La resa dei conti (4)

1.

L’articolo di settembre si concludeva con la constatazione che la “follia” del mondo, forse, è senza scampo. Naturalmente ho utilizzato il termine non nell’accezione comune, che fa riferimento a qualcosa di assurdo e incomprensibile, bensì in quella ricavata dalla teoria struttural-dialettica, secondo la quale esso designa uno stato di cose - individuale e collettivo - del tutto comprensibile e spiegabile che, però, rimane estraneo a chi lo vive.

Mettiamoci nei panni di un comune cittadino. Cosa ha capito di ciò che è accaduto sul piano dell’economia negli ultimi mesi? Probabilmente che, per colpa di alcuni avidi speculatori, la nave capitalistica stava andando verso il naufragio, e che i politici, come capitani coraggiosi, hanno preso tra le mani il timone riuscendo a portarla fuori dalla tempesta.

Un cittadino più informato può essere giunto a comprendere che la crisi è nata nel mondo della finanza, che mira a valorizzare il denaro, e non in quello della produzione industriale, che valorizza il capitale attraverso la sua trasformazione in merci.

Un cittadino “colto” può avere, infine, compreso che il potere economico globalizzato è sfuggito al controllo del potere politico, ancora parcellizzato a livello nazionale, e che quest’ultimo, attraverso la concertazione tra i Paesi industrializzati, è stato costretto - bon gré, mal gré - a fare buon viso a cattivo gioco, piegandosi al ricatto della finanza.

Questi tre punti di vista colgono aspetti parziali della crisi.

I capitani coraggiosi hanno fatto l’unica manovra possibile, utilizzando il denaro dei contribuenti, dopo aver essi per primi portato la nave nel cuore della tempesta. La crisi è nata nel mondo della finanza, ma in seguito al fatto che molte industrie hanno investito somme ingenti nella speculazione finanziaria più che nella produzione. Il potere politico si è di fatto piegato al ricatto della finanza, ma, più che per il bene comune, per salvare se stesso.

E’ insomma l’intreccio tra potere politico e potere economico il nodo della crisi.

E’ senz’altro vero che l’economia finanziaria globalizzata ha trasceso il controllo dei governi nazionali. Nella misura in cui, però, i governi occidentali, a partire da quello statunitense, hanno aderito entusiasticamente al neo-liberismo, essi hanno operato in maniera tale da favorire l’azzardo della speculazione, inondando il mercato di liquidità, allentando i controlli sul miracolo dei pani e dei pesci legato ai cosiddetti derivati, che hanno trasformato crediti inesigibili in una montagna di titoli virtuali, e incentivando la tendenza dei cittadini a vivere di debiti, assicurandosi un tenore di vita superiore ai redditi.

Perché lo hanno fatto? Presumibilmente per una serie di motivi.

Il primo è da ricondurre al fatto che la politica ormai ha un costo elevatissimo, che va molto al di là dei redditi dei politici e degli aiuti di Stato ai partiti. Essa, dunque, richiede di continuo una sponsorizzazione. Da chi viene la sponsorizzazione? Dalle lobbies industriali e finanziarie che, da tempo, sono state legittimate come rappresentanti di interessi particolari sui quali i politici sarebbero poco informati. Il loro compito istituzionale, sulla carta, è per l’appunto quello di informare affinché le leggi tengano conto dei loro interessi.

Nella realtà, la pressione operata dalle lobbies è ricattatoria. Se vengono meno i loro finanziamenti, i partiti si ritrovano rapidamente con le casse vuote.

L’attività delle lobbies è diffusa presso tutti i paesi occidentali, ma, negli Stati Uniti, essa ha assunto, negli ultimi quindici anni, una configurazione particolare. Esse, infatti, hanno ritenuto opportuno saltare il fosso favorendo direttamente l’elezione di loro rappresentanti. L’Amministrazione Bush è stata un governo di affari a nome della finanza, del petrolio e dell’industria degli armamenti (nonché delle imprese di ricostruzione delle devastazioni prodotti dalle guerre).

Il secondo motivo è legato al mito della crescita, del PIL. Avendo condizionato i cittadini a ritenere il PIL l’indice della qualità della vita, e sapendo che in gran parte essi assegnano il voto sulla base dell’andamento dell’economia, i politici si sono schierati tutti a favore della crescita, senza discriminare i fattori che la producevano. In questa ottica si spiegano le spese crescenti per gli armamenti, la sollecitazione incessante al consumo privato anche sulla base dell’indebitamento, lo scarso controllo esercitato sulle speculazioni finanziarie, la tendenza a rimandare provvedimenti atti ad allentare i problemi ecologici, ecc.

Un terzo motivo, di ordine ideologico, è stata la fiducia cieca nel modello neoliberista, che postula la riduzione al minimo dell’intervento dello Stato sull’economia. Tale fiducia, paradossalmente,, non è venuta meno neppure nel momento in cui è apparso chiaro che un governo - quello cinese -, espressivo di un unico partito comunista, è stato in grado di imprimere all’economia nazionale uno slancio maggiore di quanto sia avvenuto nei paesi democratici.

La fede nelle capacità autoregolatrici del mercato si è mantenuta inalterata finché è risultato drammaticamente evidente che il sistema dell’economia mondiale stava affondando.

Non c’è stato, in questo periodo, un evento più patetico e ridicolo al tempo stesso della riunione tra i Grandi, convocata di urgenza una domenica sera di ottobre sull’onda della previsione di un crollo catastrofico delle Borse alla riapertura di lunedì. Le decisione prese in quel frangente sono state un rimedio parziale, che ha impedito, finora, l’affondamento della nave. Ma la foto dei Grandi sorridenti, che avevano l’aria di capitani coraggiosi che avevano impedito il naufragio, senza rendersi conto che erano essi stessi sciagurati sabotatori e complici di pirati, è un documento destinato a passare alla storia.

E’ stato detto e scritto molto in questo periodo drammatico. Una rassegna delle prese di posizione e degli articoli sarebbe un’inutile enciclopedia. Una selezione si impone, ma sulla base di un criterio inconsueto. Comincerò dunque dal faceto per passare al serio.

2.

La rassegna semi-seria muove da due personaggi che ingombrano l’immaginario italiano.

L’8 ottobre, mentre le Borse precipitano, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi afferma che i mercati azionari si riprenderanno. L’affermazione è di un’ovvietà sconfortante: tranne che l’umanità non scompaia repentinamente, è scontato che, al fondo della crisi (che nessuno però riesce a capire quale sia), si determinerà un viraggio in senso opposto. I cicli economici escludono l’elettroencefalogramma piatto. Il problema sono le conseguenze della crisi.

L’affermazione del Presidente implica che non ce ne saranno, che tutto, insomma, riprenderà come prima.

E’ singolare ma non sorpendente che un uomo capace di accumulare enormi ricchezze sia incompetente in fatto di economia. Fare soldi implica uno spirito pratico integrato con le logiche del sistema, che possono però anche essere ignorate. Il fiuto per gli affari è come quello dei cani da tartufo, che non sono esperti di botanica.

L’incompetenza di Silvio Berlusconi è confermata clamorosamente dall’analisi che egli fa della crisi attuale la quale sarebbe “l'opposto della crisi del '29, quando c'erano aziende sopravvalutate. Ho visto i corsi azionari di aziende come Eni, Enel, Mediaset, che continuano a guadagnare come prima. E' un momento di bolla speculativa all'incontrario, che rientrerà sicuramente, anche se nessuno di noi può dire quando.” E’ certo, però, che “il mercato tornerà a valutare le aziende per quello che valgono”. Nell’immediato, esso si è “staccato” dalla realtà: questa, infatti, “ci dà aziende che funzionano e producono dividendi. La Borsa in questo momento, presa dal panico della crisi dei mercati americani, sta valutando queste azioni meno del loro valore”.

Un qualunque professore di economia (non berlusconiano) assegnerebbe un bel tre ad un compitino del genere. Nel 1929 c’erano aziende sopravvalutate, ma non lo erano in misura maggiore quelle hi-tech crollate nel 2001 e non lo sono quella attuali delle banche e delle Società finanziarie? Berlusconi contrappone alla finanza l’economia reale, quella che produce beni o servizi, ma la crisi in atto riguarda gli investimenti finanziari non quelli produttivi. Il mercato si è staccato dalla realtà? Certo, se ne è staccato moltiplicando miracolosamente i pani e i pesci dei prestiti subprime. Adesso sta tornando con i piedi sulla terra, anche se l’impatto è parecchio brusco.

L’altro personaggio è, né più né meno, il Sacro Romano Pontefice, il cui affanno di distogliere l’umanità dal traffico terreno e convogliarlo, per l’appunto, sul ponte che porta all’aldilà, è commovente, ma, per così dire, un po’ tendenzioso.

Il 7 ottobre egli interviene sulla crisi economica dall’alto della sua competenza filosofico-teologica. prendendo spunto da un versetto del salmo 118 (“La tua parola, Signore, è stabile come il cielo”) non si fa sfuggire l’occasione e commenta: “Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia”. Gli esegeti hanno tradotto il messaggio papale nella formula “I soldi svaniscono, la parola di Dio è solida”.

I soldi svaniscono? Non è vero: quelli veri, non virtuali, passano dalle tasche di chi ha meno a quelle di chi ha di più.

Anche il papa dovrebbe prendere qualche lezione di economia. Fors’anche di storia. Varrebbe a ricordargli che la demonizzazione della ricchezza, fortemente sponsorizzata da Gesù sull’onda della Bibbia nella quale l’usura, vale a dire il profitto sui prestiti, era ritenuto un peccato grave, è stata abbandonata dalla Chiesa nel tredicesimo secolo allorché essa, dopo avere egemonizzato economicamente il mondo attraverso il possesso dei latifondi e l’accordo con la proprietà agraria, si è trovata a confrontarsi con il fiorire dell’artigianato e del commercio borghese. L’abbandono ha prodotto il commercio di carte di credito per il paradiso (le indulgenze) da cui la Chiesa ha tratto enormi vantaggi economici.

Per chi non ha il dono della fede, le indulgenze equivalgono, né più né meno, ai titoli-spazzatura che hanno causato la crisi attuale.

Spostiamoci su di un altro fronte, quello dei giornalisti-corifei del sistema. Qui troviamo subito la voce solenne di Piero Ostellino, prestigioso editorialista del Corriere della Sera, che, in un articolo il cui titolo è inquietante (Se si rinuncia alla libertà), declama:

“In questi giorni che la crisi finanziaria mette in pericolo i nostri risparmi, siamo così preoccupati dei «rischi della libertà», e dei suoi «costi» - compresi l' opportunità di sbagliare, con i rischi che ci assumiamo, e il prezzo che dobbiamo pagare, per gli errori che commettiamo - che siamo disposti a rinunciare a una parte delle nostre libertà in cambio della promessa di un po' di sicurezza in più. Ma non è solo un errore sotto il profilo concettuale; è anche, e soprattutto, un' illusione sotto quello politico. Due anni fa, il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaya, una giornalista della Novaja Gazeta di Mosca, veniva uccisa nell' ascensore del palazzo dove viveva. Stava per pubblicare un articolo imbarazzante per il potere politico. Il giorno dopo, la polizia sequestrava il suo computer e tutto il materiale dell' inchiesta cui stava lavorando. Il mandante è ancora oggi sconosciuto. Il mondo libero se ne è già dimenticato. Ma la Politkovskaya non è morta perché, nella Russia post-sovietica, ci fosse troppa libertà, bensì perché ce n' era ancora troppo poca. Non solo per il sistema informativo o, più genericamente, per gli intellettuali, ma per tutti i russi. Con i suoi articoli, essa non si limitava, infatti, a esercitare la propria libertà di giornalista, bensì soddisfaceva anche il diritto dei suoi concittadini a un’informazione libera, pluralista. È ciò che distingue la società «aperta», di democrazia liberale, dai sistemi chiusi e dispotici. Nella società «aperta», a fondamento delle scelte dei cittadini, non c' è una Verità unica, e un potere che la impone, bensì c' è una pluralità (e una dispersione) di conoscenze fra milioni di Individui. In questi giorni, i nemici del capitalismo e del libero mercato - che non sanno neppure di che parlano - accusano i liberali di comportarsi come i comunisti di fronte al fallimento del comunismo. Come questi ultimi, attribuirebbero la crisi agli errori degli uomini (i banchieri) per non prendersela col fallimento del sistema, del mercato, del liberalismo. Ma il liberalismo - prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale) - è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi - i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera - ai comportamenti individuali. I soggetti collettivi, a differenza dei singoli Individui, non hanno una personalità propria, non pensano, né agiscono. È, del resto, così che, nella dottrina liberale, il concetto di libertà è strettamente associato a quello di responsabilità. Ed è, perciò, anche evidente che a fallire, in una società «aperta», sono gli uomini - i soli cui far risalire la capacità di operare delle scelte - non il sistema, il capitalismo, il mercato. Nel marxismo-leninismo è, invece, il sistema che è fallito, proprio perché ha ignorato gli Uomini in carne e ossa, sostituendoli col proletariato, il Partito, l' «Uomo nuovo» dell’Utopia, e sollevandoli dalle loro responsabilità. ”

Sarebbe difficile mettere insieme in poche righe tante sciocchezze. Il senso dell’articolo è chiaro: per difendere il capitalismo, che sarebbe un’espressione della libertà umana, Ostellino adotta la teoria, a dire il vero logorata dall’uso, delle mele marce. Il sistema è fuori discussione: la sua degenerazione è riconducibile a responsabilità degli individui che vanno accertate e perseguite.

I soggetti collettivi, insomma, non esistono se non come somma di singole individualità. La scoperta dell’individuo libero, dotato di diritti e di doveri, e quindi responsabile sarebbe la matrice stessa dell’ideologia liberale che renderebbe ridicolo il riferimento sociologico alle classi, ai gruppi, alla coscienza collettiva, ecc.

Ben a ragione Marx potrebbe vantarsi di essere stato più clemente nel definire il capitalista una rotella dell’ingranaggio. Ma quale rotella? si tratta di un agente libero che, bene o male, spinge lui le rotelle dell’ingranaggio.

Se Ostellino voleva darsi la zappa sui piedi, c’è riuscito alla perfezione. Se, infatti, singoli individui, che agiscono ciascuno per perseguire l’interesse privato, riescono a mandare per aria l’intera economia mondiale, o si attribuisce ad essi un potere che definire diabolico sarebbe eufemistico o si pensa ad una disfunzione grave del sistema, che sarebbe più sensibile alla mano degli investitori, che agiscono tramite computer, che a quella invisibile di Smith, o, infine, occorre arrendersi alla casuale confluenza di interessi privati in una strategia speculativa i cui effetti sono globali. E’ evidente che quest’ultima ipotesi sembra più vicina alla verità. Solo che, nel momento in cui i singoli individui in questione sono investitori, manager, controllori pubblici e privati, politici, ecc. il sospetto che la casualità non sia del tutto casuale viene per forza. E se il legame tra i singoli individui non fosse solo il profitto ma la capacità reciproca di corruzione? Ahimè, verrebbe fuori un ceto dirigenziale degenerato o meglio un sistema nel Sistema.

E’ vero: la scienza ammette che il battito di ali di una farfalla da una parte del mondo possa causare un disastro naturale dall’altra parte. le verità scientifiche, però, bisognerebbe prenderle cum grano salis.

Ai giornalisti-corifei si accoda un nuovo filosofo che non ha mai scritto una pagina di filosofia, un filosofo da salotto, BERNARD-HENRI LÉVY, che sforna un articolo dal titolo immaginifico: La distruzione creatrice

“Certo, siamo sull'orlo del baratro. Questa crisi finanziaria è senza precedenti. Gli Stati Uniti entreranno in una fase nuova della propria storia, dove nulla sarà più come prima: né il modo di regolazione dei mercati; né il modello consumistico che era al centro dell'etica capitalista.

E non sarà più come prima nemmeno il famoso «American dream», al cui proposito pochi sanno, in Europa, che la realizzazione più clamorosa era l'acquisto di una casa, con o senza subprime. Certo, i primi a beneficiare di questa rovina sono tutti i fanatici, talebani o altri, consapevoli che i 700 miliardi di dollari che serviranno a riacquistare alle banche i loro prodotti tossici equivalgono, più o meno, al costo della grande operazione antiterroristica che si sarebbe potuta compiere in Afghanistan o nelle zone tribali pachistane e alla quale l'America impoverita sarà costretta a rinunciare. Senza parlare dell'incertezza che, cosa perlomeno inquietante, nessun responsabile politico è capace di eliminare in maniera chiara: i famosi 700 miliardi, per esempio, corrisponderanno al riacquisto di crediti o a una partecipazione azionaria nel capitale delle istituzioni vacillanti (il che non è la stessa cosa e farebbe dello Stato federale un autentico «Stato azionista» seguendo il modello svedese o finlandese)? O saranno finanziati da prestiti? Se sì, sottoscritti da chi? Siamo così sicuri che il contratto di fiducia che regge i rapporti degli Stati Uniti con il resto del mondo resti sufficientemente solido perché i fondi sovrani indiani, cinesi o del Qatar si precipitino su un nuovo titolo che avrà come inconveniente, fra l'altro, di svalutare quello che già detengono?

Insomma, per queste ragioni e altre ancora, è giusto dire che viviamo un evento colossale, forse inaugurale, di cui siamo lungi dal vedere tutte le conseguenze: l'inizio di una nuova era; una sorta di anno zero del capitalismo nuovo; l'equivalente, per il capitalismo, fatte le debite proporzioni, di quello che fu per il comunismo il crollo del Muro di Berlino. Resta il fatto che l'evento ha avuto anche un altro aspetto, sul quale trovo sia un peccato che i commentatori, europei in particolare, non insistano maggiormente. La rapidità di reazione, prima di tutto, che la cacofonia di queste ultime ore non smentisce. Il pragmatismo, cioè il coraggio di alti funzionari che, come il segretario al Tesoro Harry Paulson jr., per tutta la vita hanno creduto al capitalismo deregolato, l'hanno considerato vangelo e, in una notte, si sono convertiti ai principi dell'economia diretta dallo Stato.

Il vigore del dibattito democratico che è seguito, che ha visto senatori e congressmen rifiutare di lasciarsi ingannare e, ancor meno, di cedere al panico o al ricatto e imporre al potere esecutivo un certo numero di emendamenti la cui lista sembra non sia chiusa: uno scaglionamento del versamento dei 700 miliardi secondo un calendario debitamente controllato dalle Camere; un codicillo che dà al popolo sovrano un potere di controllo sulla remunerazione di dirigenti che hanno portato le loro imprese al naufragio e che, d'ora in poi, non hanno altri diritti se non quello di raddrizzare il timone; misure aggiuntive in favore dei nuovi senza tetto espulsi dalle proprie case o dei piccoli imprenditori strangolati dal rarefarsi del credito. Per quanto riguarda la storia dei fondi sovrani, in particolare di quelli cinesi, ci sono due possibili interpretazioni: la caduta finale di un «impero» riacquistato come rottame dall'incarnazione stessa di quello che lo nega; oppure un'astuzia della Storia che consente di legare come mai prima il dispotismo asiatico cinese al suo grande avversario storico e, così, di stroncarlo. Ciascuno è libero di scegliere e scommettere.

È Schumpeter che parlava delle turbolenze, anche drammatiche, che scandiscono la storia del capitalismo come di fasi di «distruzione creatrice». Ed è John Galbraith che caratterizzava il capitalismo stesso come una strana macchina che trova la propria energia nella crisi, sia nella depressione o la disfatta, sia nel successo. Le crisi stanno al capitalismo come gli scandali alla democrazia. Secondo alcuni, questi scandali sono la prova che la democrazia non funziona più, mentre secondo altri il fatto stesso che scoppino dimostra la sua incoercibile vitalità. Ebbene, lo stesso vale per la crisi attuale: una probabile cura dimagrante planetaria, una messa in dubbio generalizzata dopo tempi di esuberanza folle e la dimostrazione che il sistema, checché se ne dica, è sempre vitale.

(traduzione di Daniela Maggioni)”

Un bel compitino redatto sulla base del paradosso panglossino per cui tutto sembra andare male, ma alla fine tutto andrà per il meglio. Occorre annotare, però, almeno un’imprecisione. Schumpeter, con la sua infatuazione per il ruolo dell’imprenditore, ha parlato di “distruzione creatrice”, ma ha scritto pure nel 1947: «Può sopravvivere il capitalismo? No, non penso che possa.…». La “distruzione creatrice” è legata alle innovazioni che, nel tempo si esauriscono, e danno luogo ad una recessione che viene superata da altre innovazioni.

Nella grande impresa capitalistica, però, il ruolo dell'imprenditore, creativo e diretto all'innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all'immobilismo dei manager. In conseguenza di questo, nella società prevarranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia: un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo stato.

La rivoluzione non violenta di Schumpeter forse sta arrivando e non ce ne siamo accorti. Chissà che non sia perché per ora il “socialismo” di Stato è corso a salvare i ricchi.

Naturalmente c’è anche gente seria che i compitini li fa con strumenti di analisi tecnica. Sul Corriere della Sera del 9 ottobre Massimo Mucchetti elenca e descrive così i sette errori del capitalismo (statunitense):

“La locomotiva del debito

L’eccesso di debito è il peccato globale. Al 30 giugno 2008, il debito aggregato degli Stati Uniti (famiglie, imprese, banche e pubbliche amministrazioni) supera i 51mila miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di 14 mila miliardi. The Economist aggiunge che l’incidenza percentuale del debito aggregato sul Pil americano, ora pari al 358%, è raddoppiata rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta ed è superiore perfino a quella della Grande Depressione. Il segreto della crescita della Corporate America è il debito che finanzia soprattutto i consumi. Che abbia copiato dall'Italia da bere degli anni Ottanta? Come ha notato Marco Fortis sul Foglio, i salvataggi ai quali è ora obbligato il governo Usa si mangiano tutto il vantaggio che l’economia americana aveva mostrato negli ultimi 4-5 anni rispetto a quella europea. E quando il granello di sabbia delle insolvenze dei subprime si è infilato nell’ingranaggio, il motore si è fermato. L’Italia è cresciuta meno, ma ha un debito globale che è pari a due volte il Pil. Ed è una provincia debole di Eurolandia. Qual è il sistema più sano?

La centralità della finanza

Alla crescita del debito il contributo maggiore l’hanno dato i mutui immobiliari e il settore finanziario (Martin Wolf, Paulson’s plan was not a true solution to the crisis, Financial Times, 23 settembre 2008). L’esposizione della finanza è passata da 21% del Pil, nel 1980, al 116% nel 2007. Del resto, la finanza ha dato una spinta crescente ai profitti. Tra il 1946 e il 1950, procurava il 9,5% degli utili. Nel 2002 è arrivata al 45% per riaggiustarsi a un comunque rotondo 33% nel 2006 non tanto per un suo calo quanto per la crescita degli altri settori (Ronald Dore, Financialization of the Global Economy, prossima pubblicazione). Quando i tassi d’interesse sono decrescenti, e in certi periodi addirittura negativi se depurati dall’inflazione e dai risparmi fiscali, il debito «costa» assai meno del capitale, al quale andrebbe riconosciuto il rendimento dei titoli di Stato più un premio al rischio. Conviene dunque ricorrere il più possibile al denaro degli altri. Usando il debito come leva, si ottiene il duplice effetto di aumentare a dismisura il rendimento dei capitali propri impiegati e di moltiplicare le attività. La scoperta, a dire il vero, non è recente. Già nel 1913 il futuro giudice della Corte Suprema, Louis Brandeis, ne faceva oggetto di una critica radicale. Ma allora come oggi ci è voluta una Grande Crisi per capire che i debiti hanno un costo certo mentre al capitale può anche essere negato il dividendo, e che i debiti fatti per consumare facendo il passo più lungo della gamba hanno una qualità inferiore a quelli accesi per lavorare e produrre reddito. Nel primo caso, l’insolvenza è dietro l’angolo. Ma per anni e anni si è pensato che questo fosse un rischio del passato.

Il mito dell’innovazione finanziaria

Il primo Cdo (Collateralized debt obligation) risale al 1987. Da allora è stata una fioritura senza fine di innovazioni finanziarie che hanno fatto credere ai loro inventori, matematici privi di filosofia benché talvolta premiati con il Nobel, come Merton e Scholes, di aver trovato la pietra filosofale del secolo XX. Costoro hanno studiato complicati algoritmi in base ai quali costruire portafogli immunizzati, e cioè esposti a un rischio complessivo inferiore a quello dei singoli titoli che racchiudono. I modelli matematici giocano su tre fattori: la diversificazione dei titoli, la scarsa correlazione dei rischi relativi e la diversità delle scadenze che consente di articolare nel tempo i flussi di cassa. Gli innovatori hanno creduto di poter elevare così il rendimento del capitale investito in queste strutture sintetiche senza elevare in proporzione il rischio. I banchieri ci hanno creduto volentieri. Le banche maggiori hanno ridotto gli impieghi classici e si sono imbottite di questi strumenti. Confidando sugli algoritmi, non hanno di pari passo irrobustito il patrimonio. Anzi.Ma i rischi si possono spostare, non cancellare. E al dunque ritornano. A spese loro e soprattutto degli altri, i banchieri possono rimeditare gli studi classici: chi sfida la legge divina pecca di hybris e diventa vittima dello phronos zeon, l’ira degli dei.

L'esaltazione del Roe

La fede nell’illimitata sostenibilità del debito ha alimentato l’attesa di ritorni sempre più alti sul capitale investito dai soci (Roe, return on equity). Negli ultimi 11 anni, le società del S&P 500 Index hanno distribuito agli azionisti, sotto forma di dividendi e acquisti di azioni proprie, ben 4200 miliardi di dollari. Ben 22 delle prime 50 principali società hanno distribuito più dell’utile e altre 8 tra il 90 e il 99% delmedesimo (William Lazonick, The Quest of Shareholder Value, settembre 2008). Un autentico saccheggio delle imprese che, in molti casi, avevano goduto di varie forme di sussidio statale. Un’operazione che ha indebolito la propensione all’investimento, come nel caso della Exxon, e alla spesa in ricerca e sviluppo, come nel caso della Microsoft e delle altre imprese high tech, che hanno investito nella riduzione del capitale, addirittura indebitandosi, multipli di quanto hanno speso nei laboratori. Tra le 50 imprese che più si sono distinte in quest’opera di autodistruzione spiccano tutte e cinque investment banks di Wall Street, le due prime banche commerciali d’America e Fannie Mae (Freddie Mac è al 53esimo posto). Nel periodo 2000-2007 queste otto banche hanno speso 174 miliardi di dollari per ridurre il proprio capitale. Potremmo dire: un gigantesco insider trading legalizzato il più delle volte a sostegno dei corsi azionari nei periodi di esercizio delle stock options da parte dei manager. Non l’avessero fatto, oggi le banche d’investimento sarebbero ancora su piazza.

L’estremismo della deregulation

Gli eccessi delle banche d’investimento sono stati possibili perché il Congresso e il Senato hanno abolito nel 1999, con decisione bipartigiana, il Glass Steagall Act che dagli anni Trenta vietava la commistione tra banche commerciali e banche d’affari e d’investimento. E poi perché nel 2001, una volta ottenuta la sorveglianza delle banche non commerciali, la Sec guidata dal repubblicano Christopher Cox ha concesso alle big five di Wall Street il diritto di autoregolare i propri rischi. Il ricorso al debito si è fatto così sempre più imponente: prima ci voleva un dollaro di capitale per ogni 6-7 di investimento, poi lo stesso dollaro bastava per 30-40. L’autoregolazione ha pure consentito alle banche di tenere fuori bilancio entità da esse stesse promosse e finanziate allo scopo di acquistare titoli variamente innovativi nel presupposto che era loro interesse vagliare la serietà del creditore. Queste tre scelte non sono errori, ma decisioni politiche esaltate come segno di modernità da stuoli di economisti che non si pongono mai il problema dei conflitti d’interesse impliciti nell’accumularsi dei mestieri. Regolare dopo aver deregolato non è facile, specialmente se a farlo sono le stesse persone.

Il breve termine

La deregolazione per favorire l’incessante negoziazione dei titoli ha sempre più focalizzato la gestione delle imprese sul breve termine. È stato coniato perfino un neologismo anglicizzante: shortermismo. Naturalmente tutti i top manager negano di essere shortermisti: la cosa parrebbe gretta e poco lungimirante. Ma con le relazioni trimestrali sulla base delle quali, a Wall Street, si erogano i dividendi e si riconsiderano i «fondamentali» del titolo e con i principi contabili basati sul fair value e sul mark to market (il valore al quale si può compravendere un bene e le quotazioni correnti) gli andamenti a breve termine condizionano come mai in passato. E poiché è chiaro il loro effetto pro ciclico, i gerenti sono incentivati a fare tutto quanto può far salire domani il titolo al quale sono legati i propri compensi. Nel 1864 il banchiere Rothschild discuteva con il ministro Minghetti delle disastrate finanze del Regno d’Italia avendo come orizzonte gli anni. I suoi epigoni americani hanno per orizzonte i giorni e parlano con i loro simili, via computer, 24 ore su 24. Ai primi serviva sapere di economia certo, ma anche di politica e cultura. Ai secondi bastano i modelli matematici. La professione del banchiere si è impoverita. Ma il banchiere è diventato più ricco. E con lui tutto il ceto dei capi-azienda.

La diseguaglianza

Legare in modo meccanico e crescente le remunerazioni dei top manager al rendimento del capitale ha accresciuto le diseguaglianze. Tra i capi delle imprese dello S&P 500 Index, il guadagno da stock options è salito da una media pro capite di 3,5 milioni di dollari del 1992 a un picco di 14,8 milioni nel 2000 per assestarsi sugli 8,7milioni nel 2003. Nell’illuminata Ibm i guadagni da stock options dei 5 primi dirigenti sono stati pari a 689 volte quello del dipendente medio. Più in generale il rapporto tra la paga media degli amministratori delegati delle maggiori imprese americane e quella dei dipendenti è volato dalle 42 volte del 1980 alle 107 volte del 1990 fino al record di 525 volte del 2000 per scendere a 364 volte nel 2006. Dietro la durezza con la quale i membri del Congresso interrogavano il banchiere Dick Fuld della Lehman Brothers c’è la consapevolezza che questo gioco non è più accettabile per il cittadino medio americano la cui ricchezza netta, già minore di quella del cittadino medio italiano, sta in buona parte evaporando legata com’è alla Borsa. Ma è inutile chiedere al bancarottiere, come pure si è fatto, quali dovrebbero essere le regole per rimediare. Lo dovrà dire il nuovo presidente degli Stati Uniti.”

E’ quasi tutto vero, ma l’analisi tecnica di Mucchetti sembra riguardare un sistema che può essere osservato dall’esterno nelle sue disfunzioni come se fosse di ordine naturale. Il problema è che il sistema in questione - il capitalismo - decide ormai la vita di gran parte degli abitanti del globo terrestre, e non la decide per scarti casuali disfunzionali, bensì perché i vertici economici, politici e finanziari hanno portato avanti una strategia distruttiva che è stata a lungo sostenuta dai corifei del sistema, tra i quali anche il giornale su cui scrive Mucchetti.

3.

Veniamo, dunque, ad analisi un po’ più serie, seguendo (per quanto possibile) il corso degli eventi.

Su Repubblica (19 settembre 2008) Federico Rampini analizza un provvedimento che ha dato la misura della gravità della crisi: il blocco delle vendite di titoli allo scoperto che, dall’avvio del sistema capitalistico, è stato lo strumento elettivo dei ribassisti.

In passato si riteneva che l’equilibrio della Borsa si fondasse, per l’appunto, sul “gioco” tra spinte al rialzo e spinte al ribasso del valore dei titoli. Com’è avvenuto che si è giunti a vedere nell’Orso un fattore catastrofico dopo aver ignorato i danni prodotti dal Toro?

“Il panico sul mercato del credito ha raggiunto livelli che non si erano più visti dai giorni più bui della Seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo di tanti patrimoni la fuga dei risparmiatori verso un "rifugio sicuro" - come i buoni del Tesoro americani - ha prodotto un risultato incredibile: i rendimenti sui Treasury Bonds degli Stati Uniti sono crollati (0,03% i buoni trimestrali) al livello più basso dai tempi dei raid aerei della Luftwaffe sulla capitale inglese. Questo fuggi fuggi verso la sicurezza infligge dei danni incalcolabili non solo alle finanze ma all'economia reale.

Nessuno si fida più della solvibilità della controparte: i prestiti fra banche in Europa e negli Stati Uniti sono quasi congelati. La paura dei crac a catena sta intaccando per la prima volta il valore dei fondi comuni monetari: sono investimenti considerati liquidi quasi come dei conti correnti, tranquilli, "da buon padre di famiglia". Dall'epicentro originario di Wall Street il disastro si è dilatato sprigionando conseguenze sul tenore di vita di intere nazioni. I tassi sui mutui sono rincarati anche in Italia. La recessione americana ha bloccato la crescita europea, colpisce le prospettive di chi cerca lavoro. I fondi pensione, ormai diffusi nel mondo intero compresa l'Italia, sono esposti a perdite pesanti che ridurranno il tenore di vita dei futuri pensionati.

Anche i risparmiatori più cauti sono vulnerabili: la "finanza esoterica" ha infilato i suoi titoli-spazzatura ovunque, gli inviti alla calma dei nostri banchieri e dei nostri assicuratori vanno presi con beneficio d'inventario; sono validi solo fino alla prossima sorpresa. Il Welfare semi-privato si morde la coda: i fondi pensione per tamponare le loro perdite hanno speculato al ribasso nel tentativo di recuperare qualcosa nel crollo generale. Così sono diventati parte di quella "orda selvaggia" che ha contribuito al crac: la banca d'affari Morgan Stanley ha dovuto contattare direttamente i gestori delle maggiori casse previdenziali americane, per scongiurarli di cessare le puntate ribassiste contro il suo titolo.

La speculazione al ribasso è nel mirino delle autorità di Borsa, a cominciare dall'organo di vigilanza di Wall Street, la Securities and Exchange Commission (Sec). Nell'emergenza la Sec ha varato nuove regole contro la "vendita allo scoperto" (l'operazione in cui un investitore prende in prestito un'azione che non ha per venderla subito, poi ricomprarla in futuro scommettendo che costerà meno, e restituire il prestito guadagnando sulla differenza). Le misure tecniche per scoraggiare la speculazione ribassista sono state invocate dall'American Bankers Association e da diversi politici del Congresso di Washington. Tutti a caccia degli "untori", gli avvoltoi che si avventano su nuove prede da scarnificare tra le grandi banche quotate in Borsa.

Ma la speculazione al ribasso in questo contesto è fisiologica e inarrestabile. Dov'erano invece l'associazione dei banchieri, dov'erano i legislatori del Congresso, quando i loro interventi avrebbero potuto colpire le cause primarie di questa crisi? Nel disastro globale di questi giorni ciò che sconcerta è la totale assenza di misure preventive. Questa crisi, nella sua forma acuta e palese è ormai vecchia di 15 mesi: il collasso dei titoli legati ai mutui subprime iniziò a fine giugno del 2007. Inoltre c'è chi l'aveva visto arrivare molto prima, e non si tratta di "profeti" eterodossi e marginali ma di protagonisti centrali del sistema.

Warren Buffett, il secondo miliardario più ricco degli Stati Uniti, gestore del colosso finanziario Berkshire di Omaha, nel 2002 dichiarava: "I titoli derivati sono armi di distruzione di massa". Sul sistema di regole e controlli aggiungeva: "Nessuna banca centrale ha il compito di prevenire i crac a cascata nei derivati e nelle assicurazioni". Dunque uno dei finanzieri più influenti del pianeta, regolarmente chiamato a testimoniare al Congresso e al Senato di Washington nelle audizioni sulla politica economica, aveva avvisato i guardiani del mercato. Più esplicito di così non poteva essere.

Quelle parole oggi suonano come un terribile atto di accusa per governi, banche centrali, authority di vigilanza. Negli Stati Uniti e in Europa. Nulla è veramente cambiato nell'architettura portante della finanza globale, dal 2002 a oggi. Nessuna riforma radicale è stata varata neppure negli ultimi 15 mesi, quando la crisi era ormai visibilissima e stava dispiegando i suoi effetti letali, dapprima al rallentatore, poi in una sequenza sempre più frenetica di catastrofi.

Dare addosso alla speculazione ribassista oggi è una misura patetica, un'autentica presa in giro: è il malato che in un impeto d'ira spezza il termometro che gli sta indicando la sua febbre. Ben altri sono i limiti che andavano decisi. Il mondo dei derivati è rimasto un universo parallelo, un sistema bancario-ombra dove non vigono le stesse regole e gli stessi controlli imposti all'attività creditizia ordinaria. Gli hedge fund continuano a essere una giungla selvaggia. I titoli strutturati, i misteriosi contratti di copertura dal rischio-fallimento che hanno travolto il colosso Aig, tutto questo bubbone è stato lasciato ipertrofizzare. I banchieri centrali si incontravano nei convegni dell'Fmi a Washington, o della Bri a Basilea, e si scambiavano dotte relazioni sulla "necessità" di correggere le falle del sistema. Di quegli studi sono pieni gli archivi delle banche centrali. Compresi i lavori della task force sui rischi sistemici guidata dal nostro Mario Draghi.

Ma le conseguenze concrete finora sono state pressoché nulle. Abbiamo una finanza globale ma non abbiamo una vigilanza globale. I gestori di patrimoni immensi hanno continuato a operare in zone grigie di lassismo, irresponsabilità, impunità. I mercati sono interconnessi a livello planetario, ma le regole e i controlli sono un paesaggio frammentario e balcanizzato. Il panico di questi giorni è un terribile fallimento delle autorità di sistema, che paghiamo tutti.

Anche nelle colpe vi è una gerarchia e un ordine. Il primo imputato è l'establishment americano, da Wall Street alla classe politica legata a filo doppio agli interessi delle grandi lobby del denaro. L'America vive da anni sotto l'egemonia culturale di uno slogan che fu lanciato da Ronald Reagan, poi ripreso dai Bush padre e figlio, infine riciclato con ardore dal duo McCain-Palin in questa campagna elettorale: "Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema". E' questa l'ideologia che ha teorizzato i benefici del laissez-faire. E' stata fatta propria anche da Alan Greenspan, al timone della Federal Reserve per ben 17 anni, il massimo teorico della capacità dei mercati di autoregolarsi. Greenspan ha continuato a difendere quell'ideologia fino a poche settimane fa, salvo improvvisamente cambiare tono e definire la crisi attuale come "la più grave da un secolo". Il suo successore e l'Amministrazione Bush ora nazionalizzano a tutto spiano. Questa crisi travolge le ideologie e sposta di colpo il terreno su cui si combatte la battaglia presidenziale americana.

Ma il 4 novembre è lontano; il gennaio 2009 in cui il nuovo presidente Usa assumerà i poteri è lontanissimo. Di qui ad allora il bilancio dei danni potrà essersi aggravato. L'Europa e il resto del mondo non possono permettersi di aspettare.”

Le nazionalizzazioni, appunto. Dopo un lungo periodo nel corso del quale le privatizzazioni, la deregulation ad esse conseguenti, la logica concorrenziale di mercato come strumento unico di definizione dei prezzi e la progressiva limitazione dell’intervento statale in ambito economico, sono prevalse, la crisi ha immediatamente investito lo Stato della funzione di salvare banche e imprese a rischio di fallimento.

Giustamente Arturo Zampaglione su Affari&Finanza del 22. 09 fa riferimento a una troppo rapida riedizione dell’esperienza dell’IRI:

“Il triumvirato che si è assunto il compito di traghettare la finanza americana fuori dalla tempesta del credito e verso le acque più tranquille (ma anche più torbide) di una economia a crescente partecipazione statale, è composto da un exprofessore, un exbanchiere e un exburocrate. Ovvero da Ben Bernanke, Henry Paulson a da Timothy Geithner: i tre hanno predisposto il più grande piano di intervento pubblico della storia del capitalismo. Bernanke, 54 anni, era preside della facoltà di economia dell’università di Princeton (e un esperto della depressione degli anni 30) prima che Bush lo scegliesse come capo della Fed.

Il ministro del tesoro Paulson, 62 anni, era un mago di fusioni societarie alla Goldman Sachs prima di arrivare a Washington nel 2006. E Geithner, 47 anni, ha fatto la gavetta al Tesoro prima di essere nominato presidente della Fed di New York. Da quando la Bear Stearns si è trovata sull’orlo del baratro aprendo la prospettiva di una crisi sistemica, la troika BernankePaulsonGeithner ha operato – a volte in piena luce, spesso dietro le quinte – per evitare il peggio. Si sono tenuti in costante contatto, hanno convocato in mezzo alla notte e durante convulsi weekend i big delle banche. Hanno cercato e ottenuto l’aiuto della Bce e della Banca d’Inghilterra. Hanno intensificato i contatti con la Casa Bianca e il Congresso, senza dimenticare i candidati alla presidenza Obama e McCain.

Sapevano che per evitare il baratro bisognava agire con risolutezza: questa, secondo Bernanke, era la grande lezione della crisi scoppiata con il crac del 1929 e sfociata nella grande depressione. E le decisioni del triumvirato sembravano coraggiose, persino temerarie. A marzo la Federal reserve spinse la JPMorgan Chase a rilevare la Bear Stearns dando al chief executive della banca, Jamie Dimon, garanzie per 29 miliardi di dollari. L’intervento riuscì a stabilizzare i mercati per qualche mese, e ciò mise a tacere le critiche per l’allargamento del potere dello stato sulla finanza e per un’operazione che metteva a rischio i soldi dei contribuenti. Si pensava che si trattasse di un caso eccezionale, come il salvataggio una tantum della Chrysler, cui Jimmy Carter concesse nel 1979 un prestito agevolato permettendole di rimettersi in sella. Ma in realtà l’operazione Bear Stearns non fu sufficiente.

A settembre la troika è intervenuta di nuovo per i due colossi che controllano o garantiscono quasi la metà dei mutui americani, Fannie Mae e Freddie Mac. Poi, di fronte a mille polemiche, si è tirata indietro sulla Lehman brothers di Dick Fuld, aprendo le porte del fallimento di una banca dal passato glorioso (158 anni di vita) e umiliando migliaia di trader usciti dal quartiere generale sulla settima avenue di Manhattan con gli scatoloni pieni di effetti personali. Nuovo colpo di scena dopo 48 ore: Bernanke, Paulson e Geithner hanno deciso di salvare l’Aig, la più grande compagnia di assicurazioni del mondo, concedendole un prestitoponte di 85 miliardi di dollari con la possibilità per lo stato di detenere il 79,9 per cento del capitale della società. Insomma è stata una vera e propria "irizzazione" della Aig. E neanche la decisione di martedì scorso ha potuto bloccare la grande paura che ha avvolto i mercati, travolto gli indici azionari, bloccato i flussi di credito, riportato in alto le quotazioni dell’oro e cambiato – forse per sempre – l’atmosfera di Wall Street. Il triumvirato ha quindi risposto all’emergenza proponendo, venerdì scorso, una soluzione più organica e sempre incentrata sul ruolo dello stato: non più interventi per salvare una manciata di banche, ma la creazione di un organismo in grado di assorbire i crediti traballanti (e difficilmente liquidabili) che si trovano nei bilanci di banche e società finanziarie.

L’obiettivo: ripulire il sistema, sperando che gli ingranaggi del credito e degli scambi riprendano a funzionare come prima. "Costerà centinaia di miliardi di dollari", ha spiegato venerdì il ministro Paulson, preparandosi a un intenso negoziato con i vertici del Congresso, in modo che il pacchetto possa trasformarsi in legge prima della fine di questa settimana. "Ma costerà sicuramente di meno ha aggiunto che continuare tra salvataggi e fallimenti." Il ministro ha annunciato nuovi stanziamenti a Fannie Mae e Freddie Mac, in modo che possano rilevare altri mutui, e avere nuovi capitali per i prestiti immobiliari. "La crisi della casa è all’origine di tanta instabilità", ha ricordato Paulson.

La soluzione del triumvirato assomiglia a quella imboccata alla fine degli anni ottanta quando il governo federale, di fronte alla crisi delle Savings and loans, le casse di risparmio istituì la Rtc (Resolution trust corporation), una società pubblica per la gestione degli asset delle casse insolventi e la loro liquidazione. Tra il 1989 e la metà del 1995 la Rtc chiuse in tutto 747 istituti con assets di 394 miliardi di dollari. Proprio la Rts era il modello suggerito dall’expresidente della Fed Paul Volcker, oltre che da analisti e operatori. Lo stesso Bill Clinton, in una intervista alla Cnbc si era schierato per una mossa di respiro al posto di operazioni a singhiozzo. La nuova strategia è stata accolta con entusiasmo dai mercati finanziari il Dow Jones ha recuperato in un paio di giorni tutte le perdite del tracollo ma capovolge il motto che per trent’anni ha accompagnato la deregulation: invece di "meno stato più mercato" si va esattamente nella direzione opposta. Gli Stati Uniti, che per anni hanno predicato in giro per il mondo l’ideologia superliberista, quasi che fosse un dogma incontestabile, si ritrovano con uno stato sempre più impelagato nella gestione economicofinanziaria, a dispetto non solo dei disavanzi record previsti per il nuovo esercizio finanziario (565 miliardi di dollari), ma anche come ha notato Obama, nel dare il benestare all’intervento bipartisan con insufficienti strumenti istituzionali per affrontare il nuovo corso. La deregulation fu avviata ai tempi di Carter: nel 1978 venne firmato l’Airline deregulation act. Con l’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan e dei suoi Chicago boys, il processo subì una accelerazione, estendendosi all’energia, alle telecomunicazioni, ai servizi finanziari, e scatenando una corsa alle privatizzazioni. Al tempo stesso l’economia cresceva rapidamente e il Dow Jones cominciava a galoppare, quasi a conferma che si era sprigionato un potenziale magico.

Non tutto era così perfetto. Già da tempo c’erano i primi campanelli d’allarme sui guasti di una deregulation sfrenata: le frodi della Enron e della Worldcom, l’indebitamento crescente degli istituti finanziari, gli stipendi d’oro dei ceo delle banche slegati dalla razionalità economica. Poi lo scoppio del bubbone subprime, causato proprio da questi eccessi, ha messo in ginocchio Wall Street, congelando i flussi di credito e contagiando i mercati di tutto il mondo. I difensori del liberismo a tutti i costi e una parte consistente del partito repubblicano hanno cercato fino all’ultimo di resistere all’ingerenza dello stato. Il candidato repubblicano John McCain ha professato la sua fede nelle deregulation e si è mostrato scettico sul salvataggio della Aig. Ma di fronte ai pericoli di un cataclisma, la classe politica ha fatto quadrato dietro al piano dei triumviri, cui si è associato Christopher Cox, presidente della Sec, che era stato aspramente criticato dallo stesso McCain.

Sono stati dieci giorni che hanno sconvolto il mondo di Wall Street. Delle cinque grandi banche d’investimento, sono rimaste in piedi solo Goldman Sachs e Morgan Stanley. Le banche commerciali hanno esteso il loro campo di influenza, portando a un cambiamento negli equilibri di potere della finanza. Ma soprattutto è emerso lo stato federale con un nuovo ruolo interventista. "Di fronte a problemi che non avevano precedenti offriamo soluzioni senza precedenti", ha spiegato Bush. Non c’è dubbio che il settembre 2008 segna una svolta: l’ondata della deregulation si è fermata e lo stato ha riacquistato, nel cuore del capitalismo, un ruolo centrale.”

A posteriori, quello che appare chiaro è che l’America, andata in crisi prima dell’11 settembre, ha utilizzato l’attacco terroristico per rimandare - con un’inondazione di liquidità, gli sconti fiscali a carico dei ricchi, il debito pubblico e privato crescente, ecc. - una crisi che sarebbe dovuta scoppiare prima, la quale, scoppiando con sette anni di ritardo, ha coinvolto tutto il mondo. Perché lo ha fatto? Per non riconoscere, come scrive Marcello De Cecco su Affari&Finanza del 22. 09, il declino del suo impero:

“La rotta di Wall Street di mercoledì è stata contenuta dall’intervento coordinato delle autorità monetarie di sei paesi che ha avuto luogo giovedì, e dalla promessa di una specie di centrale di acquisto di carta finanziaria cattiva che sarebbe introdotta da una apposita legge e gestita dal governo, che politici e regolatori americani hanno fatto dopo una riunione di emergenza lo stesso giorno. Basterà a convincere i mercato ad una reale e duratura inversione di tendenza? Lo vedremo nei prossimi giorni. A Wall Street batte il cuore del capitalismo americano: l’importanza del mercato azionario per l’economia Usa è assai maggiore di quella che altri mercati hanno per altri paesi. Si dice che un americano su due possiede azioni. Ma pochi sono i cittadini americani che le comprano e vendono individualmente. Le hanno perché fanno parte del sistema previdenziale americano, essenzialmente costituito da fondi pensione privati che investono il proprio capitale in azioni e dalla gestione di esso devono trarre i fondi per pagare le pensioni ai propri aderenti. Se scendono le azioni, inoltre, le imprese sono scoraggiate dal finanziare i nuovi investimenti ricorrendo al mercato e preferiscono indebitarsi.

A impedire crolli di borsa, specie in tempi di elezioni, è stata diretta la politica monetaria americana, che abbiamo definito da molti anni come eccessivamente generosa. E della sua generosità strutturale, dettata dall’imperativo politico di tenere su Wall Street a tutti i costi, hanno approfittato specialmente le grandi banche d’affari, che sono riuscite a mettere in piedi un vero e proprio sistema finanziario ombra, basato sulle infinite modulazioni di prodotti inventate da matematici e fisici prestati alla finanza. Ne sono derivati guadagni enormi per i protagonisti ma anche una debolezza strutturale del sistema finanziario americano, che appariva a detta di tutti fondato sulle regole del più sfrenato liberismo, ma in realtà aveva bisogno continuo di appoggio da parte delle autorità monetarie e dei regolatori.

Ed è stata proprio la occasionale titubanza da parte delle autorità nello svolgere il proprio ruolo di regolatori condiscendenti a generare la fibrillazione di un sistema che pur si proclamava autosufficiente. La letale incertezza che ha investito tutti i mercati, inducendoli a comportamenti che hanno portato alla crisi di sistema alla quale siamo oggi arrivati, inizia nel 2004, quando Alan Greenspan ha ritenuto di poter invertire il segno della politica monetaria espansiva che aveva inaugurato nel 2001, prima per contrastare il crollo seguito alla fine del boom delle azioni high tech e poi per difendere i mercati dagli effetti dell’attacco terroristico al World Trade Center. La fine, almeno temporanea, della fase di ascesa dei corsi, ha indotto negli operatori una incertezza aggiuntiva, quella relativa al futuro della politica monetaria. Hanno cercato di difendersene con strumenti nuovi offerti dallo stesso mercato, senza però frenare le proprie attività, specie quella lucrosissima di concessione di mutui subprime. Il principale tra gli strumenti utilizzati è l’assicurazione sui crediti. In tale attività si è presto distinta proprio l’Aig, la società salvata in questi giorni dalla Federal Reserve, che la ha rifinanziata per ben 79 miliardi di dollari, diventando proprietaria dell’ottanta per cento delle azioni.

Il mercato dei CDS, le polizze di assicurazione sui crediti, dal 2005 è così cresciuto di ben sessanta volte. Molte polizze sono state comprate a fini esclusivamente speculativi, perché sostituivano i riporti e i deporti sulle azioni delle imprese, sui quali esistono forti limiti agli scoperti. L’Aig, affiancata da JP Morgan, Goldman Sachs e Bear Stearns, poi assorbita dalla banca Morgan, ha costituito il centro del mercato.

Questa attività rappresenta un tentativo di avere la propria torta e mangiarsela allo stesso tempo. A partire dal 2004 gli operatori temono che l’età dell’oro possa finire, ma è troppo duro diminuire la scala di operazioni sempre più complicate, incomprensibili e rischiose, ma enormemente redditizie. Allora si continua allo stesso ritmo ma ci si tranquillizza accendendo su ciascuna operazione una o anche più polizze di assicurazione. Ci si vuol convincere che l’assicuratore possa far fronte, in caso di necessità, a tutti i propri impegni. Ed è proprio qui che il modello fallisce. L’assicuratore egli stesso investe i proventi dei premi che riceve. Crede di far bene comprando la parte più "sicura" di crediti di varia natura, assemblati da società finanziarie specializzate e dotati del marchio di qualità apposto dalle ineffabili società di rating. Poi accade che tale marchio sia rivisto in peggio dalle stesse società, quando comincia la saga dei mutui subprime. Quel che si credeva ottimo comincia a essere valutato molto meno di prima, e l’Aig si trova di fronte alla necessità di trovare una enorme quantità di capitali per garantire le polizze che ha emesso.

Questo accade già qualche mese fa. JP Morgan e Goldman Sachs, gli altri due protagonisti del mercato dei CDS, mettono in piedi un fondo di 75 miliardi di dollari, destinato a salvare Aig se arriva il peggio. Arriva invece la caduta della borsa, le azioni delle banche d’affari cominciano a precipitare e anche loro devono pensare a ricapitalizzazioni massicce. Così è costretta a intervenire direttamente la Fed.

Spero si sia compresa la centralità del mercato dei CDS nel funzionamento del modello finanziario inventato dalle grandi banche d’affari per gli Stati Uniti, ma connesso con quello mondiale da legami essenziali. Senza la finzione di assicurazione offerta da imprese come l’Aig non si sarebbe potuto spingere il mercato dei mutui sub prime fino agli estremi a cui è arrivato. Ma nemmeno quello dei crediti al consumo, delle carte di credito e dei mutui appena sopra quelli subprime, i cosiddetti AltA, avrebbe potuto crescere quanto è cresciuto. E’ in altre parole l’intera finanza innovativa, il modello cosiddetto di "originate and distribute", a richiedere la finzione assicurativa, perché essa permette la apparente liquidità degli strumenti inventati e li fa circolare.

Ora l’assicuratore di tutto il sistema è diventato, tramite la Federal Reserve, lo stato. Ma lo stato americano è divenuto, acquisendo le agenzie parastatali di garanzia dei mutui, anche il garante di quel mercato. Il debito pubblico degli Stati Uniti dovrebbe così essere raddoppiato, e le società di rating avrebbero dovuto declassarlo ancor di più di quanto hanno già fatto, ma un artificio giuridico contabile ha permesso di sventare per ora questo ulteriore pericolo. Un artificio in più, che si aggiunge al mondo di cartapesta creato da legislatori, regolatori e banchieri americani negli ultimi dieci anni. E’ facile, e spesso lo facciamo, prendersela con Alan Greenspan. Ma che dire di uomini di governo come il senatore Gramm (da molto tempo il più ascoltato consigliere economico di John Mc Cain) e prima di lui il vecchio Bush, che hanno scardinato e distrutto il sistema finanziario messo in piedi da Roosevelt e dai suoi collaboratori dopo il crollo dei primi anni trenta? Essi hanno lavorato per due decenni per creare una giungla nella quale la legge che vale è quella del più forte, abolendo una dopo l’altra le regole che stabilivano la segmentazione dei mercati. In questa attività si sono distinti anche numerosi uomini di governo democratici. E’ stato un vero sforzo bipartisan nel quale la parte dei grandi suggeritori e ispiratori l’hanno svolta le principali banche di investimento, quelle che Roosevelt aveva messo in castigo e private di gran parte della loro agibilità. Hanno potuto farlo perché loro uomini chiave sono diventati protagonisti della politica economica governativa. Il caso di Paulson è solo l’ultimo, ma un esame del personale politico americano rivela il precedente ruolo di banchiere d’affari di molti protagonisti presenti e passati.

Dalle ultime convulsioni statunitensi, paradossalmente, non sta uscendo una riproposizione del sistema segmentato, in cui alle banche è dato di svolgere solo la funzione di gestori del sistema dei pagamenti, di raccoglitori di depositi a breve e di prestatori a breve all’economia. Stanno invece nascendo dei giganti tuttofare, che risultano dalla fusione delle banche d’affari con quelle commerciali. L’America torna dunque alla banca mista, come risultato della pluridecennale fatica di politici e banchieri, ma essendo costretta a risolvere, uno dopo l’altro, i disastri finanziari causati dalla liberalizzazione selvaggia e creando una specie di gigantesca Iri, di proprietà non del Tesoro ma della Federal Reserve. E una ancor più grande istituzione di stato, del tipo della Resolution Trust Corporation che liquidò le Savings and Loans negli anni ’80, e che dovrebbe fornire fondi a banche e imprese, comprando le loro cattive attività patrimoniali a prezzi scontati.

Con questa e altre trovate, annunciate giovedì, si è ottenuto un poderoso rimbalzo delle quotazioni di borsa, che ha annullato parte dei paurosi ribassi degli ultimi giorni. Quanto durerà? Per ora la frenetica attività di giovedì prova solo che quando è in serio pericolo il mercato azionario il sistema reagisce con azioni rapide, perché la borsa è l’essenza stessa del capitalismo americano e mondiale.

Gli interventi di questi ultimi giorni mostrano tuttavia anche l’affanno di regolatori e politici, costretti dalla temperie elettorale a scegliere per un intero anno a rivelare un disastro alla volta, con effetti sulle aspettative estremamente deleteri.

Il resto del mondo guarda attonito a quel che accade negli Stati Uniti. I crolli di Wall Street, velocemente propagatisi a tutte le altre borse, hanno convinto le autorità monetarie dei principali paesi a montare una operazione congiunta di iniezione di liquidità al mercato, perché l’offerta privata di dollari si è inaridita. La moneta americana, dunque, sale mentre la borsa scende. Questo accade perché il denaro si ritira dalle borse e dalle monete percepite ad alto rischio per cercare una collocazione più tranquilla, perché si prevede una fase di debolezza per l’economia della zona Euro, ma specialmente perché la finanza privata mondiale si è rifugiata nella preferenza per la liquidità assoluta e non presta dollari a breve a nessuno.

Non siamo ancora all’ultima fase, quella della fuga dal dollaro, ma nemmeno più tanto lontani da essa. Per ora i privati non vogliono più prestare dollari a breve e le banche centrali devono sostituirli dando dollari "pubblici" al mercato (300 miliardi solo giovedì).

Quanto all’Europa, essa non veleggia indenne nella tempesta. L’Ufficio Studi della Deutsche Bank ha appena pubblicato una istruttiva tabella, dalla quale si apprende che le banche europee hanno perduto dal giugno 2007 a oggi 227 miliardi di dollari, contro i 260 perduti da quelle americane nello stesso periodo, e hanno coperto le perdite per il 67% con nuovi capitali, mentre quelle americane le hanno coperte per il 70%. A potersi vantare sarebbero semmai le banche asiatiche, che hanno perso solo 23 miliardi di dollari e li hanno coperti con nuovo capitale per il 91%. Ma ciò non ha evitato che le loro borse crollino insieme a Wall Street e che le loro monete si indeboliscano.

Ci siamo quindi anche noi europei, in mezzo al guado, e anche gli asiatici, nonostante le loro banche virtuose e le loro immense riserve. Noi avevamo un sistema finanziario alternativo ma, come dimostrano le cifre ora citate, lo abbiamo indebolito assai imitando il modello americano. Gli asiatici ce l’hanno ancora, ma non serve, se partecipiamo tutti ad una globalizzazione finanziaria gestita da New York e Washington nel modo che abbiamo visto.”

Rimandando la crisi con ogni mezzo e chiudendo gli occhi sulla massa enorme di derivati che si è diffusa metastaticamente in tutto il sistema bancario mondiale, gli Stati Uniti, pur di difendere il loro primato e il loro tenore di vita, hanno inferto un colpo alla credibilità del sistema capitalistico che neppure Marx era riuscito ad assestare. Federico Rampini analizza, su Repubblica del 22. 09, il mondo in frantumi della finanza Usa:

“Un mondo ha iniziato ad andare in frantumi. Per capirlo bisogna guardare dietro la folle successione di eventi: prima i crac di colossi finanziari americani, poi i crolli delle Borse mondiali e la paralisi del credito, infine l’euforia «drogata» dal più gigantesco piano di nazionalizzazioni e salvataggi pubblici varato in America dai tempi della Grande Depressione. Non è solo un modello dell’economia di mercato a tramontare. La svolta di questo settembre 2008 ha un significato storico più profondo, ben oltre il bilancio dei punti guadagnati o persi da questa o quella ideologia. Questa è probabilmente l’ultima grande crisi finanziaria che il mondo avrà visto scoppiare sotto il segno dell’egemonia americana. Gli Stati Uniti sono ancora capaci di imporre a tutte le nazioni il ritmo delle pulsazioni cardiache di Wall Street. Ma è ragionevole prevedere che questo accade per l’ultima volta. I motivi sono evidenti. Anzitutto il trend di lungo periodo di ridimensionamento relativo dell’America rispetto alle nazioni emergenti non verrà interrotto da questa crisi, anzi forse ne risulterà accelerato. La Cina, l’India, il Brasile, la Russia, il Golfo Persico subiscono contraccolpi brutali sui loro mercati finanziari e anche nelle loro economie reali (le esportazioni rallentano a causa della recessione made in Usa).

Ma nel lungo periodo la direzione di marcia non cambia: l’Occidente conterà meno rispetto alle potenze del Nuovo Mondo. Gli Stati Uniti usciranno ulteriormente rimpiccioliti quando avranno finito di pagare i debiti che stanno accumulando. Il maxifondo destinato a comprare i titoli-spazzatura dalle banche in crisi costa come una seconda guerra in Iraq. Le implicazioni di questa catastrofe non sono soltanto finanziarie. Se Barack Obama vince le elezioni il 4 novembre, una delle sue priorità dichiarate - fino a ieri - è un vasto programma di investimenti pubblici per modernizzare le infrastrutture e i servizi che vanno letteralmente a pezzi dopo decenni di incuria: sanità, scuola, autostrade, ferrovie, aeroporti. Ora però il grande crac finanziario del 2008 gli ha divorato in anticipo tutte le risorse che sperava di poter investire per rilanciare la competitività americana nella sfida alla Cina. Obama o McCain, il successore di George Bush quando riceverà le chiavi del Tesoro troverà solo una montagna di debiti e cambiali. Da questa grande crisi esce distrutta infine l’autorevolezza del modello economico americano, quel capitalismo finanziario reso ipertrofico e irresponsabile da un ventennio di ritirata dei poteri dello Stato sui mercati. Il crac di Wall Street del 1929 preannunciò un’epoca nuova, nuove idee e dottrine rivoluzionarie che segnarono la storia del secolo: per superare la Grande Depressione l’America di Franklin Delano Roosevelt esportò un modello universale di regolazione dei mercati, di intervento keynesiano nell’economia, di Welfare State e investimenti pubblici nei beni collettivi. Quell’epoca si chiude definitivamente con questa crisi del 2008 segnata da un cambiamento di opposta natura: il tramonto dell’America come paradigma normativo e modello da emulare.

Sarebbe troppo comodo, e sostanzialmente inesatto, attribuire questo disastro alla sola Amministrazione Bush o alla destra americana. Dai tempi di Ronald Reagan anche larga parte dell’America progressista e democratica è stata soggiogata dall’egemonia culturale del neoliberismo economico. Dalle privatizzazioni, dalla benefica deregulation anti-monopolistica, dalla giusta valorizzazione dello spirito d’impresa e del dinamismo dell’economia di mercato, si è scivolati progressivamente verso qualcosa di molto diverso. Si sono stravolti i valori e i principii essenziali del liberalismo fondato sui contropoteri e l’etica della responsabilità. Si è teorizzata sempre più apertamente la capacità dei mercati di auto - regolarsi. Il potere dell’alta finanza e della grande industria si è annesso le istituzioni che dovevano essere le guardiane indipendenti dell’economia, della moneta e del credito.

Alla guida dei massimi organi di controllo e di vigilanza sono stati chiamati coloro che dovevano essere controllati e vigilati. Le authority sono diventate succursali subalterne delle lobby. Il modello dell’occupazione dell’Iraq, subappaltata in buona parte alla società petrolifera Halliburton di Dick Cheney o a compagnie di mercenari privati, aveva fatto le sue prove generali sul territorio americano, con l’occupazione di snodi vitali dello Stato da parte dei potentati privati. Su questo terreno la differenza tra destra e sinistra è stata meno netta di quanto si creda. Se George Bush ha affidato il Tesoro all’ex numero uno della Goldman Sachs, Henry Paulson, Bill Clinton lo aveva consegnato nelle mani di Robert Rubin, ex presidente della Citigroup. Lo sconfinamento delle merchant bank in settori sempre più esoterici e rischiosi della finanza globale era già in atto durante l’èra Clinton. La settimana scorsa, nelle ore più frenetiche della crisi di Wall Street, John McCain ha detto sciocchezze monumentali, ma Barack Obama si è fatto fotografare in una riunione con Robert Rubin e altri pezzi grossi di Wall Street (che in fatto di finanziamenti elettorali è rigorosamente bipartisan). E’ in questo groviglio di conflitti d’interessi, in questo establishment incestuoso, che affondano le radici antiche del disastro attuale. E’ questa filosofia del capitalismo con regole «à la carte» e controllori al guinzaglio, che è giunta al collasso, alla bancarotta, con l’epilogo della massiccia socializzazione delle perdite.

All’Europa non conviene certo aspettare che siano le future potenze - Cina, India, Russia - a negoziare con l’America le nuove regole del gioco dell’economia di mercato. In questa fase di transizione e di incertezza, mentre le potenze emergenti non hanno veri modelli alternativi da proporre, l’Unione europea deve pretendere dagli Stati Uniti l’apertura di un tavolo di negoziato sui nuovi principi di regolazione della finanza globale. I danni che Wall Street e i debiti americani stanno infliggendo al mondo sono più che sufficienti: ci autorizzano a esigere che l’America elabori insieme a noi un sistema di controlli e di vigilanza globale, per impedire il ripetersi di una crisi simile.”

Il groviglio di interessi che ha generato la crisi attuale è ancora più grave se si riflette sul fatto che, dopo lo scoppio della bolla speculativa borsistica del 2001, dovuta in gran parte ai valori enormi e ingiustificati delle azioni hi-tech, tutte le autorità politiche ed economiche si erano affannate ad apprestare misure che avrebbero dovuto rendere trasparente il sistema. Evidentemente, la cosa è più difficile di quanto si pensasse. Ancora più preoccupante è il fatto che, nel corso degli ultimi due decenni, tutti gli esperti erano d’accordo sul fatto che, data la maturazione del sistema, una crisi simile a quella del ’29 non sarebbe potuta sopravvenire. E’ proprio l’ombra di quella crisi invece che, mutatis mutandis, si allunga su quella attuale come scrive Giorgio Ruffolo su Repubblica del 25. 09:

“QUEL 1929 NOSTRO INCUBO

Il 1929 del grande crash è diventato, per gli economisti, ma non solo per loro, uno di quegli anni che dividono le ere. Un anno apocalittico. Poco mancò che chiudesse il grande duello tra capitalismo e socialismo a favore di quest’ultimo. Provocò il nazismo e promosse la seconda guerra mondiale.

Oggi il fantasma ritorna. Apologeti e apocalittici si abbandonano una volta ancora alle tentazioni profetiche. Siamo a un nuovo 1929?

Ci sono buoni argomenti a favore degli apocalittici. A cominciare dall’inizio. La crisi del 1929 fu preceduta da una forte ondata di speculazione fondiaria sviluppatasi nella mite Florida. Si era nel pieno degli anni venti, gli anni del Grande Gatsby e della esaltante euforia americana. I terreni della Florida furono investiti da un’ondata di acquisti che ben presto divennero essenzialmente speculativi. La "bolla" si sgonfiò, ma non per ragioni economiche: un grande uragano si abbatté nel 1927 sulla regione lasciando senza tetto diciottomila persone. L’impeto della finanza speculativa alimentato dalla crescente prosperità e da un contagioso ottimismo si era intanto spostato sulle azioni industriali. Un grande boom triplicò le quotazioni dal 1924 al 1927. Verso la fine del 1928, quando già si potevano avvertire i brontolii dell’altro uragano, il Presidente Coolidge pronunciò un discorso memorabile: «A nessun Congresso degli Stati Uniti... era mai successo di trovarsi di fronte a una situazione tanto positiva. Nel Paese esiste tranquillità e soddisfazione insieme al più elevato record di anni di prosperità. All’estero perdura la pace e il benessere».

Ma tra il giovedì 24 ottobre e il martedì 29 ottobre del 1929 la Borsa di New York fu atterrata da un poderoso uno-due. Le quotazioni sprofondarono, centinaia di banche fallirono, il prodotto nazionale americano crollò di un terzo: nel 1932 si contarono in America tredici milioni di disoccupati, mentre il terremoto si spostava in Europa scatenando la reazione nazista.

Sulle cause di questa gigantesca catastrofe esiste una gigantesca letteratura. Forse la spiegazione più semplice ed efficace è quella fornita dal modello di Hyman Minsky, citato da Kindleberger, che descrive il processo cumulativo di una espansione del credito bancario che si avvita su sé stesso, dilatando l’offerta di moneta ben al di là delle dimensioni dell’economia reale: insomma, una formidabile inflazione finanziaria.

Non è, fanno notare gli apocalittici, proprio quello che sta accadendo oggi, sotto i nostri occhi? Anche oggi, l’esplosione della bolla si è verificata, anche se partendo da cause occasionali, sul terreno della speculazione fondiaria. Anche oggi il sistema delle banche l’ha provocata agendo sulla leva del credito e promuovendo in una gara competitiva un formidabile processo di indebitamento. Inoltre, la crisi attuale, oltre che dalla irresponsabilità "quantitativa" delle banche, è connotata da un devastante aspetto di "opacità" delle sue dimensioni reali. Infatti, la novità costituita dall’esistenza di un vasto settore di intermediari e di un sofisticato apparato di nuovi strumenti finanziari ha consentito alle banche di disseminare i rischi, trasmettendoli a intermediari che li impacchettavano in strumenti compositi nei quali è facile che le perdite si occultino. In tal modo, all’effetto quantitativo, inflazionistico, si aggiunge un effetto qualitativo, tossico. Questo sistema di indebitamento inquinato è all’origine dell’attuale catena di dissesti che, secondo gli apocalittici, minaccia di riprodurre una condizione simile a quella della "grande crisi".

Rispondono gli apologetici che le condizioni attuali sono del tutto diverse da quelle degli anni Venti del secolo scorso. Anzitutto, la struttura dell’economia, grazie alla potenza tecnologica, alla differenziazione e flessibilità produttiva e alla spinta espansiva dei consumi, è incomparabilmente superiore a quella degli anni Venti. Inoltre, ed è il fatto più importante, il governo americano - qui sta l’enorme differenza rispetto agli anni Trenta - ha deciso di intervenire massicciamente a colmare le perdite colossali per arginare la crisi. Lo Stato, insomma, ha deciso di salvare il Mercato. Questo può essere un evento risolutivo, che però risolve troppo. Gettando un peso così enorme sulla bilancia, si rischia il suo tracollo. Si rischia di cambiare la natura del capitalismo: o in un sistema assistito, con uno Stato che si limita, come il mondo della finanza chiede arrogantemente, a una gigantesca azione di salvataggio senza nulla pretendere; o in un sistema dirigistico, che pretenderà di usare quei mezzi potenti per esercitare funzioni di orientamento e di governo economico, come avvenne in Italia negli anni Trenta.

C’è poi un terzo aspetto che differenzia l’oggi dall’ieri: ed è la comparsa sulla scena economica di nuovi potenti soggetti di storia: le grandi potenze asiatiche. La globalizzazione ha aperto la porta al loro ingresso. Ma anche qui: la moltiplicazione e l’intensificazione delle interdipendenze insita nella globalizzazione richiede perentoriamente la capacità di governarle, a livello mondiale. Purtroppo, di un sistema di governo mondiale dell’economia, non si vedono le tracce.”

Si estenda o meno con la drammaticità della crisi del ’29, pochi dubbi sussistono sul fatto che, quella attuale, segna la fine di un’epoca e del modello del capitalismo di mercato. A questo tema è dedicato l’articolo di Guido Rossi pubblicato su Repubblica il 25. 09:

“Vorrei fornire qualche indicazione sulle questioni totalmente nuove e irrisolte che toccano le recenti dimensioni e strutture sia della società per azioni, sia dei mercati finanziari. A questo proposito ho recentemente usato la metafora del mito della Fenice e della necessità che dalle ceneri del "diritto vivente" nascano nuovi paradigmi e un nuovo ordinamento. La discussione è ora aperta in tutti i Paesi, per gli effetti che la globalizzazione economica ha provocato, squarciando i vecchi schemi. Infatti, le pur multiformi modifiche al sistema internazionale delle imprese introdotte dalla moderna lex mercatoria, la quale ha valicato il confine imposto dalle legislazioni dei singoli Stati, non hanno potuto fermare le crisi che hanno colpito le società e i mercati finanziari in generale. E ciò è avvenuto anche perché in ogni caso le regole della lex mercatoria, dettate dai protagonisti dei mercati, ispirati solo alla tutela dei loro interessi, offrivano strumenti il più delle volte inutili, che soltanto in alcune sporadiche ipotesi sono riusciti a tutelare i contraenti indifesi e ad impedire gli illeciti e le bolle speculative che stanno alla base delle crisi.

Le vere sfide del diritto sono dunque quelle di dover affrontare una realtà (da disciplinare) completamente diversa rispetto a quella che i suoi strumenti tradizionali avevano fin qui regolamentato. Siamo di fronte ad una rivoluzione del sistema economico che il diritto non è stato ancora in grado di seguire, sia perché il suo armamentario ormai superato altro non ha fatto che rendere ancora più complesse le crisi, se non a volte favorirle, sia perché è mancato il coraggio di mettere in discussione i vecchi dogmi e formulare ipotesi di base completamente nuove. Robert J. Shiller (The Subprime solution, 2008) ha recentemente dimostrato che anche la subprime crisis non può essere risolta con strumenti vecchi di mero intervento pubblico, ma va rivisitata con strutture nuove. La verità è che la crisi è più profonda, poiché la grande società per azioni è sfuggita, nel suo operare, non solo alle tradizionali categorie giuridiche sulle quali era organizzata, ma a tutti i più recenti originali, e spesso scimmiottati da altri ordinamenti, tentativi di regolamentazione che vanno genericamente sotto il vago nome di corporate governance. Anzi la frammentazione della gestione dell’impresa sociale, attraverso la scomposizione degli organi amministrativi in miriade di comitati, ha all’incontrario favorito il perseguimento di interessi extrasociali e il dissanguamento della società, aiutati da un mercato senza né controlli, né scrupoli e da una fantasiosa e cinica dominanza della finanza sempre più autoreferenziale e distaccata dalla realtà economica dell’impresa. In questo quadro prolificano la speculazione e la crisi che l’economia e il diritto stanno vivendo, in uno stato di semi impotenza, quasi senza capire che non è più tempo di restaurazione...

Le vecchie formule risultano dunque superate. Nelle strutture dei mercati ormai azionisti e creditori, imbrigliati in innumerevoli e sovente opachi strumenti finanziari, stanno perdendo sempre più autonomia fino a confondersi. L’azionista, infatti, è solamente uno degli investitori e non è più il solo a rappresentare l’interesse sociale: con lui concorrono i creditori?finanziatori, gli obbligazionisti nelle varie fattispecie attraverso le quali i loro diritti si possono variegare, le diverse categorie di azionisti sempre più numerose e spesso indecifrabili. Ma concorrono sempre più rilevanti i titolari di prodotti derivati con la varietà di operazioni d’acquisto, di vendita e di conversione, dissimulate spesso da riallocazioni del rischio; i partecipanti alle varie forme di trust, di fondi (dagli hedge funds ai fondi pensione e soprattutto ai nuovi irrompenti protagonisti: i fondi sovrani), di prestito di azioni, di equity swaps e di tutti gli altri strumenti finanziari che formano un enorme e incontrollato mercato...

* * *

L’attuale situazione si presenta assai più complicata rispetto alla semplicità dei sistemi giuridici tradizionali, tant’è che nel capovolgimento generale dei ruoli non deve essere trascurato l’aspetto dei "doveri fiduciari" che gli stessi azionisti organizzati e costantemente attivi possono avere nei confronti della società e degli altri soci. Al di fuori dei casi tipici di controllo maggioritario e minoritario, che possono alimentare ampi casi di conflitto di interessi, la dottrina e la giurisprudenza unanimi, in tutti gli ordinamenti, sono solite ritenere che gli azionisti non abbiano "alcun dovere nei confronti della società". Tuttavia, le recenti vicende dei mercati finanziari hanno spinto minoranze di azionisti attivi a considerare economicamente razionale il cercare di influenzare direttamente, anche fuori dei canonici contesti assembleari, le scelte degli amministratori. Questo fenomeno, assai diffuso nei maggiori mercati esteri, ha incominciato ad avere anche in Italia una sua non indifferente applicazione, come è stato recentemente dimostrato in una delle più importanti società italiane, le Assicurazioni Generali... Può darsi che l’attivismo dei soci minoritari possa anche essere a volte di stimolo all’operare degli amministratori, ancorché la separazione dei diritti di voto dagli interessi economici, largamente non regolata e spesso nascosta, possa essere strumento di facile perseguimento di interessi extrasociali, diretti o indiretti a grave danno del complesso degli azionisti, quando ad esempio è loro interesse far scendere il prezzo di borsa delle azioni. Il problema dei "doveri fiduciari" degli azionisti e del conflitto di interessi nell’ambito societario si è dunque ampiamente modificato e impone nuovi strumenti di valutazione, affatto difformi da quelli tradizionali.

Un ulteriore fenomeno recente che sta modificando radicalmente le strutture dei mercati finanziari e delle società per azioni è il massiccio investimento dei cosiddetti fondi sovrani (sovereign wealth funds). Tendenza questa che suona in modo opposto a quella che sembrava consolidata, nel capitalismo di mercato, delle privatizzazioni. La loro attuale presenza calcolata fra i 3 e i 5 trilioni di dollari ha evidenziato il diverso ruolo che possono assumere i governi in un’economia capitalista: "il capitalismo di Stato opposto dunque al capitalismo di mercato"?... Quel che oggi rileva è che i fondi sovrani sembrano poter costituire una vera alternativa al capitalismo di mercato. Né può dimenticarsi che proprio i fondi asiatici, del Medio Oriente e di Singapore hanno contribuito a risolvere le recenti crisi di istituti di investimento di straordinaria rilevanza nel capitalismo di mercato, quali Citigroup, Inc., Merrill Lynch & Co., e UBS AG. Ma ancor più anomale sono tutte le forme di bailout, di intervento economico del governo americano nei recenti salvataggi bancari... Tullio Ascarelli riteneva che le società per azioni controllate dallo Stato costituiscono una "formula insincera". E ripete oggi Robert J. Shiller che i salvataggi (i bailout) sono forme di ipocrisia, ai vertici della quale, mi pare, troviamo anche noi il tentativo nostrano di salvataggio governativo dell’Alitalia...

Parlare ancora del "capitalismo di mercato", soprattutto dopo gli interventi del Tesoro americano a salvataggio dei vari istituti finanziari a iniziare da Fannie Mae e Freddie Mac, sembra riferirsi a un relitto storico o a un oggetto d’antiquariato. Le azioni preferenziali emesse a favore del Tesoro e la possibilità, con l’emissione di warrants, di acquistare fino al 79,9% delle azioni ordinarie, nonché la sospensione del diritto di tutti gli azionisti a favore del Commissario (Conservator), sono, si potrebbe dire celiando, la copertura di mercato a un salvataggio pubblico in spregio. Lo stesso dicasi per il grande gruppo assicurativo AIG.

Considerata l’opacità dei fondi sovrani e di altri interventi dei governi nelle società, ritengo che una strada percorribile potrebbe essere, dopo averne imposto la rigorosa "trasparenza", quella di individuare con chiarezza la loro responsabilità sia nei confronti della società, degli azionisti e dei principali stakeholders....

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Grande rilievo assume, ad esempio, la circostanza che il controllo pubblico su un’impresa non esclude in alcun modo l’applicazione della disciplina antitrust. La circostanza che il socio di controllo sia lo Stato o un ente pubblico non incide quindi sulla piena parificazione della società partecipata a un’impresa privata e sul suo assoggettamento alle regole concorrenziali previste per qualunque imprenditore. Il principio generale che se ne può trarre è, quantomeno, una presunzione in favore dell’applicazione delle regole di diritto (societario) comune anche alla mano pubblica. Tuttavia i bailout, i vari salvataggi, nonché gli interventi d’ogni tipo dello Stato nelle società quotate, hanno definitivamente cancellato dalla società per azioni il principio che la perdita del capitale, in caso di insolvenza, si abbatteva sugli azionisti. Nel nuovo capitalismo finanziario le perdite si sono allargate e vengono ormai ripianate dallo Stato, cioè da tutti i cittadini che pagano le tasse. Ma allora quale capitalismo di mercato?...

Insomma, i modelli sui quali erano costruiti il diritto societario e quello dei mercati finanziari sono totalmente fuori uso e inadatti a interpretare le nuove realtà del capitalismo finanziario globalizzato. Né vale a tenerli in piedi qualche fragile e già vetusto strumento, quale il ricorso agli amministratori indipendenti o a nuove, ma stantie definizioni di parti correlate, o la vaga responsabilità sociale per proteggere gli stakeholders: espressioni, per dirla con Robert B. Reich (Supercapitalism, New York 2007, p. 171 (trad.it., Fazi Editore 2008) considerate "meaningful as cotton candy" così senza senso come lo zucchero filato. Intanto nei gruppi di società, all’interno e nei mercati, il conflitto di interessi ha assunto forme nuove e incomprensibili coi vecchi paradigmi, tanto da colpire anche gli stessi stakeholders... Pretendere che gli eventuali conflitti di interessi fra le società e le parti correlate possano, ad esempio, essere risolti affidando le decisioni relative ai cosiddetti amministratori indipendenti, facendoli diventare in determinate fattispecie i veri "capi azienda", snaturandone così la presunta natura e funzione, come vorrebbe la Consob, è frutto di un paradigma vecchio e comunque superato...

Ma che dire dei mercati finanziari sempre meno regolamentati e controllati, dove l’homo oeconomicus è stato sostituito dall’homo ludens se il maggiore di tali mercati è quello dei credit default swaps, nei quali si scommette sull’insolvenza non solo della società quotata ma anche del debito pubblico degli Stati. Il collasso di questo mercato di scommesse incontrollate può essere peggiore delle crisi dei subprime mortgages. E vale allora la pena di ricordare ancora la frase di Keynes: "Quando l’accumulazione del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male".

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Alla domanda: quali nuove sfide per il diritto, la risposta a mio parere è dunque una sola: esiste un’unica sfida. Bisogna che i giuristi incomincino a interrogarsi per rivoluzionare i principi fondamentali e le strutture che hanno finora retto il diritto societario e dei mercati finanziari. Il paragone l’ho già altrove fatto. La società per azioni è al termine della sua stagione. Come all’inizio del seicento per sviluppare il nuovo capitalismo maturò Le Compagnie delle Indie, ora senza tradire il mito, come la Fenice si sta bruciando con gli stessi rami secchi che è andata raccogliendo sui mercati finanziari. Dalle sue ceneri, per affrontare le nuove sfide, deve uscire una nuova fenice. Oggi siamo nel bel mezzo della ricerca. E questa è la sfida per un nuovo paradigma scientifico che deve stare lontano dalle false vuote formule del "capitalismo sociale di mercato" e simili, ma deve incominciare a esaminare senza pregiudizi e preconcetti la nuova realtà che sembra sfuggita di mano. Affidarsi a strumenti superati non solo è perdita di tempo, ma significa dilazionare l’applicazione di strumenti che possano arginare le crisi e che solo il diritto può promuovere.”

Il problema che si pone a fine settembre è se il crollo del capitalismo di mercato può essere arginato dal capitalismo di Stato, vale a dire dai soldi dei contribuenti usati per tamponare le falle prodotte dai privati. Il dubbio è legittimo perché se nessuno dubita della volontà dello Stato di salvare il salvabile, la falla, via via che passano i giorni, appare sempre più vasta:

Sul Corriere della sera (26 settembre) Massimo Mucchetti descrive l’entità della falla:

“Sidney Winter, docente della Wharton School di Philadelphia, così riassume la crisi americana in una mail a un collega della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa: «Abbiamo scoperto che la nostra ricchezza è di qualche migliaio di miliardi di dollari inferiore alle attese e ora dobbiamo decidere come ci dividiamo la sberla ». La sberla è violenta. E gli Stati Uniti non ne nascondono più i lividi sui loro conti pubblici e privati. Per cominciare, la Federal Reserve si scopre senza più margini di manovra. Ha già impegnato la metà delle riserve, circa 500 miliardi, in prestiti al mercato e finanziamenti al Tesoro (Consolidated statement of condition of all Federal Reserve Banks, 18 settembre 2008).

E non è nemmeno chiaro se le toccherà anche fare le due iniezioni di capitali freschi per 100 miliardi ciascuna per la nazionalizzazione di Freddie Mac e Fannie Mae. Gli americani vedono la loro banca centrale diventare una holding che, direttamente e indirettamente, controlla la più grande compagnia assicurativa del mondo, l’Aig, e le due più grandi agenzie di mutui, Fannie & Freddie, e che, dopo il salvataggio della banca d’investimento Bear Stearns, funge pure da ricettacolo di titoli tossici, anche in valuta estera. Questa banca centrale zoppicante non avrebbe potuto far fronte, senza «stampare» altra moneta, al piano del governo per ritirare dai portafogli delle banche titoli illiquidi, e cioè non più negoziabili, nella misura straordinaria di 700 miliardi di dollari. Eppure, chi mai dovrebbe farsi carico di un piano salva-banche se non l’istituzione che eroga il prestito di ultima istanza? L’apertura dell’ombrello del Tesoro sopra l’ombrello della Fed ben segnala la gravità del momento, portata all’estremo dal rischio di un imminente tracollo di Goldman Sachs e Morgan Stanley, le ultime due banche d’investimento rimaste su piazza.

Ancora venerdì 18 settembre, all’annuncio del piano, nessuno credeva che Goldman e Morgan avrebbero chiesto la licenza di banche commerciali, rinunciando alla totale libertà di manovra avuta fin qui in cambio della protezione della Fed e del Tesoro. E invece domenica la licenza l’hanno implorata e ottenuta. Coincidenza che aggiunge più di un sospetto alle domande di fondo che il piano salva-banche propone di per sé. I 700 miliardi richiesti da Hank Paulson, il segretario al Tesoro che viene dalla Goldman e che dunque fa il pompiere dopo avere per anni attizzato il fuoco con i colleghi di Wall Street, saranno ottenuti con emissioni di titoli di Stato aggiuntive rispetto al programma ordinario di rifinanziamento del debito pubblico. A quali tassi saranno offerti? I risparmiatori americani stanno fuggendo dalla Borsa verso i Treasury bonds, il cui rendimento (somma algebrica del tasso d’interesse e del differenziale tra il prezzo corrente e quello d’emissione) è sceso poco sopra lo zero. Questa tendenza dovrebbe facilitare il collocamento delle emissioni aggiuntive.

Ma la scelta dei risparmiatori, dettata dalla paura, riapre la questione del rischio Paese nel momento in cui lo Stato interviene dove i capitali privati domestici rinunciano senza più essere sostituiti da quelli delle economie emergenti e dei loro sovereign wealth funds. Ora Morgan, con la licenza in tasca, sta cercando nuovi soccorsi a Pechino: sarà interessante valutare il prezzo e i diritti di governance che il China Investments pattuirà dopo la batosta subita al primo ingresso. Quanto poi delle emissioni al servizio del piano non fosse accettato dai mercati, sarà fatalmente accollato alla Fed in contropartita a nuova moneta. Il rischio Paese, dunque. Ne influenzano il livello la politica estera, la potenza militare, l’interdipendenza con l’estero che detiene il 45% del debito pubblico Usa, mentre 40 anni fa ne aveva 9 volte meno.

Il rischio America dipenderà dalla capacità di generare reddito mentre si va esaurendo la spinta ai consumi indotta dai tagli fiscali di Bush, costati 160 miliardi al bilancio federale e non più replicabili. Ma dipenderà anche da altro. Dall’entità del debito pubblico, per esempio. Di quello che si vede oggi e che, con il consolidamento di Freddie & Fannie, arriva a 15 mila miliardi contro un prodotto interno lordo che quest’anno viaggia sui 14300 miliardi. E del debito pubblico che si intravede per domani a consuntivo dei salvataggi, operazioni non amate da nessuno e tuttavia necessarie a evitare che la crisi finanziaria colpisca in modo troppo radicale i fondi pensione privati, già in drammatica sofferenza, con la conseguente necessità di estendere l’ombrello pubblico alla previdenza privata. Il rischio Paese, infine, dovrebbe considerare anche la ricchezza delle famiglie.

Secondo il Bureau of economic analisys del governo americano, nel 2005 la ricchezza netta pro capite (case e risparmi meno i debiti) era pari a 176 mila dollari, più 38,2% a valori costanti rispetto al 1995. Secondo la Banca d’Italia, sempre nel 2005 la ricchezza netta pro capite degli italiani era pari a 134 mila euro, più 47% benché il reddito sia aumentato solo in ragione di uno a tre rispetto a quello americano. Diversi stili e obiettivi di vita? Maggior presenza in Italia di redditi non ufficiali? Vero. Ma alla base c’è la maggior propensione americana a indebitarsi quale emerge dalla tabella sulla ricchezza delle famiglie nei diversi Paesi del G-7 (Girouard, Kennedy, André, Has the rise in debt made households more vulnerable?, Oecd working paper, 2006). E una più ineguale distribuzione del patrimonio tale per cui l’americano medio (ovvero la fascia di popolazione egualmente lontana dalle fasce più ricche e dalle più povere) dispone di una ricchezza inferiore a quella dell’italiano comparabile (Sierminska, Brandolini, Smeeding, Comparing wealth distribution across rich countries, Banca d’Italia, 2007). Questa caratteristica americana accentua il rischio dei fallimenti.

La crisi dei mutui subprime dimostra la pericolosità delle piccole insolvenze private quando i debiti siano integrati ai piedi del castello di carte montato dalla finanza. Per questo la decisione cui fa cenno il professor Winter non è tanto semplice: come ci si divide il dolore per la sberla? Gli obiettivi condivisi del piano salva-banche sono due: a) impedire il tracollo dei mercati finanziari; b) minimizzare, per quanto possibile, l’onere per il contribuente. I critici radicali ritengono che questo piano salvi dal peggio i re decaduti del mercato, ma non il mercato. Perciò propongono di trasformare i crediti in azioni e poi di chiamare i mercati a ricapitalizzare le banche sopravvissute. I sostenitori dell’intervento, ormai vincenti al Congresso e al Senato, osservano che, essendo le ban che esposte con altre banche o con soggetti a loro legati, avremmo solo una partita di giro. Ma il piano Paulson è vago su due punti cruciali: la determinazione del prezzo dei titoli tossici e la definizione dei diritti di proprietà in capo al pagatore di ultima istanza, e cioè al contribuente.

Il governatore della Fed, Ben Bernanke, acquisterebbe i titoli al prezzo di realizzo alla scadenza che dipende dal valore futuro dei beni sottostanti: caso classico, le case per i subprime. Nessuno sa stimare questo valore, ma tutti capiscono che il prezzo di Bernanke è più alto di quello di mercato. La differenza serve a ricapitalizzare le banche senza fare tutti gli aumenti di capitale che servirebbero. Ai soci delle banche e ai loro ricchi gerenti si farebbe dunque il doppio regalo di rendere liquido l’illiquido, migliorando già così i ratios patrimoniali, e di farlo a prezzo di favore. L’iniziale crisi di liquidità è diventata una crisi di capitali a causa dell'impennata delle garanzie richieste dalle controparti. Il regalo, se ne conclude, è obbligato. Certo, lo Stato potrebbe sempre acquistare con una serie di aste al ribasso a sconti decrescenti sul valore facciale dei titoli tossici. In questo modo, caldeggiato da Winter, si riduce il favore sul prezzo. Ma resta aperta la questione dei diritti di proprietà.

La buona regola vorrebbe che chi paga comanda così da assicurarsi una gestione diversa e, con il tempo, riportare a casa qualcosa. Dati i valori in campo, il Tesoro nazionalizzerebbe il sistema bancario americano se adottasse la buona regola. Sarebbe la rivoluzione. Ma sarebbe solo una rivoluzione apparente. La classe dirigente è sempre la stessa se il segretario del Tesoro è un banchiere della Goldman Sachs in quiescenza; e il massimo consigliere economico di Barack Obama, da ministro di Clinton, abolì il Glass Steagal Act, che per mezzo secolo aveva tenuto a freno il delirio di onnipotenza dei banchieri, per poi diventare un boss di Citicorp.”

Il primo intervento dell’Amministrazione Bush appare, come rileva Federico Rampini nei due articoli seguenti (27 e 29 settembre), poco più che un pannicello caldo:

“Se 700 miliardi non bastano

Il crac della cassa di risparmio Washington Mutual è il più grande fallimento bancario nella storia americana, "liquidato" nello spazio di una notte per evitare effetti-contagio e panico tra i depositanti.

In Borsa è crollata del 27% la Wachovia, numero sei nella classifica delle banche americane (che intanto si restringe di giorno in giorno). Sull’altra sponda dell’Atlantico è un colosso belga-olandese, la Fortis, al centro di timori insistenti. Ieri i vertici dell’istituto a Bruxelles hanno dovuto di nuovo smentire problemi di liquidità.

Ovunque nel mondo sui governi e le autorità monetarie incombe un timore: che scatti all’improvviso, dove meno te l’aspetti, e magari su voci false, l’assalto agli sportelli di qualche grande banca, una corsa dei correntisti per ritirare tutto, quella fuga verso la liquidità che caratterizzò la Grande Depressione degli anni Trenta. Un’avvisaglia, per ora rientrata, si è avuta l’altroieri a Hong Kong. La Bank of East Asia, una delle più importanti aziende di credito della piazza asiatica, era stata assediata da code di correntisti impauriti per le voci di imminente bancarotta. A migliorare l’atmosfera, più delle dichiarazioni rassicuranti dell’autorità monetaria di Hong Kong, è stato il gesto del locale magnate Li Ka-shing (l’uomo più ricco dell’isola) che ha acquistato una partecipazione azionaria nell’istituto. Ma in America nessuno sforzo è bastato a rassicurare i clienti della Morgan Stanley: in pochi giorni hanno ritirato e venduto un terzo dei fondi gestiti dal prestigioso gruppo di Wall Street. A nulla è valso l’annuncio che Morgan Stanley ? come Goldman Sachs ? rinuncia allo status privilegiato ma fragile della "investment bank" per convertirsi al mestiere più solido e plebeo della banca commerciale. La fuga da Morgan Stanley ha avuto per protagonista un segmento molto avvertito: non i clienti individuali, bensì gli hedge fund.

E’ indicativo di questi timori il modo in cui le autorità federali Usa hanno chiuso in poche ore il crac di Washington Mutual. Vendendo l’insieme dei depositi a JP Morgan Chase, hanno voluto evitare che scattasse l’intervento dell’assicurazione federale sui conti correnti. Quest’ultima restituisce fino a 100.000 dollari: un valore consistente ma ormai spesso inadeguato a coprire la totalità dei fondi dei correntisti (JP Morgan come prima cosa ha annunciato che i depositi saranno preservati anche oltre i 100.000 dollari). Ancora più anacronistici risultano i tetti dell’assicurazione statale garantita ai depositanti della Fortis in Belgio (20.000 euro) o delle banche di Hong Kong: sotto i 10.000 euro. Meglio che i correntisti non comincino neppure a pensare agli scenari estremi.

Ma è già uno scenario estremo quello che imperversa sul mercato interbancario, dove cioè si gestiscono i flussi quotidiani del credito fra le stesse banche. Il tasso Euribor a tre mesi è ai massimi storici che toccò nel 1995 durante la bancarotta del Messico: cioè la crisi finanziaria che provocò anche l’ultimo collasso del Sistema monetario europeo, mandando la lira a precipizio e il marco alle stelle. E i tassi dicono solo una piccola parte della verità. Assai più del rincaro del costo del denaro preoccupa la scarsità fisica, la penuria, il razionamento ai minimi termini. Le banche stanno facendo incetta di liquidità, sono riluttanti a farsi prestiti tra loro. Le conseguenze sono pesanti a valle, per l’attività di tutte le imprese industriali che devono finanziarsi quotidianamente: in America è sotto stress tutto il settore dei "commercial paper" che servono proprio a quello. L’intero sistema del credito assomiglia sempre di più a un organismo dove le arterie occluse danno i segnali premonitori di un infarto o di un embolo. L’oro, bene-rifugio per eccellenza, ha guadagnato il 20% dall’11 settembre (quello del fallimento Lehman, non delle Torri Gemelle).

In questo scenario affiorano dubbi sul piano Paulson che vanno ben oltre la rissa elettorale americana. Il maxifondo da 700 miliardi richiesto dal segretario al Tesoro per comprare alle banche i titoli strutturati (detti volgarmente spazzatura) è pieno di difetti che il Congresso ha cercato di ridurre: è un piano terribilmente opaco, per curare una crisi nata proprio dall’opacità. Il timore principale ormai è un altro: che anche quei 700 miliardi possano rivelarsi troppo pochi rispetto alla dimensione della crisi.”

“IL VELENO SUI MERCATI

È l’ultimo regalo avvelenato dell’Amministrazione Bush all’America e al mondo, all’economia globale e ai risparmiatori di quattro continenti.

È il pessimo piano Paulson che per una concatenazione perversa di eventi si trasforma nell’inevitabile piano Paulson. In economia, si sa, esistono le profezie che si autoavverano: previsioni che una volta formulate innescano i comportamenti di massa destinati a realizzarle. Ora siamo di fronte a una profezia «costretta» ad autoavverarsi. I mercati si sono convinti che il maxisalvataggio da 700 miliardi di dollari è l’unico disponibile. Se non passa, sarà il Grande Crac.

Ergo, il Congresso è costretto ad approvarlo entro stasera, sia pure con alcune importanti modifiche. Altrimenti il Congresso stesso verrà additato come il responsabile di qualunque catastrofe futura: nuovi fallimenti bancari, paralisi del credito, crolli di Wall Street.

Il piano per comprare montagne di titoli-spazzatura dalle banche è stato condannato senza attenuanti in un appello pubblico lanciato da oltre 200 economisti americani (il numero dei firmatari cresce di ora in ora). Il testo è lapidario, essenziale e definitivo. Tre le accuse principali. Per prima, la profonda iniquità contraria ai principi stessi del mercato. «E’ un sussidio agli azionisti delle banche a spese dei contribuenti. Gli investitori che assumono dei rischi per guadagnare profitti devono anche sostenere le perdite». Seconda colpa, l’ambiguità. «Non sono chiari né la missione della nuova agenzia (istituita presso il Tesoro per comprare i titoli-spazzatura, ndr) né i controlli a cui sarà soggetta». Il terzo difetto, forse in assoluto il più importante secondo gli economisti, riguarda gli effetti di lungo termine del piano stesso. «Se viene applicato - si legge nell’appello pubblico - le sue conseguenze ci accompagneranno per un’intera generazione. Indebolire le fondamenta stesse del mercato per placare dei dissesti nel breve termine è un’operazione disperata e miope».

Ma nel frattempo i mercati si sono già assuefatti alla «droga Paulson». Psicologicamente si sono già appropriati del regalo di 700 miliardi da parte dei contribuenti americani - nonché dei risparmiatori europei e asiatici, vista la consuetudine degli Stati Uniti di finanziare il proprio indebitamento inondando di Buoni del Tesoro il mondo intero. La dinamica degli eventi è chiara. Una decina di giorni fa tutti gli indicatori annunciavano un imminente collasso sistemico dei mercati finanziari, del credito e della liquidità negli Stati Uniti, con un contagio immediato e certo in ogni angolo del mondo. Poi arrivò l’annuncio della pioggia di 700 miliardi donati dai contribuenti, seguita da alcune giornate di tregua. In seguito sono sopraggiunte le prime difficoltà politiche nei colloqui tra l’Amministrazione Bush e il Congresso, complicati dal sabotaggio di John McCain e dell’ala tradizionalista del suo partito repubblicano che denuncia il piano Paulson come l’anticamera del socialismo. (Non a torto, purché si aggiunga la celebre precisazione che fece il compianto economista John Kenneth Galbraith: «In America l’unico socialismo che viene ammesso è il socialismo in favore dei ricchi»). E così sul finire della settimana il barometro dei mercati segnalava di nuovo l’imminenza di un uragano. Non tanto gli indici di Borsa, quanto gli indicatori ben più significativi di solvibilità e liquidità sistemica. Le obbligazioni emesse da aziende industriali di primissima qualità venivano svendute venerdì come junk-bonds, titoli spazzatura, da banche ansiose di trasformare qualunque pezzo di carta in cash, denaro liquido. Il fallimento della più grande cassa di risparmio americana - Washington Mutual - era seguito da vortici di voci incontrollate su altri istituti di credito dagli Stati Uniti fino al Belgio e a Hong Kong. I "credit default swap" (contratti di assicurazione anti-bancarotta o per meglio dire scommesse speculative sul fallimento) sulla banca Morgan Stanley tornavano esattamente ai livelli di massimo allarme toccati una settimana prima. Via via che i difetti del piano Paulson diventavano sempre più appariscenti, macroscopici e inaccettabili, la psicologia impazzita dei mercati si aggrappava a quel piano come all’ultima spiaggia. Il risultato è il ricatto a cui il Congresso deve piegarsi entro stasera: dare il suo via libera, o prepararsi a essere additato come il colpevole dell’Apocalisse.”

Scampato per un soffio il pericolo del grande crack, i politici e i vertici delle banche centrali ripropongono il tema, logorato dall’uso fattone negli ultimi anni, della trasparenza dei mercati. Luciano Gallino, su Repubblica del 29 settembre, analizza questa “favola”:

“A leggere le ultime dichiarazioni di Jean Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, non si sa se sentirsi preoccupati, oppure presi in giro. Trichet ha detto in un’intervista che per combattere la crisi finanziaria "dobbiamo migliorare la trasparenza delle istituzioni e dei prodotti finanziari riguardo agli strumenti più oscuri e tossici". Non è il solo a lanciare messaggi sulla trasparenza come rimedio efficace alla crisi. Lo fanno da mesi banchieri, funzionari governativi, ministri, dirigenti delle organizzazioni internazionali. Il succo dei messaggi è questo: le banche migliorino le comunicazioni fornite ai loro clienti, in modo che essi possano scegliere con maggior consapevolezza tra prodotti finanziari più o meno rischiosi. Così la possibilità che milioni di risparmiatori si trovino tra le mani dei titoli privi di valore verrà drasticamente ridotta.

Lanciato dal presidente della Bce, il messaggio trasparenza tradisce o una straordinaria incomprensione dell’attuale sistema finanziario, che preoccupa in quanto manifestata da un alto esponente di esso, oppure l’intento di raccontare favole per tranquillizzare il popolo ? da cui il senso di venir presi in giro. Ricordiamo che diversi commentatori hanno già espresso seri dubbi sulla capacità dei banchieri centrali di capire per tempo i devastanti meccanismi finanziari che essi stessi hanno contribuito a mettere in piedi. Ma vogliamo supporre che Trichet le necessarie competenze le abbia; siamo quindi costretti a pensare che con i suoi richiami all’importanza della trasparenza ci racconti una favola.

La trasparenza pare una favola per due ragioni. La prima è che negli ultimi vent’anni il sistema finanziario internazionale ha fatto l’impossibile, con il beneplacito e spesso con l’aiuto delle banche centrali, per diventare opaco. Al riguardo gli esperti parlano esplicitamente di formazione, accanto al tradizionale sistema bancocentrico, d’un sistema finanziario ombra. Di esso fanno parte molte entità che non rientrano di per sé nel tradizionale sistema bancario, come i fondi speculativi, le banche d’investimento, i fondi monetari, i fondi patrimoniali privati, ma che hanno con le banche commerciali rapporti strettissimi, non foss’altro perché spesso sono state istituite da esse. Una banca commerciale affatto tradizionale come la Ubs svizzera, ad esempio, ha aperto da tempo una divisione interna che opera precisamente come una banca d’investimento. Ad ogni buon conto il sistema bancocentrico ha contribuito massicciamente al sistema finanziario ombra con due distinte operazioni, attuate con una finalità specifica: aggirare le disposizioni che regolano i movimenti di capitale.

Dopo aver indotto decine di milioni di persone a sottoscrivere prestiti per mille usi, le banche avevano infatti scoperto che se registravano in bilancio tutti i prestiti come passività, come prescritto, finivano per avvicinarsi troppo alla soglia del capitale minimo che le banche centrali richiedono a ogni banca di mantenere disponibile per assicurare la copertura dei prelievi che i clienti fanno in varie forme. Ciò avrebbe impedito loro di concedere altri prestiti o effettuare lucrosi investimenti.

Al fine di alleggerire i loro bilanci, le banche hanno anzitutto trasformato le suddette passività in attività. Il colpo di genio è consistito nel conferire ai debiti dei clienti, e con essi alle proprie passività, la qualità di titoli commerciali che era possibile rivendere: operazione definita "titolarizzazione" (titrisation) o, in Italia, "cartolarizzazione". Il nome più comune per tali titoli è Collateralized Debt Obligations o Cdo (obbligazioni che hanno per collaterale un debito). Questi titoli, la cui composizione è complessa perché incorporano differenti livelli di rischio, possono venire comprati e venduti da privati a privati, da banche a fondi comuni o a fondi pensione, da banca a banca, in un intreccio senza fine di scambi finanziari. Introdotti in Usa solamente dal 1977, e in Italia dal 1999 con la legge 130, questi titoli hanno avuto in meno di vent’anni una diffusione vertiginosa. Il loro ammontare nominale ha rapidamente toccato, negli anni 2000, le decine di trilioni di dollari.

Con una seconda operazione sono state create dalle banche gran numero di entità fuori bilancio sponsorizzate da una o più di esse (Bank-sponsored Off-balance Sheet Entities ? Obse). Le Obse sono vere e proprie società, controllate da una banca cui pagano commissioni cospicue; ma poiché hanno una loro personalità giuridica, non compaiono nei fogli del bilancio della banca sponsor (che è il significato letterale di off-sheet). Il tipo più comune di Obse ha un nome vagamente militaresco; sono i Veicoli per scopi speciali. Con il bilancio alleggerito nei suddetti modi, le banche sponsor han potuto continuare a concedere prestiti perché migliorava il loro rapporto tra capitale proprio e indebitamento. Nel contempo hanno reso opache o addirittura invisibili allo sguardo delle autorità di vigilanza, gran parte delle loro attività finanziarie. Sarebbe interessante sapere come la Bce o la Fed pensano di rendere trasparenti queste immense zone d’ombra scientificamente costruite, anche limitandosi soltanto alle prime 50 o 100 banche dei loro paesi.

Una seconda ragione che fa del discorso sulla trasparenza una favola è che in presenza dei rapporti immensamente complicati che sono stati istituiti tra i diversi sistemi finanziari, e dei prodotti non meno complicati che offrono al pubblico, è diventato tecnicamente impossibile attuare forme di trasparenza a favore dei risparmiatori. Si prenda il caso d’una risparmiatrice, R, che ha acquistato quote di fondi comuni d’investimento per 100.000 euro. La somma è stata distribuita tra una decina di fondi. Si sa che questi ultimi ripartiscono il rischio acquistando in media titoli di almeno un centinaio di società industriali e finanziarie (molte di più per i fondi più grandi). La signora R si trova quindi ad essere comproprietaria pro-quota (o creditrice, quando ci sono di mezzo obbligazioni) d’un migliaio di società. Tra i titoli di queste ci sono sicuramente Rmbs (titoli appoggiati ad un’ipoteca su immobile residenziale) e Cmo (obbligazioni che hanno un’ipoteca come collaterale); Abcp (titoli commerciali appoggiati ad un patrimonio) e Cmbs (titoli appoggiati a un’ipoteca su immobile commerciale); Cdo (obbligazioni che hanno per collaterale un debito) e Cds (contratti che assicurano un credito). Sembrano una parodia, ma sono tutti nomi e sigle reali.

In quali termini e con quali probabilità di successo il consulente finanziario della signora R potrebbe mai illustrarle, in nome della trasparenza, che i Cds della società X presentano un rischio minore dei Rmbs della società Y, però i Cmo della società Z promettono alla lunga un rendimento maggiore degli Abcp della società W? Al minimo, rischierebbe di vedere il cliente, posto dinanzi a tale muro di sigle, ritirare quanto possiede dai fondi comuni per investirli in normali Bot, che son sempre tre lettere, ma almeno hanno contenuti più trasparenti. Oltre ad essere pericolose per chi ci crede, le favole sulle cause della crisi finanziaria sono anche ostiche da tradurre in pratica.”

Che la crisi abbia ormai assunto una configurazione sistemica e strutturale, che sia dunque una crisi epocale, è unanimemente riconosciuto. VITTORIO ZUCCONI parla, su Repubblica, dell’11 settembre dell’economia:

“C’è un buco nero nel cuore del disastro finanziario globale, una voragine sulla quale tutti ci affacciamo, scavata dal fallimento di una presidenza che non riesce neppure più a compattare il proprio partito per passare una legge disperata, diretta a una situazione disperata.

E assiste impotente all’ammutinamento dei suoi parlamentari. Quando due terzi dei repubblicani alla Camera dei deputati (e un terzo dei democratici) hanno votato contro il "piano Bush" da 700 miliardi, accusandolo di essere «socialistico» (sic), un’accusa che mai avremmo immaginato potesse essere lanciata contro di lui, un caos aggravato dalla inutile sceneggiata del senatore McCain paracadutato su Washington a complicare le cose per pura propaganda elettorale, ha prodotto un panico sbigottito di fronte alla leadership politica americana allo sbando e ha afferrato anche chi lo aveva voluto e provocato. E ora promette di ripensarci e di gettare il salvagente nei prossimi giorni, dopo che le Borse avranno consumato altre fortune e banche europee come americane si saranno arrese.

Ancora più di una Pearl Harbor, come disse il superfinanziere Warren Buffet, questi giorni sembrano un secondo 11 settembre, e non necessariamente incruento, pensando alle migliaia di piccole tragedie umane che provocheranno. Fanno rivivere ore di una catastrofe alla quale nessuno è preparato, che molti avevano previsto senza fare niente per prevenirla e per la quale non si vogliono adottare soluzione e risposte serie e dolorose, che vadano oltre lo scaricabarile partigiano. Ma se, nel suo orrore, la strage delle Torri Gemelle fece scattare il senso della coesione e dell’unità nazionale, questo Ground Zero della finanza, della liquidità, della Borsa, ha scatenato la reazione opposta e micidiale dell’anarchia totale. Ha mosso il panico della ribellione e del «si salvi chi può» di parlamentari di provincia preoccupati non di salvare i risparmi, le pensioni, il lavoro, il credito di aziende e di invidui, ma di salvarsi il seggio dal castigo elettorale promesso da cittadini furiosi e sbandati al pensiero di dover salvare i "pescecani" di Wall Street con i soldi delle tasse.

Il panico che ha assalito la Borsa alla conta finale della bocciatura della legge e che si estenderà nel gorgo vizioso degli altri mercati nasce, come ormai è impossibile negare, non dal crollo di questa o quella banca d’affari, ma dal senso di vertigine che assale guardando il vuoto che sta al centro di una potenza come l’America. Se due terzi del partito ancora teoricamente di Bush, il repubblicano, respinge con pretesti puerili («il discorso della presidente della Camera Pelosi ha irritato i nostri deputati» tentava di spiegare uno dei leader dell’ammutinameto, il repubblicano Kantor della Virgina) il grido del proprio presidente che alle sette e trenta del mattino, un’ora senza precedenti in guerra o in pace, era andato in diretta per un ultimo appello, soltanto il vento della follia politicante e dell’opportunismo più sfacciato possono spiegare che cosa sia accaduto. Ed è incredibile che la «speaker» della Camera e i suoi capi regime non abbiano saputo contare le teste, prima di chiedere il voto.

Il piano Paulson, ministro del Tesoro, sponsorizzato da un Presidente impopolare e detestato da un partito che non lo volle neppure al proprio Congresso come nessuno fu dagli ultimi giorni di Nixon nel Watergate, non sarebbe stato un toccasana magico, ma un salvagente gettato ai naufraghi delle banche che annaspano e che stanno trascinando a fondo innocenti in tutto il mondo. Averlo respinto soltanto perché i sondaggi dicono che gli elettori dei repubblicani duri e puri della destra antistatalista non lo volevano, e per il reciproco, classico giochetto parlamentare di far votare agli altri quello che tu non vuoi, per avere gli effetti positivi della legge senza pagarne il prezzo, è stato un segnale di spaventosa irresponsabilità politica.

«Per salvare il proprio seggio hanno preferito punire la nazione» ha detto il presidente della commissione finanze della Camera, Barney Frank rispondendo alla spiegazione infantile dei repubblicani che sostenevano di avere votato contro perché irritati dal discorso fazioso della presidente della Camera, come se salvare il sistema finanziario fosse questione di buone maniere. Purtroppo, manca ancora più di un mese, 35 giorni, alla liberazione di quel voto del 4 novembre che dovrebbe bonificare l’aria dai fumi tossici di una campagna elettorale micidiale e in 35 giorni la voragine nel Ground Zero di questa catastrofe potrebbe ancora allargarsi. Ma la dimostrazione di mediocrità provinciare, di anarchia, di ammutinamento egoistico offerta ieri dalla Camera degli Stati Uniti, rimarrà. E solleva il dubbio che la democrazia americana, e la responsabilità di guidare il mondo, siano una cosa troppo seria per essere lasciata a questa America moralmente e politicamente distrutta da otto anni di menzogne bushiste su tutto, dalle guerre alle torture all’economia «sana». L’America e il resto del mondo, sono costretti a continuare a pagare il conto di una «failed presidency», di una presidenza in bancarotta.”

EZIO MAURO, su Repubblica 2 ottobre 2008, annuncia e descrive “il nuovo disordine mondiale”:

“Non è solo finanza, non sono banche e Borsa solamente che stanno bruciando in questo incendio mondiale che sembra voler resettare il secolo dagli ultimi inganni e dall'unica ideologia superstite - un mercato universale senza Stato e senza governo - prima di farlo davvero ripartire. Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo, grazie alla potenza del motore tecnologico di internet, capace di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, e persino la geografia, facendo ubiqua ogni cosa. Ma non c'è dubbio che un pezzo di modernità sta saltando insieme alle banche d'affari, e questo ci coinvolge tutti, dovunque e comunque viviamo, perché ciò che va in crisi a Wall Street riguarda non solo l'America ma l'Occidente. In realtà vengono oggi al pettine nodi politici, economici, culturali, che nascono tutti nel Novecento mentre credevano di risolverlo, e sono invece arrivati fin qui senza riuscire a sciogliersi.

La credenza, prima di tutto, di una ricchezza e di una crescita senza il lavoro, senza una comunità di riferimento, dunque senza una responsabilità pubblica e le regole che ne conseguono. La riduzione della complessità della globalizzazione alla sola dimensione economica, anzi finanziaria. Lo scarto tra economia reale e realtà dei mercati finanziari, tra le transazioni valutarie e le transazioni commerciali, tra le merci, la moneta e il clic che invia l'ordine di comprare o di vendere in base a indicatori computerizzati. Il divario tra ricchi e poveri, che il boom tecnologico e finanziario ha accentuato, anche dentro gli stessi Paesi in via di sviluppo. Le nuove, improvvise gerarchie sociali che sono nate da questo sommovimento con una forza culturale che pretende il riordino di competenze, saperi, professioni, gruppi sociali, comunità, quartieri, aree del mondo e Paesi.

Il nuovo disordine mondiale, oggi, nasce proprio da qui.

La prima reazione alla crisi è il timore di rimanere coinvolti nella perdita improvvisa di ricchezza dovuta all'inganno di prodotti finanziari avariati, o alla speculazione sulla perdita di credibilità universale delle banche, o alla paura irrazionale che diventa panico e fuga.

Ma subito dopo, o contemporaneamente, cresce la preoccupazione per una domanda di governo complessiva della situazione, che non trova risposta, perché non sa nemmeno più quale sia il soggetto giusto a cui rivolgere la pretesa del cittadino di essere tutelato. Di vedere all'opera quello strumento di cui la globalizzazione credeva di poter fare a meno, nell'illusione di bastare a se stessa: cioè la politica.

Il problema è che in questi anni è finita fuori gioco non soltanto la politica come tecnica, o come azione delle istituzioni, ma qualcosa di più complesso. La rivoluzione finanziaria internazionale ha sfidato l'autorità tradizionale, la potestà stessa dello Stato-nazione a cui oggi i cittadini si rivolgono, come sempre nei momenti di crisi, accorgendosi improvvisamente che è scavalcato dai flussi e dalle reti della globalizzazione, i quali creano una nuova legittimità transnazionale - e non solo un mercato universale - a cui non corrispondono né uno Stato né un governo. La "bolla" è quanto di più moderno esista, perché non ha luogo, non ha confini, ignora le distanze come le tradizioni, conosce un'unica legge che è quella della crescita. Ma per le stesse ragioni è quanto di più lontano dallo Stato nazionale, dai suoi computi fiscali e dalla sua rete di responsabilità solidali o anche soltanto sociali. Quando va in crisi un sistema finanziario che muove ogni giorno una massa di scambi valutari molto superiore al Pil di vari Paesi, nessuna istituzione statale ha la capacità e la legittimità per controllare quel flusso in movimento.

Ci accorgiamo così che in questo processo non c'era stata soltanto una scissione tra capitale e lavoro, già consumata e evidente a tutti. In realtà è saltata l'alleanza tradizionale tra l'economia di mercato e lo Stato sociale, come dice Ulrich Beck, un'alleanza che ha sorretto per decenni il diritto, le istituzioni, la politica, la legittimità stessa delle classi dirigenti che si alternavano al comando, in una parola la forma pratica e quotidiana della democrazia occidentale. Da qui discendeva l'autorità (estenuata e faticosa, e tuttavia resistente) del governo della democrazia, e da questa autorità nasceva la governance della modernità che conosciamo, probabilmente l'unica possibile. Questa legittimità democratica nel governo della complessità contemporanea risiedeva soprattutto nel tavolo di compensazione tra i premiati e gli esclusi, quello che Bauman chiama il "nesso" tra povertà e ricchezza, una dipendenza che in realtà è un vincolo di responsabilità e attraverso la civiltà del lavoro (con i suoi conflitti) ha tenuto fino a ieri insieme e in gioco i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Se questo è vero, c'è addirittura un contratto sociale da riscrivere, una sovranità da ristabilire, un'autorità democratica che garantisca i diritti anche nel mondo postnazionale, prendendo possesso persino delle bolle senza spazio né tempo della globalizzazione. Anche perché la crisi complica la prospettiva, ma ripulisce lo sguardo. Il broker per strada a Wall Street, con la sua biografia professionale nello scatolone del licenziamento, esce dall'indistinto virtuale del paesaggio elettronico per tornare ad essere una figura sociale, politica, che non abita solo i numeri della finanza globale, ma cammina per la città reale. Così come il consumatore finirà per tradurre su se stesso - cioè su un soggetto di nuovo politico, sociale - il saldo finale del salvataggio americano, attraverso il peso ingigantito del debito. Tornano così ad avere senso quelle categorie che non riuscivano ad afferrare la crisi, perché i suoi paradigmi erano tutti post-moderni, creati per un'altra dimensione: il diritto, la diplomazia, la politica internazionale, addirittura il sindacato. Con l'ambizione di non tornare indietro, né attraverso la regressione di una chiusura insensata nei nazionalismi né attraverso la tentazione di contrapporre Main Street a Wall Street, vellicando le paure per farle popolo, o almeno plebe, comunque forza d'urto populista.

Una rete sociale, culturale, politica e istituzionale (basta pensare all'Europa e ai suoi ritardi) da ricostruire. Che gran compito per la politica: se la politica ci fosse, e soprattutto se fosse capace di pensare se stessa senza pensare politicamente.”

Questo è il nodo di fondo. Dopo essersi asservita per anni al capitalismo di mercato e di assalto, la politica deve intervenire per salvare il sistema. Essa ha il potere necessario per farlo, ma non ha un progetto che vada al di là dello spegnere un incendio che potrebbe produrre una recessione mondiale di lunga durata.

Non c’è un progetto. Il mercato continua a produrre disastri. la Borsa prosegue la sua discesa vertiginosa in tutto il mondo, con fiammate rialziste che vengono immediatamente assorbite da picchi negativi sempre più preoccupanti.

Il panico, il fantasma perennemente temuto dal capitalismo, sembra alle porte. Lo analizza in questi termini CARLO CLERICETTI, su Repubblica, ai primi di ottobre:

“Il pericolo maggiore, e senza dubbio molto concreto, a questo punto è il panico... Quando i crolli si susseguono e assumono dimensioni ciclopiche, la corsa a vendere, a qualunque prezzo, non è più solo una caratteristica dei piccoli investitori - non sono loro, del resto, che muovono i mercati - ma contagia anche gli operatori professionisti. Non si tratta più, ormai, di speculazione al ribasso, anche perché le vendite allo scoperto (che sono la sua arma principale) sono state vietate praticamente dappertutto. La speculazione al ribasso è sicuramente quella che ha dato avvio al gioco, ma questo sembra esser sfuggito di mano a chiunque.

Anche perché crolli di queste dimensioni innescano una reazione a catena anche di natura tecnica. I Fondi di investimento, per esempio, in questi casi sono presi d'assalto dalle richieste di riscatto e sono costretti a liquidare le azioni in portafoglio per far fronte ai rimborsi a cui sono obbligati entro tempi limitati. Scattano tutti gli "stop loss" ("ferma-perdite"), vendite di salvaguardia preordinate per essere eseguite se il titolo in portafoglio scende sotto una certa quotazione. E tutta una serie di altre diavolerie che in tempi normali fanno parte del normale funzionamento dei mercati, ma in questi casi eccezionali contribuiscono a far precipitare la catastrofe.

Non ci sono ancora, per fortuna, le file fuori delle banche per ritirare i soldi e metterli sotto il materasso: e speriamo di non vederle, perché quella sarebbe davvero la fine. Non tutti hanno la corretta percezione del rapporto fra prezzo di Borsa della banca e rischio per i propri depositi. Non c'è praticamente relazione tra le due cose, oltre al fatto che, come ormai tutti dovrebbero sapere, i liquidi depositati sui conti correnti in Italia sono garantiti, fino all'importo di 103.000 euro per ogni conto, dal Fondo interbancario di tutela: quindi, se pure la banca fallisse (ma non è il crollo di valore delle sue azioni che la fa fallire!), quella cifra verrebbe rimborsata.

La montagna di carta dal valore virtuale costruita in questi ultimi anni dagli apprendisti stregoni della finanza si sta riversando sui mercati e si dissolve come per autocombustione. Questa crisi si sta rivelando come una bomba a più stadi. La polveriera è stata costruita dalla deregolamentazione finanziaria e dall'uso che se ne è fatto, con tanti ossequi alle teorie iperliberiste secondo cui i mercati si autoregolano. Il detonatore sono stati i mutui subprime. Il secondo stadio è stata la speculazione ribassista, che dopo aver attaccato le banche effettivamente in crisi si è allargata anche a quelle dove non esistevano rischi immediati; e persino a quelle poche, paradossalmente, indicate come ancora sufficientemente liquide da potersi impadronire dell'uno o dell'altro tra i giganti crollati, come il Santander e l'Hsbc, tanto per fare due nomi.

Non sarebbe corretto dire che queste ultime mosse non hanno una logica. Ce l'hanno, ma non è una logica che ha a che fare con i valori reali: ha a che fare con le speranze di guadagno degli operatori di Borsa. Potremmo chiamarla "logica del cerino", e l'abbiamo vista all'opera in innumerevoli occasioni, dal grande rialzo di fine secolo della "new economy" alla recente follia del petrolio a 150 dollari al barile. Si prende un fenomeno che ha una base reale (l'economia basata su Internet è davvero una rivoluzione epocale, per esempio; e la potenziale scarsità di petrolio, anche se non imminente, non è un'invenzione dei catastrofisti). Su quella base ci si butta costruendo montagne di carta che esasperano il rialzo o il ribasso, a seconda dei casi. Non importa il fatto che a un certo momento i valori raggiungano livelli del tutto irrazionali: quello che importa è andare nella direzione in cui va il mercato. Tutta l'attenzione - e la tensione - è concentrata su un solo obiettivo: passare il cerino acceso in altre mani all'ultimo momento possibile, che ovviamente nessuno sa quale sia, dopo aver guadagnato il più possibile. Se ci si riesce a liberare in tempo della carta trasformandola in soldi, il gioco è fatto.

Il guaio è che quest'ultimo non è un cerino, ma un grande incendio, è resteranno scottati anche tutti quelli che non partecipavano al gioco, cioè i normali cittadini che ora devono pagare per tamponare la crisi e poi sopportarne le conseguenze - inevitabili - sull'economia reale. Che almeno abbiano, come minimo indennizzo, una serie di regole che impediscano per il futuro eccessi così insensati.”

Le Autorità mondiali sembrano incerte sul da fare. Temono la spiralizzazione della crisi, come illustra Federico Rampini su Repubblica ai primi di ottobre:

“LA SPIRALE DELLE TRE CRISI

Il panico globale e la massiccia distruzione di ricchezza sono amplificati dallo spettacolo di impotenza di tutte le autorità mondiali, governi e banche centrali. Questa crisi assume dimensioni che nessuno riesce più a padroneggiare. Ci sono troppi incendi da spegnere contemporaneamente e in troppi luoghi diversi. Gli strumenti tradizionali della politica economica e monetaria sono sopraffatti e superati.

I tempi della politica appaiono preistorici rispetto al fulmineo dilagare degli eventi. In Europa il lunedì nero delle Borse è stato anche un’umiliante bocciatura del "vertice della retorica": quel G4 convocato da Sarkozy, riempito di roboanti dichiarazioni, e concluso il quale ciascuno dei partecipanti appena tornato a casa ha preso decisioni per conto suo. Nella confusione totale. L’ulteriore indebolimento dell’euro rispetto al dollaro - un vero paradosso per una crisi nata negli Stati Uniti - ha suggellato l’esito di un weekend disastroso per il Vecchio continente. Ma i mercati hanno di fatto bocciato anche il piano Paulson - i 700 miliardi di dollari per acquistare titoli-spazzatura dalle banche - visto che dopo la sua approvazione al Congresso in due sedute Wall Street ha bruciato perdite superiori a quelle dell’11 settembre. Crollano anche le Borse dei paesi emergenti, con Russia e Brasile costrette addirittura a sospendere le transazioni per eccesso di ribassi e mancanza di compratori. Non c’è riparo, non c’è oasi, neppure le nuove potenze dell’economia globale ci lanciano una ciambella di salvataggio.

Sono almeno tre le crisi che si sovrappongono, alimentandosi a vicenda in una spirale che si avvita su se stessa. La prima in ordine di importanza assoluta è la crisi del credito: non è solo crisi di fiducia dei depositanti e degli azionisti verso le banche, ma collasso nella fiducia tra le banche stesse. La seconda crisi - che acquisterà maggior peso nei prossimi mesi - è una recessione dell’economia reale destinata a stremare l’Occidente intero per un periodo non breve. La terza è quella che fa più notizia, cioè il tracollo delle Borse. Su quest’ultimo fronte purtroppo perfino chi non ha investito i propri risparmi in azioni è esposto ai danni: perché le Borse influenzano l’economia reale attraverso la propagazione della paura che deprime i consumi; il tracollo dell’indice Dow Jones da cui dipendono le pensioni degli americani inasprisce una recessione che colpisce anche le esportazioni italiane.

Nell’occhio del ciclone l’Unione europea ha fallito ogni test di leadership. Prese singolarmente, una per una, certe misure varate nel Vecchio continente non sono sbagliate. L’annuncio di Angela Merkel che la Repubblica federale tedesca assicura tutti i depositi ha quantomeno evitato che i correntisti si precipitassero a svuotare le banche per mettere le banconote in casa: uno scenario non impossibile visto che qualche "assalto alla banca" ci fu già agli inizi di questa crisi (Northern Rock in Inghilterra). Tuttavia è sconcertante che questa stessa misura non sia stata affatto coordinata a livello europeo: anzi, sull’assicurazione statale dei depositi (varata per prima da Irlanda e Grecia, poi dopo la Germania anche da Svezia Austria e Danimarca) è scoppiata una rissa tra governi con accuse di concorrenza sleale, sciacallaggio e altre gentilezze. La casa brucia e alcuni presunti pompieri europei non trovano di meglio da fare che scambiarsi sonori ceffoni in pubblico.

Il penoso spettacolo europeo tuttavia non riscatta il decisionismo americano. Certo, Washington ha reagito più in fretta. Ma le sue reazioni sono spettacolarmente inefficaci. Se non basta neppure offrire 700 miliardi di dollari - il 5% del Pil americano - per risanare i bilanci delle banche e restituire fiducia al sistema, che cosa mai si può fare? La risposta a questo interrogativo non esiste, almeno per adesso, ed è proprio contemplando l’abisso che ieri Wall Street è stata presa dal terrore. La verità è questa: se fallisce il piano Paulson non esiste un piano B. Quel maxisalvataggio è stato presentato come l’extrema ratio, l’ultima carta. Con una sospensione della democrazia, il Congresso di Washington sotto ricatto ha dovuto rimangiarsi la sua bocciatura, ha votato un regalo al sistema bancario che la maggioranza degli elettori disapprova. E adesso scopre di aver dissanguato il bilancio federale per nulla?

Le stesse autorità monetarie sono allo sbando. Ieri sembrava imminente un intervento congiunto di tutte le maggiori banche centrali del mondo - guidate dalla Federal Reserve e dalla Bce - per un taglio coordinato dei tassi. Ma a che serve ridurre il costo del denaro in una fase in cui le banche se lo tengono stretto, accaparrano la poca liquidità che hanno e non la fanno rifluire nell’economia? La Federal Reserve da ieri ha iniziato addirittura a pagare degli interessi sulle riserve obbligatorie che le banche americane le affidano: è una mossa eccezionale, praticamente equivale a regalare denaro alle banche. Ma quelle non lo usano, tale è la morsa paralizzante dell’incertezza. Che cosa resta da fare? Nazionalizzare il settore creditizio perché sia lo Stato a sostituirsi ai banchieri? Qualcuno ci ha pensato, e non a Cuba ma a Londra, in queste giornate frenetiche. È un segno che tutti i leader, eletti o tecnocratici, stanno brancolando. Non ci sono precedenti storici che li aiutino. L’11 settembre 2001 al confronto fu una "mini-crisi" dal punto di vista delle conseguenze economiche e finanziarie. Il 1929 è lontano, accadde in un contesto troppo diverso: le lezioni di quella Depressione furono apprese, per fortuna. Ma nella prima grande crisi del XXI secolo quelle lezioni ci sono utili quanto un manuale d’istruzioni del telegrafo e dell’alfabeto Morse.”

Il Gran Vecchio ZYGMUNT BAUMAN fornisce la sua stringente analisi della crisi l’8 ottobre su Repubblica:

“Il mondo drogato della vita a credito

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.

C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.

L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.

Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.

Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.

Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.

L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare...

Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.

La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.

Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.

Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi, sofferenze delle crisi di astinenza.

(Traduzione di Emilia Benghi)”

Andare alle radici del problema significa, però, mettere in discussione se non il sistema capitalistico il way of life che esso ha prodotto, incentivato e portato a livello insostenibile per gli equilibri sociali e per quelli naturali. Nessuno, tra i politici, si assume la responsabilità di affermare qualcosa del genere. Si va dunque alla guerra con armi vecchie, come scrive su Repubblica del 9. ottobre FEDERICO RAMPINI:

“Alla guerra con armi vecchie

La più violenta crisi finanziaria dagli anni Trenta" la definisce il Fondo monetario internazionale. Il paragone evoca il rischio che i danni finali possano aggravarsi molto, prima di vedere una vera schiarita. Se guardiamo all'indice più significativo della Borsa americana (S&P 500), dal 7 settembre 1929 all'8 luglio 1932 la sua caduta fu dell'86%. Attualmente lo stesso indice ha perso "solo" il 36% rispetto ai massimi dell'anno scorso.

Se si prende alla lettera il parallelo tracciato dal Fondo monetario, la distruzione di risparmio rischia di essere appena iniziata. E che dire di beni ancora più essenziali che sentiamo minacciati, a cominciare dai posti di lavoro? I paragoni storici vanno maneggiati con cautela. Nella Grande Depressione degli anni Trenta il tasso di disoccupazione in America raggiunse il 25% della popolazione attiva. Oggi nonostante le ondate di licenziamenti siamo ancora sotto il 7% di disoccupazione americana. La differenza storica fondamentale sta nel salto immenso compiuto dalla presenza dello Stato nell'economia: era minima nel 1929, oggi è pervasiva. Neppure la cosiddetta "rivoluzione reaganiana e thatcheriana" degli anni Novanta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con le privatizzazioni e la deregulation, ha ridotto significativamente la quota del Pil che fa capo al settore pubblico. Lo Stato non licenzia in una recessione. Non smette di gestire scuole e ospedali. E' questo il potente "stabilizzatore" che fu voluto proprio per evitare che si ripetesse una Grande Depressione dai costi sociali spaventosi.

L'allarme resta, tuttavia. Di questa crisi ignoriamo ancora la durata e i costi finali. Le banche centrali hanno sfoderato ieri un "intervento senza precedenti": così lo ha definito la Federal Reserve. Il taglio concertato dei tassi d'interesse su scala globale è stato operato simultaneamente dalla Fed e dalla Bce insieme alle consorelle inglese, svizzera, canadese, svedese, perfino dalle banche centrali della Cina e degli Emirati arabi uniti. Ma per i mercati il gesto "senza precedenti" è tutt'altro che risolutivo. Li assale il dubbio che le banche centrali usino strumenti antiquati, che siano in ritardo di una crisi, che stiano combattendo la guerra precedente.

A lungo le classi dirigenti hanno sottovalutato questa tempesta. Ad ascoltare le imbarazzate autodifese di tanti banchieri, si direbbe che il dramma sia scoppiato in un baleno, come una calamità naturale, e in una concatenazione così veloce che nessuno poteva prevederla. In realtà i segnali precisi di un grave dissesto finanziario originato dai mutui americani (e da altri eccessi di indebitamento) risalgono alla fine del mese di giugno 2007.

Nell'agosto 2007 ci furono già pesanti turbative nel mercato del credito in tutto il mondo. Al Forum di Davos a gennaio non si parlava d'altro che della tempesta globale. Da quelle prime avvisaglie fino a oggi sono già state scritte intere biblioteche sulle cause di questo disastro, da autorevoli economisti come Robert Shiller (lo stesso che aveva già denunciato negli anni Novanta la bolla speculativa della New Economy e previsto il successivo crollo del Nasdaq).

L'opinione pubblica ha il diritto di chiedere dei conti su cosa è stato fatto durante questo lungo periodo costellato di "preavvisi di uragano": quali misure furono prese dai top manager delle banche, dalle autorità di vigilanza, dai governi. E' sconcertante che spuntino nell'affanno dei piani di emergenza estemporanei, per fronteggiare una crisi che si sviluppa alla luce del sole da ben 16 mesi. I costi potevano essere inferiori se i banchieri avessero detto la verità prima, anziché sperare di farla franca e augurarsi di lasciare l'ultimo cerino acceso in mano a qualche concorrente. Quel cerino ha causato un incendio che era largamente annunciato. Ma dall'America all'Europa i massimi esponenti dell'establishment sembrano i conigli abbagliati all'improvviso dai fari dell'auto su una strada di notte.

Per essere stata a lungo esorcizzata, la recessione sarà più estesa e più pesante, anche nelle conseguenze sociali. L'epicentro cruciale del disastro non sono le Borse, e il problema maggiore non è certamente il costo del denaro. E' la crisi di fiducia generalizzata che paralizza il credito. Di questa crisi sono protagoniste le banche per prime, affondate dalla dimensione misteriosa delle loro esposizioni. Una veduta del baratro su cui si affaccia il settore bancario si è avuta nei giorni scorsi, quando in Germania certi esercizi commerciali hanno cominciato a rifiutare i pagamenti con carte di credito emesse da istituti inglesi. Arrivati sull'orlo di un simile abisso di paura, la nazionalizzazione delle banche inglesi era una scelta obbligata. I tagli dei tassi iniziati ieri sono solo il primo, timido passo nel lavoro di lunga lena che impegnerà le banche centrali. Il loro compito assomiglia alla rieducazione di un paziente colpito da ictus: possono essere necessari mesi, forse anni, per ripristinare la normalità in alcune funzioni. E' una funzione vitale per l'economia reale il recupero di una base di fiducia e riattivare la circolazione del credito.

Se a qualcosa serve il taglio dei tassi, è a rendere meno cara la ricapitalizzazione delle banche.

Ma sarà un'operazione onerosa, che può richiedere ulteriori sforzi da parte dei contribuenti. Negli Stati Uniti, se si sommano i salvataggi pubblici già effettuati, le iniezioni di liquidità da parte della Fed, e il nuovo fondo del Tesoro per rilevare i titoli - spazzatura delle banche, si arriva già oggi ben oltre i 1.500 miliardi di dollari: è più della metà dell'intero bilancio pubblico americano (incluse la difesa e l'istruzione) ad essere già andato in fumo, in un falò che sarà ricordato con sgomento per diverse generazioni.”

Si arriva, così, all’ultima spiaggia, vale a dire sull’orlo della catastrofe sistemica, del crollo mondiale delle Borse. Dopo una settimana di passione, i Politici capiscono che ne va, alla lettera, della Borsa o della loro stessa credibilità e sopravvivenza. All’ultima spiaggia è dedicato l’articolo di FEDERICO RAMPINI su Repubblica del 10 ottobre:

“È l’ultima spiaggia, è il weekend in cui i leader mondiali devono fare il miracolo. Un frenetico susseguirsi di vertici - oggi il G7 a Washington, domani l’Eurogruppo a Parigi - deve riuscire in 48 ore a dare una parvenza di controllo su una situazione impazzita. La ricchezza bruciata nelle Borse rispetto a un anno fa raggiunge 14.300 miliardi di dollari: è sparito esattamente l’intero Pil annuo degli Stati Uniti.

E queste sono «solo» perdite su azioni, non includono i crolli obbligazionari, né le bancarotte o le altre insolvenze di debiti. Sotto la pressione dell’onda di panico straripante, i governi e i banchieri centrali tentano da ieri sera di mettere assieme un’iniziativa comune: i mercati europei e asiatici ieri non ci hanno creduto; l’altalena isterica di Wall Street ha alternato la speranza e l’angoscia. Ora per placare il terrore deve uscire una sorpresa dal G7 o dal vertice europeo, un eccezionale sussulto di leadership. Ieri sera il primo incontro del G7 ha preparato una «dichiarazione di principi e di mezzi comuni» con cui le nazioni più ricche intendono arrestare l’epidemia della sfiducia. L’Eurogruppo convocato da Sarkozy potrebbe spingersi fino a un «piano di azione congiunto dei governi e della Banca centrale europea». Tutti sentono che bisogna fare di più, molto di più rispetto all’approccio sostanzialmente nazionale con cui sono state tamponate finora le crisi bancarie.

«La risposta fin qui non ha avuto un carattere globale», denunciava ieri il Fondo monetario internazionale. Basteranno le dichiarazioni comuni per cambiare il terribile corso degli avvenimenti? Quali piani possono provocare lunedì un’improvvisa svolta, curare l’angoscia che attanaglia l’economia globale? Ieri sera c’erano tre ipotesi sul tavolo. Primo: un solenne impegno comune degli Stati a evitare fallimenti di banche, e insieme la promessa di una ricapitalizzazione massiccia delle banche con l’uso di fondi pubblici. Secondo: l’annuncio che gli Stati estenderanno la protezione pubblica non soltanto ai depositi dei risparmiatori, ma perfino garantendo i prestiti che gli istituti di credito si fanno tra loro sul mercato interbancario. Terzo: il varo di forme di solidarietà tra paesi che vadano ben oltre la concertazione già attuata fra le banche centrali. Il primo punto sembrava avere più chances di passare al G7 per l’appoggio congiunto di Washington e Londra. Il secondo, cioè l’ombrello di protezione statale esteso all’intero mercato interbancario, potrebbe essere «l’arma nucleare» in grado di colpire l’epicentro strategico della crisi che è il crollo di fiducia tra banche e la paralisi nei flussi di credito: è sostenuto dagli inglesi, ha l’inconveniente dei costi incalcolabili e potenzialmente illimitati. Infine, le solidarietà intergovernative per essere credibili devono poggiare su strumenti nuovi e risorse consistenti: rispunta così l’idea del fondo unico europeo sul modello dei 700 miliardi di dollari del piano Paulson (per ricomprare dalle banche i titoli-spazzatura). Le resistenze verso quel fondo sembrano attenuarsi per la spaventosa violenza della crisi. Resta però il dubbio che non basti, visto che Wall Street ha digerito e dimenticato l’esistenza del fondo Paulson con una lunga serie di cadute.

La vigilia di un weekend al cardiopalmo è stata turbata anche dalla dichiarazione a mercati aperti di Berlusconi, sull’ipotesi di chiudere le Borse per «preparare una nuova Bretton Woods», battuta poi rimangiata dall’interessato e smentita perfino dalla Casa Bianca. La conferenza di Bretton Woods in cui vennero ridisegnate le regole dell’economia mondiale durò dal primo al 22 luglio 1944 e forse oggi non basterebbero neppure tre settimane per rifare quell’impresa storica, permessa allora da una leadership americana tanto illuminata quanto unipolare, nonché dalla statura di personaggi come Roosevelt, Churchill e Keynes. La voce della chiusura delle Borse mondiali circolava da giorni nelle sale mercati, ma come un segnale di pura disperazione. Tutti i limiti coercitivi imposti contro la speculazione ribassista sono stati dei clamorosi autogol: erano in vigore quando il Dow Jones perse 777 punti in una sola seduta: finché le grandi piazze finanziarie restano aperte vuol dire che, sia pure a prezzi in caduta libera, c’è ancora chi compra. L’alternativa è molto peggiore.

Spezzare la spirale vorticosa dei crolli è diventato sempre più complicato via via che si sovrappongono due paure: alla glaciazione del credito si aggiunge la certezza di una recessione mondiale. Le due malattie si acutizzano a vicenda. Perfino le più costose nazionalizzazioni bancarie hanno effetti tremendamente deludenti: ieri è tornata ad allargarsi a livelli d’allarme la forbice tra i tassi d’interesse sui Bot americani, e i rendimenti che devono offrire sul mercato gli istituti Fannie Mae e Freddie Mac per finanziare i loro mutui. Vuol dire che ormai non basta più neppure la garanzia federale che Washington offre, dopo aver preso il controllo dei due colossi del credito immobiliare.

Il ministro del Tesoro britannico, Alistair Darling, ha fatto la diagnosi più realistica: «Abbiamo bisogno di decisioni internazionali subito, o si va al collasso mondiale dei mercati».

Il conto alla rovescia è cominciato, ed è maledettamente rapido.

Il lunedì mattina si avvicina a grandi passi. Nessuno può permettersi che questo weekend sia una replica dei vacui G4 o Ecofin dei giorni precedenti. Nessuno osa immaginare che cosa accadrebbe alla riapertura dei mercati.”

Quello che avviene è che il tentativo degli Usa di coinvolgere gli altri paesi industriali nella condivisione delle falle economiche prodotte dalla crisi viene respinto, e l’Amministrazione Bush, con il ministro del Tesoro Paulson, deve inghiottire il calice amaro di un viraggio dal liberismo allo statalismo che, per quanto operato utilizzando il denaro dei contribuenti, segna di fatto la fine storica del neoliberismo:

La Resa di Paulson è commentata da FEDERICO RAMPINI su Repubblica del 15 ottobre nei seguenti termini:

“Non chiamateci più United States of America, bensì United Banks of America: così i commentatori "neocon" hanno salutato con sgomento il nuovo piano salvabanche. Con 250 miliardi di dollari l’Amministrazione federale entra come azionista nel capitale dei maggiori istituti di credito americani. Il modello Iri conquista un’America sotto choc, risvegliatasi nell’èra delle Partecipazioni Statali. "È la fine dell’economia di mercato?".

Se lo chiedevano ieri con toni angosciati i commentatori della Cnbc, la rete televisiva che trasmette informazione finanziaria 24 ore su 24, ed è sempre accesa negli uffici dei top manager americani. Lo choc era visibile sul volto dell’autore di quel misfatto. Il segretario al Tesoro Henry Paulson ha presentato il suo nuovo piano come un intervento «massiccio, potente, e radicalmente nuovo», ma anziché esserne fiero sembrava un condannato al patibolo.

In effetti Paulson ha dovuto ingoiare tre umiliazioni. La prima è nei confronti del resto del mondo. L’America autoreferenziale, abituata a considerarsi "il faro sulla collina", il paese più avanzato in ogni settore, ha dovuto seguire l’esempio dell’Unione europea. Le nuove misure annunciate da Bush e Paulson sono la fotocopia delle conclusioni raggiunte domenica sera al vertice di Parigi.

La seconda sconfitta è verso il Congresso a maggioranza democratica. Il precedente piano Paulson - risultato inapplicabile in tempi brevi - prevedeva 700 miliardi per comprare i titoli "tossici" dalle banche. Furono i parlamentari a imporre l’opzione di acquistare partecipazioni azionarie nelle banche. Per una ragione ineccepibile: se il contribuente deve dissanguarsi per ripianare le perdite dei banchieri, il minimo è che in cambio abbia potere nella gestione delle banche, e a risanamento avvenuto lo Stato possa rivendere le azioni guadagnandoci qualcosa.

La terza vergogna Paulson e Bush l’hanno patita nei confronti dei loro compagni di partito, la destra più intransigente sul neoliberismo. «Gli europei vi hanno forzato la mano», ha detto ieri il consigliere economico di John McCain, l’economista di Harvard Kenneth Rogoff. È un’accusa singolare: nel weekend il Fondo monetario internazionale aveva previsto un "collasso sistemico dell’economia globale" se i governi non trovavano un rimedio al panico dei mercati e alla paralisi del credito. La soluzione europea, estendendo la garanzia assicurativa degli Stati ai prestiti fra banche, ha rianimato un ganglio vitale dell’economia. Ma per gli integralisti della destra americana, copiare misure decise nella capitale della Francia sotto l’ispirazione di un laburista inglese equivale ad arrendersi all’Internazionale socialista. Depurata degli aspetti folcloristici, l’indignazione dei neoconservatori conferma che la gravità di questa crisi ha imposto un terremoto negli equilibri tra Stato e mercato.

Giunti sull’orlo del baratro, Bush e Paulson hanno dovuto ratificare un inaudito allargamento dell’interventismo statale nell’economia. Non è vero che manchino i precedenti nella storia americana, però sono del tutto eccezionali. Per ritrovare una simile statalizzazione del credito bisogna risalire alla Grande Depressione, quando nel 1932 l’ente federale Reconstruction Finance Corporation acquistò partecipazioni azionarie in 6.000 banche. Nella seconda guerra mondiale Washington requisì in mani pubbliche le ferrovie e le miniere di carbone per assicurarne l’asservimento allo sforzo bellico. Sono precedenti che danno la misura della straordinaria gravità della situazione attuale. "United Banks of America" non segna la fine dell’economia di mercato ma inaugura una fase - definita provvisoria - in cui certe libertà sono sospese. Per esempio la libertà di fissare stipendi astronomici ai chief executive delle banche. La "fine del capitalismo" in realtà era avvenuta molto prima: quando per anni l’establishment di cui Paulson è un illustre esponente calpestò l’etica degli affari e le regole essenziali per un efficiente funzionamento del mercato.

Non è detto che la cura-Iri abbia effetti miracolosi, né rapidi. Ai suoi ex-colleghi banchieri ieri Paulson ha dovuto rivolgere un appello accorato: «Non tesaurizzate il nuovo capitale che vi forniamo, non accaparratelo, usatelo per fare prestiti». Il suo timore è evidente. Da una parte i guasti nei bilanci delle banche sono profondi e possono spingere a una gestione avara e timorosa del credito. E poi la stessa economia reale sotto il peso della crisi adotta comportamenti sempre più prudenti. All’epoca delle nostre Partecipazioni Statali, quando il governatore della Banca d’Italia era Guido Carli, per descrivere una situazione come questa coniò l’espressione "il cavallo non beve". Il cavallo americano è stremato: per le famiglie è iniziata una lunga cura anti-obesità, di smaltimento dei debiti accumulati negli anni passati; di conseguenza tagliano i consumi. Devono farlo. Per un paese vissuto troppo a lungo al di sopra dei suoi mezzi, purtroppo una parte della cura dimagrante si chiama recessione.”

Basteranno i provvedimenti adottati, negli Usa e nei paesi europei, a sormontare la crisi? Forse, ma non senza una depressione globale di cui parla NOURIEL ROUBIni verso fine ottobre:

“Il sistema finanziario del mondo ricco è diretto verso l’implosione. I mercati finanziari non sono riusciti ad arrestare la loro caduta libera per diversi giorni, il mercato dei titoli a breve termine e quello del credito si sono trovati bloccati di fronte a un balzo dei loro spread sul tasso d’interesse ed è troppo presto per dire se la zattera delle misure adottate dagli Stati Uniti e dall’Europa sarà in grado di rimediare al dissanguamento oltre l’immediato futuro.

Per la prima volta in settant’anni, si è diffuso il timore di un effetto domino generalizzato ed esteso all’intero sistema bancario, mentre quello "ombra" - l’universo costituito da istituti di compravendita, agenzie di mutui non bancari, altri strumenti strutturati d’investimento come gli hedge fund, i fondi di titoli a breve termine e un certo tipo di fondi d’investimento - hanno davanti a sé il rischio di un collasso a partire dalle loro passività a breve termine.

Per quanto riguarda l’economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del prodotto interno lordo mondiale - erano già entrate in recessione prima dei devastanti shock finanziari cominciati verso la fine dell’estate. Ora quindi dobbiamo fare i conti con una recessione, con una grave crisi finanziaria e con una grave crisi del sistema bancario.

I mercati dei paesi emergenti hanno cominciato a risentire di questa sofferenza soltanto quando gli investitori stranieri hanno iniziato a ritirare le proprie risorse. A quel punto, il panico si è diffuso ai mercati del credito, ai mercati monetari e a quelli delle valute, evidenziando le vulnerabilità dei sistemi finanziari e produttivi di molti paesi in via di sviluppo che, in una situazione di boom del credito, avevano attinto a prestiti non sostenuti da garanzie adeguate e in valuta estera. I paesi con ingenti deficit delle partite correnti o ingenti deficit fiscali, oppure molto esposti sul breve termine in altre valute, hanno dimostrato essere i più fragili. Ma anche quelli con le migliori performance - Brasile, Russia, India e Cina - ora corrono il rischio di un atterraggio brusco. Molti mercati dei paesi emergenti devono fare i conti con il rischio di una grave crisi finanziaria.

La crisi è stata innescata da un indebitamento esteso a tutto il sistema e dalla più grande bolla del credito della storia. Questa crisi non è rimasta confinata al mercato immobiliare degli Stati Uniti, ma ha caratterizzato anche quelli di altri paesi. Inoltre, anche in molte altre economie si è verificato un eccesso di prestiti accesi da istituti finanziari e da alcuni segmenti del settore produttivo e di quello pubblico, che si sono sommati a quelli del mercato immobiliare. Il risultato è stato una reazione a catena: una bolla del valore degli immobili, una bolla dei mutui, una bolla nei mercati azionari, una bolla dei titoli obbligazionari, una bolla del credito, una bolla delle materie prime, una bolla nel settore dei fondi di investimento e una bolla in quello degli hedge fund. Ora stanno scoppiando tutte simultaneamente.

L’illusione che la contrazione dell’economia statunitense e di quelli di altri paesi avanzati sarebbe stata breve e relativamente poco drammatica è stata sostituita dalla certezza che questa sarà una recessione che si protrarrà a lungo nel tempo (almeno due anni negli Stati Uniti e di poco meno di due anni nella maggior parte del resto del mondo). Tuttavia, di fronte al crescente rischio di un crollo sistemico dei mercati finanziari, la prospettiva di una recessione lunga un decennio - come quella subita dal Giappone dopo la crisi del mercato immobiliare e di quello azionario - non può essere esclusa.

In effetti, il crescente divario tra le aggressive risposte della politica e la sempre maggiore sofferenza dei mercati finanziari non può che destare paura. A marzo, dopo il salvataggio dei creditori della Bear Stearns, costato 30 miliardi di dollari, il trend rialzista del mercato azionario, di quello dei titoli a breve termine e di quello del credito si è protratto per otto settimane. A luglio, l’annuncio del ministero del Tesoro degli Stati Uniti di voler salvare i giganti del mutuo Fannie Mae e Freddie Mac, ha permesso alle borse di rimanere in territorio positivo solo per quattro settimane. Dopo l’implementazione del piano di salvataggio, con una spesa di 200 miliardi e l’assunzione da parte del governo degli Stati Uniti del carico di seimila miliardi di dollari di passività, l’andamento positivo delle borse è durato un giorno soltanto.

Dopo è andata ancora peggio. Prima del recente annuncio delle misure prese congiuntamente da Stati Uniti ed Europa, i mercati sono rimasti sempre in territorio negativo. Il salvataggio della AIG, con il non indifferente costo di 85 miliardi di dollari, si è tradotto in un’ulteriore flessione del mercato del 5 per cento. E l’approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti del piano di salvataggio di 700 miliardi di dollari ha innescato una ulteriore discesa della borsa del 7 per cento in soli due giorni. E mentre le autorità degli Stati Uniti e degli altri paesi continuavano ad adottare misure politiche progressivamente più radicali, tra il 6 e il 9 ottobre, i mercati azionari, quelli del credito e quelli monetari hanno continuavano nella loro drammatica flessione giorno dopo giorno.

Le recenti misure hanno una portata sufficiente? Quando le azioni della politica non riescono a dare un reale sollievo agli operatori dei mercati, si sa che si è a un passo da un collasso sistemico del settore finanziario e di quello produttivo. Si è dato avvio a un circolo vizioso partito dalla necessità di garantire l’indebitamento, che ha causato la caduta libera dei valori che lo garantivano e ulteriori richieste di garanzia.

Non si può quindi escludere un crollo sistemico e la depressione a livello globale. Come abbiamo visto nei giorni scorsi, occorrerà un cambiamento sostanziale della politica economica e azioni molto radicali e coordinate tra tutte le economie avanzate e quelli dei paesi emergenti per evitare il disastro. Ciò prevede:

- un ulteriore e tempestivo giro di tagli ai tassi di interesse di una media globale pari ad almeno 150 punti base;

- una garanzia estesa a tutti i depositi, che tenga tuttavia distinti gli istituti finanziari che non possono restare in piedi da quelli che rischiano la bancarotta ma sono solventi e che devono essere parzialmente nazionalizzati e riforniti di iniezioni di capitale pubblico;

- misure tempestive per ridurre il peso del debito delle famiglie insolventi, precedute da una moratoria temporanea di tutti gli espropri per insolvenza del mutuo;

- una massiccia fornitura di liquidità la cui entità non dovrà essere predeterminata agli istituti finanziari solventi;

- una fornitura pubblica di credito ai settori solventi del settore produttivo per evitare che le grandi e le piccole aziende sane ma carenti di liquidità sprofondino in una crisi del rifinanziamento del debito emesso a breve termine;

- massicci incentivi fiscali diretti da parte del governo sotto forma di opere pubbliche, spesa per infrastrutture, sostegno alla disoccupazione, taglia alle tasse delle famiglie a più basso reddito e risorse elargite ai governi locali a corto di liquidità;

- un accordo tra i paesi creditori che attualmente contano su un surplus delle partite correnti e i paesi debitori appesantiti da deficit delle partite correnti affinché si possa elaborare una procedura ordinata per finanziare i deficit e riciclare il surplus dei creditori, evitando così un aggiustamento disordinato di questi squilibri.

Misure che non abbiano anche di poco questa portata potrebbero non essere in grado di evitare una implosione a livello mondiale dei mercati finanziari e una depressione globale. Le misure adottate dagli Stati Uniti e dall’Europa sono un inizio. Ora occorre concludere il lavoro.

traduzione di Guiomar Parada

copyright Project Syndicate, 2008.”

Concludere il lavoro significa riequilibrare il sistema economico e il rapporto tra economia, politica e bisogni sociali. La crisi mondiale ha riabilitato lo Stato, ma sul piano di un’urgenza contro la quale il mercato nulla poteva. E’ tutto oro, però, quel che luce? Avverrà veramente un viraggio nella direzione di un sistema che privilegi sempre e comunque il bene comune rispetto agli interessi particolari o a quelli del Capitale. MASSIMO RIVA su Repubblica del 17 ottobre 08 esprime i suoi legittimi dubbi:

“Ma il mercato vince ancora

Chi guardi agli interventi governativi sulla crisi finanziaria in un'ottica strettamente nazionale rischia di scivolare in qualche errore di prospettiva. Troppo fresco è in Italia il ricordo di quali guasti di basso clientelismo abbia provocato l'intervento della mano pubblica negli affari bancari (ed economici in genere). Per questo si giustifica un forte allarme soltanto all'idea che lo Stato possa ridiventare azionista di qualche istituto di credito.

In effetti, in casa nostra nulla oggi è più temibile di un ritorno alle pratiche dell'ultimo dopoguerra, quando la nomina degli amministratori di tante, troppe banche pubbliche era frutto di estenuanti trattative fra partiti di governo in un tripudio lottizzatorio della peggior specie. Ci mancherebbe soltanto, nella tragedia che stiamo vivendo, assistere a un ritorno del primato della politica declinato nei suoi aspetti deteriori.

Minaccia resa, purtroppo, più temibile dal malcelato entusiasmo con il quale il premier Berlusconi ha dichiarato ieri aperta una nuova stagione di aiuti pubblici non solo alle banche ma anche alle industrie. La storia patria, del resto, insegna quanto in Italia possa essere fulminea la conversione al dirigismo economico da parte dei più accesi liberisti quando si offra loro l'occasione per allungare le mani su qualche cassaforte.

Se, tuttavia, si alza lo sguardo oltre i confini nazionali, allungandolo a ciò che sta accadendo nel mondo intero - dagli Stati Uniti all'Europa passando per l'Asia - ci sono forse buone ragioni per mettere in dubbio l'assunto oggi prevalente secondo cui la principale novità di questa crisi consisterebbe nella grande e conclamata rivincita che lo Stato sta prendendosi sul mercato ovvero che il potere politico starebbe ottenendo su quello economico.

Certo è uno spettacolo che non si vedeva da quasi ottant'anni quello di supponenti banchieri di Wall Street o della City presentarsi con il cappello in mano sull'uscio della Casa Bianca ovvero del numero 12 di Downing Street, pietendo l'elemosina di un umiliante salvataggio se non di se stessi almeno del loro istituto. Ma questo può bastare a farci ritenere che davvero lo Stato stia oggi imponendo il suo controllo sul mercato capitalistico?

Che questo sia un timore diffuso fra i "billionaires" dell'Upper East Side di Manhattan o fra gli idraulici dell'America provinciale, dove ogni presenza statale è considerata un insulto alla libertà dell'individuo, è un dato sociologico di fatto. Ma neppure fra gli esponenti di quella che viene chiamata la pancia profonda degli Stati Uniti vi è qualcuno disposto a considerare George W. Bush quel "bolscevico della Casa Bianca", come a suo tempo negli stessi ambienti si diceva del presidente Franklin D. Roosevelt.

E questo è già un primo punto che dovrebbe far riflettere: come si spiega che un'amministrazione americana, schierata aldilà di ogni dubbio dalla parte del liberismo economico, si sia piegata ad adottare "ways and means" che, per storia e per cultura, dovrebbero appartenere allo schieramento opposto? La risposta più semplice che è stata data a questa (apparente) contraddizione è lo stato di necessità.

Mercato se possibile, Stato se necessario: lo dice anche la destra italiana per bocca di Giulio Tremonti. E questo è un altro punto cruciale: chi determina lo stato di necessità, chi ne stabilisce le porte d'ingresso e di uscita, chi insomma ha il potere di definire le tappe del percorso da compiere per arginare i danni e ritornare dal caos all'ordine?

Lo Stato sembrerebbe la risposta più logica nel nome di quel primato della politica su cui si fonda l'idea stessa di governo democratico. Questo, però, non è il film che abbiamo visto in queste settimane e che ancora scorre sotto i nostri occhi. Chi voglia guardare con freddezza le scelte compiute dai governi dell'Unione europea e dall'amministrazione Usa - aldilà delle differenze tecniche dei provvedimenti - dovrà consentire che i pur diversi poteri politici nazionali o sovranazionali si sono mossi in una evidente condizione di sovranità limitata. Ovvero non hanno potuto decidere in piena autonomia secondo una maturata visione del bene da farsi o del male da evitare, ma hanno dovuto muoversi commisurando le loro scelte, passo dopo passo, essenzialmente sulle reazioni dei mercati.

Sono stati questi ultimi a dettare l'agenda della politica e non solo, com'è ovvio, per il fatto stesso di essere all'origine della crisi. Il dato decisivo è che i mercati, pur essendo nel mezzo di difficoltà fra le più acute di sempre, hanno imposto con le loro reazioni tempi e modi degli interventi: tanto dei governi quanto di pubbliche istituzioni quali banche centrali e autorità varie di controllo.

Quella cui si è assistito in queste settimane è stata, in realtà, un'affannosa e vana corsa ad inseguimento fra potere politico e poteri finanziari, nella quale il giudizio dei secondi ha prevalso sulle scelte dei governi condizionandole e piegandole alle proprie esigenze. E questa corsa sta tuttora continuando sul filo dell'altalena delle Borse che, di giorno in giorno, promuovono o bocciano questa o quella iniziativa del potere politico, spingendo sempre più avanti l'esosità delle richieste atte a soddisfare il loro appetito: sempre più soldi, sempre più ciambelle di salvataggio, perfino sempre meno regole cogenti come s'è visto con l'abbandono dei criteri prudenziali nella valutazione degli attivi patrimoniali.

Anche in tema di tassi d'interesse, siamo franchi: il taglio è stata una scelta autonoma delle banche centrali o piuttosto la resa a una precisa urgenza espressa dal mercato? Fa un po' sorridere che, in simile scenario, ci sia qualche buontempone che torna a riproporre la favola della fine del capitalismo. Chi abbia studiato un po' meglio Karl Marx ha piuttosto ottimi motivi per considerare le vicende in atto come uno dei maggiori trionfi del potere del capitale, nella sua dimensione più inafferrabile, quella finanziaria.

Con una differenza in peggio anche per quanto riguarda i rapporti con il sistema politico. Altro che i comitati d'affari della borghesia della visione ottocentesca, oggi i governi nazionali sembrano al momento ridotti al ben meno dignitoso ruolo di "air-bag" del ciclo economico capitalistico. A ennesima riprova che, come dice Giorgio Ruffolo, il capitalismo ha proprio i secoli contati. Dunque, più aperto che mai risulta il problema di domarne quelle violente pulsioni distruttive che sembrano connaturate alla sua capacità di creare ricchezza.

Nel secolo scorso ci riuscì il già richiamato Roosevelt. Oggi né in Occidente né in Oriente è dato scorgere una leadership politica all'altezza di simile compito. Mentre in Italia quel che si rischia di vedere è soltanto un ritorno all'atavico vizio della manomorta politica sull'economia.”

La metafora dell’air-bag è veramente molto felice. Lo Stato è stato coinvolto come strumento di ammortizzazione di un crack che, ad un certo punto, sembrava irreversibile. Al di là dell’urgenza, non sembra che sia intervenuta alcuna consapevolezza critica sulla logica disfunzionale intrinseca al sistema capitalistico.

LUCIANO GALLINO, su Repubblica del 21 ottobre, scrive a riguardo un articolo di grande interesse:

“LE VERE CAUSE DEL CRAC

Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d’alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L’elenco comprende banche di deposito e banche d’affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell’ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini.

Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c’è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l’altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell’energia.

La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ’33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento - una delle cause del crollo del ’29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un’infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all’ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000.

Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un’occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall’altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all’auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.

Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all’altro, lunghi passi in direzione d’una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo.

La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch’essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V’è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.”

E’ fuori di dubbio che la crisi in corso ha creato uno stato di eccezione che richiede un ripensamento globale e nuove regole. Quanto si puà credere però alle repentine conversioni dei politici e dei banchieri neoliberisti? A questo quesito ULRICH BECK dedica a fine ottobre su Repubblica un’analisi che va al di là delle apparenze:

“I banchieri convertiti e lo stato d’eccezione

Dal giorno alla notte il principio missionario dell’Occidente - l’economia del libero mercato - che ha giustificato la ripugnanza nei confronti del comunismo ma anche la distanza filosofica rispetto all’attuale sistema cinese, è diventato una finzione.

Con il fanatismo dei convertiti i banchieri (la cui immagine pubblica tende ad assumere le fattezze del bankster, banchiere-gangster) sollecitano la statalizzazione delle loro perdite, ciò che potrebbe avere conseguenze anche per l’individualizzazione dei guadagni. Non avrà cominciato a farsi strada nei centri anglosassoni del laissez-faire quella forma cinese di economia privata diretta dallo Stato che finora era sempre stata dileggiata, demonizzata, ma anche temuta? Come si spiega questa capacità dei rischi finanziari globali di produrre sconvolgimenti politici?

La sociologia della società mondiale del rischio ha una risposta pronta: l’approccio ai rischi catastrofici (mutamento climatico, crisi finanziaria, terrorismo) comporta l’anticipazione di uno stato d’eccezione senza frontiere che incombe nel prossimo futuro. Le risposte a questo stato d’eccezione e le responsabilità necessarie ad affrontarlo non possono limitarsi all’ambito nazionale, perché esso non coinvolge più le singole nazioni ma assume una dimensione cosmopolitica, facendo crollare convinzioni apparentemente eterne e dando vita a nuove comunanze, a nuovi conflitti e a nuove occasioni d’oro per gli attori più diversi.

In questo scenario occorre distinguere due varianti, che possiedono un’importanza fondamentale per la teoria politica della società mondiale del rischio: da un lato, l’anticipazione delle catastrofi causate dagli effetti collaterali non intenzionali - mutamento climatico, crisi economica mondiale - ; dall’altro, l’anticipazione di catastrofi intenzionali, come nel caso del terrorismo suicida che opera a livello transnazionale. Si potrebbe ritenere, a prima vista, che Carl Schmitt abbia intuito in anticipo il potenziale politico dello stato d’eccezione indotto dai rischi globali. Tuttavia, nella sua teoria della sovranità Schmitt collega lo stato d’eccezione esclusivamente allo Stato nazionale. Per Schmitt è impensabile qualcosa come uno stato d’eccezione transnazionale o cosmopolitico che, proprio all’opposto, cancella la distinzione tra amico e nemico e nasce dall’indipendenza radicalizzata del mercato. Forse l’aspetto più rilevante dei rischi globali (economia mondiale, mutamento climatico, terrorismo) sta nel fatto che al posto delle frontiere tra gli Stati nazionali subentra la mancanza di frontiere dello stato d’eccezione, tanto a livello sociale, quanto a livello spaziale e temporale.

Sul piano sociale lo stato d’eccezione non conosce frontiere dal momento che qui ed ora viene aperto un nuovo capitolo politico-finanziario della politica interna mondiale. Ciò risulta evidente nella competizione tra i governi per il miglior piano di salvezza del mondo, dove al vincitore - come dimostra l’esempio del primo ministro britannico Gordon Brown - spetta la risurrezione politica nello spazio nazionale e internazionale, quasi fosse una nuova fenice che risorge dalla cenere. Si apre un gioco di potere che cambia le regole apparentemente ferree della politica internazionale, un gioco che sta a metà tra la politica da casinò e la roulette russa e nel quale vengono rinegoziate le competenze e le regole - non solo quelle che intercorrono tra la sfera nazionale e la sfera internazionale, ma anche quelle che regolano i rapporti tra l’economia globale e lo Stato, tra l’economia globale e le organizzazioni sovranazionali, nonché quelle che valgono tra le aspiranti potenze economiche mondiali della Cina, del Sudamerica e dell’India, da un lato, e gli Stati Uniti e l’Unione Europea dall’altro. Nessun singolo giocatore o avversario può vincere da solo, tutto dipende dalle alleanze. Così come un governo da solo non può combattere il terrorismo globale, allo stesso modo un governo da solo non è in grado di contrastare il mutamento climatico, né di fronteggiare le conseguenze dell’incombente catastrofe finanziaria. Viceversa, il politico nazionale - ad esempio, il ministro tedesco dell’economia Michael Glos - , che cerca di rispondere al collasso dell’economia mondiale rimanendo all’interno del recinto nazionale assomiglia all’ubriaco che in una notte buia cerca di ritrovare il portamonete perduto sotto il cono di luce di un lampione. Alla domanda: «Ha perduto davvero qui il suo portamonete?» risponde: «No, ma almeno alla luce di un lampione posso cercarlo!».

In altri termini, i rischi finanziari globali potrebbero anche produrre failed states - perfino in Occidente. La struttura statuale che prende forma nelle condizioni della società mondiale del rischio potrebbe essere caratterizzata mediante i concetti dell’inefficienza e dell’autoritarismo post-democratico.

Sul piano spaziale lo stato d’eccezione non conosce frontiere perché nel mondo ultra-interdipendente le conseguenze dei rischi finanziari sono diventate incalcolabili e non compensabili. Lo spazio di sicurezza della prima modernità, cioè della modernità degli Stati nazionali, non escludeva danni (anche di notevoli proporzioni), ma essi erano considerati compensabili, alle loro conseguenze negative si poteva porre rimedio (con il denaro, ecc.). Quando però il sistema finanziario mondiale è crollato, quando il clima è irreversibilmente cambiato, quando i gruppi terroristici dispongono già di armi di annientamento di massa, allora è troppo tardi. Di fronte a questa nuova qualità della minaccia all’umanità la logica della compensazione perde la sua validità e - come argomenta François Ewald - viene sostituita dal principio della tutela mediante prevenzione. Non può accadere - dunque, un giudizio razionale fondato sulle esperienze è proprio ciò che deve essere impedito!

L’incalcolabilità dei rischi finanziari deriva dalla straordinaria importanza del non-poter-sapere. Nello stesso tempo, però, l’aspirazione dello Stato alla conoscenza, al controllo e alla sicurezza deve essere rinnovata, approfondita ed estesa. Di qui l’ironia (per usare un’espressione moderata) di controllare qualcosa di cui nessuno può sapere che cosa sia e come si sviluppi, senza essere in grado di prevedere quali conseguenze ed effetti collaterali potrà produrre la terapia miliardaria prescritta dalla politica che brancola nel buio. Ma perché là dove l’economia dell’equilibrio fallisce lo Stato deve stabilire in modo decisionistico che cosa è opportuno fare? A questa domanda c’è una risposta sociologica convincente: perché la promessa di sicurezza è il punto di forza dello Stato moderno, che non è cancellato dal non-sapere, ma, al contrario, è da esso attivato.

Cosa accade se l’hybris delle misure progettate si risolve in nulla o ottiene il contrario dei risultati sperati? A questa domanda c’è una risposta cinica e realistica: con l’inefficacia dell’azione politica cresce il pericolo e quindi l’emergenza per tutti - con la conseguenza paradossale che l’azione sbagliata può riabilitarsi proprio grazie all’emergenza che rende più gravi i suoi errori. Forse il perdono degli errori cresce con gli errori stessi, amplificati dallo stato di emergenza in cui versano le persone.

Il venir meno delle frontiere temporali dello stato d’eccezione è dovuto anch’esso all’incalcolabilità del pericolo. Tutti sperano che con la reazione a catena alla quale stiamo assistendo la spirale all’indietro sia giunta al suo punto estremo - salvo poi dover constatare l’inimmaginabile, cioè che le cose vanno ancora peggio. Da questo punto di vista i crediti "tossici" nel sistema della finanza mondiale assomigliano un po’ al pericolo di valanga in occasione di una nevicata che non finisce mai: si è consapevoli che c’è il rischio, ma non si sa di preciso quando e dove avverrà la valanga.

Nello stesso tempo il pericolo percepito, che rischia di trascinare tutti nell’abisso, produce una dinamica di accelerazione della reazione e quindi una spinta al consenso che può saldare la frattura tra il bisogno, appunto, del consenso e l’urgenza di prendere una decisione politica immediata, con la conseguenza che al livello globale della politica interna mondiale diventa senz’altro possibile ciò che nello spazio politico nazionale è del tutto inconcepibile, ossia il fatto che a dispetto del principio di unanimità e della partecipazione di tutti gli Stati - i cui interessi, come è noto, confliggono drammaticamente - possono essere prese decisioni vincolanti a livello di politica finanziaria globale sotto il diktat di un’urgenza assoluta. Perché? Proprio grazie all’anticipazione della catastrofe nel presente, cioè grazie alla globalità della percezione del rischio, favorita e illustrata dai mass-media. Tale percezione apre spazi d’azione per la transnazionalizzazione co-statale dei mercati finanziari, dei provvedimenti per la tutela dell’ambiente e, non ultimo, anche per la transnazionalizzazione delle competenze militari e di polizia in vista della lotta al terrorismo (cioè cose di valore politico assai differente).

Tuttavia, questo potere - storicamente nuovo - della percezione globale dei pericoli viene pagato al prezzo della sua efficacia a breve termine. Dal momento che tutto dipende dalla sua percezione attraverso i media, la legittimazione dell’azione politica mondiale in forza dei pericoli globali arriva solo fin dove arriva l’attenzione ottenuta dai media.

Ciò che provoca uno shock antropologico in coloro che sono nati nella società mondiale del rischio non è più la mancanza di un qualche saldo riferimento metafisico - l’assente Godot di Beckett - o la visione orrifica di un mondo totalmente controllato esposta da Foucault, e nemmeno il muto dispotismo della razionalità, che spaventava Weber. Ciò che oggi angustia i contemporanei è il timore che il tessuto delle nostre dipendenze materiali e delle nostre obbligazioni morali possa strapparsi e che il delicato sistema funzionale della società mondiale del rischio possa incepparsi. Così tutto è capovolto dalla testa ai piedi: ciò che per Weber, Adorno e Foucault era uno scenario di orrore - la perfezionata razionalità del controllo che pervade il mondo amministrato - è per le vittime potenziali delle crisi finanziarie (cioè per noi tutti) una promessa: sarebbe bello se la razionalità del controllo controllasse; sarebbe bello se ci terrorizzassero soltanto il consumismo e l’umanesimo; sarebbe bello se si potesse far sì che il sistema tornasse a funzionare senza problemi affidandosi alla sua "autopoiesi" (Luhmann) o alla formula liturgica «Più mercato, per favore!».

Cosa c’è di buono nel male? C’è il fatto che l’egoismo degli Stati nazionali deve aprirsi alla dimensione cosmopolitica, se vuole salvarsi. Ma questa è soltanto una tra molte possibilità e presuppone che si apprenda dall’anticipazione di catastrofi paradigmatiche. Un’altra possibilità è che queste non avvengano.

Traduzione di Carlo Sandrelli”

Parole come pietre quelle di Beck, che implicano un problema di fondo che riguarda la necessità di una ristrutturazione del sistema economico che, al di là della crisi in corso, riguarda una scelta di fondo dell’umanità in rapporto ai suoi destini e ai suoi obiettivi.

Equilibrio ecologico e crescita non sono compatibili: questo è il problema, che GIORGIO RUFFOLO analizza in un articolo su Repubblica ai primi di dicembre:

“I due fronti della crisi

L’economia si trova a dover combattere su due fronti. Da un lato la crisi minaccia la crescita che è considerata, oggi, l’irrinunciabile sostegno dell’economia. Dall’altro, la crescita minaccia la sopravvivenza, che si basa sui grandi equilibri ecologici.

A questo dilemma si possono dare due risposte opposte. Ambientalisti rigorosi come Carla Ravaioli, che nel suo ultimo libro, "Ambiente e pace, una sola rivoluzione", torna sul problema cui ha dedicato una instancabile e meritoria analisi, danno la risposta che è stata definita da Serge Latouche decrescita, e che più propriamente dovrebbe chiamarsi stabilizzazione.

Questa risposta è contestata da chi la considera poco meno che una bestemmia ma anche da chi, più ragionevolmente (come Federico Rampini, Repubblica dell’8 novembre) considera la crescita come il presupposto degli stessi investimenti "ambientalistici", come quelli destinati a sviluppare energie rinnovabili. Su posizioni più estreme si pongono i "crescitòmani" che negano pericoli ecologici imminenti e invocano, di fronte alla minaccia di recessione provocata dall’attuale gravissima crisi, di fare ogni sforzo per fare ripartire la crescita, con priorità assoluta su politiche ambientalistiche che possono frenarla.

Si tratta di due posizioni inconciliabili? Credo di sì. E francamente non mi convincono i sostenitori del "green growth", della crescita compatibile con l’equilibrio ambientale. Si possono certamente realizzare investimenti con tecniche che consentano costi ecologici minori. Ma, nell’insieme, la "green growth" appartiene alla categoria degli ossimori, del tipo "botte piena e moglie ubriaca".

Né è ragionevole la tesi del rinvio, di chi non nega la minaccia "ecologica" ma la ritiene meno imminente. Oggi, si dice con apparente ragionevolezza, il pericolo imminente è la recessione. Alle politiche ambientali si penserà dopo. Il fatto è che la drammaticità della minaccia ecologica sta proprio nella sua imminenza. Se la casa brucia è ragionevole voltare le pompe dell’acqua da un’altra parte? Qual è il rischio maggiore? quello della recessione o quello della sopravvivenza?

Certo, le minacce, pure entrambe incombenti, hanno tempi di maturazione diversi. Il che non significa affatto che debbano essere ritardati gli interventi diretti a scongiurarle. Il fatto vero è che non c’è compatibilità tra equilibrio ecologico e crescita; mentre, invece, si può rendere compatibile l’equilibrio ecologico con l’equilibrio economico. Una economia prospera con una economia non distruttiva.

Ciò richiede però un radicale mutamento di paradigma: culturale e morale prima che economico: il passaggio da una economia di crescita a una economia di equilibrio, di "stato stazionario". Che non significa affatto stato statico. Un lago con immissari ed emissari è un sistema aperto e dinamico, non uno stagno; mentre, d’altra parte, un lago provvisto solo di immissari non può evitare l’inondazione. In altri termini, la crescita continua, senza fine, è insostenibile. E’ anche una crescita senza fini. Oltre che insostenibile, insensata.

Una economia ecologicamente equilibrata è possibile solo se al criterio della massimizzazione (di tutto di più, di beni e di mali, come nello slogan della Rai, che si adatta benissimo al Pil, prodotto interno lordo) si sostituisce quello della ottimizzazione: e cioè della distinzione, nella allocazione delle risorse, tra quelle ammissibili e quelle non ammissibili, quelle prioritarie e quelle non prioritarie.

Questa scelta «suprema», questa programmazione, non la si può affidare al mercato. Anche i più fanatici liberisti concordano sul fatto che ci sono cose che non si possono vendere e comprare. Tra queste, e per prima, non può non esserci proprio la decisione su ciò che si può e su ciò che non si può vendere e comprare. Questa è decisione che spetta alla politica democratica. E’ all’interno di questo paradigma di scelte che il mercato, per ogni altro aspetto libero, ritrova la sua libertà: la quale, non si dovrebbe dimenticarlo, è assicurata dalla libera concorrenza: che a sua volta presuppone politiche di intervento antimonopolistiche. Solo in una condizione di equilibrio dinamico e di concorrenza libera il mercato può ritrovare la sua efficienza e la sua base morale”

Ruffolo è un dignitosissimo socialista, che sembra ormai aderire al modello della decrescita propagandato vivacemente in questi anni da Serge Latouche. Il problema è che questo modello, per essere realizzato su scala globale, richiederebbe una rivoluzione radicale di tutto il sistema capitalistico, l’intervento programmato di tutti i governi e un cambiamento profondo della mentalità. Un passaggio intermedio sulla via di questa rivoluzione comporterebbe, però, il controllo degli Stati sull’economia e l’assunzione, da parte di essi, del ruolo loro proprio di garanti del bene comune. Un passaggio del genere smentirebbe la morte del Socialismo e rivitalizzerebbe il fantasma del Comunismo, nella sua originaria versione marxiana, utopistica, incentrata sul controllo degli esseri umani sulla loro vita e sul loro futuro.

Un passaggio del genere, di fatto, si sta delineando paradossalmente negli Usa, la nazione che più ha spinto sull’acceleratore del neoliberismo.

Su Repubblica del 10 dicembre Federico Rampini dedica a tale passaggio un articolo "utopistico".

"Non succedeva dalla seconda guerra mondiale, quando il governo ordinava alla General Motors quali carriarmati doveva produrre", osserva esterrefatto Jeffrey Garten, l'economista di Yale che fu segretario al Commercio Usa negli anni Novanta. Ciò che fino a ieri era inimmaginabile adesso è imminente. L'America si rassegna alla nazionalizzazione dell'industria automobilistica. Le onde di choc di questa crisi ispirano la profezia di Marchionne, che vede solo sei gruppi mondiali destinati a sopravvivere: una decimazione. Naufraga perfino il mito del toyotismo, il modello vincente emerso a Tokyo dall'altra grande recessione del dopoguerra, lo choc energetico degli anni Settanta. Ma in nessuna parte del mondo il trauma della psicologia collettiva è doloroso come in America, colpita al cuore nella sua fiducia verso il mercato. "Non vogliamo che il governo si metta a gestire le aziende, non lo ha mai saputo fare", ha voluto precisare Obama. Eppure è proprio quello che farà, sotto la pressione di un'emergenza sociale acuta.

Dietro la bancarotta che stringe d'assedio i big dell'auto di Detroit c'è un'economia dell'indotto che arriva a coinvolgere tre milioni di persone. Perfino l'agonia di grandi giornali come il Los Angeles Times e il Chicago Tribune è collegata a questo effetto-domino: l'automobile resta uno dei maggiori inserzionisti pubblicitari, il suo crollo trascina con sé un pezzo di sistema dell'informazione. Sono costretti a trovare l'accordo sul salvataggio pubblico dell'auto una riluttante Amministrazione Bush; la minoranza repubblicana al Congresso; e i vincitori democratici che erediteranno le macerie di ex-imperi industriali. Bush e Obama negoziano sul nome di colui che sarà "lo Zar dell'auto": una sorta di supercommissario governativo, o un comitato di amministratori straordinari. Daranno subito 15 miliardi di dollari di prestiti a General Motors e Chrysler, le due case più vicine all'insolvenza. In cambio lo Stato esigerà una partecipazione azionaria, logicamente di maggioranza, visto che la capitalizzazione di Borsa di Gm ormai è di soli 3 miliardi.

Gli attuali azionisti privati e il top management devono accettare ogni condizione. Lo Zar governativo potrà imporre scelte di strategia industriale, spostare la produzione a favore di modelli eco-sostenibili come le ibride, fissare rigidi tetti ai consumi energetici e alle emissioni carboniche. Tutte quelle scelte che gli ottusi chief executive di Detroit hanno rinviato per anni, accelerando la propria rovina, ora potranno essere imposte con un editto statale. "Nazionalizzazione" è un incubo che gli americani hanno associato a lungo con il nemico ideologico (il blocco sovietico durante la guerra fredda) o con paesi irriducibilmente alieni (la Francia colbertista). Nazionalizzazione è la parola che neppure Obama vuole pronunciare ma è l'unica che descrive questa svolta radicale, imposta dallo stato di necessità. Come disse il presidente Harry Truman quando decise l'esproprio degli altiforni siderurgici per vietare uno sciopero durante la guerra di Corea: "Il presidente degli Stati Uniti ha il potere supremo d'impedire che la nazione se ne vada all'inferno". In questo caso per salvare Detroit dall'inferno lo Zar di Washington potrà perfino decidere, secondo l'anticipazione del Wall Street Journal, "che una parte degli impianti di General Motors debba servire a produrre treni, autobus, metropolitane, cioè trasporti pubblici anziché mezzi privati".

E' l'anticamera del socialismo? Lo Zar governativo dovrà anche estorcere gravose concessioni ai sindacati: tagli salariali, sacrifici severi sulle pensioni e l'assistenza sanitaria. In cambio le Unions stanno negoziando l'opzione di entrare a loro volta nell'azionariato: è quasi comunismo, o forse la tardiva riscoperta del modello tedesco di una volta, la cogestione sindacale alla Volkswagen. Uno dopo l'altro crollano tutti i miti fondanti del capitalismo americano. Compresa l'idea di libera concorrenza e mercato aperto. Perché questi aiuti di Stato non vengono offerti alle filiali Toyota, Honda e Bmw che hanno fabbriche in America. Quindi il salvataggio di Detroit è protezionismo mascherato, che autorizzerà Europa Cina e Giappone a fare altrettanto. Dopo aver tanto vilipeso il modello-Miti di politica industriale - il dirigismo nipponico degli anni Settanta - l'America di Obama sarà costretta ad abbracciarlo.

Ma questo disastro si è già allargato da tempo ben oltre gli Stati Uniti, all'orizzonte non ci sono vincitori, soltanto vittime. Il risanamento del gruppo Fiat è impotente di fronte a un mercato dove le vendite precipitano del 30%. Marchionne ha fissato la soglia di sopravvivenza sopra i 5 milioni di vetture prodotte all'anno: la sua azienda arriva a un terzo, e si aprono le scommesse sui candidati alla fusione (Peugeot, Bmw, i piccoli europei sono tanti, troppi). La Toyota ha vissuto la parabola più repentina. All'inizio di quest'anno il colosso giapponese celebrava il sorpasso su Gm. Adesso anche Toyota deve rassegnarsi all'umiliazione dei licenziamenti collettivi. E' corsa voce che un gruppo cinese - Changan - possa comprarsi la Volvo messa in vendita da Ford. Le case cinesi hanno una solidità apparente dovuta al fatto che lo Stato è sempre rimasto azionista. Ma sono sei i produttori made in China e sono troppi anche loro, in una fase in cui perfino il ceto medio di Pechino e Shanghai ha paura e rallentano di colpo gli acquisti di auto.

L'euforia che all'inizio dell'anno in India aveva salutato il colpo di Tata - l'acquisto di Jaguar e Land Rover, due trofei dell'ex potenza coloniale inglese - è un lontano ricordo. Oggi il gruppo Tata tradisce i primi segnali di stress finanziario. Il futuro forse appartiene comunque a loro, ai produttori cinesi e indiani che hanno vasti mercati interni e vantaggi sui costi. Ma in questo momento è un futuro incerto per tutti. Finché da qualche angolo del sistema globale non si rimette in moto una voglia di consumi, l'ecatombe è destinata a continuare.”

Anticamera del Socialismo negli Usa? Impossibile in una nazione praticamente senza una tradizione socialista, e che continua ad identificare nel Potere dello Stato una minaccia dispotica.

Nel giro di 24 ore, Federico Rampini, su Repubblica, stesso è costretto a ricredersi:

"L´agonia di Bush

È bastato il no del Senato americano alla nazionalizzazione dell´auto, per precipitare il dollaro ai minimi da 13 anni verso lo yen, polverizzando l´attrattiva della moneta Usa come bene-rifugio nella tempesta globale. Una ventata di panico nella mattinata ha sconvolto le Borse europee e asiatiche.

Bisognava impedire che la bancarotta annunciata di General Motors e Chrysler provocasse un tracollo a Wall Street: 15 minuti prima dell´apertura di New York, George Bush si è arreso. Rimangiandosi il suo veto, la Casa Bianca ha promesso che darà lei il finanziamento salva-vita alle case automobilistiche. Dirotterà fondi stanziati per stabilizzare le banche. Lo psicodramma attorno all´agonia di Detroit ha fatto passare inosservata una raffica di altre notizie drammatiche sul fronte americano: 35.000 licenziamenti alla Bank of America, un nuovo calo dei consumi, il crollo dei prezzi all´ingrosso che è un chiaro sintomo di deflazione.

Il colpo di scena della bocciatura al Senato è un regolamento di conti: dei repubblicani contro il sindacato metalmeccanico che ha appoggiato Obama; dell´ala destra iperliberista contro il duo Bush-Paulson a cui si imputa la sconfitta elettorale. I fondamentalisti del mercato hanno colto al volo l´opportunità di interpretare i sentimenti dell´opinione pubblica. Il 60% degli americani non vuole tassarsi per salvare un establishment capitalistico ottuso, incompetente e arrogante. Nessuno ha dimenticato che i tre chief executive dell´auto si presentarono a Washington a chiedere 14 miliardi ai contribuenti viaggiando su jet privati. Ma una maggioranza ancora più schiacciante degli elettori (70%) era contraria al piano Paulson salva-banche eppure quel provvedimento fu varato: sotto ricatto, in nome del rischio sistemico, per evitare un altro 1929. A Wall Street furono offerti fondi venti volte superiori a quelli previsti per salvare Gm e Chrysler. E nessuno chiese un taglio generalizzato del 20% degli stipendi dei bancari, la clausola-capestro che i repubblicani chiedono agli operai dell´auto.

Ora è proprio da quei 700 miliardi destinati alle banche che Bush e Paulson attingeranno, con un´acrobazia giuridica, il cash necessario per rinviare il fallimento di due colossi dell´auto. Questo recupero in extremis non è una soluzione durevole. È guadagnar tempo alla disperata, scaricando il dramma dell´auto sulla prossima Amministrazione Obama. Anche a sinistra si levano voci autorevoli contro l´escalation degli aiuti di Stato. Il premio Nobel dell´economia Joseph Stiglitz è tassativo: meglio lasciar fallire Detroit. La procedura americana della bancarotta (legge Chapter 11) non sfocia necessariamente nella liquidazione finale. È un'amministrazione controllata che impone sacrifici severi a tutti - azionisti, creditori, dipendenti - per resuscitare un´azienda resa più snella. La logica degli "aiutini" statali, secondo Stiglitz e altri, è un´escalation perversa che distrugge denaro pubblico perpetuando una gestione incompetente. Già adesso si sa che dopo i primi 14 miliardi le tre case automobilistiche ne dovranno ricevere altri 125 per sopravvivere. Una maxi-Alitalia.

A chi ribatte che questo rigore non fu applicato con le banche, la risposta la dà l´autorevole finanziere Jim Rogers, creatore con George Soros del fondo Quantum: «Malgrado 700 miliardi di aiuti statali la maggior parte delle grandi banche americane sono di fatto in stato di fallimento».
Non esiste una risposta sicura di fronte al dilemma di Detroit. I fautori di una bancarotta "sana, trasparente e pulita" forse ne sottovalutano i rischi. I consumatori spaventati dalle incognite della procedura fallimentare potrebbero disertare i concessionari delle tre storiche marche, accelerando il disastro finale. È lo scenario-Armageddon che spiega un apparente mistero: il no del Senato alla nazionalizzazione di Detroit ha fatto precipitare Toyota, Nissan e Honda alla Borsa di Tokyo, come tutte le case europee, concorrenti che in teoria dovrebbero beneficiare se scompare la General Motors. Non c´è solo la delusione perché senza quel salvataggio viene meno l´alibi per gli aiuti di Stato europei e asiatici. C´è di più.

Dietro l´agonia dei dinosauri Usa tutta l´industria mondiale vede una catena inarrestabile di licenziamenti di massa, caduta dei redditi e dei consumi, un circolo vizioso di distruzione di ricchezza senza vincitori. Non regge più la vecchia logica "mors tua vita mea". Il mondo intero si aggrappa al salvataggio dell´auto americana semplicemente perché è la diga del momento, se viene giù quella altre cederanno. Il tribunale degli economisti americani riunito dal Wall Street Journal sentenzia che questa è già la recessione più grave dal 1929. Appena concluso il vertice europeo sul piano di rilancio, stamane a Tokyo si riunisce una storica trilaterale Cina-Giappone-Corea per concordare qualche strategia comune contro la bufera che si abbatte ora anche sull´Asia: un´iniziativa senza precedenti. Anche le capitali straniere che osservano con più scetticismo l´accavallarsi di aiuti statali all´economia americana, incrociano le dita e sperano solo che qualcosa alla fine funzioni."

L'agonia di Bush e del neoliberismo riserva, però, una sorpresa finale: la decisione disperata della FED, del 17 dicembre, di azzerare praticamente il costo del denaro, la quale rivela che la situazione economica statunitense è ad un passo dal baratro. Si tratta, però, di una decisione sottilmente insidiosa. Da dove ha preso le mosse il can-can di questi ultimi anni? Tutti gli analisti (o quasi) concordano: dall'eccesso di liquidità prodotto dall'abbassamento del tasso di interesse promosso dall'ineffabile Greenspan nel 2001. Anche allora si trattava di salvare il sistema. Nuovo salvataggio, dunque, della Nazione, ovvero nuovo incentivo agli speculatori di darsi da fare. Incredibile ma vero. Sussiste qualche dubbio, però, che il marchingegno funzioni ancora una volta.

5.

In tutte le analisi fornite in questo periodo il nome di Marx è sistematicamente ignorato. Per trovare una citazione, occorre rivolgersi ad un suo singolare omonimo, l’arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising, Reinhard Marx che, in un’intervista concessa a Der Spiegel ha affermato:. “Nella sua analisi del capitalismo Karl Marx aveva visto giusto.”

Se Marx fosse vivo, in effetti, ne vedremmo delle belle. Tirerebbe anzitutto le orecchie ai suoi infausti eredi che, non avendogli dato credito, hanno avviato un’esperienza prematura destinata per forza di cose alla catastrofe e, per giunta, incentrata sulla conculcazione della libertà cui egli tanto teneva.

Marx di fatto era stato chiaro: il comunismo può sopravvenire solo allorché il capitalismo è giunto ad una fase di maturazione, vale a dire di produzione della ricchezza tale da creare uno squilibrio irreversibile tra fattori di produzione e rapporti di produzione: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.

Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.”

In secondo luogo, Marx non si sarebbe sorpreso del fatto che la fine di un’esperienza improvvidamente ispirata al suo pensiero (ma che, fin dall’inizio, come affermava, purtroppo entusiasticamente, Gramsci era contro Il capitale) abbia prodotto come conseguenza l’internazionalizzazione del capitalismo, che va sotto il nome di globalizzazione. Non si sarebbe neppure sorpreso che proprio questa fase di sviluppo abbia finito con lo smascherare la logica intrinseca al sistema, la sua perversa tendenza, per alcuni aspetti criminosa, a privilegiare una minoranza contro i bisogni sociali della maggioranza (del mondo).

Avrebbe semplicemente detto: c. v. d.

Meno ancora si sarebbe sorpreso del fatto che di fronte ad una catastrofe epocale, che pone in gioco la sopravvivenza del sistema capitalistico e obbligherà l’umanità a ridefinire una scala di valori sociali, morali, ecologici e culturali affrancata dal cappio dell’economicismo, i corifei del sistema si affannino ad analizzare le cause della crisi per minimizzarla, naturalizzarla o addirittura ricavarne rosei presagi per il futuro.

Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza: tra le frasi più famose scritte da Marx, questa è di sicuro la più problematica. Significa forse che l’individuo non esiste che come marionetta del ruolo che ricopre in seno ad una determinata società? Penso di no. Ritengo piuttosto che essa significa che la coscienza umana è l’espressione dell’essere sociale finché l’individuo non si rende conto di questo. Non è insomma una fatalità, ma un’occorrenza storica.

Ciò che si può rimproverare a Marx è che egli non ha considerato adeguatamente l’influenza che il recinto mentale dell'ideologia può esercitare sulle coscienze e della necessità che questo recinto venga messo in gioco perché gli individui possano leggere la realtà con occhi nuovi e intuire nuovi possibili sviluppi della storia.

L’aspirazione al consumo illimitato, che passivizza l’essere umano e gli impedisce di esprimere al massimo grado le sue potenzialità d’uso, che sono anche creative, ha di fatto drogato l’intera umanità all’insegna della globalizzazione. La crisi economica sicuramente è destinata a frustrare tale aspettativa. Ma basterà essa a rivelarne la sua qualità di falso bisogno? Basterà a fare entrare negli orizzonti soggettivi e collettivi una serie di valori non quantificabili - sociali, affettivi, culturali, esistenziali, ecc. - che essa ha invalidato e frustrato?

Vorrei augurarmelo, ma i tempi del cambiamento saranno probabilmente ancora lunghi.