termica ed elettrica.

«Negli ultimi mesi si è scatenata la caccia a tutti i beni in grado di produrre bioenergie - osserva Dante Buonsanto, direttore di Activetrades, broker londinese specializzato nel mercato dei derivati - Così prodotti storicamente di nicchia come quelli agricoli si trovano d' improvviso al centro dell'attenzione generale». L' esempio più evidente del trend in atto riguarda il mais: a gennaio i future quotati al Chicago Board of Trade (la più grande Borsa mondiale dei derivati) hanno segnato il record dal 1996. A spingere i prezzi è l' impiego della materia prima nella produzione di etanolo, un carburante pulito su cui il presidente degli Stati Uniti Bush ha dichiarato di voler investire nei prossimi anni per ridurre la dipendenza dal petrolio. Gli investitori scommettono sul fatto che il mais prodotto non sarà sufficiente a soddisfare la crescente domanda e così acquistano a prezzi sempre più elevati. Fiutato l'affare, l' industria finanziaria ha moltiplicato l' offerta di prodotti specializzati. Lo stesso CBot ha annunciato due mesi fa l' emissione di "Ethanol swap", prodotti derivati solitamente utilizzati per coprire o modificare posizioni di rischio.

Future e altri prodotti derivati sono stati lanciati a Chicago, Londra e Francoforte su varie tipologie di biomasse, dal legname ai cereali. «Le recenti decisioni politiche sulla riduzione delle energie inquinanti stanno producendo effetti a cascata sui mercati - osserva Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell' energia all' Università di Padova e direttore di ricerca dello Iefe - Bocconi - I trader sono certi che il settore continuerà a crescere e considerano i relativi investimenti a basso rischio. Così si offre una nuova spinta all' offerta». Dello stesso avviso è Katia Valtorta, manager della Arthur D. Little, società di consulenza specializzata nel settore energetico: «Le biomasse hanno grandi potenzialità di crescita nel futuro, anche se tuttavia nessuno è in grado di stimare l' esatto impatto che potranno avere e la sostenibilità economica degli investimenti nel settore. Infatti, se sviluppati in maniera non corretta, i biocombustibili potrebbero impoverire i terreni e provocare inquinamento idrico».

«I derivati sulle energie rinnovabili sono strumenti adatti a investitori evoluti - taglia corto Stefano Perotto, gestore di Alpi, sgr indipendente che ha lanciato il fondo specializzato in energie Risorse Naturali - Infatti richiedono non solo una buona cultura finanziaria, ma anche un'approfondita conoscenza del settore». Roberto Cominotto, analista di Julius Baer, cita un esempio emblematico: «Nei primi sei mesi del 2006, quando negli Usa si sono cominciati a sostituire alcuni additivi della benzina con l' etanolo, il prezzo di quest'ultimo è raddoppiato in poche settimane. In seguito si è assistito a un ripiegamento e oggi quota ai livelli del 2005». Sul livello di rischio incidono anche i volumi limitati: «Nonostante la crescita degli ultimi mesi, gli scambi sui derivati in fonti rinnovabili continuano a ricoprire quote marginali e spesso presentano spread elevati tra domanda e offerta - annota Buonsanto - Inoltre si tratta di derivati concentrati su pochi listini».

Sul CBot di Chicago è possibile trattare future relativi a buona parte dei prodotti agricoli utilizzabili per produrre energia, dalla soia al girasole. Sempre a Chicago ha sede il Cme, specializzato in derivati sugli scarti animali. I prodotti zuccherini, invece, vengono scambiati in prevalenza sul Csce di New York. In Europa, i volumi più importanti si registrano sul Liffe di Londra. Al Sedex di Milano è possibile investire attraverso i certificates: Société Générale negli ultimi quattro mesi ha lanciato cinque prodotti sulle energie alternative tra cui il "Biox Certificate", specializzato in bioenergie. L' andamento del titolo, liberamente negoziabile alla stregua di un'azione, è legato alle oscillazioni delle dieci società in portafoglio. «In mancanza di un indice sulle biomasse abbiamo il World Bioenergy Total Return Index, che comprende le principali aziende del settore», spiega Alexandre Vecchio, responsabile prodotti quotati per l' Italia. Il Biox Certificate ha una durata di cinque anni e una commissione pari all' 1% del valore di emissione (83,127 euro). Nella stessa direzione si è mossa Abn Amro, che ha creato propri benchmark per i quattro certificates specializzati. Lo scorso luglio l' istituto di credito olandese ne ha lanciato uno sui biocombustibili, su cui ha applicato una commissione di 1,5 euro: «Il certificato è una via di mezzo tra l' indice e l' investimento diretto perché consente di esporsi sul settore, senza correre i rischi insiti nel singolo titolo azionario - osserva Elisa Medaglia, del team prodotti strutturati di Abn Amro - Inoltre la semplicità dello strumento, che è una pura replica del sottostante, e la liquidità garantita dalla quotazione a Piazza Affari lo rendono adatto anche a un investitore privato».”

L’epicentro della speculazione sui prodotti alimentari sono naturalmente gli Usa, come illustra Enrico Pedemonte in un articolo (Repubblica 29.4) dal titolo Gli sciacalli di Chicago:

“È alla Borsa della metropoli Usa che si fissano i prezzi dei prodotti agricoli nel mondo. Saliti alle stelle spinti dagli speculatori, dai fondi pensione e dalle industrie che producono etanolo da Chicago

Un'ora prima della campana che indica la fine delle contrattazioni, nella grande sala esplode un boato, mentre gli sguardi corrono a leggere una notizia che scorre lassù, su una striscia luminosa: in Argentina gli agricoltori hanno interrotto uno sciopero che durava da tre settimane. In questa sala del Chicago Board of Trade si fissano i prezzi dei prodotti agricoli nel mondo e si decide la sorte di milioni di contadini, ma viste da qui le fluttuazioni degli indici assumono una dimensione asettica, come se i numeri che compaiono sui tabelloni fossero una grande tombola collettiva: "Noi siamo speculatori, e il nostro mestiere è scommettere: oggi, per effetto della notizia dall'Argentina, granturco e soia stanno andando giù. Invece il grano è in salita, e il riso ha fatto il record", dice Joseph Malfeo, un anziano trader di origine italiana che si sbraccia su una delle piattaforme che sorgono all'interno del 'Pit', l'area riservata agli agenti di Borsa dove si svolgono le contrattazioni.

Il Pit è un salone ottagonale di 3 mila metri quadrati, alla base di un maestoso edificio art déco che domina il Loop, la zona degli affari nel centro della città. I muri sono fasciati da cartelloni elettronici che forniscono i parametri del mercato e ricordano al mondo, ogni giorno, che l'era dei prezzi bassi dei prodotti agricoli, durata trent'anni, è ormai finita. Dall'inizio del 2007 il prezzo del riso è quasi triplicato, quello del grano è raddoppiato, quello del granturco è salito del 50 per cento. Lassù, in un angolo del soffitto, un grande schermo mostra in tempo reale le condizioni del tempo nel mondo. In questo momento il cielo è sgombro di nubi su tutti gli Stati Uniti, ma venerdì sera pioverà su alcune zone del Midwest agricolo e lì sarà meglio non piantare granturco che soffre se il terreno è umido: "Se nei prossimi giorni pioverà, aumenta la probabilità che invece del granturco, che va seminato entro il 5 maggio, venga piantata soia, che può aspettare fino al 10 giugno", osserva Pat Arbor, il principe degli agenti di Borsa di Chicago, l'unico che sia stato presidente del Board of Trade per sei anni consecutivi, dal 1992 al 1997.

Arbor spiega che l'analisi meteo è una delle variabili più importanti nel determinare il comportamento degli investitori. Quest'anno, stando alle statistiche fornite dal ministero dell'Agricoltura, dovrebbe crescere la produzione di soia e grano, mentre calerà quella di granturco. Ma gli scherzi del tempo possono cambiare all'ultimo momento gli orientamenti degli agricoltori, e le previsioni di chi investe nel settore. E quindi i prezzi.

Chiediamo a Pat Arbor di spiegarci perché le merci agricole siano entrate in una fase di ebollizione che sta affamando milioni di persone nel mondo, e lui elenca: "Primo: il governo americano si è imbarcato nel progetto etanolo e così gli agricoltori vengono sovvenzionati per produrre granturco che non è più destinato al mercato alimentare, ma a quello energetico: una follia, perché per produrre etanolo si consuma più energia di quanta se ne ottenga. Secondo: cresce enormemente la domanda di cibo proteico da parte di Cina e India, e i semi di soia e il granturco servono per gli allevamenti di bestiame. Terzo: un tempo c'erano grandi aziende agricole, come la Ferruzzi, che avevano un forte controllo del mercato, mentre oggi sono arrivati i fondi pensione che investono fino al 4-5 per cento del loro portafoglio in materie prime agricole, per non parlare di quelli di Dubai, di Singapore, di Hong Kong. E questa pioggia di miliardi di dollari sul mercato alimentare crea instabilità dei prezzi".

Oggi le regole del gioco sono cambiate, ripete ogni analista con cui parliamo. Sia perché nel mondo sta aumentando la popolazione benestante che può acquistare cibo di qualità, sia perché investire in materie prime è un modo per difendersi dall'inflazione: "Ora molta gente ha paura delle banche, gli investimenti finanziari creano incertezza: c'è bisogno di cose concrete", dice Arbor che si interrompe per capire la ragione del nuovo brusio che si è diffuso nella sala. Basta osservare dove sono diretti gli sguardi dei traders: lassù, in un punto a metà cartellone, spicca il nuovo prezzo del dollaro, 1,597 rispetto all'euro. Crolla il dollaro e sale il barile di petrolio, un andamento destinato a far salire ulteriormente i listini dei prodotti agricoli, perché il petrolio alto da un lato fa crescere i costi di produzione, e dall'altro trascina naturalmente la quotazione dell'etanolo e del biodiesel, spingendo gli agricoltori a spostarsi verso il mercato dei combustibili e a trascurare quello alimentare.

Vic Lespinasse, analista della Cytrade Futures, aggiunge che l'anno scorso l'inatteso aumento del prezzo del grano è stato trainato dalla siccità che è esplosa in Australia e ha ridotto il raccolto del 50 per cento: "Mentre il mondo chiedeva più grano, la produzione globale diminuiva", spiega: "Ma anche l'arrivo dei fondi sui mercati delle merci ha avuto un ruolo non secondario negli aumenti: e non solo di grano, frumento e soia, ma anche del petrolio, del carbone e dei metalli. I nuovi flussi finanziari hanno fatto crescere la pressione sui prezzi".

Per farci capire che cosa significhi 'pressione sui prezzi' ci viene consegnata una piccola guida statistica del Chicago Board of Trade, secondo cui nel Pit ogni giorno vengono siglati un milione e 300 mila contratti, uno ogni 15 millisecondi. "Eppure tra cinque o dieci anni questo salone non ci sarà più", prevede Pat Arbor: "Ormai l'80 per cento degli affari si effettua sul computer. Questo rende il meccanismo più veloce e aumenta la volatilità dei prezzi. Non mi piace, io sono abituato al rapporto fisico che si vive qui sul 'floor' della Borsa, ma il futuro è la tecnologia".

Phil Gocke, presidente della società finanziaria Brite-Sky, aggiunge un dettaglio a queste analisi: secondo lui i fondi pensione e gli hedge funds che investono in questo mercato per diversificare il loro portafoglio, non avendo alcun interesse reale verso questo tipo di merci, si limitano a incassare i futures quando i prezzi sono più alti: "Per difendersi gli investitori puntano su oro, petrolio e prodotti agricoli, il cui valore reale è indipendente dal dollaro".

Alcuni analisti sostengono che l'arrivo di molti investitori impauriti dalla bolla dei mutui subprime, che sta facendo perdere la casa a milioni di americani, potrebbe avere creato un'altra bolla nel mercato delle merci, riducendo alla fame centinaia di milioni di persone nel mondo. Giriamo la questione a Fred Seamon, giovane vice-direttore del Chicago Mercantile Exchange (che l'anno corso ha incorporato il Board of Trade). Seamon risponde di non poter escludere l'esistenza di una nuova bolla finanziaria nel settore delle merci alimentari: "Tuttavia esistono solidi argomenti per spiegare il recente aumento dei prezzi: stiamo vivendo un periodo unico nella storia, in cui un miliardo di persone passa dalla povertà al benessere e vuole cambiare la propria alimentazione. E, in questa situazione di passaggio, tra il 2000 e il 2007 c'è stato un solo anno in cui nel mondo si è prodotto più frumento di quanto si sia consumato. Per due anni la domanda e l'offerta sono andate in pareggio. E per ben cinque anni abbiamo consumato più di quanto abbiamo prodotto, intaccando le scorte".

Negli ultimi anni numerosi esperti che ruotano intorno al Chicago Board of Trade si sono chiesti se la drammatica impennata dei prezzi possa essere spiegata almeno in parte con le distorsioni del mercato. Il più citato sull'argomento è Scott Irwin, un economista della University of Illinois che al telefono ci conferma l'esistenza di queste distorsioni, iniziate nel 2006, quando su questo mercato sono arrivati i fondi di investimento. Allora si cominciò a notare che i contratti cash pagati agli agricoltori e i futures su cui scommettevano gli investitori non convergevano verso lo stesso valore, come invece avveniva in passato. Ma questa distorsione è piccola, circa il 3 per cento per la soia, e spiega solo in minima parte il boom del prezzi. "Negli ultimi sei mesi la causa più importante dell'aumento dei prezzi è l'arrivo di nuovi investitori che puntano sulle merci dell'agricoltura per garantire i propri capitali dal rischio inflazione", ripete l'economista. Chiediamo a Irwin se un uso maggiore del biotech in agricoltura potrebbe far aumentare la produzione e abbassare i prezzi nel futuro prossimo: "Non esiste alcuna prova che il biotech faccia aumentare i raccolti", risponde rilevando dati certo non graditi all'industria: "Negli ultimi cinquant'anni la resa delle coltivazioni è rimasta costante e non ha risentito dell'uso di sementi biotech. La Monsanto dice il contrario, ma si sbaglia: secondo i miei studi, nel caso della soia l'aumento rilevato in certi raccolti è da attribuire alla buona stagione, non alla tecnologia".

Vic Lespinasse, che al Board of Trade è considerato uno dei grandi esperti di cereali, prova così a prevedere che cosa accadrà nel futuro immediato: "Se avremo un tempo normalmente buono, nei prossimi due anni il grano dovrebbe scendere un bel po'. Al contrario la soia e il granturco resteranno dove sono per via dell'etanolo e del biodiesel. Ma se il tempo sarà brutto, saliranno ancora". Nel mondo non ci sono sufficienti riserve per affrontare le emergenze e, se qualcosa va storto, il gioco della tombola che ogni giorno si replica al Chicago Board of Trade farà ulteriormente schizzare gli indici e molta gente non avrà da mangiare.”

6.

La contesa tra i due schieramenti cui facevo cenno, destinata a durare per parecchio tempo, può essere risolta facilmente anche tenendo conto solo del punto di vista dei fautori del sistema. Ammettendo che le variabili in gioco non debbano essere giudicate in sé e per sé, ma solo in rapporto alle conseguenze che realizzano sul piano oggettivo del mercato, questo significherebbe né più né meno che il mercato liberistico implica, tra le sue possibilità, quella di produrre la morte di una parte dell’umanità. Si tratterebbe di crimini strutturali, neologismo con cui si fa ormai comunemente riferimento ad eventi sistemici lesivi dei diritti altrui ma indipendenti dalla volontà o dall’intenzione degli agenti economici di produrli, e quindi non imputabili.

Il neologismo è stato già impiegato in riferimento agli enormi trasferimenti di denaro prodotti dalla crisi della Borsa del 2001 e da quella del mercato immobiliare del 2007. Adesso esso viene esteso al problema della crisi alimentare. Naturalmente i fautori del sistema capitalistico insistono sull'aspetto strutturale della crisi, che implica una responsabilità oggettiva ma non imputabile in senso proprio.

E sia. Il non essere imputabili toglie, però, qualcosa al fatto che i fattori in gioco violano i diritti dell’umanità?

Se non c’è alcun colpevole in senso proprio, e dunque nessuno da portare sul banco degli imputati, ciò significa che il sistema capitalistico in sé e per sé, affidato all'autoregolazione (teorica) del mercato, è semplicemente disumano. Il problema è che esso, giustificandosi in riferimento alle leggi oggettive dell'Economia (che sono oggettive solo nella sua cornice ideologica di riferimento), non può prenderne atto: è l’umanità che deve rendersi conto di questo. Che il benessere degli uni, compresi i paesi emergenti, debba essere pagato al prezzo della miseria e della morte di altri non è un destino scritto nelle leggi dell'Economia: è un dato di fatto moralmente e politicamente intollerabile, prodotto da un determinato modello di sviluppo.

Detto questo, e tagliata, dunque, la testa al toro di un dibattito male impostato, i dati riferiti non solo non sembrano escludere responsabilità precise, ma piuttosto imputarle.

Tra i fattori addotti per spiegare la crisi alimentare, uno solo (la crescita del consumo di carne nei paesi emergenti) non sembra imputabile, corrispondendo ad un bisogno legittimo di popolazioni che stanno uscendo dal tunnel di una carenza alimentare di antica data. Tutti gli altri, come giustamente sostiene Gallino, mettono in gioco le pesanti responsabilità dell’Occidente: degli Stati uniti in primis, ma anche dell’Europa.

La stessa civiltà che ha messo in moto la globalizzazione, coinvolgendo tutto il mondo in una sfida competitiva ad armi pari (sul piano cioè della concorrenza), di fatto sta facendo sporchi giochi, sta insomma barando. Essa mira a trarre dalla globalizzazione il maggior numero di vantaggi possibili, a mantenere i suoi privilegi e a far pagare agli altri paesi i prezzi della globalizzazione stessa.

I trattati del WTO sono esemplari di ciò che gli Stati Uniti, e in misura minore l’Europa, intendono per libertà sul piano dei rapporti con il resto del mondo: semplicemente, la legge del più forte.

I “liberi” contratti formulati sotto l’egida del WTO sono stati più volte e da tempo contestati, ma mai, se non minimamente, modificati.

La crisi della Borsa prima e dei mutui subprime di recente ha evidenziato l’esigenza di un controllo istituzionale internazionale sui capitali finanziari. Ciò che di fatto è accaduto e che questi si sono riversati dal cielo della finanza “creativa” sulla terra in senso letterale, vale a dire sul mercato delle materie prime.

Il titolo del mio sventurato saggio su Marx - Il Mondo Stregato - riprende un brano in cui egli esprime con molta sobrietà la sorpresa che l’umanità possa essere rimasta preda di un abbaglio, vale a dire di uno sviluppo illimitato della ricchezza universale, senza considerare non tanto l’insensatezza del progetto (che a Marx, purtroppo, non poteva apparire insensato tout-court sul piano ecologico), ma le conseguenze sociali di squilibrio economico progressivo che esso stava producendo e avrebbe prodotto.

La parabola del sistema sembra arrivata a compimento. Si pone dunque l’alternativa secca che, negli anni 70 del secolo scorso, caratterizzò un movimento marxista che, tra l’altro, si espresse attraverso una famosa rivista di analisi critica della realtà storica: Socialismo o Barbarie?

L’accezione spregiativa del termine barbarie mi ha sempre disturbato. Preferirei porre l’alternativa in questi termini: Socialismo o Dis-Umanità?

Per ora, però,di socialismo non si parla.

Ai primi di giugno si riunisce a Roma l'Assemblea della FAO, e si capisce subito l'aria che tira.

Su Repubblica (4 giugno), Giampaolo Cadalanu la descrive. Tutti sono d'accordo sulla drammaticità della crisi, che rischia di aggiungere altro cento milioni di persone agli 850 milioni che già soffrono la fame. Sulle possibili soluzioni, però, non c'è un filo di unanimità:

"L´accordo è totale, ma solo sulla malattia: tutti, capi di Stato e di governo, esperti, funzionari della Fao e militanti delle Organizzazioni non governative, concordano che la crisi alimentare è un´emergenza drammatica. La diversità nelle visioni del mondo viene fuori subito dopo, quando si devono individuare le cause e delineare una cura. Al vertice dell´agenzia Onu per l´Alimentazione e l´agricoltura l´allarme è condiviso, ma è l´unica cosa.

Nelle dichiarazioni di ieri, giorno di apertura, in realtà c´era qualche sfumatura di intesa almeno sul concetto di disastro: sia Giorgio Napolitano che Luis Zapatero, per esempio, concordano sulla necessità che ci sia un governo della globalizzazione. È un passo avanti che solo qualche anno fa poteva sembrare rivoluzionario, eppure adesso è quasi un luogo comune: per usare le parole del capo dello Stato, «in tema di sicurezza alimentare non basta fare affidamento solo sui meccanismi del libero mercato».

Meno economico e forse più popolare risulta l´accordo di Silvio Berlusconi e Jacques Diouf su una frase che sembra tratta da manifesti elettorali: «Meno parole, più fatti». Poi però all´invito seguono decisioni modeste. Da parte del direttore della Fao un nuovo, ennesimo appello: bisogna trovare 30 miliardi di dollari l´anno. Da parte del presidente del Consiglio italiano c´è invece la proposta di «togliere i vincoli dell´Unione europea per gli aiuti ai paesi poveri». In altre parole, la solidarietà internazionale sarebbe esclusa dal bilancio dello Stato per quanto riguarda i parametri di Maastricht. A suo tempo la stessa proposta era stata fatta dalle Ong, che però chiedevano anche un controllo sulla spesa degli aiuti. Ieri Berlusconi ha spiazzato tutti facendola propria. Superata la sorpresa, molti militanti hanno sottolineato il rischio che senza regole internazionali la cooperazione possa diventare un´arma, cioè che sia vincolata ad affari specifici, a politiche di liberalizzazione o di privatizzazione selvaggia.

Il piano Berlusconi ha trovato d´accordo anche Ban Ki-moon, il quale ha una sua strategia con misure e breve e lungo termine per fermare i prezzi degli alimentari. Il progetto del segretario generale però incontra gravi perplessità nelle organizzazioni di base. Ban spinge per una "rivoluzione verde", mettendo l´accento sulle tecnologie e sulle liberalizzazioni dei commerci, all´interno del Wto: è un approccio diverso da quello tradizionale Fao e soprattutto - dice l´esperto di una Ong - «è il frutto di tante pressioni delle multinazionali, che al Palazzo di Vetro trovano più ascolto che a Roma».

Ban Ki-moon aveva già tentato di "avocare" il tema della fame al segretariato nella riunione tecnica dello scorso aprile a Berna, ma il suo assalto - racconta un alto funzionario - era stato respinto. Il segretario ha ottenuto ora la sua rivincita, trasformando il vertice in un avvenimento non più della Fao ma dell´Onu tout court e di fatto imponendo una visione della sicurezza alimentare come "emergenza" e non più come problema strutturale. È un modo per aprire la strada alle sempre ribadite richieste americane: acquisto dei surplus occidentali da parte della comunità internazionale e via libera per gli Ogm. Prospettiva che le Ong non gradiscono, come dimostrava lo striscione di 200 metri aperto dagli attivisti di ActionAid in mattinata e fatto chiudere dalla polizia, che recitava: «No al business della fame».

Il disaccordo regna su tutto il resto: sui biocarburanti Lula difende la scelta fatta dal Brasile e trova il sostegno americano; l´egiziano Mubarak ricorda che «non si devono togliere cereali all´alimentazione umana»; l´argentina Kirchner attacca sull´inefficienza della distribuzione, il senegalese Wade riprende la sua polemica sull´istituzione Fao che «tratta come mendicanti» i paesi poveri. Per il momento all´appello di Diouf rispondono solo Nicolas Sarkozy e Zapatero: il primo raddoppiando gli aiuti francesi, il secondo unendo a nuovi stanziamenti un nuovo vertice in autunno che metta a punto una "carta della sicurezza alimentare". Che è come dire: paghiamo volentieri, purché sia chiaro in anticipo dove finiscono i nostri soldi."

Non si tratta solo di controversie tecniche. Il problema è che, al di là dell'egoismo dei Paesi sviluppati, al vertice partecipano i rappresentanti delle industrie agro-alimentari, e il significato della loro partecipazione non sfugge a nessuno: si tratta di scongiurare qualunque messa in discussione dell'egemonia dell'industria stessa e di impedire che si prendano in considerazione diversi modelli di sviluppo dell'agricoltura.

Giustamente Carlo Petrini titola il suo articolo (Repubblica 4. 06) il Vertice dei ciechi:

"Generalmente quando un´istituzione, un´azienda o un governo si danno degli obiettivi e non riescono a raggiungerli si sostituiscono le persone ai loro vertici, si licenziano i manager che hanno fallito, si va alle urne per cambiare governo.

La Fao nel 1996 si era data come obiettivo di ridurre entro il 2015 quelli che allora erano 800 milioni di esseri viventi che pativano la fame: oggi, nel 2008 sono 850 milioni e la crisi alimentare in corso minaccia di farli crescere di altri 100 milioni in pochissimo tempo.

Può darsi che il vertice Fao di Roma abbia l´effetto di far riflettere, più che sulla crisi in corso – che era stata in qualche modo prevista e che conosciamo bene da un po´ di tempo – sulla reale utilità di costose mega-istituzioni come l´agenzia Onu per l´alimentazione o sulla generosissima Banca mondiale che elargisce soldi a pioggia, come se per risolvere i problemi di questa portata bastasse soltanto metter mano al portafogli. È lecito chiedersi se non sia necessario un cambiamento drastico di persone e strumenti per contrastare la fame nel mondo e una crisi che sembra abbia tutte le intenzioni di inasprirsi.

Il fatto poi che tra gli interlocutori principali di questo incontro romano ci siano anche tutte quelle aziende transnazionali che producono sementi e fertilizzanti è una cosa che stride quasi più della presenza nella Capitale di un paio di leader politici non desiderati. Questi soggetti che hanno in pugno la maggior parte dei mercati delle derrate agricole mondiali sono gli unici che della crisi non sembrano accorgersi: e anzi, sono i primi e forse gli unici a guadagnarci. Moltiplicano gli utili tanto da diventare le aziende con i titoli più appetibili in borsa. Ecco i principali interlocutori che ha scelto Diouf, ecco quelli che dovrebbero "domare" la crisi alimentare: i produttori di Ogm, i venditori di semi, i produttori di junk food, quelli che più di tutti fanno viaggiare gli alimenti intorno al globo, buoni alleati di una grande distribuzione sempre più padrona del nostro cibo.

Oltre alla scesa in campo di queste forze poco disinteressate, il vertice Fao finirà con l´essere una sorta di grande Telethon per la raccolta di fondi atti a finanziare interventi più o meno eccezionali, più o meno urgenti: ma quali interventi? Di questo poco si parla, e se lo si fa non sembrano esserci tante idee nuove, lo stile sembra il solito: quello che ci ha portato a chiederci perché in dodici anni, dal vertice Fao del 1996 nulla è cambiato, e semmai c´è stato un peggioramento.

C´è da scommettere che ci sarà una bella promozione per gli Ogm come panacea di tutti i mali, già si innalzano voci in favore di consistenti aumenti di produzione e quindi di un uso massiccio di fertilizzanti e semi (dover dare i semi ai contadini sembra una cosa assurda, ma a questo siamo arrivati grazie alla mercificazione anche di ciò da cui nasce la vita delle piante), di nuove rivoluzioni verdi. Ma queste sono le misure che si è sempre cercato di varare fino ad oggi, senza risultati. Sono queste "soluzioni" il vero problema. In realtà serve una concreta alternativa, un distacco secco e coraggioso con lo stile passato che ci ha condotti sin qui.

Non c´è verso: la soluzione definitiva consiste nel passaggio ad un´agricoltura biologica ed ecologica che sia più decentrata, democratica e cooperativa, non controllata dalle multinazionali e attuata su piccola scala. Così come è stata praticata dalle comunità agricole tradizionali, dagli agroecologi e dalle popolazioni indigene per millenni. Queste comunità hanno esercitato un´agricoltura sostenibile basata sui principi di diversità, della sinergia e del riciclaggio. La soluzione è una rete di economie locali che sappiano coniugare un mix di tradizione e innovazione: queste andrebbero incentivate con i soldi che si raccoglieranno a Roma. Sono economie e stili produttivi che hanno ampiamente dimostrato di essere efficienti, in alcuni casi anche più delle monoculture finalizzate all´esportazione o, oggi, ai biocarburanti. Queste economie non influiscono sul cambiamento climatico, consentono di abbattere le emissioni e ridanno fiducia alla gente vera, quella che di solito non è ascoltata nei summit come quello romano: sono i contadini e coloro che producono il cibo. Il fatto che tra di loro ci sia l´80% di quegli 850 milioni di affamati è un dato che grida vendetta.

Il vero problema è l´agricoltura industriale, insieme alla sua finanziarizzazione, mettiamocelo in testa una volta per tutte. Chiedere al sistema agro-industriale di risolvere problemi che ha creato, con gli stessi mezzi con cui li ha creati, è inutile e dannoso, kafkiano direi. Inquinamento dei suoli, Ogm, monoculture, sovvenzioni e dumping, perdita di sovranità alimentare e libertà di usare i propri semi, di trarre frutto dalla propria biodiversità: la colpa non è dei contadini, e nemmeno del clima.

Ma a Roma queste cose temo le diranno soltanto alcuni tra quelli che stanno fuori dai palazzi dove ci sono le tavole rotonde o si tengono le cene di rappresentanza. È soprattutto un problema di cultura, di cultura del cibo e di cultura agroecologica, che in quegli ambienti temo latiti un po´ troppo. A proposito: il fatto che una cena di gala debba chiudere un summit sulla fame nel mondo è la perfetta testimonianza del disastro culturale che ormai si è abbattuto su di noi."

Al di là della cena di gala, l'esito del vertice è stato deludente. Si è arrivati a fatica ad una bozza di accordo che non lascia molte speranze agli affamati del mondo (Repubblica 5 giugno 2008):

""Dopo oltre due ore di rinvii, litigi e veti incrociati, il comitato plenario della Fao è riuscito finalmente ad approvare la bozza finale del vertice sulla "Sicurezza alimentare". E' il documento che contiene le linee guida da seguire nei prossimi due anni per combattere la piaga della fame nel mondo, 864 milioni di persone che non hanno da mangiare. O almeno che dovrebbe contenere quelle linee guida.

In realtà aumentano coloro che parlano di fallimento del vertice che invece deve dare risposte urgenti alla crisi alimentare e agli 860 milioni di affamati che potrebbero diventare presto un miliardo. E sembrano cadere nel vuoto gli appelli del segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon e del direttore della Fao, il senegalese Jacques Diouf. "Bisogna fare presto, dare una risposta, non possiamo fallire" avevano detto. Il fallimento invece, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sembra dietro l'angolo.

Dichiarazioni generiche. "Ribadiamo che il cibo non può essere usato come strumento di pressione politica ed economica". Così si apre la dichiarazione finale del vertice Fao, un messaggio per dire che nessun Paese possa utilizzare il cibo per rafforzare il suo potere, sia in campo politico sia in campo economico. Allo stesso modo, nella dichiarazione finale si definisce senza mezzi termini "inaccettabile" che "862 milioni di persone nel mondo siano ancora oggi denutrite".

Il no di Argentina, Cuba e Venezuela. Il via libera alla dichiarazione finale della conferenza Fao sulla sicurezza alimentare, i cambiamenti climatici e i biocarburanti è arrivato per acclamazione ma con la ferma opposizione di Argentina, Venezuela e Cuba. Ecuador, Nicaragua e Bolivia hanno combattuto fino in fondo per via delle "conclusioni un po' generiche del compromesso raggiunto".

Tanti soldi, ma la politica non sceglie. I soldi, tutto sommato, era ciò di cui i paesi, le associazioni dei contadini dei paesi più poveri e le varie ong sentivano meno bisogno. "Chiediamo un diverso approccio politico al problema, un coinvolgimento dal basso e dall'alto" hanno ripetuto in questi tre giorni di incontri. Invece di stanziamenti ne sono arrivati: è la cosa più facile ma è dimostrato che non riempie i piatti di chi ha fame. Comunque la Fao ha annunciato l'erogazione di 17 milioni di dollari e il segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon ha detto che sarà necessario un impegno finanziario continuativo che ammonterà a 15-20 miliardi di dollari all'anno.

Compromessi sul biofuel. E' stato ribadito l'impegno di fronte alle liberalizzazioni commerciali in ambito Wto nonostante la contrarietà del Venezuela. Solo posizioni mediane sui punti più spinosi, dai biocarburanti ai cambiamenti climatici. Gli Stati Uniti hanno spinto e ottenuto che non ci fosse alcun riferimento alla Convenzione quadro delle Nazioni Uniti. Morale: del biofuel (il carburante che deriva da biomasse ricavate cereali, canna da zucchero, barbabietole e legumi) si parla solo al dodicesimo punto con una "semplice raccomandazione" a studi più approfonditi sul loro impatto nella crisi alimentare. Il fatto è che le coltivazioni per il biofuel, molto redditizie, stanno scacciando le altre coltivazioni solo alimentari. Così aumentano i prezzi e la fame. Ai governi dei paesi più poveri sarebbe bastato solo l'annuncio di una limitazione dei sussidi per il biofuel. E' arrivata la proposta di un approfondimento su vantaggi e svantaggi dei biocarburanti.

Questa mattina sono stati resi noti i risultati della tavola rotonda sul tema che ha visto confrontarsi tecnici e delegati dei Paesi. Risultati scarsi, per la verità, che consistono nell'avvio di un progetto Fao in Tanzania, Cambogia, Perù, ai quali l'agenzia fornirebbe assistenza per l'elaborazione di un piano energetico. I biocarburanti diventano un'opportunità, invece, per Josette Sheeran, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale "anche se occorre valutarne prima l'ecocompatibilità".

Le accuse al vertice, da Frattini alle Ong. "Il documento finale è assai deludente rispetto alle premesse. Purtroppo è stato molto diluito rispetto alle ambizioni iniziali". Il ministro degli Esteri Gianfranco Frattini è stato categorico fin dal pomeriggio leggendo la bozza finale che poi non è più stata emendata.

Le Ong presenti al summit alla fine bocciano il documento finale "perchè non è in grado di risolvere il problema della fame". Secondo il forum Terra Preta due sono le accuse principali alla conferenza: non aver coinvolto direttamente i governi e le associazioni locali dei contadini nel processo decisionale scegliendo invece di delegare tutto alla task force Onu; nella bozza del documento conclusivo sono ripetuti gli stessi impegni del passato. E' servita a poco dunque la notte di veglia per i circa cinquecento delegati presenti a Roma in rappresentanza di 183 Paesi e gli intensi contatti tra i delegati.

La difesa di Diouf. Il direttore della Fao, il senegalese Jacques Diouf non può fare altro che dire: "Credo che oggi siano stati raggiunti risultati all'altezza delle nostre aspettative. Non è stato facile mettere d'accordo i rappresentanti di 183 paesi diversi". Sono stati "riconfermati gli obiettivi del millennio (tra cui dimezzare entro il 2015 il numero degli affamati ndr)", ha aggiunto Diouf, specificando anche che la Dichiarazione riprenderà i "punti essenziali e salienti dei precedenti accordi". L'obiettivo principe è "raddoppiare la produzione alimentare mondiale entro il 2050". Il problema è che non è specificato come farlo. Poi l'elenco dei contributi: gli Stati Uniti daranno 1,5 miliardi di dollari; stessa cifra quella della Banca islamica per lo sviluppo, mentre dalle Nazioni Unite arriveranno 100 milioni. Il Giappone contribuirà con 50 milioni di dollari, il Kuwait con 100 milioni, i Paesi Bassi con 75 milioni, la Nuova Zelanda con 7,5 milioni, la Spagna con 773 milioni, la Gran Bretagna con 590 milioni, il Venezuela con 300 milioni, la Banca Mondiale con 1,2 miliardi di dollari di cui 200 milioni in forma di sovvenzioni. Tanti soldi appunto. Ma da spendere come?"

Il documento definitivo è ancora più deludente della bozza nella sintesi di Giampaolo Cadalanu (Repubblica 6- 06)

"Chiuso il vertice della Fao con la firma di un documento di compromesso che però non soddisfa nessuno. Quello che viene fuori dopo le giornate dei lavori che hanno visto capi di Stato e di governo a Roma è che tra le nazioni non c´è un accordo sul tema della fame nel mondo. «Ci sono ricette divergenti», ha detto il ministro degli Esteri italiano Frattini, «e non c´è stata quella coesione unanime che sarebbe stata necessaria».

La forma è salva: la Dichiarazione finale ha l´accordo di tutti, la Fao non deve assistere a una rottura catastrofica che avrebbe svuotato il ruolo dell´istituzione, "tecnicamente" il summit non è fallito. In sostanza, però, l´esito del vertice sull´Alimentazione è modestissimo. «Nulla di concreto, com´era previsto», sintetizza con amarezza un alto funzionario della stessa agenzia Onu. «Deludente, vista la drammatica emergenza alimentare», concorda, da un altro punto di vista, Franco Frattini.
La decisione di dare il via libera alla Dichiarazione è arrivata a tarda sera, dopo un balletto di resistenze più o meno teatrali di un vasto fronte sudamericano che fino all´ultimo chiedeva modifiche all´ultima versione - l´ottava - del testo provvisorio. In particolare erano i delegati argentini a battersi come leoni contro una parola che metteva in discussione la politica commerciale di Buenos Aires. Al punto "E" dell´articolo "6" si parlava di minimizzare le misure "restrittive" sul commercio di beni alimentari.

Gli argentini - e con loro altri paesi dell´America Latina - chiedevano di rispettare la logica, che impone un trattamento asimmetrico per una situazione asimmetrica: in altre parole, i paesi meno sviluppati chiedono di poter accedere ai mercati delle nazioni ricche, ma allo stesso tempo vogliono poter difendere i loro mercati interni da un´invasione di prodotti venduti magari sotto costo. Insomma, se le economie sono diverse, il trattamento non potrà essere uguale. Ma nel documento finale questa logica non compare, anzi si spinge ancora per le liberalizzazioni, e l´unica concessione vera ai Paesi più deboli è una generica condanna - filosofica, più che politica - dell´uso del cibo come strumento di pressione.

Il Brasile, riottoso fino all´ultimo, ha ottenuto la massima genericità sui biocarburanti, dove si sottolinea la necessità di studi approfonditi e non si mette alcun limite. Del tutto assente ogni riferimento al tema degli Organismi geneticamente modificati: Ogm che ieri hanno convertito anche Silvio Berlusconi. Il premier ne suggerisce l´uso a «tutti i Paesi in cui bisogna arrivare a sopperire autonomamente alle esigenze alimentari», ovvero ai Paesi poveri.

Ma se alla fine della giornata l´esigenza di chiudere ha avuto la meglio, è perché sui delegati incombeva il pensiero dell´atteggiamento statunitense, di noncuranza pressoché totale verso il summit, verso l´agenzia delle Nazioni Unite, verso ogni possibile misura multilaterale. La posizione Usa era sintetizzata dal ministro dell´Agricoltura Ed Schafer: «Meglio nessun accordo che un cattivo accordo». Proprio lo stesso Schafer, poche ore prima dell´inizio del vertice, aveva messo le mani avanti ribadendo che l´America non avrebbe fatto a meno dei tre punti fondamentali della sua politica: aiuti all´emergenza (leggi: acquisto dei surplus occidentali da spacciare per solidarietà), un generico sostegno ai Paesi in via di sviluppo e soprattutto spinta sulle tecnologie (cioè Ogm, sementi brevettate, eccetera).

Se una potenza agricola planetaria appariva pronta a ignorare le conclusioni del vertice, molto peggio era l´ipotesi che l´accordo finale non si trovasse. Sarebbe stato uno smacco intollerabile per la Fao, e forse l´inizio della fine per i meccanismi multilaterali, ormai sempre più vuoti di significato."

Un commento a caldo sull'esito del vertice è quello di Guido Rampoldi (Repubblica 6. 06) dal titolo I grandi impotenti:

"Non poteva essere un summit organizzato in fretta e furia da un´istituzione internazionale tra le più contestate ad esorcizzare la tesi che ci inquieta dal remoto 1798, l´anno in cui il reverendo Thomas Malthus consegnò il suo Saggio sul Principio di Popolazione al catalogo delle profezie più spaventose. Ma se fossimo uno di quegli 800 milioni di esseri umani oggi minacciati dalla morte per fame, lo strumento con cui secondo Malthus la natura provvede a "tenere sotto controllo" (check) la crescita demografica facendo fuori vaste masse umane, non saremmo affatto rassicurati da questa Conferenza di Roma sulla crisi alimentare.

Non che siano mancati le idee, i progetti, le promesse di finanziamenti spettacolari e, crediamo, le buone intenzioni. Ma quando si è trattato di arrivare ad una sintesi, di immaginare una strategia, di imboccare un percorso comune, i cosiddetti "potenti della Terra" hanno mostrato una penosa impotenza, e quel formidabile consesso in cui erano sfilati premier e ministri di infinite nazioni è parso una rumorosa, sovraffollata, patetica Babele. Era abbastanza prevedibile che ciascun governo si facesse portatore degli interessi della propria nazione, certo legittimi ancorché divergenti o addirittura opposti rispetto agli interessi delle altre. Ma è mancato perfino un linguaggio comune, una koinè che permettesse almeno di intendersi, un vocabolario in cui termini come ogm, bio-carburanti, liberalizzazione, avessero lo stesso significato.

I francesi, che non mancano di un certo umorismo, hanno proposto di ripristinare un qualche "metodo scientifico", termine che non udivano dai tempi della Quarta internazionale, per mezzo di un comitato di saggi incaricati, se intendiamo bene, di trovare una verità "oggettiva". Intenzione apprezzabile, ma purtroppo destinata a confermare, temiamo, la tendenza degli scienziati a modulare la verità sui desideri dei governi cui essi devono l´incarico. Però forse un comitato siffatto riuscirebbe a restringere il ventaglio delle verità soggettive, allo stato francamente troppe. E magari a mettere fuori gioco quel manicheismo che continua a raccontarci la crisi alimentare nei termini dello scontro "capitalisti ricchi e avidi contro poveri e indifesi". Non che avidi e indifesi non siano parte dello spettacolo. Ma la crisi è ben più complicata di queste miniature morali, le parti di solito non sono così nitide, e la denuncia degli "egoismi" spesso è ipocrita. Provate a togliere le sovvenzioni di cui godono anche i contadini spagnoli, così da aiutare i contadini del Terzo mondo, e vedrete uno Zapatero meno solidale di quello che a Roma ha lanciato un appello all´altruismo col tono dolente che si addice a questo genere retorico.

In realtà la crisi alimentare - almeno su questo vi è una certa unanimità - è parte di una crisi globale che contiene varie crisi tra loro interconnesse, dalla crisi finanziaria americana fino all´irresistibile ascesa dei prezzi del petrolio (cui Lula attribuisce il 30% dell´aumento del costo di generi alimentari in Brasile). Se questa è la dimensione reale, allora può venire a capo della Crisi globale soltanto quella governance mondiale da più parti invocata durante la Conferenza di Roma. Purtroppo non si vede traccia all´orizzonte quel governo planetario che dovrebbe mettere in fuga la speculazione e orientare Stati e mercati verso condotte virtuose.

Come del resto è evidente, una governance di quella portata non può nascere dal consenso, ma soltanto da una chiara gerarchia internazionale, da un ordine definito nel quale una superpotenza, o un consesso di potenze, sia in grado di imporsi ai recalcitranti. Stati Uniti ed Europa non sembrano in grado di svolgere quel ruolo, né, allo stato, di trovare la coesione necessaria per attrarre altre nazioni intorno ad progetto forte. E in attesa che il mondo multipolare trovi il suo equilibrio, pare difficile trovare compromessi tra interessi contrastanti e ugualmente legittimi.

Così nessuno può dare torto alle economie emergenti come il Brasile quando deridono il falso liberismo dell´Unione europea e ne smascherano il protezionismo agricolo, affidato a dazi e a laute sovvenzioni ai coltivatori. Ma nessuno può condannare gli europei se difendono la propria agricoltura, una riserva strategica fondamentale nel caso di gravi turbolenze planetarie, e comunque la condizione perché sopravvivano un paesaggio e una cultura. Non ci sono buoni e cattivi in questa storia. É vero che le terapie degli istituti del credito internazionale hanno devastato agricolture, per esempio Haiti, privando la popolazione della possibilità di sussistenza; ma non sempre è andata così. É vero che le multinazionali si sono impossessate, con gli ogm, di produzioni agricole tramandate, selezionate e difese dai coltivatori per millenni (come ci ricorda Giacomo Santoleri). Ma in Argentina, in Cina, ovunque i contadini siano riusciti a ibridare, per esempio, la soia transgenica, teoricamente sterile, essi oggi dispongono di una coltivazione che richiede meno fatica e meno pesticidi della soia tradizionale. Questioni complicate.

Il problema è che gli affamati non attenderanno le soluzioni né si immoleranno alle leggi del reverendo Malthus senza tentare di sovvertire l´ordine che li spinge su quell´altare."

Si può essere d'accordo con il criterio di non applicare all'analisi di un fenomeno globale una distinzione schematica tra colpevoli e innocenti, carnefici e vittime, cattivi e buoni. Rimane il fatto che responsabilità ci sono, sono ben precise e risalgono in gran parte al ruolo a livello mondiale degli Stati Uniti e dell'Europa. Entrambi hanno le loro ragioni per difendere ciò che non appare difendibile: il mantenimento di barriere protezionistiche sulle importazioni e la richiesta di liberalizzazione dei mercati rivolta agli altri Paesi. Entrambi difendono le multinazionali che assicurano al PIL una crescita imponente. Entrambi sentono sul collo il fiato di una crisi sistemica che potrebbe incidere, e in parte già incide, sul tenore dei vita dei cittadini.

E' del tutto chiaro, però, che senza una riforma strutturale dell'Economia, un severo controllo che impedisca la speculazione sui prodotti agro-alimentari, la messa al bando della bioagricoltura che sottrae cibo alle popolazioni, un allentamento delle varie forme di protezionismo con cui i Paesi occidentali tutelano i propri contadini, il denaro non serve a nulla se non ad arricchire i dirigenti e i funzionari della FAO e di qualche ong.

La scelta, insomma, per ora, è a favore della Barbarie. E' facile prevederne le conseguenze. La fame aumenterà i flussi migratori di milioni di persone che giungeranno in Occidente con una rabbia in corpo forse inconsapevole, ma di sicuro pericolosa. I comuni cittadini, come già accade, chiederanno agli Stati di essere tutelati dalla marea dei poveri e dei disperati. I governi si militarizzeranno per fare fronte ad essa, ecc. ecc.

Si va insomma verso una sorta di cripto-fascismo a difesa dei diritti del Capitale. l'iperimpero di Attali, insomma, sembra già avviato, all'insegna dell'Après moi le déluge...